martedì 27 maggio 2014

Ferragosto # 12


56.

Il più vecchio si fece scappare una specie di rutto e a fatica contenne il nervosismo. Si alzò di scatto e reclamò autorevolmente la sua totale estraneità ai fatti.
«Non vediamo don Filippo da qualche settimana, non è vero fratello?».
«Assolutamente. Forse siamo stati là che era ancora primavera».
Il Marengo e gli altri non fecero una piega, incapaci di capire se stessero dicendo la verità o meno, benché le loro facce avrebbero potuto fare paura agli spettri.
«Come vi abbiamo accennato», proseguì il più anziano, «andavamo a far visita sporadicamente al prete… forse una o due volte all'anno, tre al massimo. Le sue parole erano per noi di gran conforto. Certo, ora che ci dite che ha fatto questa brutta fine…».
«Non ci sembra vero, non può essere vero», disse il più giovane, «l'ultima volta che l'abbiamo visto stava benissimo, era in gran forma, come sempre. Ci aveva parlato dei nuovi lavori che voleva fare nell'orto».  
«E della luna giusta per seminare una nuova varietà di insalata», precisò il più grande.
«Ma come è potuto annegare? E dove?», chiese il più piccolo.  
«Non sappiamo se è veramente annegato», disse il Marengo, «potrebbe anche essere stato assassinato o, purtroppo…».
«Cosa?!», domandò con grande enfasi il più giovane dei Greppi, «vorrete mica farci credere che si sia…».
«C'era un biglietto sulla sua scrivania», disse il Boffalora, «che lascia intuire il peggio».
I due Greppi si mostrarono molto costernati, al punto che i buraghesi e il Bosi ebbero difficoltà a pensare che stessero barando. Capivano che ci fosse qualcosa di strano nelle loro parole, ma il modo in cui si posero, era perfettamente in linea con il sentimento che avrebbero potuto patire persone disperate per la triste sorte di un caro.
«Nulla che lo preoccupava, secondo voi?», chiese il Marengo.
«Niente di niente», disse il più giovane dei Greppi, «ci offriva sempre un bicchiere di vino. Era cordiale con tutti, figuriamoci con due vecchi amici come noi».
La confessione dei due Greppi non lasciò adito a supposizioni che potessero metterli davvero in imbarazzo. Non poterono quindi insistere oltre l'evidenza, oltre l'innocenza. Gli improvvisati investigatori dovettero mollare il colpo. Anche se, in cuor suo, il Marengo fu tutt'altro che convinto. Trovò, infatti, la ricostruzione rilasciata dai due fratelli in completa antitesi a quella fornita dalla perpetua e da Felice. La donna, in particolare, aveva rivelato che i toni delle conversazioni fra il prete e i Greppi erano stati tutt'altro che amichevoli, mentre i due fratelli insistevano nel dire che fra loro correva ottimo sangue. Qualcosa non tornava. Era evidente. Qualcuno mentiva, e non c'era ragione di credere che il falso fosse appannaggio di una povera donna al servizio della chiesa.
Insomma, fu impossibile dire, per il momento, in che modo potessero essere legati alla morte di don Filippo, ma di sicuro c'era sotto del marciume. Il Marengo ne fu sicuro.
Lui e il Bosi si scambiarono un'occhiata di complicità, entrambi convinti che non ci fosse granché da aggiungere.
«Bene allora, possiamo anche levare il disturbo», disse il Brambillasca, perso in una dimensione tutta sua, ma in qualche modo ancora vigile e attento.
«Non c'è altro da dire, in effetti», aggiunse il Marengo.
Il congedo definitivo avvenne a opera del primo cittadino di Vimercate, che con grande diplomazia si liberò della morsa dei Greppi, portando il discorso da tutt'altra parte.
«Allora scusate ancora la nostra intromissione. Ma ricordatevi di passare dal comune per sistemare gli aspetti burocratici legati alla vostra permanenza in paese. Sennò fioccano le sovvenzioni».
«Verremo sindaco a fare tutto ciò che ci tocca, anche in onore del nostro amato avo  che fra queste mura ha vissuto gran parte della sua vita».
Si guardarono con sufficienza e un po’ di amaro in bocca.
«Bene, buona giornata a voi», disse il Bosi.
«A voi», dissero in coro i Greppi, senza scomodarsi.
Felice li guardò con la coda dell'occhio prima di superare la soglia dell'uscio: sul loro volto era disegnato un orribile ghigno.

57.

10 agosto

Il Marengo non ebbe una notte facile, e dovette fare i conti con miriadi di pensieri che si accavallarono senza sosta nella sua mente. Pensieri e incubi, sogni e risvegli con l'acqua alla gola. Fu addirittura peggio delle ore trascorse all'indomani della scoperta della scomparsa del prete. Troppe cose non gli tornavano e più ci pensava, più andava in tilt. Il punto è che c'erano tutti i presupposti per poter partire seriamente con le indagini, ma non sapeva da che parte iniziare. Mancava un vero appiglio, qualcosa che potesse dargli il la per arrivare a svelare tutto ciò che si nascondeva dietro la misteriosa morte di don Filippo. Lo trovò riflettendo sul fatto che nessuno, a parte il Giannino, aveva ancora rovistato la casa del curato; c'erano magari tracce, indizi, indicazioni, nascoste chissà dove, in grado di chiarire molti passaggi ancora oscuri. Di fatto, era stato trovato un biglietto, ma era troppo poco: sembrava dire tutto, ma in realtà, non diceva un bel niente. Il Giannino, il sindaco, la perpetua… chi di loro s'era dato da fare in tal senso? Nessuno. Se ne rese conto e capì che anche questa incombenza l'avrebbe dovuta assolvere lui, prima che fosse troppo tardi.  
Si alzò a bere un bicchiere d'acqua, gironzolò per qualche minuto per la casa come uno zombie, e quando tornò a coricarsi si vide costretto a trovare un modo per sollevare la schiena, perché gli mancava il respiro. Si sentì un rottame e per un attimo maledì la vecchiaia imminente. Le sei del mattino, comunque, non tardarono ad arrivare, e fu preciso il gallo del cortile vicino a segnalare l'inizio di un nuovo giorno. Con le prime luci dell'alba tornò a farsi bello, e accolse con piacere la sensazione di sentirsi tutto sommato in forze, benché non avesse chiuso occhio tutta notte. Compì una rapida colazione, ingurgitando un paio di uova raccolte il giorno prima, e si mise in strada per tornare a bussare alla casa della perpetua.
Lungo il tragitto si lasciò cullare dalla poesia dell'estate, con il sole ancora un po’ addormentato sulla linea dell'orizzonte, e tanti uccelli che chissà da quante ore già inneggiavano alla nuova giornata. Incontrò degli uomini che stavano raggiungendo i campi. Domenico Carimati si muoveva con passo sostenuto e la testa china, avendo litigato ancora una volta con la donna per via di un mestolo che s'era rotto proprio quando serviva a portare in tavola una pietanza preparata con grande cura. Il Marengo, non volendo rischiare di dover intavolare una discussione senza fine, si limitò a salutarlo con un cenno del capo e tirò dritto per la sua strada.
In fondo alla via la curia riposava come in un incantesimo, perduta in una solenne eternità. Sperò che la perpetua non fosse ancora rintronata come il giorno dopo il suo ritorno in paese, beatamente intenta a dormire come se fosse stata notte fonda; ma fu risoluto nel convincersi che, in tal caso, l'avrebbe tirata giù di forza dal letto, a costo di strapparle di dosso la vestaglia. In realtà, non accadde nulla di tutto ciò, perché non fece in tempo a terminare con le sue infinite e moribonde elucubrazioni, che la perpetua spalancò le persiane della cucina trovandoselo di fronte.
«Ancora lei?».
«Fino a prova contraria è stata lei a venirmi a trovare l'ultima volta», fu pronto a ribattere il Marengo.
La donna gonfiò le gote imbarazzata, guardandosi di nuovo intorno per sincerarsi che nessuno li stesse osservando, col pericolo di mettere in giro strane e inopportune voci. 
«Se ha bisogno di me venga dentro, si muova, non diamo scandalo».

58.

«Cosa c'è ancora?».
«Mi dovrebbe dare una mano».
«In che senso?».
«Vorrei dare un'occhiata alle cose del prete».
La perpetua s'inalberò.
«Volete venire a frugare in casa mia? Se lo scordi!».
Il Marengo cercò il modo più adatto per calmare la signora.
«Perpetua, la prego, non voglio farmi gli affari suoi. Cerco solo di fare luce su quest'assurda situazione… qui potremmo trovare importanti informazioni».
«Qui non c'è niente. Niente che valga la pena cercare. Ne sono più che sicura».
Il Marengo chiese qualcosa da bere, pensando in questo modo di alleggerire la cappa di angoscia che ammantava la stanza principale della curia. Si guardò intorno per vedere se riusciva a catturare particolari che gli erano sfuggiti, ma non trovò nulla di strano se non un paio di calzette appese vicino al camino, che probabilmente la perpetua aveva appena lavato. In ogni caso, a lui interessava ben altro. Il Marengo voleva infatti giungere alla camera di don Filippo, che non aveva mai visitato; tenuto conto del fatto che, normalmente, è proprio vicino ai giacigli che ci ospitano per la notte, che si tende a nascondere e proteggere i propri segreti.  
«Ecco, beva quanto le pare, ma poi la prego di lasciarmi in pace», disse la perpetua porgendogli un bicchiere d'acqua, acida come un'insalata russa andata a male.
«La ringrazio».
«Io chiedo solo alla Maria Vergine di essere lasciata in pace».
«Ma nessuno vuole disturbarla».
«Quello che sapevo sono venuto a dirglielo. Ora basta».
«Ma se lei mi lascia…».  
«Non mi costringa a essere villana».
Il Marengo si trovò solo e sconsolato a lottare contro un muro di emozioni incontrollabili. Non seppe più come procedere nelle indagini, se non usando la forza. Ma il solo pensiero lo sgomentò. Era un uomo di sani principi e le mani addosso a una donna non le avrebbe messe mai, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Gli venne però un'idea. Conosceva uno dei punti deboli della perpetua, e in quella direzione provò a muoversi per vedere se riusciva a ottenere qualche informazione in più.
«Perpetua», principiò, «ricorda cosa disse don Filippo il giorno in cui la tromba d'aria devastò la cappelletta di San Martino?».
«Ora non mi viene in mente nulla».
«Disse che avrebbe fatto di tutto per aggiustarla e che quello era uno dei suoi grandi sogni».
«Sì, però la chiesa non ha mai avuto i soldi per farlo, lo sa bene, e alla fine sappiamo tutti com'è andata; ancora adesso è là che crolla».  
«Certo. Ma io le dico che insieme potremmo esaudire questo suo desiderio, se proponiamo al paese una bella colletta in memoria di don Filippo».
La perpetua era una donna sensibile e l'ipotesi di poter esaudire un vecchio sogno del curato illuminò il suo volto crucciato e perplesso.  
«Sarebbe davvero una bella idea. Se riuscissimo a sistemarla don Filippo ci benedirà dal cielo».
«Allora, mi creda», disse il Marengo, «quando questa situazione sarà risolta procederemo con questo progetto. Ma adesso, la prego, perpetua, mi faccia ispezionare la casa… Non c'è più tempo da perdere. Ogni ora che passa potrebbe allontanarci sempre più dall'assassino».
Sentendo la parola assassino la perpetua sobbalzò.
«Faccia quel che vuole», disse in tono mogio, puntando gli occhi al pavimento come una cagna bastonata, «faccia quel che vuole e mi lasci stare una volta per tutte».
Il Marengo strizzò le labbra e senza farselo ripetere due volte, calmo e pacato, cominciò a salire i gradini che conducevano al ricovero di don Filippo; pronto per far breccia nell'ultimo eremo del prete.

59.

Stupì se stesso, quando con uno sguardo rapido salutò il grosso crocefisso che troneggiava in cima alla scalinata, mentre lentamente scostava la porta della camera del prete. Lo stridore dei cardini gli procurò un leggero brivido, alimentato dal pensiero dell'incontro avuto con il Giannino e l'Ambrogino, il giorno prima del funerale; fortuito, ma angosciante.
C'era un buon profumo di legno nella stanza del curato, ma si capiva che era già da parecchie ore che le finestre non venivano aperte. Ci pensò lui, dunque, a farlo, non tanto per rinfrescare l'aria, quanto per avere maggiore luce a disposizione: per cercare bene, occorreva illuminare a giorno il buco in cui don Filippo prendeva sonno e condensava tutti i suoi pensieri.
«Marengo», gridò dalla strada l'Ambrogino, vedendolo spalancare le persiane.
«Che c'è?», chiese l'uomo, infastidito dal vocio del ragazzo.  
Ma la risposta non arrivò: il giovane era già al suo cospetto, come una sentinella pronta all'assalto, prima che potesse iniziare a cercare tracce della vita segreta del prete.   
«Non mi sembra di averti detto che avevo bisogno del tuo aiuto».
«Marengo, mi perdoni», disse il ragazzo eccitato, «ma ormai non riesco più farmi da parte. Ho seguito il caso fin dall'inizio e… poi, sa bene, quattro occhi sono meglio di due».
Il saggio del paese non replicò, tutto sommato contento di ritrovarselo al fianco.
«E la perpetua?».
«L'ho schivata per un pelo».
Il Marengo inarcò le sopracciglia e gonfiò le guance in segno di resa definitiva.  
«Va bene, allora, diamoci da fare. Tu dai un'occhiata alla vetrinetta; io passo al setaccio la scrivania».
«D'accordo, al lavoro», esclamò l'Ambrogino felice come una Pasqua.
Cominciarono a rovistare fra libri, messali e quadernetti privati del curato, su cui annotava soprattutto le entrate e le uscite della curia. Molti testi erano così rovinati da sembrare più simili a pezzi di antiquariato, che a veri e propri tomi aggiornati da consultare tutti i dì.
«Con tutta la polvere che c'è, mi sa che li teneva qui di bellezza… non trova?», ironizzò l'Ambrogino.
«Non fare domande inutili, e continua a cercare. Se anche oggi non troviamo nulla, la vedo grigia».
Andarono avanti per mezz'ora spulciando fogli, foglietti, pagine di giornali, ogni minimo dettaglio che potesse nascondere qualcosa di compromettente, ma non trovarono nulla. Si guardarono affranti, temendo di non avere più spazi per poter risalire a qualche valido ed esplicativo particolare.
«Maledizione», imprecò il Marengo.
Si sedettero smarriti ed esausti sul piccolo divanetto che sorgeva ai piedi del letto. Aveva le sponde divorate dai tarli, e una gamba un po’ più corta dell'altra. Traballava, ma spesso don Filippo se ne serviva per meditare. E proprio mentre stavano per gettare la spugna, il Marengo ebbe un'illuminazione.
«Se tu dovessi nascondere qualcosa di prezioso… dove la metteresti?», chiese al ragazzo.
L'Ambrogino sorrise, divertito dall'inaspettata domanda.
«Non ne ho la più pallida idea».
«Pensaci».
«Forse sotto al letto».
«Oppure?».
«In un angolo del muro?».
Così anche il ragazzo finì per posare gli occhi su una specie di monetiere seminascosto da un vetusto e orripilante reliquario, ereditato dalla nonna materna del curato.  
«Giusto», disse.
Si alzarono in preda all'agitazione e ispezionarono l'oggetto, facendolo traballare, muovendolo su e giù e picchiettandolo come si fa con un otre per capire se è pieno o meno. Dava uno strano rumore, la prova che conteneva qualcosa… di solido. Allorché si misero in cerca della chiave.  
«Proviamo sotto i mobili, nell'armadio, dietro ai comodini», propose il Marengo.
Le tentarono tutte, ma non saltò fuori nulla.
«Eccola», esclamò, all'improvviso, l'Ambrogino.
«Dov'era?».
Il ragazzo indicò al Marengo la minuscola rientranza che si intravedeva ai piedi del letto e che aveva raggiunto per caso inciampando in una minuscola sporgenza della parete.
«Ottimo. Dai qua».
Il monetiere si aprì senza problemi e al suo interno trovarono qualche spicciolo e due fogli scritti. Era una calligrafia piuttosto infantile, di una persona che non doveva avere molta dimestichezza con il pennino. I loro cuori sbatacchiarono come i tamburi di una marcia funebre.
«Vediamo cosa c'è scritto», disse ansimante l'Ambrogino.
Il Marengo resse con la mano tremante il foglio con il maggior numero di parole.
Non ci mise molto a capire che si trattava di una lettera d'amore e rendendosene conto fu sopraffatto dall'ansia. Scivolò di colpo in fondo allo scritto per vedere se ci fosse una firma. La lessero insieme: Agnese Bucchi.
«La figlia di Carlo il panettiere», disse il giovane, sbigottendo.
«La figlia di Carlo Bucchi», mormorò incredulo il Marengo.

60.

Tornarono a sedersi, con la stessa passione di chi ha appena finito di combattere la più dura battaglia della vita, con le mani insanguinate e la mente bruciata dal fuoco nemico. Ma il Marengo aveva già capito tutto e sul suo volto calò una maschera di dolore. 
«Vuoi leggere tu che vedi meglio di me?».
L'Ambrogino accolse la richiesta del Marengo, prese la lettera e cominciò a tartagliare una serie di frasi qua e là sconclusionate - e con alcuni errori - che non lasciarono adito ai fraintendimenti.
«Come dirvelo, come dirvelo, don Filippo, che ormai il mio cuore è tutto per voi. Per voi che aveva riempito il mio cuore di amore e di bontà. Don Filippo, non posso mai scordare i nostri incontri nel bosco e tutto quel che ci è stato fra noi e i nostri bei cuori del Celo. Io sono appena giovane ma quando donna divengo voglio stare per sempre con lei e la sua bontà. Don Filippo, lei mi ha liberato l'anima dai miei egoismi e mi hai fatto capire cosa significa davvero amare una pesrona. Un amore diverso da quello provato per mio fratello o mia mamma. Un amore più purissimo. Lo so che tra noi è difficile e che lei buon curato non può fare quello che vuole o vuole fare con me. Ma la provvidenza penserà anche a questo e un giorno noi possiamo stare insieme per sempre. Vero? Vero don Filippo che anche voi la pensate come me? Io faccio tanta fatica a scrivere questa lettera perché il mio cuore gronda di tristezza, al pensiero che non posso vederla sempre, per ora, per ora, perché siamo ancora lontani nel tempo, per ora, poi domani tutto può cambiare. Vero don Filippo? Non c'è da preoccuparsi mamma non sa nulla e neanche la mia famiglia, possiamo continuare felici la nostra storia, sperando in futuro meglio per noi. Con il mio amore, con tutto il mio amore, la saluto con riverenza e la imploro di vederci come sempre dove sempre ci vediamo».
Il Marengo e l'Ambrogino rimasero senza parole, calati in un mondo di spettri che vorticavano nell'aria senza trovare pace; gli occhi sgranati, le bocche impastate da una salsedine immaginaria che divorava anche il pensiero. Anche il respiro non correva più per la sua strada e faceva fatica a immagazzinare l'ossigeno a sufficienza per alimentare dei neuroni sconquassati da un'idea folle, da una tresca amorosa senza precedenti. Non potevano, non riuscivano a capacitarsi di quel che avevano appena letto, qualcosa di veramente impressionante che avrebbe messo in subbuglio lo stesso padreterno. Don Filippo e l'Agnese avevano una storia, una storia, a quanto pare, serissima, che, all'insaputa del mondo intero, andava avanti da chissà quanto tempo. C'era un problema insormontabile: don Filippo era un prete, con la tunica, con tutti i crismi, e l'Agnese una ragazzetta di 16 anni, a malapena consapevole di quel che la vita è in grado di serbare.
«Che facciamo Marengo?», domandò l'Ambrogino, in apprensione,.
Il Marengo precipitò dal nido più alto della sequoia immaginaria posta sopra la sua testa e, atterrando, gli riuscì di dire una cosa soltanto:
«Ambrogino, stammi bene a  sentire. Mi devi giurare che non dici nulla di quello che abbiamo scoperto, qui, oggi. Hai capito?».
«Sì, ho capito», disse l'Ambrogino, sempre più in crisi.
«No, non basta dirmi che hai capito, me lo devi giurare. Ti rendi conto di quello che è saltato fuori? Da qui non deve volare una mosca. E' qualcosa di assolutamente… pazzesco».
Avrebbe dovuto dire "orribile", ma comprese di non avere abbastanza numeri per poter esprimersi con un aggettivo così dequalificante. Certo, una storia d'amore fra un prete e una sedicenne, aveva tutte le carte in regola per sollevare uno scandalo d'immani proporzioni, tuttavia si rese conto che non toccasse a lui giudicare. Per queste cose c'era, forse, un creatore.
«Lo giuro, lo giuro, Marengo, te lo giuro», disse l'Ambrogino con tutto il fiato che aveva in corpo.

«Bene ragazzo, bene, adesso possiamo andare».

Nessun commento:

Posta un commento