lunedì 9 settembre 2013

Laila # 12


12.

Le piramidi di Montevecchia

«Siamo pronti?».
Ginevra mi guarda con l’aria sorniona e un sorriso dolce, che stride con il grigiore del cielo. Sta sul marciapiede di fronte al circolino, ancora imbambolata dai fumi della notte, con un vestito bizzarro. Ma ha la faccia distesa ed è bello osservarla da vicino. Sa di sapone e bimbe in gita con la scuola. Sale in macchina e mi dà un bacio sulla guancia, dimostrandomi un senso d’amore che avevo smarrito da secoli. La trovo eccitante e pudica al tempo stesso. Io stesso mi vedo in modo simile, in bilico fra un desiderio prorompente e una parsimoniosa attesa di qualcosa che forse non avverrà mai.
«È la prima volta che la utilizzo da quando sono qui».
Mi guarda frastornata, come se le avessi appena detto che durante la giornata verranno a trovarci degli angeli dall’Australia.
«E a Milano come ci sei andato?».
La domanda bruciapelo mi induce a riflettere sul fatto che, molto probabilmente, la sua aria indolenzita è solo apparente; e che sono io, fra i due, quello più addormentato. Ma non mi lascio incantare dalla leggiadria della mia interlocutrice, e ribatto prontamente:
«Ho preso il pullman e poi la metro. Non mi capita spesso di andarci…».
«Dove?».
«In metrò».
Sogghigna maliziosa, ormai perfettamente calata nei panni di una liceale, pronta a prendere per i fondelli un tipo buffo e fuori dal mondo come il sottoscritto.
«Dovrei sentirmi lusingata».
«Figurati».  
«Ebbene sì, ho l’onore di essere portata a spasso a bordo del tuo bolide. Quali altre donzelle possono ambire a tanto?».
Le sorrido compiaciuto di avere rotto il ghiaccio, anche se non abbiamo ancora deciso dove andare; come se entrambi fossimo consapevoli del fatto che l’uscita sia solo il pretesto per poter stare insieme per un po’, per studiarci e annusarci, capire dove si vuole arrivare. Potrebbe essere proprio così. Ma non vorrei prendere un granchio, illudermi inutilmente, e poi rimanerci male, credendo di avere trovato un nuovo appiglio sentimentale, potenzialmente in grado di farmi dimenticare le mie storie passate e farmi volare lontano, dopo mesi di oblio. E' decisamente simpatica e pure attraente. E qualcosa mi dice che fra noi è realmente scattata una scintilla, un’idea, l’ipotesi di un’amicizia non convenzionale e scontata; ho l’impressione che uno stesso brivido percorra le nostre schiene, mettendoci in comunione, ragguagliandoci in merito a lunghezze d’onda appartenenti al medesimo status metafisico.
«Nessuna, di certo», mugugno peggio di un adolescente in calore.
Non è come con Filomena, e tantomeno con Laila, lo so benissimo; potrebbe, però, paradossalmente, essere una via di mezzo fra le due. Noto, infatti, la complicità che c’era con Filomena, ma anche l’attrazione fisica sperimentata con Laila; non c’è la stessa magia, d’accordo, eppure sembra che, anche in questo caso, tutto giri a meraviglia; quello che sto provando con Ginevra è diverso, ma non meno bello; con lei è tutto molto più normale... ma altrettanto affascinante. Con lei certi pensieri volatilizzano e mi sembra di tornare a respirare come facevo un tempo, alla Vian e prima della Vian. E' questo quel che conta.
L’atmosfera è bella, unica, deliziosa, anche se il cielo veste ancora, come sempre, il suo pallore apocalittico; il grigio domina come un sortilegio su ogni cosa. Ma ormai non ci faccio più caso. Da quando sono arrivato a Concorezzo, sembra che abbiano spento il sole. So di averlo già detto e pensato, ma è davvero così...
«Allora dove puntiamo le nostre bussole?».
Mi viene in mente quella volta che con Laila andammo a casaccio per finire in quella cascina abbandonata dove trascorremmo la notte abbracciati, come in un sogno. Fu una notte speciale, fra le più belle vissute insieme; qui so benissimo che non accadrà nulla del genere; ma rimuginando sull’episodio, penso a un uomo drogato d’amore e a una donna... drogata di vita, domani, passato, e troppe cose rimaste insolute, dolori, passioni, infiniti appannaggio di mondi estremi, altre vite, vicissitudini, storie da pazzi.
«Possiamo andare verso Montevecchia».
Lo trovo un nome curioso.
«Cos’è Montevecchia?».
Mi indica un'altura che si intravede in lontananza, circondata da un anello di nebbia, umidità.
«E’ quel cucuzzolo laggiù».
Montevecchia... mi piace l’associazione di idee: monte e qualcosa di “vecchio”. Un posto che si chiama Montevecchia non può che meritare l’attenzione degli uomini, mi dico.
«O, se preferisci, potremmo andare a visitare una delle cosiddette piramidi di Montevecchia, che secondo uno studioso locale riprodurrebbero il disegno di quelle di Giza...».
Stupisco per la saccenza della mia interlocutrice.  
«Scherzi?».
«Affatto».
Fino a quel momento l’avevo creduta una ragazza coi piedi per terra, ben lontana da certe curiosità intellettuali, bizzarrie della geografia locale che raramente, immagino, possano interessare le persone più comuni, specie quelle che per campare si trovano a gestire il bancone di un bar. Ma non le interessavano veramente: era solo perché usciva spesso con un amico che era solito propinarle gli angoli più astrusi e remoti del circondario, alla ricerca di dimensioni trasognanti, tipo quelle di cui era alla perenne ricerca Laila.
«E' un posto molto particolare. Per alcuni, addirittura, mistico. Angelo dice che anticamente le popolazioni della zona raggiungevano le piramidi di Montevecchia per celebrare riti propiziatori, dedicare sacrifici agli dei, e altra roba del genere…».
«Non conoscevo questo tuo lato noir».
Ride di gusto.
«Noir? Ma dove vai a pescare certe espressioni?».
«Non ti piacciono i romanzi noir?».
«Non credo di averne mai letto uno».
Viaggiamo serenamente chiacchierando del più e del meno, soffermandoci sui capricci del tempo, seguendo le indicazioni per paesi che mai avevo sentito prima: Usmate, Carnate, Perego... Osservo con piacere il verde che ci circonda, non altrettanto florido a Concorezzo, soffocato da capannoni industriali e grigie arterie che conducono a Milano. All'orizzonte si intravedono cime che non conosco che di tanto in tanto vincono la foschia per mostrare i loro pinnacchi ancora imbiancati. L'occhio mi cade sul vestito di Ginevra, e per un attimo provo un brivido legato all'idea di poterla possedere, nell'animo, nel corpo, nella mente. Cosa mi sta succedendo? Non mi sono mai sentito così… libero. Un sentimento che non provo da tempo si impossessa del mio animo fino a oggi indolenzito, portandomi in alto, facendomi sentire incredibilmente leggero. Ringrazio Ginevra e Orso e gli amici del circolino. Sono sicuro che questa mia bella sensazione di rinascita, di apparente rinascita, dipenda da loro. Non so da dove scaturiscano certe forze interiori. Può un bel paesaggio o la vicinanza di una bella ragazza farci cambiare totalmente prospettiva? Può, mi dico, sorridendo a me stesso, con un'indulgenza che non mi appartiene.
«Mi sono accorto che qui molti paesi terminano con “ate”. Sai perché?».
Ginevra inarca le sopracciglia, sospirando.
«No, ma me lo sono chiesto anch'io tante volte. Dovrei chiedere ad Angelo…».
«Ma questo Angelo...».
Mi pesca in defaillance, percependo troppa curiosità nella mia domanda, che non dovrebbe risiedere quando si ha a che fare con qualcuno per cui non si provano altri interessi se non quelli puramente amicali.  
«Perché ridi sotto i baffi?».
«Così. Mi fai ridire».
Sembra che mi voglia tenere sulle spine e non rivelarmi dettagli sul misterioso Angelo. Ma io insisto.
«Allora?».
«Allora cosa?».
Dà l'aria di divertirsi un sacco.
«Beh, Angelo è un mio carissimo amico, c'è molta complicità fra noi e ogni occasione è buona per trascorrere del tempo insieme».
Rimango di sasso. Mi sta praticamente dicendo che è fidanzata.
«Quindi…».
«Quindi, niente. Ogni tanto ci vediamo e trascorriamo dei momenti in "intimità", non vedo cosa ci sia di male a passare qualche pomeriggio o sera con un amico».
«Amico?».
«Cosa vuoi dire?».
«Sembra che Angelo sia per te più di un amico».
Ginevra scoppia a ridere. E' senza freni. Fatico a capire il motivo di tanto divertimento.  
«Cosa stai insinuando? Non credo proprio che Angelo possa essere un mio amante o fidanzato. Forse mi sono dimenticato di dirti che il suo vero nome è… don Angelo».
Freno di colpa, per poco non esco di strada. Mi aveva completamente rimbambito con i suoi trabocchetti.
«Non potevi dirmelo prima?».
«Non pensavo fosse così importante farti sapere che ho un amico prete».
In effetti, non era così importante, ma evidentemente lo era per me.
«Laggiù! Devi curvare!», mi grida all'improvviso. Di fronte a noi si staglia un bivio sormontato da un gigantesco albero e da una vecchia costruzione a due piani, mezza ricoperta da rampicanti sempreverdi.
«Dunque, dove abbiamo deciso di andare?», recito con una vaga apprensione.
«In Egitto, ti piace l'idea?».
Torna a scherzare, rincuorandomi.
«Mi sembra idea geniale!».
Percorriamo una strada più piccola che sprofonda nel cuore brianzolo, contornata da alberi d'alto fusto e radure, disseminate da casette isolate, che evocano una romantica desolazione. Sembra che qui tutto si sia fermato molti anni fa, a prima della guerra quando ogni famiglia si sosteneva con i prodotti dei propri raccolti e degli animali che venivano allevati. Dopo pochi chilometri il cammino diviene più tortuoso: la via s'innalza, aumenta la pendenza, e il metraggio fra le sponde rimpicciolisce a vista d'occhio, fino a ridursi a un piano sterrato riconducibile a un sentiero di montagna. Troviamo parcheggio sotto le fronde spoglie di piante con la corteccia divorata dal gelo. Intorno a noi non c'è anima viva. Il silenzio domina sovrano. Tendo l'orecchio per percepire qualche suono animale, ma invano, sembra giunta l'apocalisse.
«Un bel posticino», affermo con una punta d'ironia.
«Da qui si parte per fare visita alle tre piramidi», dice Ginevra, strattonandomi per una manica, annichilendo il mio velleitario proposito di sminuire la scelta di giungere fin qui. Il suo calore è contagioso. Rinfocola la mia allegria, che di tanto in tanto affievolisce sotto il peso di una malinconia che non riesce a sparire del tutto. Torna a essere la scolaretta in gita molto più giovane di me, che mi aspetta per andare a visitare lo zoo o un museo di antichità.
«Deve essere bello d'estate. Mi immagino questi prati coperti di fiori».
«Lo è, infatti. Ma anche in questa stagione ha il suo perché».
Mi viene in mente la prima sera che sono uscito con Laila; si respira la stessa aria soprannaturale. Ricordo le sue parole e l'imbarazzo di sedersi per la prima volta allo stesso tavolo. Sembrano passati pochi giorni, ma anche un'intera vita. E' l'effetto Ginevra, che sta scardinando ogni mia autarchica considerazione sulla vita, il destino, l'avvenire. Ci muoviamo verso la prima piramide che scorgiamo molto bene di fronte ai nostri occhi, incoronata da un cerchio di cipressi appuntiti. In un quarto d'ora siamo a destinazione. Dalla cima si potrebbe rimirare un bellissimo panorama, se non fosse per la pesante coltre di nubi che offusca anche i pensieri. Ginevra si stringe fra le braccia, intimorita da un filo di vento gelido. Guardo il cielo chiedendomi come sia possibile non vedere il sole per così tanto tempo. Chiedendomi per quanto tempo ancora andrà avanti così. Fa freddo, come al solito, ma si resiste. Non vediamo più nulla. Le nubi hanno avvolto ogni cosa. Ma è comunque un bello spettacolo. Ginevra aveva ragione: è un posto magico.
«Ci credo che qui venivano a compiere dei riti propinatori», dico alla mia compagna che mi fissa con lo sguardo accigliato.
«Hai voglia di dirmi qualcosa?».
Ginevra affonda il coltello senza pietà. So benissimo ciò a cui si riferisce, dopotutto siamo venuti qui anche per questo, ma ancora mi chiedo se sia il caso di parlagliene. In fondo, ci conosciamo da così poco tempo, e nei miei programmi c'era un disegno completamente diverso: dovevo e volevo isolarmi da tutto e da tutti. Com'è che ora mi trovo qui in intimità con una donna alla quale potrei già parlare di Laila? In realtà, dovrei avere il coraggio di ammetterlo a me stesso: non è lei che ne vuole sapere, ma io che ho creato i presupposti per far sì che ciò avvenisse. Inutile negarlo. Ginevra mi dà fiducia, è una persona che mi piace, ho il desiderio di raccontarmi. A lei, in modo particolare.
«Inizio da lontano, se ti va», e mi lascio definitivamente andare.
Il mio racconto prosegue per almeno mezz'ora, privo d'interruzioni. Ginevra mi guarda, sospira, mi regala sorrisi innocenti e a tratti si commuove. E' meraviglioso osservarla e intuire il piacere che prova a darmi sostegno, immedesimandosi nella mia parte. Le racconto tutto di Filomena, di Francesco, del lavoro alla Vian e… naturalmente di Laila. Della prima parte della mia vita con Laila. La seconda, quella più terribile, invereconda, dannata, non mi sale alle labbra, si arena molto prima, mente, cuore, polmoni e stop. La strada è sbarrata. Le narro degli episodi più felici con Laila, delle nostre scampagnate e dell'amore sopraffino che ci univa, ma mi blocco quando sta per arrivare il momento clou. Capisco che Ginevra sta sulle spine, e vorrebbe capire il perché della mia fuga da Laila e dal mondo, ma mi rendo conto che per entrare nei dettagli non sono ancora pronto. Quando arrivo lì, mi fermo e mi metto a guardare il cielo in cerca di un sostegno morale.
«Non te la senti di dirmi altro».
La guardo e vorrei abbracciarla, ma pietrifico dinanzi all'opportunità di dover rivelare al mondo ciò che è successo con Laila. E' ancora troppo presto, non potevo immaginarlo, ora sì, è palese. Mi arrendo e le rispondo che per il momento non me la sento di proseguire. Fa troppo male, la ferita del mio cuore riprende a sanguinare. Passano diversi minuti e all'improvviso cambia tutto e vorrei non avere mai scelto di andare a fare una scampagnata con Ginevra. A che pro? Ginevra mi diviene estranea, si allontana dalla mia sofferenza, la vedo sbiadire e mimetizzarsi fra i fili delle nuvole… Laila non potrà mai essere Ginevra; e viceversa. Cosa credevo? Cosa mi aspettavo? E puntuali tornano a farmi la corte le creature delle pozzanghere, come se fra la realtà e l'immaginazione non ci fosse più distinzione e tutto si fondesse in una sola dimensione, esclusiva della mia mente. L'empasse, però, non dura molto. Ansimo fissando una nuvola più spedita delle altre che sembra dirmi che la strada percorsa è, invece, quella giusta, che va bene così. Mi tranquillizzo e torno a soffermarmi sulla mia compagna che mi guarda con vaga afflizione.
«Tutto bene?», mi domanda.
Annuisco cogliendo la delicatezza di Ginevra, la sua eleganza, la sua volontà di non volere minimamente farmi pesare il mio desiderio di fermarmi e non potere andare oltre. Si alza mostrandomi i suoi occhi luccicanti da cerbiatto e mi tende la mano, intenzionata a raggiungere le altre due piramidi che ancora ci attendono.

I segreti di Laila

Un giorno mi accorsi che Laila stava cambiando. Dico fisicamente, perché, in fondo, dal punto di vista umorale era sempre la stessa, gioiosa di avermi al suo fianco e apparentemente spensierata; sempre pronta a lasciarsi catturare da qualche mia inventiva o lei stessa propensa a inventare qualcosa per rendere il nostro avvenire più roseo. Mi sembrava più magra del solito e aveva sempre le occhiaie, come se anziché dormire, andasse a fare baldoria da qualche parte con amici che non avevo mai conosciuto e che le davano puntello mentre io mi abbandonavo al canto di Morfeo o di qualche altro dio appannaggio dei sogni. Anche le gambe sembravano appassite, screpolate, la sua bellezza sembrava sbiadire giorno dopo giorno; ma io l’amavo, e se anche si fosse trasformata in un mostro dall’oggi al domani, probabilmente non me ne sarei accorto. Le chiedevo se non voleva sottoporsi a qualche esame del sangue per capire se ci fosse qualcosa che non andava come avrebbe dovuto; sarebbe bastata forse una piccola cura ricostituente, pensavo, privo di qualunque ansia, tipo quelle che anch’io da piccino osservavo quando ero un po’ più pallidino del normale. Non ci sarebbe voluto molto, glielo dicevo fra una forchettata e l’altra o fra una battuta e l’altra. Ma lei rideva e mi diceva che andava tutto bene... e invece andava tutto male. Mi raccontava palle. Una bugia dietro l'altra, era una provetta menzoniera. Ma la catastrofe era dietro l’angolo; avrei dovuto immaginarlo, benché il mio perenne stato di beatitudine mi allontanasse da qualunque capacità di elaborare un parere critico e accorgermi che dietro al suo sorriso smagliante e sempiterno si nascondeva un’atroce verità. Un concetto concreto...
Fu un giorno, come ogni altro santo giorno, totalmente preso da lei, che precipitò il tutto. Senza alcun preavviso mi rivelò, infatti, che era tornata a farsi di eroina. "Eroina", aveva pronunciato proprio questa parola, con incredibile nonchalance: eroina. Da brividi. Era una parola troppo lontana dalla nostra storia, come lontani erano i bagliori delle quasar che più volte avevamo inutilmente cercato di fotografare con i nostri sguardi perennemente assorti dal luccichio stellare. Avesse pronunciato la parola “peste” o “tularemia”, termini esemplari che rimandano a manuali di storia o prontuari medici, sarebbe stata la stessa cosa. Non c’era corrispondenza con la nostra quotidianità, nessuno nelle nostre famiglie si era mai fatto di eroina, mai l’eroina era giunta a impensierire i nostri domani. Cosa c’entrava, ora, l’eroina? Dove stavamo sbagliando?
Quando qualcuno (Filomena) mi diceva che, in fondo, dietro alla mia scorza di uomo d’affari tutto d’un pezzo, rigido e benpensante, si nascondeva un tenerone ingenuo, ingannabile da chiunque, aveva perfettamente ragione. Ne ebbi la prova proprio in occasione della terribile rivelazione di Laila. Se non me l’avesse detto così esplicitamente non me ne sarei mai accorto, se non vedendomela morire di fronte agli occhi con l’ago ancora conficcato in vena. Nemmeno i buchi dei pungiglioni veleniferi sugli avambracci mi avrebbero consentito di fare luce sul mistero di questo suo progressivo e repentino appassimento.
Sedevo su una seggiolina da campeggio traballante e piena di buchi dovuti a bruciature di sigarette o da semplice incuria, e guardavo passivamente fuori dalla minuscola finestra della veranda della roulotte. Scorgevo il solito campo ingiallito dai raggi del sole e da un'arsura che avanti di questo passo avrebbe ridotto mezza Europa a un deserto senza confini. Ormai ero abituato a quell’unico panorama, per certi versi più vicino a una steppa caucasica che non a una regione del centro Italia, stretta fra le cime degli Appennini e l’Adriatico. Benché fosse così inutile e monotono, c'era qualcosa in esso che mi rincuorava e mi faceva stare bene, mi conferiva una strana tranquillità. Come se ciò che mi trovavo davanti non era solo ciò che realmente vedevo, ma la proiezione simultanea di un passato e di un futuro, il scintillio di qualche imperscrutabile universo parallelo. Per un attimo sbandai, convinto di non avere udito bene, di trovarmi in cima a una montagna con un macigno nello zaino o chiuso un sommergibile saturo di voraci scarafaggi, pronti a divorarmi membra e budella, frutto di un tremendo esperimento di bioingegneria.
«Cosa hai detto?».
Laila sorrise come sempre, come se stesse parlando di acciughe da aggiungere a una pasta ai frutti di mare.
«Eroina, non sono riuscita a smettere».
Questa volta avevo sentito benissimo. Deglutii. Aveva proprio detto "eroina". Aveva detto che si faceva. La mia Laila aveva detto che si bucava e che devastava il suo corpo con sostanze che di certo non sono in grado di offrire prospettive di vita tanto accattivanti. E no, non stava nemmeno scherzando, sarebbe stato uno scherzo non solo stupido, ma anche vile, inopportuno, triviale, imbarazzante. A che pro? No, non era uno scherzo. Mi sentii male, ma cercai di domare il mio disappunto, il mio disagio, alzandomi di scatto e raggiungendo l'uscita della veranda per tirare un respiro lungo come l'Archeano. Avevo la mente in subbuglio. Troppi timori concorrevano per avere la meglio sui miei ragionamenti, che, di fatto, non sapevano giungere da nessuna parte. Non sembrava vero, sembrava irrealtà. Un sogno strano, lugubre, orrorifico, diverso anche dagli incubi più accesi. Ma non era così, era tutto bianco su nero, purtroppo: Laila si faceva di eroina, quant'è vero che piove sempre sul bagnato.
«Vuoi vedere?».
«Cosa?».
«I buchi che ho sulle braccia».
Rideva, come se stesse parlando della vincita di un viaggio alle Barbados. Non risposi, fece tutto lei e mi pose gli avambracci sotto gli occhi. C'erano tante crosticine, che chissà come fino a quel momento non avevo mai notato. Mi sentii in colpa, e il mio turbamento crebbe ulteriormente, quando mi resi conti della mia totale cecità: come facevo a stare insieme a una che si bucava, senza sapere che si bucava? Dovevo essere stato proprio un idiota… La guardai attonito, incapace di pronunciare qualunque parola. Anche banale, anche inutile. Avrei voluto parlare, ma sono sicuro che già parlasse benissimo la mia faccia. Mi prese la mano, e mi invitò a sedermi, iniziando a raccontare la sua storia, una storia che non avevo mai saputo, e ancora, nonostante tutto, punteggiata di incredibili lacune.
«Mia mamma faceva la prostituta e mio padre non l'ho mai conosciuto».
Iniziò così, spiegandomi che l'eroina era comparsa prestissimo nella sua vita, quand'era poco più di una bambina.
«Un giorno mia madre sparì dall'oggi al domani, senza lasciare traccia. Mi lasciò sola in mezzo a un mondo violento, corrotto, malato. Sarei dovuta andare a scuola come tutte le mie coetanee, e invece mi ritrovai a lavorare come una serva per raggranellare qualcosa da mettere sotto i denti. Feci parte di una specie di gang di ragazzi che facevano razzie, si drogavano e si prostituivano. Non erano tutte mele marce. C'era qualche ragazzo buono. C'era Michele che mi prese a cuore e faceva tutto per me. Fu lui a propormi un lavoro di barista, dove ritrovai un po’ di serenità. Anni dopo arrivai al botteghino».
Smise di drogarsi rendendosi conto che la sua vita non era più tanto disastrosa. Capì che l'eroina e la droga in generale non erano niente per lei. E che senza l'esempio di sua madre, probabilmente, non si sarebbe mai fatta, pur trovandosi dalla mattina alla sera circondata da eroinomani di prima categoria. In seguito, arrivai io, trovandola con il suo solito colorito, e quell'espressione così difficile da decifrare. Dietro le sponde di quel bancone, mai e poi mai avrei immaginato che potesse nascondersi una storia tanto devastante. Avrei voluto sapere molte più cose di lei… da dove veniva sua madre; perché c'era qualcosa della sua figura che mi rimandava al Medio oriente e alle fattezze di persone vissute centinaia di anni fa; chi la riforniva di droga, e soprattutto perché era ritornata a bucarsi. Mi domandai se c'entrava qualcosa anche il misterioso socio con cui diceva di spartire gli introiti del baracchino, di cui non mi aveva mai voluto parlare. Ma alla fine mi sono sentito così desolato che non mi è venuto da chiederle niente. Mi alzai e me ne andai a vagare per strade che forse vedevo per la prima volta, troppo confuso per capire, per razionalizzare ciò che stava accadendo e la via asfaltata che stavo percorrendo. Mi sembrava di avere sbagliato tutto, di essere stato ingannato. Mi dispiaceva per lei, ma anche per me. Non capivo. Forse avrei dovuto reagire diversamente, affrontando di peso la situazione, come un vero uomo, invece di filarmela con la coda fra le gambe, in cerca di risposte che verosimilmente non avrei mai avuto.
Quando tornai alla dimora di Laila, era già buio e la trovai addormentata, con le gambe rannicchiate e le braccia sotto il cuscino. Sembrava una bambina. Le rimboccai il lenzuolo e mi sedetti per qualche ora a guardarla senza fiatare, immobile, lasciando che il tempo trascorresse. Ogni tanto si girava e rigirava, ma era sempre elegante e tranquilla e meravigliosa. Nel suo incredibile dramma, fu comunque una bellissima nottata, nella quale potei godere di una Laila che non conoscevo tanto a fondo: la Laila che dormiva, incorniciata in un presente tanto difficile, quanto giustificabile e attendibile, perché, dopotutto, non esiste nulla di veramente ingiustificabile e inattendibile. Non c'è nulla di così impossibile alla vita, neanche l'eroina che scivolava nelle vene della persona che fino a quel momento avevo amato di più e che ora non sapevo più come vivere.
Alla fine, sopraffatto dalla stanchezza, mi addormentai per terra, ai piedi del letto, dove riposava Laila e dove per così tante notte avevamo tirato l'alba abbracciati. Sarebbe stato ancora così? Avrei ancora respirato il suo profumo?

Al risveglio Laila era già partita per il lavoro; non volendomi svegliare e non essendo in grado di alzarmi di peso per regalarmi un degno giaciglio, mi aveva srotolato una coperta sul fianco e preparato una tazza di caffè. Mi resi conto che se tenevo veramente a lei dovevo fare qualcosa di più che piangermi addosso.  

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