21.
Giorgio Galbusera era un tipo
piuttosto silenzioso. Se ne stava sempre sulle sue. Viveva con la madre e non
si era mai sposato. Ormai aveva passato l’età per convolare a nozze e il suo
quieto vivere si era in pratica trasformato in un apatico trascinarsi da un posto
all’altro senza alcuna cognizione. Disertava perfino l’osteria, presa d’assalto
dai buraghesi la sera dopo il lavoro o ancor più spesso durante il fine
settimana. A volte la sua presenza era così mesta da passare inosservata, come
in quest’ultimo frangente, in cui era stato invitato a seguire il Marengo a
caccia del prete perduto. Non gli fu facile decidere di avvicinarsi al cadavere
di don Filippo, ma volle farlo a tutti i costi per avere qualcosa di
interessante da raccontare alla madre.
Si attendeva l’arrivo del
carretto e i compaesani bighellonavano lungo le rive dello stagno, meditando o
confidando le proprie impressioni a un amico. Era il momento adatto per
compiere qualche passo in più e trovarsi solo innanzi al corpo senza vita del
pievano; l’unico modo, a parer suo, di poter esprimere le proprie emozioni
liberamente, senza correre il rischio di essere visto da qualcuno e mettere in
mostra l'ipersensibilità che lo contraddistingueva.
Notò le mani di don Filippo,
sembravano di cera, e la bocca accartocciata su se stessa, che regalava al
volto un’espressione di terrore; inquadrò i pantaloni del prete, non più pregni
d’acqua, ma completamente rovinati dalla lunga permanenza nello stagno; e...
non gli fu possibile vedere altro perché, a un certo punto, gli si annebbiò la
vista, mentre uno strano formicolio lo sconvolse dai piedi all’ultimo capello
che aveva in testa. In pochi secondi perse il controllo e rovinò su se stesso
come un sacco di patate.
Intravide la scena Ernesto
Ferrari, che trotterellava dall’altra parte dello specchio lacustre, pervaso da
una strana ilarità, in antitesi al sentimento generale che aleggiava sul gruppo
di paesani scombuiati come non mai dall'accaduto. Strabuzzò gli occhi e
cominciò a urlare:
«Giorgio! Giorgio!».
Gli uomini nei paraggi alzarono lo
sguardo in direzione delle grida e videro Ernesto sbracciarsi indicando l'angolo
boscoso in cui era stato recuperato il corpo di don Filippo. Il Marengo che
stava cercando di analizzare la faccenda con Pinuccio e Piero Galbiati, il
fabbro del paese, si mise immediatamente in allerta.
«Cosa sta succedendo?», domandò
con tutta la forza dei suoi possenti polmoni.
«Il Giorgio! Il Giorgio!».
Non servirono altre parole. E insieme
si mossero verso il capezzale del prete, correndo con foga e comprendendo che
le sorprese, evidentemente, non erano ancora finite.
Dante Cereda, che si era
allontanato per ultimo dal pievano, fu il primo a scorgere i due corpi stesi
l’uno di fianco all’altro: quello di don Filippo e quello di Giorgio Galbusera.
Una scena rocambolesca. Piegò la schiena terrorizzato, ma si tranquillizzò
quasi subito accorgendosi che l’amico stava ancora respirando. Nel frattempo
arrivarono tutti gli altri.
«Oddio, che succede?», chiese
Pinuccio.
«Calma, probabilmente è solo svenuto»,
chiarì Dante.
Il Marengo tastò il polso del
malcapitato e verificò che il pericolo di vita era scongiurato.
«Alziamogli le gambe», blaterò.
Dopo pochi minuti, Giorgio emise
un gemito, riprendendo a respirare normalmente e rincuorando i tanti in
apprensione.
«Cosa è successo?».
«Niente di grave», cincischiò
Piero Galbiati, «stai tranquillo, certi spettacoli sono duri per tutti».
22.
Giorgio provò a rialzarsi,
aiutato da un paio di uomini e nonostante un leggero sbandamento, riuscì alla
fine a reggersi con le sue gambe e a rimettersi completamente.
«L’emozione», disse a testa
china, vergognandosi di non essere riuscito come gli altri a reggere lo shock
di vedere don Filippo senza vita, ridotto in quello stato pietoso.
Un paio di amici gli diedero una
pacca sulla spalla, alleviando in qualche modo il suo imbarazzo.
«Sono cose che possono capitare a
tutti», predicò l’Ambrogino, ormai sempre più calato nel ruolo di adulto
responsabile della comunità.
Attendendo il carretto, tentarono
di dare una spiegazione a quell’assurda scoperta, mentre il calore del giorno
toccava il suo apice, anche in quel punto ombreggiato della radura buraghese e
le mosche impazzavano in un vortice indiavolato.
«Evidentemente, il foglietto trovato
nella curia conferma la sua volontà di farla finita», disse Modesto Galli, il
maniscalco.
«Mi sembra sempre più assurdo, ma
a questo punto non vedo altre spiegazioni», sostenne Pinuccio.
Il Marengo li osservò disgustato,
quasi incapace di azzardare un’ipotesi accattivante. Anche per lui non era
possibile che il pievano potesse essersi gettato volontariamente nelle acque
dello stagno, ma davanti a un quadro del genere, non sapeva proprio cos’altro
immaginare.
«Io lo vedevo quasi tutti i
giorni, e non mi aveva mai dato l’impressione di essere preoccupato per
qualcosa, o che stesse patendo qualche particolare dispiacere. Lo conoscevamo
tutti, per lui ogni giorno era una benedizione di Dio, e ce lo dimostrava
quotidianamente con il suo carattere aperto e allegro, sempre disponibile. Non
so cosa possa essergli saltato in mente».
«Magari sono proprio le figure
come don Filippo che nascondono le angosce più profonde, e che per soffocarle
fanno di tutto per sembrare gli uomini più felici delle terra», disse Martino
Vismara, marito della Maria Casiraghi.
«A me pare davvero strano, per
non dire inammissibile», replicò l’Ambrogino. «Sono convinto che don Filippo
fosse proprio così, e che non avesse nulla da nascondere, tantomeno ai suoi
parrocchiani».
«Eppure non sappiamo nulla di
lui», reclamò Luigi Brambilla, «prima, a quanto pare, abitava a Cornaredo,
nessuno di noi può dire come abbia trascorso i suoi primi anni da prete o cosa
gli possa essere capitato in seminario».
«Cosa vai insinuando?», domandò
il Marengo, con vago risentimento, «d’accordo dare spazio alla fantasia, ma cerchiamo
di non farneticare».
«Non sto farneticando, credo sia
giusto valutare ogni ipotesi».
Il Brambilla fu lieto di sapere
che anche Dante la pensava un po’ come lui.
«Tutto è possibile, del resto.
Quand’ero piccolo mia mamma mi raccontava di un prete che diceva messa come
nessun altro, un oratore eccellente, affabile con i parrocchiani, dolce con gli
ultimi, sempre attento alle esigenze della curia. Poi però s’è saputo che gran
parte delle offerte elargite dalla comunità finivano nelle sue tasche per
soddisfare giri loschi. E così, un giorno, s’è ritrovato fuori casa dei
gendarmi che l’hanno portato di filata a San Vittore».
23.
Stavano ancora disquisendo
animatamente quando, dal sentiero che li aveva condotti fin lì, si intravidero
i due uomini che erano corsi a recuperare il carretto. Barcollavano per la
stanchezza e le alte temperature che gli avevano trasformato le fronti nelle
cascate del Serio. Il Marengo corrucciò il volto: in cuor suo, infatti, avrebbe
voluto trovarsi da tutt'altra parte, magari con uno dei suoi bei libri in mano.
E pensare che fino a poche ore prima si stava occupando di uno dei suoi diletti
preferiti: la numismatica.
«Bene, dovremmo riuscire senza
problemi a superare l'argine», disse il Marengo, indicando il punto più scosceso
del terreno, caratterizzato da una minuscola collinetta non più larga di un
metro e mezzo.
Luigi Brambilla e Mario Porta
aiutarono i due compaesani a sollevare il carretto, consentendogli di
guadagnare gli ultimi metri prima di giungere al corpo esanime di don Filippo.
Procedettero come in un corteo o,
meglio ancora, in processione. Davanti, gli uomini con la traballante carrozza
funebre; dietro, tutti gli altri. Qualcuno mormorò una nuova preghiera,
pensando ai miracoli e alla resurrezione di Lazzaro. Perché cose di questo
genere non potevano capitare tutti i giorni, anche nell'Ottocento, in un paese
sperduto come Burago?
Al capezzale del prete si
organizzarono per issare la salma sull'improvvisato calesse senza sballottarla
troppo. Diedero una mano al Marengo e al Brambilla, Martino Vismara e Luciano
Brioschi.
«Forza, voi due da dietro, tirate
su quelle gambe», bofonchiò il Brambilla.
Don Filippo sembrava pesasse un
quintale. Di fatto era una bella stazza, ma nessuno avrebbe immaginato di dover
fare tanta fatica. Pensarono a tutta l'acqua che doveva aver bevuto e che ora
rumoreggiava nei suoi polmoni, come il suono di una lontana risacca. Il suo
corpo era già marmoreo e statuario, pronto per essere consegnato ai bagliori
dell'aldilà. Gli arti parevano dei sassi levigati dalle piogge e dal gelo.
«Fate piano», implorò Pinuccio.
Lo sistemarono alla bell'è
meglio. Era troppo lungo e grosso per riposare comodamente in quei pochi
decimetri quadrati. Luciano Brioschi esibì un'espressione di sufficienza che
Dante colse al volo.
«Con un carretto più grande non arrivavamo
fin qui».
Il Marengo annuì.
La testa del pievano picchiò
contro la sponda anteriore del mezzo, obbligandolo ad assumere una forma del
corpo innaturale, ma non si poté fare altrimenti.
Giorgio Galbusera rabbrividì
inquadrando le gote del prete, gonfie e violacee. E per poco non svenne di
nuovo. Il Vismara gli andò vicino per sincerarsi che andasse tutto bene.
«Grazie, nessun problema», disse
con un filo di voce, «sbrighiamoci a tornare in paese».
Il gruppo si ricompattò intorno
al barroccio della morte. In sei si dettero da fare per superare le irregolari
e tumultuose rive dello stagno. Superarono l'ultimo scoglio e tirarono
all'unanimità un sospiro di sollievo, prima di concedersi una breve pausa. Ora
sarebbe stato tutto in discesa.
I raggi del sole illuminavano per
la prima volta, con tutta la loro potenza, il cadavere di don Filippo, offrendo
un'immagine devastante della realtà, in totale disaccordo con il lindore del
cielo e il cinguettare degli uccelli. Sul volto del prete, alcuni uomini
notarono che usciva del pus e che le orecchie si erano trasformate in pezzetti
di legno ammuffito.
«Spingo io, adesso», disse Dante,
sollecitando la truppa a rimettersi in moto.
Lo guardarono prostrati: benché
ancora forte e prestante, sapevano tutti che fosse troppo vecchio per sostenere
certi sforzi, ma nessuno se la sentì di contraddirlo.
«Sei sicuro?», gli chiese
Pinuccio.
Non gli diede nemmeno risposta e
cominciò a spingere come un toro da monta.
«Gli scoppierà il cuore»,
ironizzò fra sé e sé Luciano Brioschi.
24.
Strada facendo in pochi
ebbero voglia di parlare. Il cadavere di don Filippo, steso sul carretto come
un appestato destinato a una fossa comune, rendeva tutto più complicato e
angoscioso. Continuava a fare caldo, ma era una bellissima giornata d'agosto,
in cui, lavoro a parte, chiunque avrebbe perso volentieri il suo tempo
crogiolandosi ai raggi del sole, pregustandosi una bella partita di carte al
bar o una cenetta coi fiocchi. E invece era tutto così triste e incredibilmente
folle. Di tanto in tanto qualcuno affiancava Dante per dargli una mano, benché
quest'ultimo facesse l'impossibile per mostrare la sua forza, ostentando che
poteva cavarsela benissimo da solo.
Il Marengo e
l'Ambrogino guidavano il gruppo, qualche metro più avanti della salma del
prete. Camminavano con la testa bassa, ognuno perso nei suoi pensieri,
parafrasi di quel che era accaduto poco prima, nel raggiungere il laghetto. Il
Marengo cercava di fare luce sul passato di don Filippo. Voleva capire se ci
fosse qualcosa che gli era sfuggito, qualche particolare di cui non aveva
tenuto conto e che ora sarebbe stato utile a comprendere le dinamiche della sua
morte. Un prete come don Filippo non poteva essersi ammazzato, ne era convinto,
tuttavia si rendeva perfettamente conto che non c'erano aspetti che potessero
far pensare il contrario. Tutto protendeva in quella direzione. Purtroppo.
Dal canto suo,
l'Ambrogino, era già altrove. In forza della sua giovane età, aveva ben altre
cose su cui riflettere. Certo, vedere l'amico prete conciato in quel modo non
gli aveva fatto piacere, ma, in fondo, per lui, la morte era ancora un concetto
astruso, lontano, impalpabile. La morte l'aveva sempre vissuta di sbieco,
riconducendola ad altre persone, ad altri nuclei famigliari. In casa sua non
era ancora morto nessuno. Era uno dei pochi ad avere ancora i nonni, che tutto
sommato, benché di età compresa fra i sessanta e i settanta, godevano di buona
salute. Pensò alla Lina e ogni ombra svanì.
Chiudevano il corteo, dietro
al rocambolesco feretro, Pinuccio Villa e Giorgio Galbusera. Solo dopo aver
percorso almeno metà del tragitto che li separava dal paese, bofonchiarono
qualche parola. Pinuccio rincuorò Giorgio, dicendogli che il suo piccolo malore
lo avrebbe patito lui stesso se si fosse trovato a tu per tu con don Filippo,
da solo, fissato da occhi spiritati e immobili. Giorgio lo ringraziò,
mordicchiandosi il labbro inferiore; raramente si confidava con qualcuno, e
parlava dei suoi patimenti e della difficoltà che, in generale, provava nel
vivere la vita come fanno tutti. In parte imputava questo suo freno
esistenziale all'eccessiva presenza materna che, ancora, nonostante la maturità
raggiunta, continuava a compromettere ogni sua iniziativa, voglia di fare.
Amava la mamma e sembrava che ogni volta dovesse tornare a casa con qualcosa di
nuovo da raccontarle; ma più passava il tempo, più cresceva in lui un
sentimento vago, nascosto, che faceva molta fatica a giustificare, sentendolo
molto vicino all'insofferenza, per non dire all'odio.
La sagoma del villaggio
comparve all'orizzonte, come il più bel sogno di un figliol prodigo sulla
strada di casa. Si intravede il campanile e il gruppo di casupole disordinate
che guardava verso il cavenaghese. Spiccavano tutt'intorno i campi di mais, con
le pannocchie non ancora mature, e spighe di specie misteriose cresciute senza
permesso.
25.
L'arrivo a Burago fu
mesto e desolato. Incontro agli uomini del Marengo vennero molte donne, con gli
occhi fuori dalle orbite, e il peggior presentimento. La voce della morte di
don Filippo s'era ormai sparsa, ma un conto era sapere della umanissima
scomparsa di un pievano, un altro trovarselo di fronte su un barroccio
traballante, devastato da ore di abbandono nelle acque marcescenti di uno
stagno, per un destino su cui non era ancora possibile fare chiarezza, ma che
non lasciava presagire alcunché di bello.
La Cesira anticipò
tutte le altre e trovandosi al cospetto del prete tirò un urlo da far paura. Le
compaesane, sentendola gridare in quel modo, si mossero preoccupate verso
l'amica, che si resse a fatica aiutata dalla Casiraghi, anche lei sbigottita da
quel calvario.
«Maria Vergine»,
esclamò, «don Filippo, cosa ti è successo?!».
Non fu facile tenere a
bada il brontolio delle donne, ma si impose immediatamente il Marengo per
ripristinare l'ordine.
«Calma, signore, calma.
Dove sono gli altri uomini?».
Erano ancora in cerca
di don Filippo, dall'altra parte del paese. Nessuno li aveva avvertiti che il
prete era stato ritrovato.
L'Ambrogino capì al
volo e si offrì di raggiungere il gruppo del sindaco per sollecitarli a far
ritorno in paese. Il Marengo, con un gesto del mento, benedisse la sua
partenza.
«Che facciamo, ora,
Marengo?», domandò Pinuccio in apprensione.
«Portiamo don Filippo
in curia e allestiamo la camera ardente. Cesira, ci pensi tu?».
La Cesira gonfiò il
petto, onorata di essere stata pubblicamente incaricata dal Marengo di un
compito così importante. Altroché la festa di Ferragosto.
«Donne seguitemi»,
disse senza battere ciglio, «e voi», fece rivolgendosi a Dante e al Luigi
Brambilla, «portatemelo in curia».
Giunsero a
destinazione, quando anche Raimondo Boffalora e i suoi uomini furono di ritorno
dalla perlustrazione e poterono confrontarsi con il Marengo su quanto era
accaduto sull'altro fronte delle indagini, benché l'Ambrogino avesse detto loro
quasi tutto.
Le donne, aiutate dal
Giannino e dal Brambilla, sistemarono il prete su un improvvisato giaciglio, e
lo ripulirono ben bene. Capitolarono di fronte alla sua pelle tumefatta e
all'incredibile pallore del volto, contrapposto al grigiore delle orecchie. La
Cesira salì al piano di sopra per recuperare il miglior vestito di don Filippo,
con cui abbigliarlo per il suo ultimo viaggio.
Nel giro di poche ore
venne allestita la camera ardente. Pietro Colombo, il falegname, offrì loro la cassa
più resistente, convinto del fatto che l'unico sacerdote della comunità dovesse
essere servito nel miglior modo possibile; benché non avesse più alcuna
possibilità di esprimere la propria gratitudine. Alcuni, però - compresa la
Cesira stessa - si domandavano se fosse davvero necessario tanta accortezza. L'opinione
comune era, infatti, che, chi per sua volontà decideva di morire, non doveva
avere diritto a tante attenzioni. Fino a prova contraria per chi faceva una
fine del genere, non era nemmeno prevista la cerimonia in chiesa. Tuttavia
nessuno si oppose: don Filippo era sempre don Filippo e qualunque fine avesse
fatto, avrebbe beneficiato del più amorevole trattamento.
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