martedì 17 settembre 2013

Laila # 13



13.

Al cospetto di Alphonse Daudet

L'uscita con Ginevra mi ha rimesso in sesto. Il senso di leggerezza provato stando con lei un giorno intero, continua a sostenermi anche in questi dì, offrendomi l'idea di un avvenire più roseo e vivo. Avrei voglia di rivederla per svuotare definitivamente il sacco. Ho capito. Ho capito di essermi aperto con lei, semplicemente perché volevo aprirmi con qualcuno che potesse comprendere la mia pena, la mia colpa da espiare… certo, sono stato molto vago, non sono sceso nei particolari, e Ginevra non può di sicuro dire di avere compreso il motivo per cui ho deciso di sparire dal mondo… ma può probabilmente ammettere di avere intuito qualcosa. Quando c'è di mezzo una donna, un uomo, una storia d'amore finita non si sa bene come, non ci vuole molto a inquadrare la scena, confrontando ipotesi e congetture.
Da un po’ di giorni evito di uscire, ma al contrario dei primi mesi trascorsi a Concorezzo, landa di appestati ed eretici, quando l'auto isolamento era sostanzialmente l'unico modo di cui disponevo per poter agonizzare in santa pace, provo un senso di piacere, sollievo, soddisfazione. Un senso di attesa benigno. Come se il mio subconscio tentasse di dirmi qualcosa. Di dirmi che qualcosa sta veramente cambiando e l'orizzonte potrà essere meno nebuloso di quello prospettato all'inizio. La solitudine non mi pesa e riesco a tenere perfettamente a bada la noia o qualunque altro mal incanto. Nel mio eremo sto ritrovando me stesso, cimentandomi con foga in letture e ascolti musicali. Dopo gli irraggiungibili Mann e Hesse, sono arrivato a una raccolta di racconti francesi. Oggi ho perso quasi tutto il giorno per leggerne il più possibile. E' un libro che porto dietro da una vita e che non ero mai riuscito a sfogliare. Ci sono riuscito ora, comprensibilmente, col tempo dalla mia parte, con voragini di tempo dalla mia parte. Mi è rimasto in mente "Le due locande" di Alphonse Daudet. Autore forse minore, ma verista, realista, fresco, ideale per qualunque anonimo pomeriggio. Parla di due locande, una di fronte all'altra. Una triste, lugubre e solitaria, priva di clienti; l'altra ricolma di gente, schiamazzi, allegra e casinara. Il protagonista sceglie la meno attraente, forse perché, dotato di animo poetico, la trova più in linea con la sua capacità di saper leggere dove nessuno vede. Raggiunge la parodia quando l'ostessa gli fa presente che perfino suo marito frequenta la locanda di fronte, felice di poter incontrare una bella e suadente signora. Amaro esistenzialismo.
Musica, Springsteen a parte, mi sono messo in cerca di realtà musicali un po’ più sofisticate, conscio del fatto che l'arte vera sta nascosta, e abbisogna, dunque, di qualche sacrificio per essere captata e ammirata. Ho spulciato un vecchio vinile regalatomi da un conoscente che girava il mondo per lavoro, di un trio polacco, contrabbasso, viola e fisarmonica. Suonano brani moderni, originali, parafrasando l'epopea klezmer, sono di una bravura impressionante. Ecco quel che significa sapere suonare, mi dico, se ci fosse qui Francesco gliene direi quattro; lui e i suoi gruppi da baraonda… quello non era suonare, era frastuono, diavoli per capello, rivoluzioni, sfacelo. Per suonare bisogna sapere suonare e per sapere suonare occorre andare al conservatorio, o scuole simili, non ce ne sono di balle. Certo, il rock del mio ex collega è un'altra cosa. Paragoni del genere, in fondo, non andrebbero perseguiti. I Ramones sono i Ramones; la cultura ebraica secoli di invettiva, soprusi, innamoramenti, viaggi infiniti.
La Vian, in ogni caso, è lontanissima, distante anni luce, un'altra dimensione, e così gli appuntamenti di lavoro, le scadenze, le vicissitudini della vita quotidiana. Potrei dedicare tutta la vita alla lettura e alla musica, se volessi. E in parte l'idea non mi dispiace. Ma non mi basterebbe. C'è qualcosa che s'è messo a brulicare nel mio animo, suggerendomi impellenze vitali che credevo perdute per sempre. Inutile negare che il presente sia divenuto più leggero, che le nubi all'orizzonte si siano dileguate, si stiano dileguando, come spruzzi di deodorante in un cielo di tramontana; peraltro è già da un po’ che non incontro le creature delle pozzanghere. Un significato ci sarà. Le creature delle pozzanghere affollavano le mie meningi perché non c'era nessun altro a farlo al loro posto. Perché io e gli uomini eravamo diventati realtà contrastanti. S'erano impossessate di me, cercando di rendere meno drammatica la mia eclissi.
Il mio comportamento è lo stesso di prima, dei primi giorni di permanenza in questa landa desolata (ma potrò ancora definirla tale?), ma è l'umore a essere decisamente cambiato. Non l'avrei mai detto, ma so bene chi potrebbe nascondersi dietro tutto ciò. Chi se non gli amici del circolino? Banda di borderline, calati in una società primitiva, tagliata apposta per loro, dove l'orizzonte termina in corrispondenza con l'ultimo sorso di vino. Ginevra è un caso a parte, ma è soprattutto lei a ridarmi il desiderio di guardare al domani con fervore. Spesso mi accorgo, leggendo o ascoltando la musica, di essere distratto e di pensare ad altro; di sfogliare pagine e pagine senza sapere di cosa mi stia occupando. Il mio pensiero vola via, al suo sorriso, al sorriso della ragazza del circolino. Che mi stia innamorando di nuovo? Come mai la squallida frase "chiodo scaccia chiodo" continua a risuonarmi nella testa? Potrà mai Ginevra scalzare l'immagine di Laila che impera nella mia mente come un macigno? Non lo so, ma so che avrei già voglia di rivederla, per passare del tempo con lei, più lungo di una semplice virata solare, raccontandole sempre più cose di me, lasciandomi cullare dal suo candore e dal suo conforto. Dopo la gita alle piramidi di Montevecchia non ci siamo accordati per rivederci, forse per paura di scoprirci troppo felici (anche a questo bisogna essere allenati!), ma adesso credo sia davvero giunto il momento di affrontare con polso la situazione. Il mio cuore sussulta. E se mi stessi di nuovo innamorando?
Al di là di tutto è comunque opportuno ch'io mi rimetta in pista, al più presto, e vada a fare due passi. Gli ultimi giorni di isolamento hanno prosciugato le mie scorte alimentari: non ho più nulla da mangiare, né da bere. E' ora di correre ai ripari se non voglio finire a raccattare le briciole rimaste sul pavimento come un mentecatto. Mi sono crogiolato abbastanza nel dolce far niente. In bagno trovo un uomo di mezza età felice di scoprirsi nel bel mezzo del cammin di nostra vita, e di avere ancora delle cartucce da sparare. Mai radermi è stato così piacevole e sciacquarmi la fronte con un bel getto di acqua gelata. Mi spingo oltre spruzzandomi anche un po’ di profumo. Non mancherà molto al giorno in cui rivedrò Ginevra e non vorrei farmi trovare impreparato. Vorrei dare il meglio di me stesso. Sto addirittura pensando di andare a comprare qualche vestito, ne ho visto qualcuno nelle vetrine di negozi di abbigliamento di Concorezzo. Oggi stesso magari farò man bassa, ridando spessore al mio divenire, con abiti che possano realmente addirsi alla mia resurrezione. Sto correndo troppo? Tutto questo entusiasmo, in effetti, non è da me, tuttavia non posso nascondere che i miei sensi si siano rimessi in carreggiata. I profumi, i colori, i suoni, sono cambiati, esistono, sono tornati palpabili, veri. 
Mi accorgo che qualcosa è cambiato anche a livello atmosferico mentre chiudo la porta di casa. Nella maniglia laccata brilla un luccichio diverso dal solito: è quello di un sole pallido e mesto che cerca di farsi strada fra le nubi. Sì, lo so, non sembra vero, ma sto parlando proprio del sole: è rispuntato dopo mesi, non sapevo più nemmeno che faccia avesse. Il sole. Mi giro e prima di muovere mezzo passo ne ammiro la sempiterna sagoma, tondeggiante, una palla di fuoco che da troppo tempo s'era dimenticata di venirmi a trovare. La strada per raggiungere il centro è molto più bella del solito. L'aria leggera, frizzante, strapiena di aromi vegetali. Non è stagione, è evidente, ma è come se lo fosse. Come se ci fossero stati fino a oggi solo inverni, nonostante l'alternanza conclamata di equinozi e solstizi. Per me a Concorezzo sono esistiti solo gelo e intemperie. E, invece, ora, eccola qui la primavera, e l'estate, a braccetto; come vecchie amiche al capezzale di un amico convalescente. L'epurazione, la discolpa… stanno mietendo nuovi allori. E' ufficialmente tempo di mietitura.

Tentativi di recupero

Poi le cose momentaneamente si acquietarono. Fu necessario fermarsi a riflettere, senza farsi travolgere dalle emozioni, dal senso di tragedia. Mi resi conto di avere reagito in modo abnorme, dovevo riconoscere che anche nei casi più critici bisogna sempre sperare in una soluzione. Una sera, dopo il lavoro, uscimmo a mangiare qualcosa in un ristorantino non lontano dalla dimora di Laila. Mangiammo pesce, ridendo spensierati. Apparentemente era così, ma io già dalla partenza serbavo per il mio amore un discorso ben preciso; la chiave per potere ridare lustro alla nostra storia, cercando innanzitutto di evidenziare una strategia per strappare la mia Laila dal demone che l'aveva circuita. Stavamo parlando della droga più terribile che ci fosse, ereditata dagli usi e costumi di una madre dissennata o forse, molto più banalmente, disperata. Ma qui dovevamo venirne a capo. Laila era troppo bella e intelligente per venire fagocitata da certe vicissitudini. Laila era una delle poche persone al mondo capaci di volare ovunque, senza ali e senza, dunque, il bisogno di dover ricorrere a metabolismi chimici. Percorremmo in lungo e in largo un viale romantico e antico, protetto da alti palazzoni medievali con finestre eleganti, piene di fiori e riparate da discreti tendaggi vinti da una luce sottile e delicata.
«Sei tranquilla?».
«Certo».
«Volevo trovare un modo per superare insieme a te il problema».
«Anch'io lo vorrei».
Laila per poco non si mise a piangere. Il suo sguardo era cambiato completamente e ora le occhiaie erano tornate a dominare il suo volto, rendendolo scuro, profondo, lontano.
«Dobbiamo innanzitutto crederci. Crederci insieme».
Ci credemmo e di lì a poco riuscii, infatti, a convincerla a farsi vedere da uno specialista. Dopo pochi giorni dalla cenetta a lume di candela, incontrammo un professore di Lucca, da trent'anni al fianco dei ragazzi che cadono nella trappola dell'eroina. Fu estremamente chiaro, per certi versi addirittura spietato. Gran parte del lavoro sarebbe dovuto dipendere da lei e, in parte, dal sottoscritto. Era intuibile, ma sentirselo dire in modo così diretto, ci mise una certa apprensione.
«Possiamo fare di tutto per venirvi incontro», ci raccontò il professore, con l'aria consumata di chi sa già perfettamente come vanno a finire certe cose, «ma è Laila che deve fare lo sforzo maggiore. E' lei che deve capire perché conviene rendersi conto dell'inutilità di una medicina che non esiste, che ha solo il potere di rendere schiave le persone, annichilendo qualunque volontà, il desiderio, rendendole vittime di un mondo inesistente, trasformandole in larve umane».
Ce ne andammo carichi e fiduciosi. C'era speranza anche negli occhi di Laila che mi guardava come si guarda un padre, un buon samaritano, non un amante. Tentò di baciarmi più volte, ma io fui meno preso dalla situazione e mi divincolai lasciandole un po’ di amarezza. Ero vivamente preoccupato, non mi ero mai trovato in contesti simili, non sapevo se mi stavo comportando sfruttando le migliori opportunità che ci erano date dal sistema sanitario. Non sapevo se, magari, stavo lasciandomi alle spalle figure che avrebbero potuto fare molto di più per il sogno della mia vita. Tuttavia, nei giorni successivi, le cose si raddrizzarono, dettero quest'impressione, suggerendoci che, probabilmente, eravamo sulla buona strada. All'inizio fu difficilissimo tenerla lontana dalla dose quotidiana, ma dopo numerose notti insonni, sudate a non finire, fiale di morfina e compagnia bella, riuscimmo ancora a guardarci negli occhi come due persone normali, auspicando un futuro di coppia come quello di chiunque altro, felice di scivolare sui più consolidati binari dell'esistenza. I suoi occhi non erano esattamente gli stessi di un tempo, pervasi da un lucore bieco che non se ne andava, ma non nascondevano la possibilità di una redenzione, di un lieto fine. Anch'io non ero più lo stesso, in pochi mesi ero invecchiato di anni, ma una parte di me era sempre più convinta che ce l'avremmo potuta fare. Doveva essere così.
Trascorremmo nuovi giorni e settimane annodandoci l'uno all'altro, come forse non era capitato nemmeno nei primi tempi, amandoci con grande passione e desiderio, sempre più sicuri della nostra forza e del nostro sentimento. Le gote di Laila tornarono rosee e il suo sorriso a splendere come una notte di luna piena. Ai miei occhi pareva ancora più bella di quando l'avevo conosciuta, abbarbicata alla macchina del caffè, come un piccolo koala al marsupio della madre. La sua leggiadria era un'opera universale. Spesso mi assentavo dal lavoro per starle vicino, per darle una mano al botteghino e assicurarmi che non compisse qualche passo falso. Frequentemente, con un pizzico di perversa ironia, pensavo ai miei colleghi, e all'idea malsana che si sarebbero potuti fare scoprendomi in questa nuova veste, con un grembiule legato alla vita, intento a servire colazioni e sandwich. C'erano giorni che trascorrevo con lei tutto il tempo che avevo a disposizione, indifferente al fatto che altre persone, in primis Filomena, stessero continuamente soffrendo per il mio allontanamento. Nostalgicamente ripercorremmo alcuni dei luoghi che avevano visto sbocciare la nostra storia, quasi a volere sottolineare che si stava per aprire una nuova fase. A intervalli regolari vedevamo il luminare di Lucca che ci dava ragguagli in merito alle reazioni che avrebbe avuto Laila proseguendo nella cura disintossicante. Non ne sbagliò una. Tornammo a splendere come un tempo, e sul nostro apocalittico nido d'amore, sparso in una radura senza tempo e senza nome, fu di nuovo estate.

Le luci (sospette) del vicino

E no, adesso non ho visto male, il vicino sta davvero dando i numeri. Non è possibile che si sia messo ad ascoltare la musica a questo volume in piena notte. L'orologio parla chiaro: sono le 00.30. Non possono mettersi a fare tutto questo baccano due coniugi come quelli che, appena arrivato, si sono presentati al mio cospetto con una torta che non ho mai dimenticato; ingrigiti signori di mezza età con troppi dubbi e incertezze stampati sul volto, sottoforma di pittoreschi punti interrogativi; c'era qualcosa di strano nei loro sguardi, una luce sospetta, non mi sbagliai all'epoca ed evidentemente non mi sbaglio ora. Mi stavano curando, scrutando, volevano capire qualcosa del vicino, come se avessero qualcosa da tenere in serbo, e volessero tranquillizzarsi di avere fra i piedi un tipo innocuo. Poveri ingenui. D'ogni modo qui c'è del marcio. Come l'altra volta hanno ancora tutte le luci accese, come se ci fosse una festa in corso, mentre da copione non c'è nemmeno l'ombra di un party.
Con la scusa di fumarmi una sigaretta mi porto in giardino, nascondendomi alle spalle dell'agrifoglio che, nonostante il freddo terribile degli ultimi tempi, continua a sprizzare vigoria. Per un attimo ripenso all'amico gatto incontrato quella sera cupa, che si muoveva da una parte all'altra della strada, calato nella sua perfetta felicità; ma è un pensiero rapido come una scheggia, perché all'improvviso sono catturato da un suono lancinante. Sembra un urlo. Un urlo tanto forte da coprire la musica. Simile a quello dell'episodio precedente in cui mi misi a origliare le bizzarrie dei vicini per vincere i patemi di una notte insonne. Un urlo di donna. Poi il silenzio.
Si smorza il rumore delle casse dell'altoparlante e precipita la notte in un baratro di orrore. Si alza il vento che scote violentemente i miei capelli, regalandomi un'energia che non sapevo di avere. La sigaretta brucia con violenza, una combustione che sa di altri mondi quasi riduce in cenere le mie stesse dita. Ma non ho tempo di soffermarmi sull'agonia del mio epidermide, perché la rocambolesca notte pare abbia ancora molto da dire. Si apre la porta principale di casa e il capofamiglia, affaccendato come un profugo libanese, la varca con un'aria terribilmente trafelata: sembra fuori di sé. Ha i capelli scompigliati ed è vestito in modo trasandato. Lontano dall'idea che si era guadagnato quel giorno in cui venne a suonare alla mia porta. Del tutto indifferente all'ipotesi che qualcuno possa osservarlo, mette in moto l'auto e sgomma chissà dove. Di nuovo il silenzio incombe, ma è una lama di acciaio che si scaglia su innocenti creature.
Sono pervaso da un terribile presentimento, che lentamente diviene certezza. Un'energia misteriosa mi spinge a uscire allo scoperto e a dirigermi come una macchina telecomandata verso la casa del vicino. Le luci sono ancora tutte accese, ma nei dintorni regna il nulla. Il capofamiglia andandosene non ha badato alla sua furia e ha lasciato aperti tutti gli usci. So che non dovrei farlo, introdurmi in casa d'altri in piena notte, può sollevare parecchi dubbi; tuttavia è più forte di me: devo entrare nella dimora. Avanzo silenzioso come il gatto nero della notte trascorsa e mi infilo nella breve anticamera dell'abitazione, dove regna la confusione più totale: sembra sia appena passato un uragano. Il soggiorno, che dà sulla mia dependance, è ancora peggio. Mi guardo in giro incredulo, scoprendo un mondo sottosopra, il rivestimento di un abatjour non so come finito in cima a una credenza del dopoguerra, quadri a terra, vetri rotti, portacenere saltati per aria; e la lucina dello stereo ancora pulsante; finché il mio sguardo non cade su qualcosa che non avrei mai voluto vedere, ma che in fondo sospettavo fin dall'inizio: sono i piedi immobili, scalzi, di una donna, ultima appendice di un corpo celato dal rovere di una grossa scrivania. Con il cuore in subbuglio compio due passi e scopro che la figura straziata è proprio la mia vicina di casa. Non mi ci vuole molto a verificare che è priva di sensi, ha un vistoso ematoma alla testa e parecchie escoriazioni lungo le braccia: il marito deve avergliele suonate di santa ragione e poi, devastato dall'ira, se n'è andato chissà dove a rinfrescarsi le idee. Che diamine faccio?
Se chiamo la polizia, poi come gli spiego che mi sono permesso di violare la proprietà privata per obbedire a una misteriosa energia? Ma non ho alternative… O forse sì, potrei prima chiamare un'ambulanza. Il numero dell'ambulanza? Il telefono del vicino? Perfetto, eccolo lì, chiamo l'ambulanza e poi… al poi ci penso dopo: in fondo non c'è nessun motivo perché io debba essere incriminato, ho sentito delle urla disumane e ho semplicemente seguito l'istinto di intervenire pensando di dover aiutare un mio simile in difficoltà, non fa una piega. E se la donna muore? Chi rivela alle forze dell'ordine il vero responsabile dell'accaduto? Maledizione. Non so proprio che pesci pigliare. La donna, intanto, rantola, è ancora viva, non c'è dubbio, ma non so per quanto tempo riuscirà a esserlo se non interviene immediatamente qualche medico. Via…
«Buonasera, sono… e abito a Concorezzo… la mia vicina di casa sta malissimo, è stata selvaggiamente picchiata da qualcuno e… c'è assoluto bisogno di un'ambulanza».
La fanno più lunga di quanto dovrebbero, chiedendomi cose che in questo momento mi sembrano assurdità, ma non posso certo riattaccare. Do loro tutte le spiegazioni e finalmente, un quarto d'ora dopo il mio fischio, li sento giungere come una truppa di combattenti che ha appena lasciato una trincea lurida e maleodorante.
La scoprono riversa su se stessa, con una macchia di sangue raggrumato che impiastra il pavimento ai piedi della scrivania. Non dà segni di sé, ma il capo dei soccorritori mi indica che è ancora in vita.
«L'ha toccata?».
«No».
Il suo respiro è pressoché impercettibile, ma c'è. Il cuore pulsa flebile e rallentato. Con gli occhi sgranati seguo una scena che mi pare impossibile. Mi chiedo che cosa diamine stia facendo, in casa di estranei con una donna alla quale hanno appena fracassato mezzo cranio. Sono sopraffatto dall'ansia, uno spaventoso formicolio m'immobilizza gli arti, trasformandomi in un impacciato robot. Non è solo dover forzatamente assistere all'agonia di una donna, ma anche tutto quello che ci sta dietro e la memoria che scalpita, il fantasma di Laila che torna impetuoso ad affacciarsi alla mia mente. Sembra un trabocchetto del destino. Una farsa. Un medico si accorge della mia difficoltà e si fa avanti per pormi un bicchiere d'acqua. Lo svuoto come se non bevessi da un secolo.
«Grazie».
«Mi vuole dire qualcosa?».
Lo guardo attonito. Le parole non mi escono, ma dopo un paio di singhiozzi riesco ad accennare qualcosa.
«Abito di fronte, ho sentito gridare e sono intervenuto. Poco prima avevo notato il compagno della signora uscire esagitato, completamente fuori di sé. Ha preso la macchina ed è fuggito non so dove».
I medici si mettono a confabulare e nel giro di pochi minuti invitano una volante della polizia a conquistare la via per venire a vedere cosa sta succedendo. Il comandante, uomo burbero e prestante, dice a tutti di non toccare niente, per non contaminare eventuali prove. Ma contro ogni mia previsione sembra che sappiano benissimo che io non c'entro niente e che se mi trovo protagonista di questa rocambolesca sceneggiatura è solo perché sono stato mosso da un sincero e puro impeto altruista: senza di me le cose sarebbero potute andare diversamente, rallentando le indagini e soprattutto il ricovero della paziente. Mi spiega tutto qualche minuto più tardi il vice comandante: l'uomo che ha pestato la donna è il marito, un tipo che ha già parecchi problemi con la giustizia e non nuovo a pernottamenti in gattabuia. Da giovane ha subito un paio di condanne per aggressioni e pestaggi. La donna - che ora stanno caricando sull'autoambulanza immobilizzata come un pacco postale - si è rivolta più volte alle forze dell'ordine per fare presente il problema familiare, compreso il timore, un giorno, di fare una brutta fine; ma, evidentemente, a poco è servito.  
L'ambulanza se ne va a sirene spiegate. La notte squarciata dal suono lancinante dell'autolettiga; i poliziotti rimangono per interrogarmi, con l'aria assonnata di chi sa che non c'è molto da scoprire.
«Dice, dunque, di non avere mai sospettato nulla».
«Non ho mai avuto a che fare con i miei vicini».
Il comandante annuisce, comprendendo perfettamente ciò che vado sussurrando.
«Sono qui da poco e solo una volta sono venuti per portarmi una torta. Li ho ringraziati e da quel momento le nostre strade non si sono più incrociate».
Ancora scombussolato mi accomodo sul cordolo del divano, mentre i poliziotti mettono sottosopra la casa in cerca di chissà quale utile elemento. Razionalizzo l'accaduto cercando risposte che non arrivano. Mi rincuora solo il fatto che fra poco potrò andarmene a dormire. Anche se difficilmente riuscirò a chiudere occhio. Il fantasma di Laila è vigile, impensierisce i miei sogni, ora più che mai. Mi sforzo di tenerlo lontano, ma dopo questa sera sa di paradosso. Laila, ancora tu.
«La donna, prima di questa sera, ci aveva riferito di altri maltrattamenti subiti nel tempo, ma non l'ha mai denunciato. Era un rapporto atipico; più volte avevano dato l'impressione di essere complici delle loro malefatte. Lei non si è mai accorto di nulla? Non ha mai percepito qualche movimento…».
Aggrotto le sopracciglia, potendo solo avanzare ipotesi sconclusionate, pur consapevole di vivere al fianco di due squilibrati; per poco non mi torna in bocca il sapore della torta mangiata mesi fa, regalatemi dalla coppia. Soffoco il conato di vomito, provando a dare qualche informazione.
«Un paio di sere ho notato qualcosa di strano, ma non, certo, al punto di poter sospettare che lui la stesse picchiando. Vidi delle ombre accavallarsi alla finestra che dà sulla strada, dei movimenti convulsi e le luci che si accedevano e spegnevano in continuazione, come accade in discoteca. Era chiaramente una situazione anomala, giustificabile solo con una baruffa in corso o la concitazione dovuta a qualcuno che sta male. Mi capitava di vederli uscire ed entrare in casa, muoversi con fare circospetto, senza orario, non capivo che lavoro facessero, come tirassero a campare…».
Dopo più di un'ora dalla partenza dell'ambulanza, mi dicono che posso andare, torno a essere un uomo libero. Ma lo sarò veramente ora che Laila mi è ripiombata addosso come una tempesta di neve? Mi ringraziano e salutano cordialmente, mentre dondolano il capo malinconici.  
«Il suo intervento è stato provvidenziale», mi dice il comandante. «Senza di lei le cose sarebbero potute finire peggio. Le faremo sapere se dovrà venire a deporre per qualche testimonianza».

Mi tende la mano come un vecchio amico e con lui i suoi comprimari. All'esterno c'è il gatto nero della famosa sera nauseabonda, che mi sta aspettando per accompagnarmi alla porta di casa. E poco più in là, qualche creatura delle pozzanghere tornata a saltellare con imprevedibile ardore. 

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