sabato 4 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento B


Alle parole dello speaker Fabiano c’era rimasto di sasso: non aveva mai sentito parlare di una cosa del genere. Aveva provato una sensazione nuova, a metà strada fra l’eccitazione e la disperazione. Era esplosa una centrale nucleare in Ucraina. L’Ucraina sapeva a malapena cosa fosse. Uno stato dell’est, sotto l’egemonia sovietica; ma tutto ciò che arrivava dall’URSS era qualcosa di misterioso da cui, probabilmente, valeva la pena mantenere le distanze. Così la pensavamo molti suoi concittadini, assai devoti alla DC e alle numerose formazioni filo-clericali che con le manie della triade Marx-Lenin-Stalin avevano ben poco a che fare. In molti erano ancora convinti che i comunisti mangiassero i bambini, e che fossero, quindi, da contrastare il più possibile, come vittime della lebbra o di qualche altra malattia pestilenziale; i comunisti erano una brutta razza, facevano delle cose losche – appoggiavano il divorzio e l’eutanasia - e i loro intendimenti non erano mai chiari: usavano i servizi segreti per boicottare le iniziative dell’occidente, la civiltà dell’occidente, ben più avanzata di ogni altra, incentrata sui valori della democrazia e dell’uguaglianza sociale. L’uguaglianza sociale, però, non era anche una prerogativa dei bolscevichi? Mah, su questo punto non aveva le idee chiarissime. In ogni caso era certo che, agli occhi di tutti i suoi consimili (e condomini), ben più lungimiranti erano quelli dell’altra sponda, gli americani, gli USA del presidente Kennedy, anche se il presidente Kennedy era morto da più di vent’anni, assassinato da un mingherlino con gli occhi da furetto. Ma a metà anni Ottanta era ancora viva la sensazione che non ci fosse niente di meglio che affidarsi allo strapotere statunitense emancipatosi dopo l’epopea kennedyana e marylinmoriana. Ogni cosa, del resto, se si escludono i robot giapponesi, derivava da lì. E ancora adesso era qualcosa di incredibilmente affascinante, l’America dei cowboy, l’America di We Are The World, l’America dei film di Steven Spielberg e fra poco sarebbe stato l’America del primo ammartaggio: così aveva letto su un giornale di fantascienza trafugato nella biblioteca agratese di via don Minzioni. Nient’altro da aggiungere. Anche se, per Fabiano, non era esattamente così.
Lui la politica la viveva di sbieco, tuttavia gli ambienti che frequentava erano spudoratamente di sinistra. Proprio come il vicino di casa del secondo piano, il giornalista che si occupava di politica estera, segretamente innamorato della quarantenne del primo piano e con trascorsi affini ai gruppi di lotta armata. Non avevano un gran feeling, essendo entrambi sostanzialmente dei misantropi, ma i sorrisi che si regalavano bastavano a ragguagliarsi in merito alle proprie tendenze e a guardare gli altri con vivo snobismo. In realtà, più che da una vera e propria presa di posizione etica, questo suo atteggiamento era dovuto alla sua doppia professione: barista-batterista. Mai sentito parlare di un barista-batterista di destra? Basta la domanda a suscitare ilarità. Fabiano da almeno dieci anni saltava da un bancone all’altro, preparando cocktail e panini con indubbia maestria. Lo faceva con calma e dolcezza, come se tra le mani non avesse delle bottiglie di vodka o champagne, o fette di salame e prosciutto, ma minuscole opere d’arte da preservare e consegnare intatte ai posteri. La grazia faceva parte del suo DNA. Era un po’ così in tutte le cose che faceva. Pareva di sangue blu e invece era il più plebeo di tutti. Dopo qualche anno di gavetta, felice di avere abbandonato gli studi al terzo anno di elettronica, per un po’ di tempo aveva lavorato a Milano, in un centro di unità proletaria dalle parti di Precotto, benché il suo sogno fosse quello di lavorare al Leoncavallo, dove bazzicava con ardore durante il tempo libero; poi aveva avuto un’occasione a Vimercate, in un bar di piazza Marconi, e s’era trasferito definitivamente, per la gioia della famiglia stanca di vederlo rincasare una sera sì e una sera no alle quattro del mattino. Ma l’unico vero lavoro che amava con tutto se stesso e che lo rappresentava come l’ideale di fraternità per un monaco cistercense era un altro: suonare. 
Accompagnava più gruppi musicali possibili, e grazie a questo suo eclettismo arrivava a raggranellare un dignitoso stipendio con cui pagare il mutuo e mantenere la moglie e la figlia. La moglie era una tipina spigliata e vivace conosciuta per caso durante un incontro all’omnicomprensivo di Vimercate sulla pena di morte. Tra un intervento e l’altro Fabiano e la sua band avevano proposto dei pezzi di Bob Dylan, come suggerito dall’organizzatore della kermesse. La moglie di Fabiano s’era fatta avanti per chiedere a uno dei relatori cosa ne pensasse del fatto che in Cina i condannati a morte sono un’infinità ma non destano alcun interesse, al contrario di quelli dei paesi occidentali. Il relatore s’era scaldato, sostenendo che non si possono fare certi paragoni, perché la politica cinese poggia su presupposti civili lontani anni luce dai contesti sociali statunitensi; peraltro la Cina, dal suo punto di vista, aveva molte cose da insegnare agli americani che con il loro concetto di democrazia stavano devastando e assoggettando il mondo.
“I cinesi dovrebbero essere trattati come tutti gli altri”.
“Le ho già detto signorina, che la sua presa di posizione è fuori luogo. Dovrebbe cominciare a leggere qualche testo sulla filosofia comunista in Cina”.
“Mi basta attenermi a quel che raccontano i media”.
“I media sono strumentalizzati dall’occidente. In Italia sentiremo sempre parlare male dei cinesi perché la loro politica ci fa paura”.
“La paura andrebbe combattuta, non insabbiata”.
“Vede signorina che in fondo diciamo le stesse cose?”.
“Non credo proprio, occorrerebbe una volta per tutte avere il coraggio di fare un passo indietro e contribuire seriamente a un dialogo interrazziale”.
Fabiano aveva notato la grinta della ragazza che aveva avuto il coraggio di confutare parte delle tesi messe in campo durante l’incontro e alla fine non era riuscito a fare a meno di sorriderle invitandola a scambiare due chiacchiere. Aveva un atteggiamento che le ragazze non disdegnavano e anche questa volta era, dunque, riuscito a fare centro. S’erano appartati nei pressi dei gabinetti dell’auditorium, di fianco a un grande cartellone indicante l’imminente rappresentazione de Il lago dei cigni e, fin dall’inizio, s’erano trovati a loro agio: la ragazza si chiamava Simona, e guarda caso – Bob Dylan a parte – amava tutto ciò che non era convenzionale, compresi i ragazzi non convenzionali come Fabiano. L’anticonformismo della nuova conoscenza, del resto, era facilmente perscrutabile: i ragazzi seri non andavano in giro con la maglietta degli Smiths, i pantaloni stretti sul fondo e delle scarpe da ginnastica devastate dall’usura e dall’attività batterica. Da lì era scattata la scintilla che li avrebbe portati nel giro di pochi anni all’altare e alla nascita dell’unigenita, Benedetta.
C’era un palazzone a Omate che faceva proprio al caso loro: il paese era alla giusta distanza dai rispettivi genitori e comodamente raggiungibile da Milano, dove Simona lavorava per l’ufficio stampa di una casa editrice che trattava riviste e manuali per architetti e designer; non era il suo lavoro, ma per partire con la famiglia andava benissimo. In seguito non le sarebbe dispiaciuto gestire la comunicazione di qualche importante gruppo politico meneghino. Aveva un’amica che lavorava per il PCI, Rosalba Mariani, conosceva tutti gli esponenti politici del momento, ed era sempre in giro: una professione davvero affascinante, che, peraltro, le consentiva di mettere da parte un bel po’ di soldi. Il collegamento con Milano era congegnale anche a Fabiano che provava nel capoluogo lombardo, in una sala di registrazione buia e puzzolente ricavata da un ex rifugio antiatomico. Non c’erano le finestre per consentire un’aerazione adeguata e in certi momenti il tanfo prodotto dai presenti, associato alle esalazioni dei muri intrisi di umidità, era qualcosa di assolutamente stomachevole. La visita all’appartamento B del terzo piano s’era risolta in un battibaleno, convincendo fin da subito sia i due sposini che l’agenzia immobiliare. Un mutuo da risolvere in una ventina d’anni era la soluzione ideale per tutti, anche se Fabiano rabbrividiva ogni volta che gli veniva ricordato che fino al 2006 avrebbe dovuto versare alla banca una cospicua parte del suo mensile. Era sostanzialmente identico a quello dei due piani sottostanti. Un gemello dell’appartamento dei Vismara, benché più pulito e ordinato, con un muretto che divideva l’ingresso dal vicino salotto contraddistinto da un voluminoso camino. Simona, nonostante gli impegni di lavoro e Benedetta, riusciva a tenerlo sempre lindo e invitante. Non era certo merito di Fabiano, caotico di natura, e totalmente disorganizzato. Avevano conosciuto fin dal primo giorno i membri della famiglia Tresoldi che abitavano l’appartamento A del terzo piano, con una bambinetta di nemmeno dieci anni. Erano stati così gentili da presentarsi alla porta dei nuovi venuti con una scatola di cioccolatini, mai così gradita dai neo sposini.
Ma erano altri tempi, se non più belli, sicuramente più sereni. Poi Simona, nonostante i buoni propositi di voler cambiare lavoro, era andata avanti a servire le esigenze della casa editrice Floriana; mentre Fabiano passava da un gruppo all’altro, alternandosi dietro ai banconi dei bar in grado di offrigli un buco grazie al quale far quadrare i bilanci familiari. Ma rimaneva la musica la sua grande passione e valvola di sfogo. Di solito le band di cui faceva parte duravano due anni, poi, vedendo che le uniche porte che riuscivano a sfondare erano quelle degli spogliatoi delle ragazze di pallavolo, si muovevano verso nuovi lidi. Con l’ultimo gruppo, però, le cose erano andate decisamente meglio. Aveva, infatti, appena terminato un tour per mezza Europa, diramato da un management coi fiocchi facente capo a un entourage di ex musicisti con base a Zurigo. Avevano suonato soprattutto in Svizzera, Germania, Francia e Belgio, più una data estemporanea in un paesino della Cecoslovacchia, frequentando locali grigi e fatiscenti, nel ventre putrido delle città che sceglievano di invitarli per tenere testa a giovani scalmanati vogliosi di infrangere le regole. Erano in pratica finiti il più delle volte in centri sociali, dove falce e martello troneggiavano ovunque come capitelli dorici in un tempio greco. A Berlino erano stati accolti come dei messia, anche se viaggiavano su un pulmino che perfino un rom avrebbe ritenuto inadeguato al proprio criterio di sussistenza. L’etichetta che li aveva tenuti a battesimo aveva provveduto alla pubblicità e ora i Lazy Pigs erano più famosi all’estero che in patria. L’ultimo disco, intitolato Peace and (no) love aveva già venduto quasi diecimila copie. Anche vari magazine e fanzine italiane ne avevano parlato, giudicandoli degni delle migliori avanguardie londinesi e berlinesi, ma quasi nessuno li aveva seriamente presi in considerazione. Nel 1986 comandavano nel Belpaese, ancora succube dei fasti sanremesi, i vari Venditti e Baglioni, per gli altri c’erano ben poche chance di dettare legge, figuriamoci chi aveva l’arroganza di proporsi addirittura in lingua inglese. Spocchiosi da quattro soldi.
Proponevano un genere musicale indescrivibile a metà strada fra il garage e la new wave. Era un nuovo movimento, per non dire nuovissimo, con un ampio uso di chitarre e synth e ritmi indiavolati di batteria, coi quali Fabiano andava a nozze. Era andato a scuola da Valerio Malara, un batterista con trascorsi con Tullio De Piscopo, ma con un credo unico e assoluto: l’heavy metal. Perciò tutti coloro che passavano dalle sue grinfie finivano per picchiare sui tamburi come un metalmeccanico prossimo alla cassa integrazione che si sfoga sulla carcassa di una automobile da ridurre in cenere. I concerti dei Lazy Pigs prevedevano, pertanto, la distruzione totale dei timpani; e se si aveva la malaugurata idea di starli a sentire sotto agli altoparlanti, addio per sempre all’udito. Gli acufeni avrebbero imperversato fino a far impazzire l’incauto appassionato di musica live. Con ciò non dovrebbe stupire se, chi non aveva dimestichezza con le novità musicali del periodo, il sound dei Lazy Pigs avesse un solo nome: baccano infernale dal quale stare tenacemente alla larga, roba da indiavolati, drogati e nullafacenti, improponibili padri di famiglia condannati a una vita di stenti ed entrate e uscite dal carcere.
Comunque sia, la band omatese poteva dirsi orgogliosa dei traguardi maturati fino al giorno dell’esplosione del reattore di Chernobyl; è per questo motivo che ogni membro dell’ensemble, in cuor suo, nonostante il trascorrere degli anni, e l’inesorabile avanzamento dell’età, in combutta con l’iconografia classica della rock-star, nutriva la seria intenzione di riuscire un giorno a calcare definitivamente questa strada e poter fare il musicista a tempo pieno, abbandonando tutti gli altri lavoretti da proletari sottopagati e super incazzati. Per il momento, però, una volta a casa, c’era solo da rimboccarsi le maniche, soprattutto per chi, come Fabiano, aveva un duo sul gobbo con cui era sceso a patti inderogabili. Dall’ultima tournée era tornato stremato, dimagrito di cinque chili e con le occhiaie che avevano sbiadito anche le guance sottostanti, normalmente rosse e rubiconde.
“Sei conciato da fare schifo”, erano state le parole di accoglienza della moglie.
“Sei gentile”.
“Quando ti deciderai a trovare un lavoro normale, come tutte le persone normali? Non vedi che tua figlia si vergogna di dire a scuola quello che fa suo padre?”.
Fabiano aveva taciuto come un cane preso a sberle. Non era il tipo da ribattere alla moglie. Se qualcosa non andava preferiva chiudersi in se stesso e aspettare tempi migliori. Del resto non era mai piacevole il rientro a casa dopo un tour. Ma in questa occasione era stato ancora più traumatico: l’indomani l’avrebbe aspettato un doppio turno al Fagiano, locale milanese sui Navigli, attivo dalle otto di mattina alle tre di notte, per convincere la moglie che il suo doppio lavoro era una garanzia. Ma la moglie, ormai, aveva perso le speranze nel marito e non ne voleva più sapere delle sue tragiche vicissitudini professionali. Quando ripensava al giorno in cui l’aveva conosciuto, nel corso della conferenza sulla pena di morte, si metteva le mani nei capelli, e versava sommessamente lacrime amare. Come aveva potuto non rendersi conto che quello che aveva appena conosciuto, benché agile con le bacchette, non l’avrebbe portata da nessuna parte? Tuttavia, al momento del disastro ucraino, era ben lontana dalla sua ex dolce metà e, dunque, dal suo sbigottimento di fronte alla inusuale notizia, della quale non avrebbe saputo nulla fino all’indomani, con l’acquisto del Corriere della Sera: da un paio di mesi s’era trasferita con la figlia da sua madre, a Settala, lasciando il marito in condizioni deplorevoli, con l’arduo compito di vendere al più presto la casa in cui avevano abitato per nove anni, e avviare le pratiche di divorzio. C’era anche la faccenda mutuo da regolare, visto che mancavano ancora più di dieci anni dalla sua assoluzione. Non era nell’aria un patatrac del genere, in fondo, più per la figlia che altro, erano arrivati a sopportarsi con eleganza e dedizione: il problema è che Fabiano, questa volta, l’aveva davvero combinata grossa.
Una sera dopo un rocambolesco concerto a Pavia aveva conosciuto una ragazza inglese di nome Catherine. Veniva da Manchester. Manchester era la città preferita da Fabiano e solo per questo chi veniva da lì acquisiva ai suoi occhi vari punti in più. Era la città dalla quale provenivano tutte le sue band preferite e dove secondo lui la cultura aveva tutto un altro tiro. Per quel che il concetto di cultura potesse farlo realmente sorridere. Laggiù si respirava il vero senso del proletariato, l’unico contesto sociale nel quale, pur non riconoscendosi apertamente in un movimento politico, si ritrovava come un piccolo di Labrador nella sua nuova cuccia. A Manchester ci sarebbe andato a vivere, se fosse stato per lui, perfino col cielo perennemente grigio, pregno di acqua e umidità, come lasciavano presagire i racconti del National Geographic, che leggeva ogni volta che andava dal dentista o dal dottore. Lì valeva perfino la pena vivere da mentecatto. C’era poi un altro particolare non del tutto trascurabile: Catherine era oggettivamente uno schianto, con un’aurea da “saltami addosso ora o mai più” che avrebbe rintronato perfino il nonno di Fabiano, in andropausa da un paio di decenni. Era una biondina alla Kim Basinger, tanto avvezza all’alcol quanto alle bottarelle da una notte e via. La ragazza aveva notato Fabiano esibirsi sul palco del Rococò e a fine concerto l’aveva invitato a bere qualcosa. Parlava a stento l’italiano, ma il batterista dei Lazy Pigs riusciva a capirla benissimo, anche grazie alla sua egregia mimica, degna di un’attrice della Scala. Quando aveva dovuto fargli capire che doveva correre in bagno s’era accovacciata alzando la gonna e mostrandogli le mutande con le fragoline, sibilando il classico motivo legato allo scroscio delle acque vescicali. Ma le cose non erano certo finite lì. I due erano andati avanti a bere in tandem fino alle due e mezza del mattino e quando s’erano trovati sul punto di congedarsi – o consumarsi vicendevolmente ai piedi di qualche siepe - a Fabiano era venuta la brillante idea di invitarla a casa sua, tenuto conto del fatto che la moglie era via per lavoro e la figlia dai nonni. Per almeno quarantotto ore se la sarebbero potuta godere in santa pace.
Non era la prima volta che Fabiano tradiva la moglie: in otto anni – se si escludono fugaci effusioni senza tragiche conseguenze - c’erano già stati un paio di episodi, dei quali, naturalmente, la partner non aveva mai saputo nulla. Uno s’era verificato in occasione della citata data in Cecoslovacchia con un’abitante del posto, vogliosa come un babbuino dopo anni di cattività, in compagnia esclusiva di oche, anatre e colibrì, figure secondarie di uno zoo destinato al fallimento. Alta, mora, fisico palestrato, un seno da maggiorata, con i collant rigorosamente bucati in corrispondenza di entrambi gli alluci e una passata di rimmel da sfidare gli occhi di un barbagianni, non aveva perso tempo a farsi “il tipo della band che suonava la batteria”: era filata liscia come l’olio, ma lui era talmente fuori che il giorno dopo non ricordava nemmeno il nome di colei che gliel’aveva appena trastullato con tanta avidità. Ma gli andava bene così: non aveva nessuna intenzione di stringere rapporti con una beota mezzo russa, presumibilmente capace solo di produrre latte in grande quantità.
La seconda performance fedifraga era andata un po’ meglio, con un po’ più di cuore, e aveva avuto come protagonista Monica Bucchi, una giovane di Caponago che seguiva i Lazy Pigs per ogni dove, comprese le suddette performance per l’Europa. Minuta, né più né meno come Simona, ma decisamente più sfrontata, andava in giro con una automobile verniciata di rosa e un abbigliamento a dir poco appariscente, più consono a una ballerina di burlesque che non a una fan dei Lazy Pigs. Vari tatuaggi le ricoprivano il corpo, anche in zone ben esposte, sottolineando a chiunque la sua originalità. Aveva già avuto un flirt con un membro del gruppo, con il cantante della band, Gianluca Remigi, che s’era protratto per qualche mese, prima della sua definitiva capitolazione con una brasiliana conosciuta dopo un viaggio a Salvador de Bahia. Anche qui, dunque, la miccia s’era accesa in seguito a un’esibizione live: Fabiano, con un calice di birra in mano, rubato al bancone del bar appena dimesso il ruolo di musicista, s’era inventato giullare di corte giochicchiando con il ciuffo della ragazza, laccato di fresco, sollecitando inevitabilmente le sue voglie sessuali. Alla fine, dopo aver tergiversato per una buona oretta in un luogo sufficientemente romantico, s’erano concessi l’uno all’altro nel parcheggio della STAR, sotto la provocatoria scritta illuminata da lampadine colorate che inondavano l’intera via Lecco:
“Mi piace fare sesso in macchina”, aveva detto lei.
“Non sempre è comodo, ma ci si può accontentare”.
“Sai essere elegante anche in questi frangenti”.
“Ti ringrazio”. 
Fabiano aveva riso.
“Uno come te è proprio il tipo giusto da sposare”.
“Per sfortuna sono già sposato”.
“Cosa intendi dire?”.
Fabiano le aveva morso il lobo dell’orecchio.
“Lasciamo stare. La notte brama di vita e spensieratezza. Non roviniamola con assurde...”.
“Vieni qui maialino mio”.
Dopo l’episodio c’erano stati altri potenziali momenti per macchiare la propria fedeltà coniugale, ma per un motivo o per l’altro non si era avuto un seguito della vicenda, forse anche perché di lì a poco le attenzioni di Monica sarebbero state catturate dal terzo della lista, Rocco Primula, tastierista della band. Ma con Catherine, Fabiano, aveva oggettivamente passato ogni limite, sconsacrando per sempre il patto sancito di fronte a don Michelangelo, nel piccolo tempio di San Zenone.
C’era da rientrare da Pavia, e non era uno scherzo con tutto l’alcol che avevano in corpo: non sempre finivano per bere così tanto, ma quella sera, complice un pubblico a dir poco eccitato, con fan che si lanciavano dal palco contando ciecamente sulla franca e solidale presa del pubblico, era andata così; non c’erano peraltro altre date nei paraggi e nessuna bettola prenotata nelle vicinanze: non restava, insomma, che rimettersi in carreggiata per il capoluogo. Cristiano Galbusera, il più morigerato della band, di mestiere barista-bassista, felicemente single, con trascorsi dubbi nel campo della moda, s’era preso carico di accompagnare a casa l’allegra comitiva. Capitava quasi sempre a lui l’arduo compito, anche se ogni volta lo si sentiva imprecare gli angeli e la madonna. Ma era un ragazzone così disponibile, che frequentemente chi gli chiedeva un piacere finiva per provare per lui un sincero senso di colpa. A bordo del camioncino tutto scassato della band, Fabiano e Catherine s’erano accucciati nella coda del mezzo, il vano di solito predisposto a ospitare casse, fili, mixer e strumenti vari, con il vivido proponimento di concedersi un viaggio in solitaria; un’asta del microfono s’era conficcata nel didietro della giovane inglesina, ma curiosamente sembrava non darle alcun fastidio; mentre Fabiano ne osservava gli impercettibili spostamenti per trovare in ogni caso la posizione più idonea per proseguire fino a casa.
“Sei comoda?”, le aveva chiesto.
Lei rideva.
“Non ti dà fastidio...”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Durante il tragitto ci aveva provato spudoratamente, cercando di farsi strada nella lampo dei suoi jeans e gemendo come un bambolotto robotizzato rimasto senza il biberon. Ma il Lazy Pigs, da vero signore, se non altro per rispetto dei commilitoni, l’aveva ammonita con uno sguardo da vero “uomo che non chiede mai”.
“Just a moment”.
Non si potevano fare certe cose in pubblico mentre c’era chi assolveva compiti ingrati teoricamente da risolversi in fraterna collaborazione. Era l’etica del gruppo. Ma l’aveva presa bene, e le aveva regalato una felice sequenza di baci appassionati che avevano mandato in delirio la groupie, auspicando un futuro imminente da Mille e una notte. Andava una vecchia canzone di Van Morrison intitolata Rolling Hills, e nel cielo brillavano le stelle preannunciando un domani soleggiato e pieno di grazia. Per un attimo il ragazzo s’era messo a pensare alla moglie e alla prima volta che s’erano baciati. Si trovavano in campagna, a passeggio, fra le radure omatesi e quelle caponaghesi, sormontati da un inebriante cielo disseminato di nuvolette a forma di batuffoli di cotone. Dopo essersi strattonati qua e là, come fanno i teenager per vincere l’imbarazzo del primo approccio, Fabiano l’aveva presa con forza fra le sue braccia e, fissandola negli occhi come un divo hollywoodiano, l’aveva baciata con un’intensità sopraffina. Se il primo bacio era andato bene, c’erano tutti i presupposti per volare insieme verso nuovi orizzonti, ciò che, in effetti, s’era poi verificato. Come li sentiva, però, lontani quei tempi, e come aveva ragione chi diceva che l’amore è solo un’immensa illusione:
“Speri nell’amore eterno e quel che ti ritrovi in tasca dopo pochi anni è solo una brutale gatta da pelare”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Arrivati a casa, assonnati come marmotte prossime al letargo, s’erano preparati un doppio caffè e avevano cominciato a darci dentro con una foga, che lo stesso Fabiano, aveva giudicato quantomeno esagerata. Non s’era ancora tolto la maglietta che la giovane stava già dando il meglio di sé per regalare al musicista il godimento più eccelso. La trovava davvero eccitante, ma aveva anche pensato che, evidentemente, una tipa del genere, fosse molto più vicina a una del mestiere che non a una moglie normale come la sua Simona. Al confronto la sua partner storica poteva sembrare addirittura pudica. Ma non erano certo gli scrupoli a interferire con la sua libidine. Fosse stata anche una conclamata donna di strada, per quell’occasione trovava che andasse benissimo. In fondo erano solo quarantotto ore di libertà. Un volta raggiunto il letto, la concubina aveva, dunque, preso a sbattere i pugni contro il muro, saltando come un cavallo al galoppo sul torace dell’impavido batterista, con il cuore in tachicardia. Fabiano era troppo rimbambito per capire quanto stesse accadendo e correre ai ripari e così, nel giro di una decina di minuti, erano partite le telefonate di Zanetti, del piano di fianco, inalberato come pochi. Le prime chiamate erano andate a vuoto, ma al terzo tentativo il padrone di casa non aveva potuto fare altro che scoprire chi cercava di mettersi in contatto con lui con tanta insistenza: sbalestrata di forza la cavallerizza, persa in mondi metafisici, aveva impugnato la cornetta del telefono con la stessa dolcezza con cui sceccherava un Negroni sbagliato, pronto a svelare l’arcano mistero.
“Sì, pronto...”, aveva mugugnato in piena crisi orgasmica.
“Pronto un cazzo, adesso vengo lì e ti spacco la testa!”.
La crisi orgasmica era sbiadita in un nanosecondo, e Fabiano all’improvviso s’era ritrovato coi piedi per terra.
“Cosa succede?”, era l’unica frase che era riuscito a pronunciare, pur conscio della sua totale inutilità.
“Ma che cazzo state facendo? Siete rincoglioniti? Sono le quattro di mattina!”.
Fabiano aveva tossito senza la reale necessità di dare sfogo al diaframma, sospinto, semmai, da un crescente stato d’ansia.
“Sì, no, beh... mi scusi...”.
“Mi scusi un cazzo, siete proprio dei coglioni. Se non la piantate chiamo i carabinieri!”.
Catherine rideva. Rivoli di saliva le scendevano dalle labbra, mentre cercava in tutti i modi di riconquistare la bocca dell’amato, in oggettiva defaillance.
“Forse è il caso di evitare schiamazzi?”, aveva domandato Fabiano, incapace di prendere una valida decisione. 
Ma lei non aveva orecchie e guaiva come se niente fosse e solo per puro caso aveva quindi smesso di prendere a pugni la parete, evitando l’arrivo delle forze dell’ordine; s’era accorta, in effetti, che lo stesso  compiacimento poteva essere raggiunto tirando con forza i capelli dell’amato. Così erano andati avanti fino alle prime luci dell’alba, quando, sfiancati oltre ogni immaginazione, s’erano addormentati uno accanto all’altro.
S’erano ripresi dopo l’ora di pranzo, con gli occhi rimbecilliti e un alito da arma batteriologica, e all’unisono avevano deciso di farsi una doccia. Erano già nudi, per cui il passo per mettere in atto la prima azione pomeridiana era stato breve. Con l’acqua che scendeva s’erano immedesimati di nuovo nel film interrottasi alle 6.30 di mattina, divertendosi ancora come matti, con in più il fascino delle gocce di pioggia che scivolavano sulle loro pelli in escandescenza. Catherine aveva ripreso a ridere senza freni, dando seriamente l’impressione di non avere ancora smaltito la sbornia della serata precedente. Sicché Simona, rientrando con largo anticipo dalla trasferta di lavoro, dopo aver disserrato la porta blindata, non aveva potuto credere alle sue orecchie. Per un attimo aveva temuto di soffrire di allucinazioni acustiche. Non era una cosa così strana. Sua nonna, ormai ultranovantenne, era solita credere che per strada stessero recitando a squarciagola il rosario, col sottofondo di grida naziste, quand’era evidente che era tutto frutto della sua immaginazione. Nel suo caso poteva, dunque, essere colpa dello stress: dormiva male da almeno tre notti e le preoccupazioni per la casa non le davano tregua. Ma la verità era ben più spiccia: le voci che stava sentendo erano vive e vegete, il suo cervello non aveva alcun difetto, c’era qualcuno di troppo nel suo appartamento… Ne aveva avuto prova muovendosi catatonicamente verso il bagno come attratta da un abbaglio miracoloso. Andava la doccia e all’interno del box si intravedeva una massa enorme di carne che si contorceva su se stessa. Non era riuscita a trattenersi e, in preda al presentimento più cupo, aveva aperto con un guizzo una delle due ante del servizio; trovandosi innanzi alla nuda e cruda consapevolezza di essere stata tradita senza ritegno. 
“Ma tu guarda questo lurido porco…”.
Fabiano per poco non era svenuto.   
“E da dove arriva la puttana?”.
Christine non capiva l’italiano, ma aveva inteso ogni cosa e per un breve istante s’era resa perfino conto che forse non era più il caso di ridere come una demente. Quella che si trovava di fronte, con ogni probabilità, era la moglie del tipo che si stava spudoratamente facendo sotto la loro doccia e della quale non aveva mai sentito parlare: aveva gli occhi fuori dalle orbite e se avesse avuto in mano un coltello, si sarebbe scagliata su entrambi eliminandoli senza pietà. Invece era stata molto più contenuta: 
“Sei davvero un porco, lurido, infame. E adesso che gli racconterai a tua figlia?”.
Simona, senza aggiungere una parola di più, se n’era andata devastata da una rabbia sovrumana, ma evitando di versare lacrime. In fondo c’era una considerevole parte di sé che aspettava da sempre questo momento, per mettere una volta per tutte la parola fine alla sua storia malata. Di lì a tre giorni avrebbe preparato le valigie sparendo per sempre dalla miserabile vita del marito barista-batterista.

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