venerdì 24 gennaio 2014

Ferragosto # 6


5 agosto

26.

«Dormito niente», disse la Cesira, l'indomani, sulla porta di casa.
«Anch'io non ho chiuso occhio», ribatté la vicina, Clelia Ponzoni.
«Con una tragedia del genere c'è ben poco da dormire».
Clelia scosse malinconicamente la testa, pensando che nella sua vita non avesse mai assistito a un fatto del genere; ma che fosse comunque necessario razionalizzare l'accaduto per non farsi travolgere dalle emozioni.
«Non dobbiamo farci prendere dallo sconforto», mugugnò, «meglio reagire».
«Adesso torno in curia e vedo di sistemare le ultime cose per la veglia di stasera. Cos'altro possiamo fare?».
«Dio ti benedica, Cesira, se non ci fossi tu».
La Cesira sbuffò, convinta della sua insostituibilità.
«Lo dico sempre anch'io. E ora che non c'è più don Filippo, chissà…».
«La Provvidenza, ci penserà la Provvidenza».
«La Provvidenza non può fare tutto».
Passò la Marta Bucchi, la zitella che abitava di fianco alla casa del Marengo, verso cascina Rossino; fra le più strane donne del paese, con la solita capigliatura da pazza e i vestiti alla rinfusa. Condivideva il letto con un paio di gatti e un cane e i suoi modi strambi avevano fornito fin troppo spesso materiale di prim'ordine per il pettegolezzo paesano. Nessuno aveva mai fatto visita agli interni della sua dimora e in molti pensavano che nascondesse qualcosa di assurdo, proibito e pericoloso.
Era giunta in paese da vari decenni, ma il suo passato era tutt'altro che limpido. Anche il suo accento tradiva origini lontane che mal s'accordavano con il suo cognome tipicamente brianzolo. Giravano voci che anni addietro avesse avuto a che fare con loschi individui al servizio della carboneria. Lei stessa, in qualche suo delirio onnisciente, aveva provato a tirare in ballo figure come Pietro Maroncelli e Silvio Pellico; ma in senso negativo. Aveva provato a gridare che avessero fatto bene a rinchiuderli allo Spielberg. L'avevano sentita tutti, una calda sera d'estate di qualche anno prima.
Non stupisce che i più giovani, compresi il Giannino e l'Ambrogino, la chiamassero "la strega". Una sera s'erano appostati nei pressi della sua abitazione e, verso mezzanotte, l'avevano vista trafficare con oggetti strampalati e sconosciuti, tipo una sfera di vetro circondata da piccole candele. Il Marengo, dopo aver sentito il racconto dei ragazzi, li aveva ricondotti a culti pagani.  
«Buongiorno signore».
«Buongiorno», rispose la Clelia, con aria sostenuta.  
«Dormito bene stanotte?».
La Cesira e la Clelia si guardarono frastornate.
«Come facciamo ad avere dormito bene con quello che è successo?».
«Perché, cos'è successo?».
Le due donne allibite fecero spallacce, rassegnate all'ennesima bizzarria della Bucchi. Si domandarono in cuor loro se, davvero, potesse esserci ancora in giro per il paese qualcuno che non sapesse del cataclisma che si era appena abbattuto su Burago.
«Come, cos'è succ…».
La Cesira non finì la frase.
«Ah, don Filippo, mamma mia… eh sì, è stata proprio una tragedia. Povero don Filippo. E pensare che ci avevo appena parlato, pochi giorni prima, il giorno prima, forse…».
Si espresse con uno sguardo ambiguo, dando l'impressione di non rendersi realmente conto di quel che dicesse, rafforzando l'ipotesi che vivesse in un mondo tutto suo, popolato da chissà quali discutibili creature.
La Clelia la compatì con un turpe ghigno, guardandola avviarsi verso casa con il solito passo traballante.
«Vado anch'io», disse la Cesira, ninnando il capo.
Strada facendo, pensò a tutto e niente, essendo troppo agitata per riflettere con successo su qualunque cosa. D'un tratto le sembrò di rivivere la mattina del 3 agosto, quando per prima si rese conto che don Filippo era scomparso. Provò lo stesso vago senso di nausea e la sensazione che non avesse più appigli ai quali aggrapparsi. Abbandonata a se stessa come la foglia d'autunno ingiallita, che al primo alito di vento perde per sempre la sua esuberanza. Sentiva di avere smarrito la propria identità, calata in un silenzio potenzialmente letale. Si sentì vecchia e scoraggiata.   
Cercò sollievo succhiando lo stelo di una pianta di romice, che da bimba masticava come una capretta al suo primo giro fra i campi. Sapeva che in grosse quantità faceva male ai reni, ma nella situazione in cui si trovava, non riuscì a identificare conforto migliore. Percepì un minimo sollievo notando che, di fronte alla casa del prete, c'era già il Giannino, con la faccia tirata.
«Cesira, è appena stato qui un pezzo grosso della curia milanese».
«Cosa stai dicendo?».
«Era un tipo vestito di nero, forse un prete, serissimo. Ha chiesto a un paio di donne, dove fosse la casa del parroco ed è giunto fin qui con un diavolo per capello. C'ero io, per caso, e mi ha lasciato questa, da consegnare agli uomini del villaggio, al sindaco o al Marengo…».
Era una lettera. La Cesira la girò sotto sopra per capire di cosa si trattasse e benché non sapesse leggere perfettamente, capì benissimo il nome del mittente: l'arcivescovo Carlo Maria Romilli.

27.

La aprì senza tentennamenti.
«E' dell'arcivescovo».
La più alta carica religiosa milanese, in città dal 1847, aveva saputo la notizia da Stefano Galimberti, amico del sindaco Boffalora, di passaggio da Vimercate per una serie di affari legati ad alcuni campi in affitto dalle parti di Masate; da tempo inseguiva l'idea di poter allargare i suoi possedimenti terrieri verso la bergamasca, convinto che la mezzadria rappresentasse il futuro.  
«Aiutami a leggere cosa c'è scritto».
Il Giannino strabuzzò gli occhi. Erano poche righe, vergate da una mano sicura e autorevole. In esse l'arcivescovo chiedeva ai paesani di Burago di tenere a bada la lingua, perché in fondo nessuno poteva dire realmente quel che fosse accaduto al povero don Filippo; e certe illazioni non andavano alimentate, mettendo in cattiva evidenza la chiesa. Poi ordinava di procedere con una celebrazione eucaristica a tutti gli effetti, che avrebbe officiato un prete della zona, opportunamente scelto dalla diocesi milanese. Concludeva con un saluto e una benedizione.
«Santa Maria Vergine», esclamò la Cesira.
«Allora anche l'arcivescovo ha saputo».
Passò Modesto Galli con un rastrello sulle spalle e il solito bruciore allo stomaco che lo tormentava da diverse settimane.
«Si è saputo qualcos'altro?».
«E' arrivata una lettera dall'arcivescovo», disse il Giannino.
Modesto arrestò il suo cammino, stupito dalle parole del giovane.
«Dell'arcivescovo?».
«Leggi qui».
Ma Modesto non sapeva leggere, non essendo mai andato a scuola.
«Dimmi tu cosa c'è scritto».
Il Giannino lesse di nuovo il contenuto della missiva e dondolò il capo, marcando la solennità del momento.
«Allora si è proprio ammazzato», disse Modesto.
«Su, su», blaterò la Cesira, «non stiamo qui a raccontarcela adesso. Avete visto cos'ha scritto il Romilli. Non parliamo a vanvera e teniamo al guinzaglio la lingua. Ormai quel che è successo è successo, e nemmeno il padreterno potrà cambiare le cose».
«Giannino, cosa succede?».
Era la Stella Magnaghi che, spuntata dal nulla, stava andando a recuperare un po’ di acqua dal pozzo dei Pangratà, dietro alla casa del parroco. Il ragazzo le spiegò tutto.  
«Oddio. Che dice?».
«Di non spargere la voce. Non vuole fare sapere in giro quel che è accaduto a don Filippo».
La Stella corrucciò la fronte, incapace di esprimere un'opinione, per una faccenda che giudicò troppo grande e sofisticata per la sua piccola mente provinciale. Fino a quel momento la sua vita non aveva avuto altri scopi se non quello di assicurare l'acqua e il mangime ai polli e ai tacchini della famiglia. Se ne andò per la sua strada, presto seguita dal Galli e dal Giannino.
Rimase solo la Cesira che, facendosi coraggio, varcò l'uscio della casa del parroco per vegliare il cadavere e sistemare le ultime cose in attesa della celebrazione prevista per la sera. Lo trovò peggio del giorno prima, ormai appannaggio di un destino impossibile da decifrare per un comune mortale. I vestiti gli davano un certo risalto, ma il colorito del volto e l'espressione erano davvero spaventevoli. Spalancò le finestre terrorizzata dall'idea che il fantasma del prete potesse aggirarsi per la stanza e prendersi gioco di lei.  

28.

Prima delle otto, col cielo terso e la solita profumatissima atmosfera campagnola, gran parte dei buraghesi cominciò a sfilare di fronte alla casa del pievano. L'aria sommessa, il passo mogio, la consapevolezza che mai prima d'ora si fosse verificato un fatto tanto macabro in paese, si leggeva nello sguardo di chiunque; compresi i più giovani, che avevano rinunciato a qualunque ludica velleità. All'ora della veglia c'erano tutti tranne Marta Bucchi, ma la sua assenza non stupì nessuno.
«Starà complottando con qualche altra strega», mormorò cinicamente Luciano Varisco.
Pinuccio Villa, a lui vicino, annuì corrucciando la fronte in segno di rassegnazione.
Venne a officiare la cerimonia don Giuliano, il prete di Cavenago, molto amico di don Filippo. Avevano fatto anche qualche anno di seminario insieme. E spesso si ritrovavano per celebrare la messa alla chiesetta di Santa Maria al Campo, piccolo e antico edificio religioso sul confine con Cambiago. Prima di iniziare la veglia si raccolse ai piedi del fratello salito al cielo e pianse in silenzio, pronunciando qualche enigmatica frase in latino. La Cesira gli chiese se aveva cenato e se desiderava qualcosa per "tenere su il cuore".
«Sono a posto, grazie».
La guardò con l'aria disfatta.
«Pensiamo al nostro don Filippo».
Si alzò e prese a recitare il rosario, fra i singhiozzi e i sussulti dei presenti. Le donne indossavano l'abito più nero che avevano e un velo leggero calava sui loro occhi privi di speranza; le più pie erano riuscite a ritagliarsi un posto d'onore ai piedi del feretro e ululavano al cielo la loro pena, guidati dal verboso incedere di don Giuliano.
Gli uomini, in mano il cappello, uno di fianco all'altro, accompagnavano con morigeratezza la liturgia, stanchi per la pesante giornata che avevano sulle spalle, ma felici di rendere omaggio al prete trovato morto. Luigi Brambilla e Luciano Brioschi a fatica riuscivano a tenere gli occhi aperti e non avrebbero desiderato altro che sdraiarsi, dopo aver tracannato un bel bicchiere di grappa.
Dalle parti dell'ingresso laterale della chiesa c'era l'Ambrogino. Sussurrava l'Ave Maria, quasi avesse paura di far sentire troppo la sua voce. All''improvviso percepì la sensazione di essere osservato. Non si sbagliava. Era la Lina, che non aveva ancora notato, a pochi metri di distanza, sigillata nel raccoglimento spirituale di mamma e papà; candida in volto, con gli abiti impolverati e la solita catenella che gli avevano regalato i nonni in occasione della Cresima, la trovò idilliaca come sempre. La ragazza si accorse dello sguardo contraccambiato e abbassò la testa, arrossì, ricordando divertita lo scandalo che avevano sollevato imboscandosi tempo addietro lungo le rive del laghetto.
L'Ambrogino fu felice di sentirla tanto vicina, ma trattenne la contentezza disserrando ridicolamente le labbra. Non poté, però, fare a meno di soffocare lo stupore, quando l'uomo che aveva di fronte, Palmiro Sironi, con qualche venerdì in meno, si lasciò scappare un peto feroce che rumoreggiò per tutta la chiesa, troppo tardi redarguito dall'anziana madre con uno scappellotto sulla nuca.
«Palmiro sei tutti noi», blaterò alle sue spalle Calimero Biffi, punzecchiando l'Ambrogino sulla schiena.  
Fu difficile per entrambi non scoppiare a ridere come bimbi all'arrivo della Befana; ma l'occhiata austera di Mario Porta riportò in men che non si dica l'ordine fra i fedeli.
La veglia si risolse in un'ora. I buraghesi, alla fine, in religioso silenzio, così come erano arrivati, fecero ritorno alle loro case. La Lina e l'Ambrogino si salutarono con un sorriso pieno di sentimento e la convinzione di poter presto tornare a parlare del loro amore.

29.

Rimasero al cospetto del prete scomparso il Marengo e il sindaco, assonnati e avvinti da una tragedia che ancora non riuscivano a mettere a fuoco.   
«Certo, è tutto così strano», commentò il Boffalora.
«Ancora non mi raccapezzo», controbatté il Marengo.
«Era con me l'altro giorno, mi sembrava il don Filippo di sempre. Abbiamo parlato dei prossimi lavori da fare in chiesa, del tetto che perde e delle fondamenta che cominciano ad accusare il peso degli anni».
Un soffio di aria fresca giunse dalla finestra principale, dove giaceva il cadavere del curato, colpendo sulla fronte i due paesani, che godettero dell'improvvisa ventata di ossigeno. Forse stava, finalmente, cambiando il tempo.  
«Sarà il caso di chiudere», disse il Boffalora, «non vorrei che volasse via qualcosa».
«Aspetta, aspetta un momento», replicò il Marengo, con tono sostenuto.
Dalle imposte filtrò un raggio di luna più potente degli altri che finì per rischiarare una parte del capo della salma, rimasta fino a quel momento parzialmente adombrata dalla chioma, non ancora sistemata per l'estremo viaggio. Il Marengo abbandonò la sedia e in un paio di balzi raggiunse il prete, per scrutarlo da vicino, come era solito fare con le monete più antiche che gli capivano fra le mani e per le quali nutriva una passione smodata. Gli girò intorno tre o quattro volte, mentre il sindaco lo seguiva con aria stupita.
«Cosa stai combinando?».
Il Marengo non rispose, preso, all'improvviso, da un dubbio colossale; che si materializzò del tutto, quando si incaponì sulla parte alta della testa di don Filippo, scoprendo qualcosa che lo lasciò basito.
«Raimondo…».
Il sindaco lo fissò perplesso, trovando il comportamento del compaesano ridicolo, ma preoccupante.
«Vieni qui un attimo».
Boffalora fece spallucce, ma soddisfò il desiderio del Marengo, portandosi senza replicare a due passi dal feretro.
«Qui».
«Cosa?».
«Qui dove la luna fa luce, avvicinati, prova guardare anche tu e… non fare quella faccia».
Il Marengo puntò l'indice su una specie di gibollo.
«E' viola», disse il Boffalora, «non dovrebbe stupire con tutto il tempo che ha passato in acqua».
«Non dico il colore. Guardalo dalla mia posizione, di traverso, non ti sembra…».
Anche Boffalora sbigottì.
«Diamine, è un bernoccolo».
«Lo vedi anche tu allora, e non ti dice niente?».
Il sindaco contemplò l'amico incuriosito, non capendo dove volesse arrivare. Il fatto che ci fosse un evidente bitorzolo nei pressi della tempia destra, poteva essere tanto interessante, quanto superfluo. Ma il Marengo non fu dello stesso avviso.
«C'è qualcosa che non va».
«Vorresti dire che…».
«Vorrei dire che uno che muore annegato non si trova anche un gibollo di queste dimensioni sul cranio. L'acqua attutisce i colpi, e non ha senso credere che possa aver sbattuto violentemente la testa lasciandosi andare, di sua volontà, nelle acque dello stagno».
Zittirono entrambi, pervasi da un terribile sospetto, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di palesarlo. Quel bernoccolo suggeriva che don Filippo potesse essere stato colpito da un oggetto contundente, prima di finire divorato dalla palude. In tal caso, il quadro delle indagini sarebbe potuto cambiare completamente. Significava, forse, dovere ripartire daccapo, senza considerare solo l'ipotesi che il prete potesse essersi ammazzato; qualunque fosse il reale motivo della morte del curato, di certo la faccenda appariva ora molto più complessa di quella considerata fin lì.  

30.

«E se l'avesse sbattuta contro un sasso del fondale?».
Il Marengo non credé all'amico.
«Impossibile. Il fondale dello stagno è melmoso, non c'è traccia di sassi. Ieri buona parte di noi è entrata per recuperare il corpo di don Filippo e ci siamo ben resi conto della poltiglia che lo caratterizza.  Pinuccio, per poco, non faceva una brutta fine, ancora mezzo metro e addio».
Il sindaco lo guardò conturbato.  
«Stava annegando. E' un miracolo che si sia salvato», affermò, chiaramente, il Marengo.
«Eppure il biglietto che ha trovato il Giannino parla chiaro».
Il Marengo zittì.
«Non ci sono dubbi che l'abbia lasciato don Filippo e c'era chiaramente scritto che…».
«So benissimo quel che c'era scritto. Ma qui troppe cose cominciano a non tornare. Insisto. Questo bernoccolo non mi convince. C'è sotto dell'altro».
Tentarono di osservare meglio quella bizzarria epidermica, constatando che solo ora iniziava a rendersi evidente, come se la botta non avesse ancora avuto il tempo necessario per svelarsi come avrebbe dovuto, forse contrastata dal refrigerio delle acque.
«Proviamo con la candela», disse Boffalora, impugnando il cero più potente che brillava nell'oscurità della stanza più grande della curia.
«Diamine», esclamò il Marengo, «guarda qui».
Anche il sindaco del paese si accorse che di fianco al gibollo, praticamente nascosto da una fulgida ciocca di capelli, era riscontrabile una profonda ferita.
«E' un taglio bell'è buono, non c'è che dire. E non è certo il segno di una caduta, ma il risultato di un colpo inferto da qualche arma».
«O da un bastone».
Il Marengo notò un taglio lungo circa tre centimetri, dal quale, verosimilmente, era fuoriuscito parecchio sangue.
«Don Filippo è stato pestato da qualcuno. Non può essersi tirato da solo una randellata del genere. E il gibollo potrebbe essere stato il colpo di grazia».
Il Boffalora rimase sulla sue. La disanima del Marengo poteva essere del tutto plausibile, tuttavia non se la sentì di affermare che potesse sicuramente essere andata secondo quest'ultima descrizione. Nell'enfasi che ci mise il Marengo, trovò anche la sensazione che l'amico volesse a tutti i costi cercare un pretesto per convincere se stesso che la morte del prete non potesse essere dipesa da una sua volontà. E allora da chi?
«Scusa Marengo, ma se, ammettiamo, don Filippo non si è ammazzato, chi avrebbe potuto desiderare la sua morte?».
Il Marengo si allontanò dal corpo del reverendo e tornò a sedere con la mente in subbuglio.
«Non so, non so davvero, a questo punto mi sembra tutto una pazzia».
«E se fosse accidentalmente caduto nello stagno?».
«Ma le botte prese non possono alimentare questa tesi».
«Magari le due cose non hanno un legame fra loro. Don Filippo potrebbe essersi fatto male e poi essere caduto nello stagno».
Si guardarono rendendosi conto che, per quest'ultima ipotesi, le percentuali, oggettivamente, rasentavano lo zero. 
«Sarebbe il colmo dei colmi. No, non è percorribile questa strada. Don Filippo, supponiamo, dovrebbe avere pestato la testa contro qualcosa, poi essersi beccato una specie di coltellata, praticamente nello stesso punto, e infine essersi diretto allo stagno, dove non va mai, per cadere accidentalmente in acqua».
«Del tutto inverosimile».
«Eh già, non ci sono dubbi».

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