sabato 4 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento A


Gli unici rapporti con quelli del condominio li aveva misurati con la primogenita dei Canali, la Cristina del primo piano, impertinente e spocchiosa come lei (ma con più brufoli). Con lei solo, infatti, riusciva a confidarsi e raccontarsi, fermarsi a blaterare del più e del meno, cincischiare liberamente come pulcini la mattina benedetti dal primo sole primaverile, più di quanto non accadesse perfino con i propri familiari, mamma e papà. Per il resto si faceva tranquillamente gli affari propri, disinteressandosi completamente dei vicini, alcuni dei quali, quasi, non sapeva nemmeno che faccia avessero. È per questo lapalissiano motivo che molti la ritenevano una ragazza se non maleducata, perlomeno difficile, scontrosa, in preda a chissà quali paturnie o crisi adolescenziali.
«Ha l'età della stupidera», solevano confidarsi le anziane del circondario, vedendola aggirarsi furtiva per gli spazi condominiali con il capo chino e il passo da lince impaurita.
Ma con Cristina era diverso. Era, certo, anche per via dell'età. L'amica aveva quindici anni, lei diciassette, insieme se la intendevano a meraviglia; non servivano codici segreti per capirsi e anche la semplice allusione di una era catturata al volo dall'altra, come se fossero legate da impercettibili e misconosciute frequenze sensoriali, a loro esclusivo appannaggio. Avevano un feeling speciale che le portava a viversi come parenti stretti, se non sorelle. Ma c'era dell'altro, ben più pragmatico, ossia quel famigerato modo di concepire l'esistenza, ai limiti del buonsenso, intriso di un'emotività borderline, che raramente trovava riscontro in altre coetanee, tipo le gemelle che vivevano nei pressi del ponte sul Molgora. E che odiavano: se non erano delle stupide, erano delle cagne in calore. Solo loro erano il non plus ultra.
Il 99 percento dei loro discorsi verteva sui ragazzi. E quindi sul sesso. Altri argomenti venivano affrontati con una frequenza paragonabile all'alternarsi dei periodi glaciali. Tantomeno affrontavano lirismi scolastici o faccende legate al mondo dello sport, spesso accarezzati con piacere dalla gran parte dei giovani dell'epoca. Amavano parlare dei ragazzi e ce n'era sempre qualcuno sul quale concentrarsi con vivido accanimento. Discutendone la forma dei capelli, il vestiario, il profumo emanato. I ragazzi, insomma. Bastava la parola a provocare in entrambe uno spasmo ormonale che ancora non comprendevano dal punto di vista fisiologico, ma psicologicamente sì: si sentivano montate da un'euforia elettrizzante, che mai durante l'infanzia aveva fatto capolino, era qualcosa di dannatamente nuovo e affascinante. A onor del vero anche le conoscenti amavano ricamare fantasie sui principali esponenti del sesso forte, tuttavia, nel loro caso, questa attitudine sembrava francamente più spiccata della norma, come se un barlume di morbosità potesse realmente nascondersi dietro ai loro intendimenti apparentemente immacolati. Lo avrebbe inteso anche il meno dotato sordo impossibilitato dalla cataratta a scorgere giochi amanuensi per non udenti. Dimostravano questa loro predisposizione andandoci giù pesante, affrontando a briglia sciolta argomenti per i quali, verosimilmente, non è sufficiente essere vaccinati. Era, dunque, comprensibile fino a un certo punto il sacrosanto desiderio di conoscere nei dettagli le meraviglie del sesso, la vivace curiosità per un corpo dell'altra sponda, il compiacimento di vedere anche dei signori maturi girarsi su se stessi inseguendo circonferenze anatomiche di raro pregio. Nel loro caso si sconfinava in campi estremi, non molto in voga, evidentemente, fra chi ha a malapena cominciato a parlare bene in italiano.
«Sai cosa fanno i feticisti?», domandava una.
«Lo so benissimo, cosa credi? Il mio ragazzo è un feticista».
«Il tuo ragazzo è un feticista?».
«Per forza, parte leccandomi il didietro delle orecchie tutte le volte che ci mettiamo in ballo».
«Allora potrebbe essere un vero feticista».
Si incontravano laddove retroscena saffici, rapporti a tre, masochismi e altre idee sciagurate prendevano forma nelle loro menti vibranti, facendole provare una specie di estasi. Erano minuscoli buchi neri in dote a curve emozionali del cervello, tanto innocui, quanto potenzialmente in grado di fagocitare il mondo intero anche al solo comando di un pusillanime pensiero. Nel 1986, peraltro, non si sapeva ancora bene dell'Aids. Si sapeva a malapena che era morta la prima persona importante per via dell'HIV, qualche mese in anticipo sull'esplosone del reattore di Chernobyl: Rock Hudson, popolare attore statunitense, se n'era andato nel 1985 dopo averle tentate tutte a Parigi e aver perfino noleggiato un aereo tutto per sé per non correre il rischio di contagiare gli altri passeggeri. Erano stati, in realtà, i rispettivi genitori a parlarne; per entrambe, infatti, la star hollywoodiana non era che uno dei tanti nomi che sembrava di aver sentito, ma senza esserne tanto sicuri. Del resto era una figura che apparteneva a decenni prima, in virtù di film come Il Gigante o Addio alle Armi. Per loro, giustamente, preistoria. Qualcuno diceva che il virus fosse stato veicolato dalle scimmie, ma sarebbero potute essere anche state le mosche, le libellule, le farfalle, non sarebbe cambiato molto per l'esuberante intellighenzia omatese. In ogni caso il problema non era solo quello dell'Aids. C'erano un mucchio di altre malattie delle quali non si conoscevano le caratteristiche, un'infinità di nomi tale da riempire un libro intero, a partire dalla sifilide, forse la più ricorrente per l'immaginario collettivo. E non ultimo c'era il rischio di mettere al mondo una creatura con largo anticipo sulla tabella di marcia. A questo tipo di problema, inesistente fino a qualche decina d'anni prima, quando la gravidanza di una sedicenne poteva addirittura essere considerata una benedizione, le due non ci pensavano minimamente: erano come convinte di essere immuni da certi casini, a loro sarebbe filato tutto liscio.
Cristina, in realtà, nonostante ciò che voleva far sembrare, per poter tenere testa alla provocante amica, era tutt'altro che esperta. Ne diceva di tutti i colori, ma in verità il sesso per lei era ancora un mistero in gran parte da svelare. Di fatto la sua prima volta era avvenuta solo poche settimane prima del patatrac ucraino e non era nemmeno sicura che la cosa si fosse compiutamente realizzata. Tuttavia si era già sbizzarrita in altri sensi, confortando libidinose attenzioni riservate verosimilmente al mondo adulto, che le sue coetanee – qualora avessero deciso di abbandonare per sempre bambole a bambolotti - non si sognavano nemmeno. Ma per la compagna di avventure, che aveva due anni in più e già si sentiva al pari di una donnona dalle mille esperienze, era diverso. Nel suo caso, infatti, la prima volta c'era già stata da un pezzo, risalendo ormai a circa tre anni prima, facendo sì che da quel giorno non avesse più remore sessuali e ogni eccesso rientrasse nella sua normalità esistenziale.
Si davano appuntamento alle spalle del caseggiato, dove sorgevano i box, in un angolo del palazzone omatese che guardava alla strada principale che conduce ad Agrate, su un rivolo di asfalto ricoperto da bolle di cicche spiaccicate; e lì, nascoste dalla viscosità e dal profumo dei tigli, rimanevano come vecchie megere a ciangottare e a fumare, finché una mamma di turno non si faceva avanti per richiamarle all'ordine, per la cena imminente, un impegno da assolvere, un incontro da rispettare. Cristina, tanto per dare un'idea dei loro fantasmagorici tete a tete, pochi giorni prima di Chernobyl, le aveva confidato tutto della sua storia con Alberto Bosetti.
«Quello sfigato?», aveva esordito l'amica, con un'aria vagamente malinconica.
«Quello sfigato è uno che sa il far suo, fidati. Nessuno bacia bene come lui».
«Quanto è durato?».
«Non l'ho certo cronometrato, ma un bel po'».
«Gli hai fatto anche dell'altro?».
«Quello non manca quasi mai se non mi fa incazzare».
«Perché me lo dici solo adesso? Credevo che fra noi non ci fossero segreti».
«Perché un po' ho sofferto».
«Ahia».
Marina Tresoldi era la figlia dei Tresoldi del terzo piano, appartamento A, incolonnati sopra ai Canali del primo piano e ai Meroni del secondo. Era una bellissima ragazza, con i capelli a caschetto neri, un visino perfettamente disegnato, e un corpo da fare invidia a quelli che si vedevano in televisione. Se non fosse per l'aria compassata che lasciava volutamente trapelare col suo dinoccolato incedere, sarebbe potuta essere ritenuta all'unanimità la più bella ragazza del paese.
«Dovrebbe partecipare a Miss Italia», mugugnavano in molti.
I commenti fatti dai ragazzi di Agrate e Omate sul suo conto erano ormai appannaggio della storia popolare locale.
«Che figa», accompagnato da un bestemmione, era il concetto contemplato con maggiore vigore.
In pochi, d'altronde, potevano permettersi il lusso di pensare seriamente a lei in qualità di ragazza con cui dividere una storia d'amore e, dunque, le vicende con Marina erano il più delle volte virtuali, immaginate e trasognate fra un andirivieni e l'altro dal bagno con intenzioni manuali ben precise. Era troppo in là, troppo fascinosa, troppo immortale (e immorale). Era l'unica figlia di Stefano Tresoldi e Monica Valcepina, lui un esigente signore di mezza età, bancario di professione, lei una brillante signora di pochi anni più giovane del marito, con il pallino per le calze a pois e il bricolage, di mestiere, casalinga.
Con i genitori viveva in perenne conflitto. Quasi non ci parlava più. Andava avanti così, praticamente, dalla seconda mestruazione. Ogni monosillabo era sufficiente a scatenare una guerra familiare. La madre, soprattutto, era la persona con cui andava meno d'accordo; da lei si dissociava per ogni iniziativa, pensiero, volontà, quasi preventivamente. Peraltro provava un piacere infimo nel criticarla per non essersi ancora realizzata nella vita, sapendo di mandarla su tutte le furie:
«Dovevi fare l'attrice», le aveva detto un giorno che s'erano fermati in oratorio per il concerto di una band del posto. «Così saresti stata meno apprensiva e più...».
«Non mi piace che sia a tu a dirmi quello che dovevo fare. Sei troppo giovane per capire le cose. Vedremo, in ogni caso, quello che combinerai tu».
Marina pensava che la madre non avesse avuto il coraggio di affrontare il futuro che avrebbe desiderato, dedicandosi alla recitazione, come aveva fatto da ragazza nella filodrammatica agratese. Avrebbe voluto una madre importante e avvenente e invece ne aveva una, per nulla sgraziata, ma dedita quasi esclusivamente ai lavori di casa, circostanza che la rendeva ai suoi occhi inutile e banale. C'era un bel po' di vanità in tutto ciò. Non le piaceva, infatti, far sapere in giro che sua madre fosse una casalinga, una come tante, il solito genitore basso borghese, senz'infamia né lode. Voleva poter dire di avere una madre veramente cool, tale da giustificare in qualche modo anche la sua superiorità e il suo distaccamento dal provincialismo omatese che odiava con tutte le sue forze. Col padre le cose non andavano meglio, ma almeno non c'era il pericolo di grossi scontri. La verità è che non si filavano nemmeno di striscio. Vivevano su mondi paralleli. Il genitore era un tipo che amava starsene sulle sue, disquisendo più con gli amici che con i membri della famiglia. Gli sembrava di non avere argomenti per affrontare convincentemente le due donne di casa; con i compagni di merende, invece, poteva parlare di calcio, politica, economia, e perfino di caccia. Si ritrovava con loro il sabato e la domenica, nel bar dell'oratorio, o da Jimmy, l'unico locale omatese degno di chiamarsi tale ed è così che trascorreva il suo tempo libero, fra accese discussioni, risate e calici di vino. La situazione cronicamente malata che contraddistingueva il suo rapporto filiale era così palese che quando doveva comunicare qualcosa alla piccola di casa, lo faceva rivolgendosi alla moglie e inoltrando, dunque, l'argomento dicendo «tua figlia...», proprio come se la ragazza fosse un'estranea o venisse da chissà quale pianeta. Sicché la madre, ormai rassegnata, non poteva far altro che tradurre ciò che il padre intendeva di volta in volta dirle, come se i due parlassero veramente lingue diverse.
Veri diverbi fra padre e figlia maturavano solo in seguito a sguardi infuocati legati al fatto che la famiglia di Marina era molto religiosa e non tollerava le intemperanze e la strafottenza della figlia, concernenti soprattutto l'ipotesi che la ragazza potesse avere rapporti prima del matrimonio. In casa Tresoldi l'illibatezza era una considerata una regola incommensurabile. Mamma e papà avevano fatto di tutto per crescere la propria figlia con l'idea che la sua verginità fosse un dono straordinario, destinato unicamente all'uomo della vita, un uomo che la meritasse veramente e le donasse tutto se stesso, come insegnava il cristianesimo, ma s'erano presto resi conto che le loro prediche non dovevano essere servite a granché. Il padre, in particolare, era ossessionato dal pensiero che la carne della sua stessa carne potesse concedersi per puro piacere al primo che passava per strada. Questa agonia la coltivava fin dal giorno in cui Marina aveva pronunciato per la prima volta la parola “mamma”. Una volta aveva trovato la figlia in mutande che giochicchiava con un cuginetto, toccandosi punti considerati rigorosamente off-limits. Aveva cinque o sei anni. Per giorni era andato avanti a rimuginare sulla faccenda, temendo di avere una figlia perversa. E a poco erano serviti i ragguagli della moglie che, avendo sfogliato un libro di pediatria, sapeva che quelli erano comportamenti dell'infanzia perfettamente normali, riscontrabili quasi sempre nell'ambito di un sano sviluppo fisico e cognitivo. Una volta cresciuta, però, l'idea che potesse commettere atti impuri s'era insediata con ancora più vigore nella sua mente coercitiva. Più volte s'era perfino introdotto clandestinamente nella sua camera per trovare tracce di rapporti completi, cosa che gli avrebbe provocato come minimo una sincope.
Sicché l'unica persona con cui la ragazza andava d'accordo - se non altro per un fugace e scontato saluto - era la nonna Gianna che viveva da sola in una casetta per andare a Burago e che vedeva sì e no un paio di volte la settimana. Andava lei stessa a trovarla in bicicletta, qualche volta a piedi, affrontando senza remore la lunga lingua di asfalto che divide Omate dai confini di Vimercate, costeggiante gli alberi secolari del parco Trivulzio. Insieme bevevano il tè o chiacchieravano delle cose di tutti i giorni. La nonna le chiedeva come andava a scuola e se aveva ancora intenzione di andare avanti con la ginnastica artistica, sapendo che dai diciotto anni su, non valeva più la pena spendere energie per questo sport in cui l'apice agonistico, sopraggiunge intorno ai 15 anni. Raramente parlavano dei genitori; ma spesso Marina le chiedeva del nonno che non aveva mai conosciuto.
«Credi che mi avrebbe voluto bene?».
«Sicuramente. Non dovresti nemmeno chiedermelo».
«Mi sarebbe piaciuto parlare con lui. Non è facile parlare con gli adulti».
«Se n'è andato pochi mesi prima che arrivassi tu».
«Dici che avremmo avuto un bel rapporto?».
«Ti dico solo che il suo ultimo desiderio era quello di poterti prendere in braccio. Avrebbe pagato per vedere la sua nipotina».
«Veramente?».
«Quella maledetta tosse che andava avanti giorno e notte. Se solo i medici avessero capito che si trattava di un'allergia... Ma adesso non mi ci fare pensare che mi viene da piangere...».
Dalla nonna cercava rifugio anche perché il precario rapporto con mamma e papà, negli ultimi tempi, era addirittura peggiorato. Era per via della storia che aveva messo in piedi da quasi un anno con un ragazzo, Sandro Beretta, incontrato un giorno a scuola, a Vimercate: Marina frequentava la seconda ragioneria, Sandro, la quarta geometra. Erano al bar e lui s'era fatto avanti fra la folla per prenderle il panino desiderato; non era facile incunearsi fra i tanti studenti che si accalcavano presso l'unico angolo dell'omnicomprensivo dove era possibile recuperare qualcosa per ammazzare il brontolio dello stomaco di mezza mattina. Marina se n'era innamorata all'istante. E non sarebbe stata da biasimare: Sandro era giudicato all'unanimità uno dei più bei ragazzi della scuola. Ma non era solo per questo che lo aveva scelto. Era come se l'avesse conosciuto da sempre, e da sempre fosse stato lì a due passi da lei, per chiederle di starci insieme, per amarlo, curarlo e proteggerlo. Perché una della cose che aveva subito messo a fuoco era che, al di là della apparenze, Sandro non era un ragazzo felice, bensì un tipo che aveva bisogno di qualcuno che gli volesse bene veramente, di aiuto, del suo aiuto. Peraltro si ritrovava un po' in lui: nascosto da qualche parte le sembrava, infatti, di intuire la presenza di un tarlo, un'angoscia, un dolore mai sopito, come era per lei l'incapacità di vivere un rapporto sereno coi genitori. Forse anche per lui il problema erano i genitori. Non ne parlava mai, ed era arrivata perfino a pensare che non li avesse più. Un giorno aveva provato ad affrontare l'argomento, ma senza successo:
«Mi piacerebbe un giorno poter conoscere i tuoi genitori».
«Magari più avanti».
«Perché non vuoi presentarmeli?».
A Sandro s'erano illuminati gli occhi, e Marina non aveva più avuto il coraggio di andare avanti. Sicché una volta conosciutesi, era stata anche la chimica del suo corpo a dirle molto, un epidermide che si sposava benissimo con le trame del suo e un odore naturale che non trovava mai cattivo, anche se poi veniva a sapere che non si faceva la doccia da tre o quattro giorni. Come se non bastasse era assai intelligente, fra i migliori della sua classe: in un test di matematica affrontato in terza, era arrivato primo. Anche in italiano eccelleva, nei temi era insuperabile; in più di un'occasione la professoressa Giuliacci aveva selezionato il passo di un suo scritto col quale allietare una quinta ora bucolica. A scuola, a onor del vero, si applicava con scarso interesse, ma arrivava senza problemi al sei e oltre: gli bastava ascoltare le lezioni e ogni cosa veniva metabolizzata con successo dalla sua mente. I primi mesi con lui erano stati magnifici. Si vedevano un giorno sì e un giorno no, quasi sempre di nascosto, soprattutto dai genitori di Marina, al parco Manzoni o ai giardinetti di Cavenago, e passavano il tempo a riempirsi di baci e carezze.
«È dolcissimo. Di così dolci non ne ho mai trovati», aveva detto un giorno la piccola dei Tresoldi a Cristina.
In effetti, Sandro era caratterizzato da una dolcezza innata, bastava guardare il suo sorriso: uno di quei sorrisi che anche solo esprimendosi a metà, avevano così tanto da dire e da dare.
Da un po', però, le cose avevano iniziato a girare male. C'era qualcosa che Marina non riusciva più a inquadrare nel suo rapporto con Sandro. Il carattere del ragazzo, all’improvviso, era cambiato e il più delle volte pareva distante, ombroso, silente, scostante. Sembrava l'uomo più felice del mondo per qualche minuto, per poi, apparentemente senza motivo, piombare nell’oblio, perso in qualche misterioso viaggio cosmico. Le sembrava, in alcune occasioni, di far compagnia a un fantasma. Anche la sua dolcezza ne aveva risentito. Il suo sorriso non aveva più la verve di un tempo, e l’inespressività faceva capolino sul suo volto con inusuale frequenza. I pomeriggi avevano così cominciato a perdere la loro caratura briosa e spensierata. Ma era stato proprio nel corso di uno di essi che l'arcano mistero inerente questo cambiamento caratteriale era emerso in tutta la sua drammaticità. A un certo punto, semisdraiati su una panchina del parco Manzoni, con un ghigno che non gli apparteneva, Sandro aveva sollevato la manica della camicia, sottoponendo il braccio allo sguardo dell’amata. Marina, soprappensiero, non ci aveva nemmeno fatto caso, ma lui l’aveva scossa, sottolineandole che il suo braccio aveva qualcosa di impellente da dirle.
«Ma che hai da rompere?».
«Non noti niente?».
«Cosa dovrei...».
Marina non aveva finito la domanda, perché s’era accorta che il braccio di Sandro, proprio dove di solito si effettua l’esame del sangue, era coperto di minuscole crosticine.
«Cos’hai, le zecche?», aveva chiesto Marina, ridacchiando impunemente.
«Non sono zecche».
«E allora cos’è?». 
Sandro aveva fissato gli occhi di Marina con un sentimento inconcepibile. Gli veniva da ridere, ma nello stesso tempo avrebbe voluto piangere. In fondo, voleva sinceramente bene alla piccola dei Tresoldi, ma evidentemente non era più sicuro del loro futuro insieme. Certi rapporti difficilmente sarebbero potuti andare avanti con una nuova folgorante e micidiale passione da gestire.  
«Sono le punture con cui mi faccio di eroina».
Marina era trasalita. A malapena sapeva che esistesse la parola eroina. Mai l’aveva incontrata nella sua breve vita. Sapeva che era una droga, ma non avrebbe certo saputo dire che colore avesse, come veniva preparata, come veniva iniettata e quali fossero i sintomi dovuti alla sua assunzione. Non s’era nemmeno lontanamente immaginata che dei buchi in corrispondenza dell’avambraccio potessero avere a che fare con l’abitudine di volare in un altro mondo, fittizio e mostruosamente pericoloso.
«Ma ti sei rincoglionito?», era stata la sua domanda bruciapelo, formulata più per una semplice e spontanea reazione al termine eroina, che non per un’autentica consapevolezza della tragedia.
«Lo so che è terribile, ma vorrei che non mi giudicassi per questo».
All’improvviso a Marina era venuto da piangere. Non ci capiva più niente. Com’era possibile che il suo ragazzo si facesse di eroina? Com’era possibile che il più bel ragazzo dell’omnicomprensivo di Vimercate potesse essere un tossicodipendente? Lei non doveva essere immune dai cataclismi dell’esistenza? E ora, la loro storia come sarebbe proseguita?
«Dai, non piangere».
«Ma adesso che facciamo?».
«Vedrai che ne vengo fuori». 
Marina lo aveva abbracciato, prima di salutarlo e vederlo allontanarsi con il suo Ciao. A casa, però, la situazione era precipitata. Non aveva mangiato niente e una volta a letto non era riuscita a chiudere occhio. Il suo ragazzo si faceva di eroina. Era una cosa che non riusciva a metabolizzare. Non rientrava nella sua sfera mentale, cresciuta com’era fra le mura dell’oratorio e una famiglia bigotta e intransigente che non lasciava trapelare certe drammatiche realtà esistenziali. Il mondo che le era stato descritto, benché lei facesse di tutto per contraddirlo e andargli contro, non contemplava risvolti così diabolici. Ma evidentemente il vero mondo era un altro, ed era un universo che le faceva davvero una dannata paura. Pensando alla siringa con cui Sandro si faceva, quel che ne scaturiva era l’immagine di un teschio, che dalle sue elucubrazioni notturne prendeva forma nel buio della stanza: le sembrava di vederlo materializzarsi con quelle terribili fosse orbitarie con incise le iniziali del suo amore. Sicché solo ora comprendeva il motivo per cui tante volte, negli ultimi tempi, lo aveva visto con quell’aria abbacchiata e triste, le occhiaie e un atteggiamento negativo verso ogni cosa. Ora tutto tornava, comprese quelle assurde circostanze in cui aveva rifiutato perfino di andare a letto con lei.
«Perché no? Non stai bene?», gli aveva detto la prima volta che era successo.
«Sto fin troppo bene», aveva ribattuto lui con un'aria da prendi schiaffi.
«E allora perché non vuoi fare l’amore con me?».
«Non mi funziona più l’uccellino».
«Cosa?».
Non c’era tempo da perdere. Se voleva salvare il loro rapporto e soprattutto l’avvenire di Sandro non serviva a nulla piangersi addosso e farsi prendere dal panico notturno: doveva farsi coraggio e affrontare il problema a testa alta, pur sapendo di non poter contare su nessun altro che non se stessa; l’avessero saputo i suoi genitori, come minimo, non l'avrebbero più fatta uscire di casa. L’indomani aveva, dunque, cominciato la sua opera di persuasione nei confronti dell’amato, sulla solita panchina del parco Manzoni, con un Sandro più allegro del solito, l’esatto contrario di quello del giorno prima, in cui le aveva confidato la sua assurda dipendenza. 
«Mi prometti che la smetterai?».
«Te lo prometto».
«Già da domani».
«Ci provo».
«Potrebbe non bastare».
«Smetto quando voglio».
Ma le cose avevano presto preso una piega diversa da quella perseguita da Marina. Sandro a volte mostrava una fiducia in se stesso pazzesca, tale da influenzare anche il pensiero della diciassettenne che, all’improvviso, le sembrava di aver preso troppo seriamente la cosa e che veramente, un domani, di tutto ciò che stava accadendo, ne avrebbero riso insieme. Ma col passare delle settimane, in un susseguirsi di alti e bassi, con lui che continuava a farsi come un ossesso, indifferente agli sforzi di Marina, la giovane dei Tresoldi s’era cominciata a porre dei grossi interrogativi, rendendosi conto che, presumibilmente, le parole di Sandro andavano prese con le pinze, e che la metà delle cose che raccontava erano fandonie; in pratica le raccontava quello che voleva e lei, fidandosi, non faceva altro che procrastinare la sua salvezza, semmai si fosse avverata. Di fatto, se voleva veramente ottenere qualcosa doveva agire in un altro modo, arrivando a fargli capire che se non cambiava radicalmente atteggiamento l’avrebbe persa. Per sempre. Così aveva iniziato a minacciarlo. Per il suo bene.
«Se non ti decidi a smettere, ti lascio. Mi dispiace».
«Ti ho detto che smetto quando voglio. Posso stare una settimana senza bucarmi, così ti do prova della mia forza».
«Non mi interessano questi esperimenti. Voglio che la finisci una volta per tutte. Come fai a dire di amarmi se non riesci nemmeno a promettermi qualcosa che farebbe bene soprattutto a te?».
Ma ancora una volta Marina doveva avvedersi che erano le solite e assurde scuse: Sandro, nelle condizioni in cui si trovavano, non avrebbe smesso mai. E magari all’inferno ci avrebbe portato pure lei.
Sicché un giorno, il giorno dell’esplosione del reattore di Chernobyl, Marina aveva preso la decisione che non avrebbe mai voluto prendere: avrebbe lasciato Sandro, una volta per tutte, anche a costo di morire di dolore, lo doveva a se stessa, e lo doveva soprattutto a lui, che senza una scossa veramente importante avrebbe raggiunto il punto di non ritorno. Certo non avrebbero mai immaginato che da lì a qualche giorno avrebbero proibito rigorosamente di andare in giro per i campi della zona, e obbligato a mantenersi lontani dagli spazi verdi come il parco Manzoni, dove le radiazioni si sarebbero accumulate con maggiore forza. Il sole brillava sereno e la primavera era ormai spuntata da un pezzo. C’erano mille e altri motivi per essere felici, ma forse non quel pomeriggio. Avevano iniziato a parlare di scuola e di rock’n’roll e solo con le prime luci dell’imbrunire Marina s’era decisa a passare all’attacco.
«Sandro... ».
«Che c’è?».
«Ti lascio».
«Come?». 
«Non voglio più stare con un tossico».
Sandro l'aveva presa malissimo. Nei momenti di lucidità si rendeva perfettamente conto di tenere tantissimo a Marina e a modo suo di amarla. Ma forse più che amore era la consapevolezza di avere una spalla su cui contare, un sentimento che si concretizzava quando il senso di solitudine che lo pervadeva si faceva sentire più del normale.
«Non mi puoi lasciare, non mi puoi lasciare proprio adesso».
«Mi stai rovinando la vita. Non posso andare avanti così. All'inizio fra noi era magia, era un sogno, adesso mi sembra di perdere il mio tempo con uno zombie».
«Ma io smetterò. Non ti devi preoccupare».
«Non ci credo più. Me lo hai già detto mille volte. Sono passati mesi dalla prima volta».
«Questa è la volta buona».
Marina lo aveva fissato con aria circospetta, pervasa da una forza interiore che non sapeva di avere: capiva il passo che stava per fare, un passo travolgente, ma sentiva che il coraggio questa volta non l’avrebbe abbandonata. La storia con Sandro s'era trascinata per troppo tempo e alla fine il dolore per la paura di perderlo a causa di fattori esterni, era coinciso con l’idea di dire addio alla persona cui teneva di più; in sostanza tanto valeva optare per la seconda, terribile, soluzione. Lui era il ragazzo perfetto, ma se la perfezione doveva fare rima con autodistruzione, allora, forse, non ne valeva più la pena. Era ancora piccola per comprendere tante cose, ma in questo frangente capiva che doveva dire grazie a mamma e papà che, con la loro educazione, con i principi che le avevano trasmesso, le avevano anche inculcato l’amore per la vita, la consapevolezza che, purtroppo, a volte è necessario agire anche contro le proprie volontà e contro ciò che il cuore detta. L’aveva in qualche modo aiutata la bella atmosfera che si respirava, con l'aria tersa, lo svolazzare degli insetti, il cinguettare degli uccelli; in lontananza il cielo rosseggiante, che faceva da sfondo ai numerosi comignoli delle case che guardavano ad Agrate, come in un vecchio quadro ottocentesco; e i rumori della strada attutiti dalle numerose specie arboree che crescevano a ridosso della cancellata principale, poco prima dello spazio dedicato ai giochi dei bambini e che da qualche giorno s’erano riempite di foglioline verdi, un inno alla bella stagione ormai alle porte. Marina, senza perdere altro tempo, continuando a fissare la persona che amava più di ogni altra cosa, s'era alzata e aveva cominciato a dondolare la testa a destra e a sinistra, come chi in preda alla disillusione più completa, non trova una sola parola per esprimersi. 
«Addio, aveva sussurrato senza ricevere risposta».
A casa per l’ora di cena c’erano mamma e papà alle prese con il telegiornale. Stavano trasmettendo le immagini del reattore nucleare ucraino da poco saltato in aria. Si parlava di scorie nucleari, di campi contaminati, morti per le radiazioni, ma Marina sembrava del tutto indifferente alla catastrofe. La sua mente era altrove, per chissà quanto ancora ai piedi di quella panchina, dove s’era congedata dal suo domani e, forse, definitivamente dalla sua innocenza. Sicché al padre era bastato un solo sguardo per capire tutto; e per far capire alla sua piccola che nel momento del vero bisogno lui ci sarebbe sempre stato, senza ricorrere alla moglie traduttrice. A tal punto anche per il genitore il disastro di Chernobyl s’era fatto piccolo e insignificante. 
«Ti va di parlare un po’?».
«Grazie papà».

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