venerdì 27 settembre 2013

Laila # 14


14.

Una visita inaspettata

Oddio, il citofono. I miei vicini? Impossibile. Il vicino che è tornato per farmi la pelle? Poco probabile. Chi sarà mai? M'infilo i pantaloni, inciampo, rischio di cadere, come un comico alle prime armi, e con gli occhi totalmente incatramati dal sonno sbircio dalla tapparella che dà sul cancello di ingresso: non ci posso credere. Corro in bagno per darmi una rinfrescata e indosso la prima camicia che mi capita fra le mani. Sono proprio loro: mi stanno aspettando sull'uscio, sono Ginevra e Orso. Che ci fanno qui? Grido al citofono che sto per arrivare, ricordandomi a malapena il giorno della settimana e il numero che mi metto a indagare forse per scaricare la tensione, e mi catapulto all'esterno nei panni di un maratoneta di New York. Gli amici hanno il volto sorridente di chi sa di avere appena vinto la lotteria; Ginevra è più bella che mai, un miracolo della natura, con due occhi che sprizzano un'inaudita contentezza.
«Che ci fate qui? Siete impazziti?».
«Siamo venuti a fare visita al nostro fuggitivo», dice Ginevra. «Al nostro eroe… fuggitivo».
Orso mi dà una gran manata sulle spalle congratulandosi, e bofonchiando un termine dialettale che non comprendo; ma mi sfugge anche tutto il resto. Basito, lo osservo come si fissa un animale allo zoo che lotta contro se stesso per vincere le sbarre.
«Guarda un po’ qui», dice Ginevra, piantandomi in faccia una pagina del quotidiano Il Giorno.
Il titolo è fin troppo eloquente, ma mi ci vuole del tempo per capire che si riferisce proprio al sottoscritto. Si legge: "Il vicino di casa la salva dal suo aguzzino". Sotto: "Senza il suo intervento i soccorsi avrebbero ritardato condannandola a una lenta agonia". E nel pezzo vero e proprio viene addirittura menzionata la parola "eroe". Eroe? Eroe. Rido sotto i baffi.
«Ti rendi conto?», continua Ginevra esagitata. «Sei sul giornale!».
Non si capacita di una simile notizia, trovandola in antitesi con l'idea che si era fatta di me, tipo asociale e introverso, ben distante da qualunque forma di pubblicità.
«Questa è bella!», va avanti colma di entusiasmo. «Ma adesso ci devi assolutamente dire che cosa è successo!».  
Per un attimo vorrei sprofondare.
«Fa vedere».
Le strappo, in pratica, il giornale dalle mani, scoprendo, per mia grande meraviglia, che davvero è riportato il mio nome: l'uomo che in piena notte, attratto dalle grida, s'è precipitato nella casa dei vicini per salvare una donna sottoposta a un pestaggio violento, non posso che essere io (e non un omonimo). In effetti, senza il mio sos le cose sarebbero potute andare molto peggio. Provo, senza darlo a vedere, un senso di grande sollievo, stupore, e mi lascio trastullare da un brivido di felicità che mi percorre da cima a fondo; all'improvviso mi sento l'uomo più contento della terra, consapevole di avere salvato una vita e forse definitivamente me stesso. In una frazione di secondo il mio umore subisce una brusca impennata, disintegrando il tradizionale savoirfaire che mi contraddistingue venendo a contatto con gli altri. Abbraccio i miei due interlocutori e li bacio come se fossero appena tornati da un viaggio durato secoli. Mi guardano allibiti, ma anch'essi non possono fare altro che gioire per l'epilogo dell'incredibile vicenda.  
«Allora ci vuoi dire cosa è successo?», incalza Ginevra.
«Vi dirò tutto. Ma non qui in mezzo la strada. Volete salire da me?».
Per la prima volta invito qualcuno ad accomodarsi nel mio eremo immacolato. Il disordine regna sovrano, ma sono troppo euforico per pensare che Ginevra e Orso possano soffermarsi su un dettaglio tanto banale. Ho salvato una vita, e difeso la mia storia con Laila. Sì, Laila, proprio lei. L'ho difesa, e sono finalmente giunto a darle il giusto peso, il significato più appropriato, la sentenza delle sentenze, l'ultimo grado di giudizio. Cambia così il mio divenire, mentre indago la realtà che mi circonda da un nuovo punto di vista, più consono alla classicità dei tempi, alla quotidianità più spiccia. Il mio pensiero si fa più leggero, niente al confronto di quello sopportato in tutti questi mesi, anni, secoli di lontananza dalla mia vita precedente. La mia vita prima del 1983… Perfino la Vian, ora, sospira dietro l'angolo, pronta a riaccogliermi fra le sue braccia. Benché non abbia nessuna intenzione di tornare sui miei passi. E' giunto ormai il momento di buttarmi completamente, di lasciarmi andare verso l'orizzonte luminoso che per tanto tempo ho avuto dinanzi agli occhi, coperto da una coltre buia, indefinita, spettrale, che non mi faceva vedere correttamente; una coltre che giorno dopo giorno si dissolve sempre più, s'è ormai quasi del tutto dissolta, dandomi modo di fotografare il futuro nel quale non riuscivo più a sperare. Lo sapevo e non lo sapevo che le cose sarebbero andate così. Il subconscio ci parla continuamente, ma quasi mai siamo in grado di dargli credito. Mi ha parlato in tutti questi giorni di perdizione, ma era come se non ci fosse: a vincere era solo il dolore di non avere più Laila intorno a me. Presto o tardi confiderò ogni cosa anche a Ginevra e a Orso. Ginevra sa già, in parte, ma il succo della storia deve ancora conoscerlo. Non manca molto. Li faccio accomodare in salotto, proponendogli una tazza di caffè.
«Due, grazie!», dice Ginevra, guardandosi intorno con curiosità infantile.
Dalla finestra rimiro il sole che sta spavaldamente facendo capolino sbucciando le vernici del davanzale. Ho proprio detto "sole". Incredibile, non ci sono nuvole. C'è solo il sole che brilla, una stella contenta, la prima volta che la vedo spuntare con tanta voglia di fare il suo dovere. Ormai non ci speravo più. Con tutti i giorni e le notti di freddo e gelo trascorse, mi ero messo in testa che la terra stesse andando incontro a una nuova glaciazione. Il sole, meravigliosa alternativa a Dio.  
«Si può sapere cos'hai combinato?», mi chiede Orso, mentre gli porto il caffè.
Gli amici non stanno più nella pelle: mi fissano drogati da un invincibile desiderio di conoscenza.  
«Non mi sono mai andati a genio… avevano orari strani, troppo strani, erano strani, non capivo che lavoro facessero… un giorno, l'unica volta in cui posso dire di avere avuto a che fare con essi, si sono presentati alla mia porta con una torta, ma non gli ho mai dato corda».
«La torta, almeno, era buona?», mi domanda Ginevra, ridacchiando.
«Squisita, se è per questo, ma c'erano troppi ma, anche per uno fuori dal mondo come me».
Gli racconto delle notti in cui sarebbe stato evidente anche a un bambino che in quella casa c'erano movimenti sospetti. Le luci, i suoni, le tende che danzavano sospinte da indefinibili energie… troppe cose non quadravano. Poi, la sera appena trascorsa, ogni mio dubbio è svanito.
«E' partito un urlo lancinante, tipo nei film quando qualcuno viene pugnalato… mi ha fatto sobbalzare. Sono uscito con la scusa di accedermi una sigaretta, cercando di capire cosa stesse accadendo; poi la situazione è precipitata. Non s'è udito più nulla, più nessun movimento. L'uomo è uscito di corsa, totalmente fuori dalla grazia… è salito in macchina e se n'è andato chissà dove. A quel punto ho sentito la spinta a farmi avanti… mi sembrava impossibile addormentarmi con l'apocalisse a un passo da me».
«Madonna», sussurra Ginevra con gli occhi sgranati. «E poi, cosa è successo?».
«Non ci ho messo molto a inoltrarmi nel covo dei vicini, trovando ogni uscio spalancato, le luci accese, la strada deserta... di fronte a me il finimondo: tutto sottosopra, divelto, volato via… il chiaro segno di una violenta colluttazione. Ho raggiunto il salotto e… lì ho visto la donna, la vicina, la stessa che mi aveva consegnato fra le mani la torta, mesi fa… ho pensato che potesse essere morta, non si muoveva, pareva di marmo; ma avvicinandomi al suo corpo straziato, mi sono reso conto che respirava ancora».
«Porca puttana», fa Orso, allibito, «e lì ti sei deciso a chiamare l'ambulanza…».
Annuisco.
«Aveva la bava alla bocca. E io ero terribilmente scombussolato. Non sapevo cosa fare. Alla fine ho chiamato i soccorsi che, evidentemente, hanno permesso alla donna di salvarsi… sennò sarebbe morta per emorragia».  
«E' quel che dice, infatti, il giornale. Se i medici non fossero arrivati o avessero ritardato sarebbe giunta cadavere all'ospedale: aveva un grosso ematoma in testa che, se non trattato tempestivamente, non lascia scampo».
Alla parola ematoma mi sento di nuovo cedere le gambe, ripensando, peraltro, alla cantante dei Fairport Convention e alla sua triste fine, che si sarebbe potuta evitare se qualcuno l'avesse soccorsa in tempo. Ma non è come le altre volte. Il fantasma di Laila, finalmente, ha tutto un altro spessore; ora c'è la consapevolezza di averla salvata e di avere espiato la mia colpa.  

Ritagli di giornale

Quando Laila mi mostrò di nuovo i segni delle punture sulle braccia persi la testa. Era già da qualche mese che non ci recavamo più dal professore di Lucca ed ero convinto ormai, che avesse vinto la dipendenza. Raggiungeva il lavoro da sola, mi sembrava che non avesse più alcun problema e fosse in grado di difendersi dai morsi dell'astinenza. E invece non avevo capito nulla. Non so quando riprese a farsi, non l'ho mai saputo; rideva, mentre mi dava la terribile notizia, dandomi l'impressione che non si rendesse veramente conto di quel che mi stava raccontando, persa nei mondi immaginari dell'eroina. La prima volta me ne ero andato girovagando senza meta per non so quante ore, ma in quest'occasione la rabbia ebbe il sopravvento. Puntai i piedi e gliene dissi quattro. Imprecai. Bestemmiai. Battei i pugni contro la parete della roulotte. Ero incontenibile. Non capivo. Non ci potevo, volevo, credere. Da troppo tempo lottavamo per vincere il demone che la perseguitava, e ora, vedermelo confidare così, su due piedi, come se stesse dicendo di voler andare a caccia di more per i boschi, mi fece salire il sangue alla testa.
Lei continuava a sghignazzare, molto probabilmente, in pieno viaggio chimico. Ed io non riuscii più a trattenermi: le mollai un violento ceffone che la fece traballare e cadere a terra, pestando il capo, con lo spigolo di un mobiletto che spuntava di fianco alla scaletta per raggiungere il vano abitativo. Ero troppo esasperato per razionalizzare quel che stava accadendo, per metabolizzare le potenziali conseguenze del mio gesto. Mi accorsi che si stava alzando da sola, agilmente, con quel solito ghigno orribile sul volto, e mi convinsi che non si meritava altra indulgenza da parte mia; rivolsi gli occhi cielo, come quando nella desolazione più totale si cerca un appiglio celeste per poter credere ancora in qualcosa, e me ne andai, giurandomi che l'avrei rivista solo se si fosse messa in testa di dare un taglio netto alla sua vita da tossicodipendente. Quel poco di fiducia che avevo in lei s'era sgretolato in un nanosecondo.
Passarono due giorni che trascorsi immergendomi nel lavoro come un ossesso, cercando di non pensare a Laila e ai casini che erano sorti per via del suo terribile vizio. Ma non ero abituato al suo silenzio e rincasando mi sentivo peggio di un orfano. Con gli occhi persi chissà dove, comprendevo che la mia vita senza Laila non aveva alcun senso, avevo un assoluto bisogno di lei, anche se si drogava, anche se avesse fatto tutto ciò che voleva a discapito di se stessa e del sottoscritto. Avevo bisogno di lei. Come si ha bisogno dell'aria per respirare. Non potevo vivere senza i brividi che mi procurava ogni volta che la guardavo. Quarantotto ore senza incontrarla, baciarla, sentire il suo profumo, mi parvero un eternità. E alla fine smontai qualunque tentativo di resistere fino alla sua telefonata di redenzione. Decisi di tornare al suo eremo con la coda fra le gambe, disposto a tutto, anche a farmi sbranare. Ricordo molto bene il pomeriggio alla Vian in cui presi commiato per l'ennesima volta dai colleghi, per inseguire un sogno che piano, piano, si spegneva sempre più, tre giorni dopo il mio proverbiale congedo dal giallore cerealicolo della famosa landa. I colleghi mi guardavano come se si fossero trovati di fronte a uno zombie, con la pelle marcescente, in cerca della dose di carne quotidiana, umana, da mettere sotto i denti.  
«Sei sicuro di stare bene?», mi aveva chiesto Filomena.
Non le risposi, ma allo specchio del bagno compresi l'apprensione della mia compagna di banco: sembravo davvero un figuro proveniente dall'oltretomba. Gli occhi erano sprofondati dietro a una montatura ossea da neandertaliano. Chiesi al capo due ore di permesso, che mi diede senza battere ciglio, come sempre grato al mio lavoro costante e preciso. E prima di sera ero già al cospetto del fantascientifico mondo di Laila.
Rivedere da lontano il suo carrozzone malato e sbilenco, perso nel torpore di quella distesa agricola inqualificabile, mi regalò dieci anni di vita. Ritrovai me stesso e tutte le meraviglie che avevano accompagnato la nostra storia d'amore. Respirai profondamente, pregustandomi l'idea di poterla presto riabbracciare. Ma notai che c'era qualcosa che non andava, inoltrandomi a piedi lungo il brullo e mai abbastanza battuto sentiero che conduceva alla sua dimora. Dei nastri adesivi circondavano il camper, come l'imbracatura di uno scatolone pieno di cristalli preziosi, calato dall'ultimo piano di qualche palazzone. Strizzai gli occhi per vedere meglio, ma non servì a molto; tuttavia, avvicinandomi, fu molto più chiaro: erano i segni con cui si marchia un luogo posto sotto sequestro. Non compresi, ma poi girandoci intorno, vedendo che non c'era proprio modo di poterlo vincere come avevo sempre fatto, cominciai ad agitarmi. Cosa diamine era successo in tutto il tempo che ero rimasto via? Dov'era Laila? Perché il camper non era più agibile? Non seppi che pesci pigliare.
Rimasi per un'ora, inebetito, a fissare la roulette cercando una spiegazione, ma senza trovare degne risposte. Forse, pensai, durante la mia assenza, aveva ospitato uno spacciatore che incautamente s'era tirato dietro gli sbirri sulle sue tracce da chissà quanto tempo. In breve mi convinsi che Laila fosse al fresco da qualche parte, in compagnia del suo amato pusher. Ma in che modo avrei potuto saperlo?
Rimuginai sulla faccenda per un'altra mezz'oretta, dopodiché mi venne in mente che nel paese più vicino c'era una piccola biblioteca che offriva la possibilità di consultare giornali e riviste in gran quantità: c'ero andato anche con Laila una sera, in occasione della presentazione del libro di un autore russo. Mi dissi che, se c'era stata una retata della polizia come supponevo, sicuramente, la cronaca locale ne aveva parlato. Mi precipitai in auto e come un pilota di Formula Uno raggiunsi il piccolo borgo appenninico. Nell'apposita sala del ricovero letterario, cominciai a sfogliare un quotidiano dietro l'altro, soffermandomi soprattutto sulle pagine di cronaca. Fra i presenti c'è chi mi osservò allibito, trovandomi un personaggio decisamente fuori luogo, e fin troppo agitato per poter consultare comodamente dei giornali. Purtroppo non ebbi molto tempo per indagare le caricature dei miei amici lettori, poiché arrivai a Laila in un nanosecondo, dopo aver letto un titolo agghiacciante: "Giovane ragazza muore dopo una colluttazione fra spacciatori".
Lessi l'articolo in preda al panico, con le lacrime che lentamente cominciarono a organizzarsi in una cascata senza confini. Scoprii che l'avevano trovata senza vita con un grosso ematoma alla testa, dovuto, probabilmente, a una lite con qualche esponente della malavita legata al mondo della tossicodipendenza. Così c'era scritto, senza entrare in particolari dettagli, se non quelli relativi alla consapevolezza che la ragazza si drogasse e che avesse ancora ben impressi i segni di uno schiaffo. Il mio schiaffo. Le mie cinque dita. Quando muore un tossico anche la polizia non sta tanto a perdere tempo: è più importane capire le dinamiche di un traffico di stupefacenti, che non le reali responsabilità di un omicidio in cui la vittima è un abituale consumatore di droga. Un tossicomane non ha grandi prospettive… Lasciai cadere a terra il giornale. E tremando raggiunsi l'uscio della biblioteca. Non so cosa accadde dopo.
Non so per quanti giorni e quante notti vagai senza meta, come un vero assassino ricercato dalla polizia, mentre sapevo benissimo che nessuno sospettava di me. Quando ebbi di nuovo la capacità di capire e interpretare il mondo che mi circondava, pensai che sarebbe stato utile rivolgermi alle forze dell'ordine, per rivelare com'erano andati precisamente i fatti. Ma a che pro? Non avrebbe tolto la mia pena, né allentato il mio immane senso di colpa e soprattutto non mi avrebbero ridato Laila. Chi aveva voglia di barcamenarsi in una storia simile? Stropicciai gli occhi vedendo il mare, cornice di un'alba abulica: senza rendermene conto avevo raggiunto un promontorio calabrese abbandonato, un posto che in un altro momento, magari proprio al fianco di Laila, avrei potuto assimilare al paradiso. Fissavo il mare come si guarda un dio ineffabile e crudele, disperato come il peggiore tagliatore di teste, in cerca di una carezza che non arrivava da nessuna parte. Potevo avere ucciso la persona che amavo di più? Era un pensiero devastante e insostenibile.  
Ripresi la strada di casa come un mentecatto, un uomo che non c'è più, che ha perduto i suoi confini, quelli psichici, la materia era già altrove. Non esistevo più. Avrebbero potuto dirmi che avevo il naso al posto delle orecchie e non mi avrebbero minimamente coinvolto. Riuscivo solo a pensare che non avrebbe avuto più alcun senso ripresentarmi alla Vian e continuare nella mia vita di sempre. Bussai alla multinazionale solo per comunicare la mia irrevocabile decisione di abbandonare l'azienda, per migrare in un posto che non avevo ancora deciso, ma che speravo il più possibile lontano da tutto e tutti. Non è stato difficile. Al capo, dopo il primo sbigottimento, è bastato guardarmi negli occhi per capire che qualunque azione persuasiva nei miei confronti sarebbe stata vana. Così, come ho già raccontato, sono finito per agonizzare a Concorezzo, il paese dei catari, dove, però, le cose non sono andate esattamente come avevo previsto. Oggi posso urlarlo a gran voce: fortunatamente.  

(Ri)epiloghi matrimoniali

E ora eccomi qui; solo nella mia piccola grande dependance, che mi ha accolto mesi e mesi fa come un naufrago, ridandomi a poco a poco fiducia, respiro e speranza. Doveva essere la fine, la mia lenta e inesorabile agonia e invece… Sto preparando gli ultimi scatoloni, perché io e Ginevra andiamo a vivere insieme. Abbiamo trovato un appartamento a Vimercate, a due passi dal centro, con le finestre che si affacciano su una vietta medievale, quasi sempre piena di gente che pettegola come se non avesse meglio da fare. Ogni cosa, ogni passaggio, discussione, è avvenuta con estrema naturalezza, e non escludo che presto o tardi potremo perfino… sposarci. Sì, sì, ho pronunciato proprio la fatidica parola, "sposarci". Nemmeno con Laila avrei mai supposto un epilogo del genere. Forse è vero che tutto sta già scritto negli astri. E che contro ogni incredibile soluzione del destino non possiamo proprio nulla. Sono stato io a farmi avanti. Abbiamo fatto anche una specie di prova recitata, un giorno, in una chiesetta della Brianza.
«Vieni che insceniamo le nozze», le ho detto strizzandole un occhio, dirigendomi verso un altare scialbo e deserto. Ginevra è rimasta immobile, quasi incredula di fronte alla mia uscita, ma alla fine s'è lasciata andare e ridendo come due ragazzetti ci siamo fatti promessa di vita eterna, di fronte a un crocefisso malconcio che ci fissava con gli occhi stralunati.
«Orso sarà il nostro testimone. Che ne dici?».
Ginevra rise e mi baciò.
«Non sarà l'unico».
Dopo avere salvato la vicina, ho raccontato a Ginevra tutta la mia vita con Laila per filo e per segno. E in un secondo momento a Orso e agli altri amici del circolino. Ho svuotato completamente il sacco, liberandomi di un peso a dir poco mastodontico. Confidai che Laila era sostanzialmente morta per colpa mia, ma che naturalmente mai mi sarei immaginato potesse accadere una cosa del genere. Fu un incidente. Spiegai che quando l'avevo lasciata devastato dalla rabbia, dovuta al grande amore provato, rideva ancora, sembrava la solita di sempre, ero convinto che il mio schiaffo non le avesse fatto nulla, e che anche la caduta fosse stata di poco conto. Ero troppo dilaniato per trascorrere ancora del tempo con lei, dovevo andarmene per cambiare aria, almeno per un po’; da un certo punto di vista mi sentivo preso in giro. Laila mi stava prendendo in giro, anche se mi amava ed io amavo lei come non avevo mai amato nessun altro essere vivente.
Raccontai il sunto di alcuni miei ragionamenti, partendo dal fatto che la vicenda del vicino fosse stata incredibilmente simile a quella che si era consumata fra me e Laila: anche in questo frangente, infatti, la manata di un uomo aveva mandato in frantumi l'attività cerebrale di una donna. Ma qui ero intervenuto io, proprio io, nel caso di Laila non c'era nessuno a proteggerla, salvarla dalla fine. Che assurda beffa del fato! Ci sono stato per una sconosciuta e non per il mio amore… E così il mio amore se n'è andato per sempre, dimenticato fra le nuvole, ma ha continuato a vivere la sconosciuta; grazie a me. Adesso, però, è anche per via di questo presupposto che guardo al futuro da una prospettiva diversa, benefica, come se, salvando la mia vicina, alla fine abbia salvato anche Laila; certo, non potrà tornare in vita, ma potrà risorgere metaforicamente la nostra storia, tutto quello che di bello c'è stato tra noi, così poco convenzionale. Laila ha ripreso la sua strada di sempre, con i suoi occhi scuri e la sua bocca carnosa, la stessa strada di quel giorno in cui l'ho vista per la prima volta, dietro al bancone del baracchino. Laila.
Come se non bastasse, un mesetto fa, ho ricevuto una bellissima visita, a coronare un divenire che non smette di stupirmi e lasciarmi senza fiato. Ancora il citofono, ancora Ginevra e Orso, ma in compagnia di qualcuno che non vedevo da un sacco di tempo: Francesco e Filomena. Sono spuntati dal retro di un camioncino che oscurava la via. Naturalmente sono rabbrividito. Non mi sembrava vero, un meraviglioso incubo. Ormai la mia mente s'era convinta che non li avrei mai più rivisti: trovarmeli di fronte all'improvviso, è stato un piccolo, grande, shock. Ma l'imbarazzo non è durato molto e dopo esserci sciolti in un vigoroso abbraccio è stato come essersi visti poche ore prima.
«Provaci a sparire un'altra volta, mi raccomando!», mi ha detto Francesco, stringendomi come un fratello perduto.
Filomena per poco non si metteva a piangere, io pure. Ma l'auto controllo ha avuto il sopravvento sulla commozione e alla fine tutto s'è risolto in una gran risata collettiva.
Non ho mai capito in che modo Ginevra e Orso possano essersi messi in contatto con i miei ex colleghi, ma posso immaginare che l'abbiano fatto sulla base delle indicazioni che gli avevo accennato, convinti (giustamente) di potermi fare un bellissimo regalo: più volte avevo discusso con loro della Vian e delle persone che la rappresentavano, delle vicissitudini trascorse in ambito lavorativo, dei luoghi che avevo attraversato in lungo e in largo con Laila.
In seguito, tutti e cinque, come una bella comitiva, siamo partiti per una specie di trattoria, non lontana dalla strada che s'inerpica per raggiungere le piramidi di Montevecchia, felici di poter cenare in compagnia. E' stata una delle serate più belle della mia vita. Non so quando mi sono sentito altrettanto bene, forse mai. Il mio futuro e il mio passato s'incontravano e si prendevano per mano, vincendo definitivamente il dolore e la colpa per avere causato l'involontaria scomparsa di Laila.
Mangiando e chiacchierando è poi emerso che le mie supposizioni sul fatto che qualcuno si fosse messo a pedinarmi, erano assolutamente corrette. Avevo creduto di essere riuscito a far perdere le mie tracce, fuggendo nel nulla, nell'antro concorezzese; ma mi ero illuso. In realtà gli alti dirigenti della Vian sapevano tutto di me e di ogni mio spostamento. Il famoso signore della cappelletta degli appestati - incontrato anche quel giorno in cui andai a visitare Milano e che cercai di placcare con un inseguimento all'americana - non era un abitante del posto, ma un detective assoldato dal direttore della multinazionale per tenermi d'occhio: i boss s'erano, infatti, convinti che la mia improvvisa dipartita celasse la volontà di spifferare ai nostri concorrenti le formule chimiche per un farmaco che prometteva di rivoluzionare il mondo della medicina, nel campo dell'endocrinologia. Io non ci pensavo più da tempo, ma, in effetti, quando me ne andai all'improvviso, mancava poco all'ultima serie di test che avrebbe portato alla produzione su larga scala di un nuovo principio attivo potenzialmente in grado di guarire il diabete di tipo uno. Era una specie di vaccino, che avrebbe assicurato alle casse della Vian grandi entrate e non meno un eccezionale ritorno d'immagine.

Francesco e Filomena mi hanno chiesto se sarei tornato alla multinazionale, ma conoscevano già la risposta. Mi ero fatto una nuova vita, lo vedevano con i loro occhi. Sarei rimasto per sempre legato a loro, nonostante la distanza, ma di sicuro non avrei più rimesso il camice bianco per sintetizzare molecole e altre droghe astruse. Con Ginevra stavamo pensando al modo in cui investire proficuamente il mio tempo e un giorno, forse una settimana fa, abbiamo accarezzato seriamente l'ipotesi di rilevare un caffè letterario a Monza. I soldi non mi mancano, non ci mancano… Chi lo sa come potrà andare, ma dopo quello che ho passato anche l'impresa più inaudita pare una sciocchezza. Quando ci penso mi sembra tutto così assurdo. Dovevo spegnermi lentamente, come il lumicino di una candela morente, e invece eccomi qui rinato, un altro, protagonista di un ritrovato sogno. 

Nessun commento:

Posta un commento