12.
Le piramidi di Montevecchia
«Siamo pronti?».
Ginevra mi guarda con l’aria
sorniona e un sorriso dolce, che stride con il grigiore del cielo. Sta sul
marciapiede di fronte al circolino, ancora imbambolata dai fumi della notte,
con un vestito bizzarro. Ma ha la faccia distesa ed è bello osservarla da
vicino. Sa di sapone e bimbe in gita con la scuola. Sale in macchina e mi dà un
bacio sulla guancia, dimostrandomi un senso d’amore che avevo smarrito da
secoli. La trovo eccitante e pudica al tempo stesso. Io stesso mi vedo in modo
simile, in bilico fra un desiderio prorompente e una parsimoniosa attesa di
qualcosa che forse non avverrà mai.
«È la prima volta che la utilizzo
da quando sono qui».
Mi guarda frastornata, come se le
avessi appena detto che durante la giornata verranno a trovarci degli angeli
dall’Australia.
«E a Milano come ci sei andato?».
La domanda bruciapelo mi induce a
riflettere sul fatto che, molto probabilmente, la sua aria indolenzita è solo
apparente; e che sono io, fra i due, quello più addormentato. Ma non mi lascio
incantare dalla leggiadria della mia interlocutrice, e ribatto prontamente:
«Ho preso il pullman e poi la
metro. Non mi capita spesso di andarci…».
«Dove?».
«In metrò».
Sogghigna maliziosa, ormai
perfettamente calata nei panni di una liceale, pronta a prendere per i fondelli
un tipo buffo e fuori dal mondo come il sottoscritto.
«Dovrei sentirmi lusingata».
«Figurati».
«Ebbene sì, ho l’onore di essere
portata a spasso a bordo del tuo bolide. Quali altre donzelle possono ambire a
tanto?».
Le sorrido compiaciuto di avere
rotto il ghiaccio, anche se non abbiamo ancora deciso dove andare; come se entrambi
fossimo consapevoli del fatto che l’uscita sia solo il pretesto per poter stare
insieme per un po’, per studiarci e annusarci, capire dove si vuole arrivare.
Potrebbe essere proprio così. Ma non vorrei prendere un granchio, illudermi
inutilmente, e poi rimanerci male, credendo di avere trovato un nuovo appiglio
sentimentale, potenzialmente in grado di farmi dimenticare le mie storie
passate e farmi volare lontano, dopo mesi di oblio. E' decisamente simpatica e
pure attraente. E qualcosa mi dice che fra noi è realmente scattata una
scintilla, un’idea, l’ipotesi di un’amicizia non convenzionale e scontata; ho l’impressione
che uno stesso brivido percorra le nostre schiene, mettendoci in comunione,
ragguagliandoci in merito a lunghezze d’onda appartenenti al medesimo status
metafisico.
«Nessuna, di certo», mugugno
peggio di un adolescente in calore.
Non è come con Filomena, e
tantomeno con Laila, lo so benissimo; potrebbe, però, paradossalmente, essere
una via di mezzo fra le due. Noto, infatti, la complicità che c’era con
Filomena, ma anche l’attrazione fisica sperimentata con Laila; non c’è la
stessa magia, d’accordo, eppure sembra che, anche in questo caso, tutto giri a
meraviglia; quello che sto provando con Ginevra è diverso, ma non meno bello;
con lei è tutto molto più normale... ma altrettanto affascinante. Con lei certi
pensieri volatilizzano e mi sembra di tornare a respirare come facevo un tempo,
alla Vian e prima della Vian. E' questo quel che conta.
L’atmosfera è bella, unica,
deliziosa, anche se il cielo veste ancora, come sempre, il suo pallore
apocalittico; il grigio domina come un sortilegio su ogni cosa. Ma ormai non ci
faccio più caso. Da quando sono arrivato a Concorezzo, sembra che abbiano
spento il sole. So di averlo già detto e pensato, ma è davvero così...
«Allora dove puntiamo le nostre
bussole?».
Mi viene in mente quella volta
che con Laila andammo a casaccio per finire in quella cascina abbandonata dove
trascorremmo la notte abbracciati, come in un sogno. Fu una notte speciale, fra
le più belle vissute insieme; qui so benissimo che non accadrà nulla del
genere; ma rimuginando sull’episodio, penso a un uomo drogato d’amore e a una
donna... drogata di vita, domani, passato, e troppe cose rimaste insolute,
dolori, passioni, infiniti appannaggio di mondi estremi, altre vite,
vicissitudini, storie da pazzi.
«Possiamo andare verso
Montevecchia».
Lo trovo un nome curioso.
«Cos’è Montevecchia?».
Mi indica un'altura che si
intravede in lontananza, circondata da un anello di nebbia, umidità.
«E’ quel cucuzzolo laggiù».
Montevecchia... mi piace
l’associazione di idee: monte e qualcosa di “vecchio”. Un posto che si chiama
Montevecchia non può che meritare l’attenzione degli uomini, mi dico.
«O, se preferisci, potremmo
andare a visitare una delle cosiddette piramidi di Montevecchia, che secondo
uno studioso locale riprodurrebbero il disegno di quelle di Giza...».
Stupisco per la saccenza della
mia interlocutrice.
«Scherzi?».
«Affatto».
Fino a quel momento l’avevo
creduta una ragazza coi piedi per terra, ben lontana da certe curiosità intellettuali,
bizzarrie della geografia locale che raramente, immagino, possano interessare
le persone più comuni, specie quelle che per campare si trovano a gestire il
bancone di un bar. Ma non le interessavano veramente: era solo perché usciva
spesso con un amico che era solito propinarle gli angoli più astrusi e remoti
del circondario, alla ricerca di dimensioni trasognanti, tipo quelle di cui era
alla perenne ricerca Laila.
«E' un posto molto particolare.
Per alcuni, addirittura, mistico. Angelo dice che anticamente le popolazioni della
zona raggiungevano le piramidi di Montevecchia per celebrare riti propiziatori,
dedicare sacrifici agli dei, e altra roba del genere…».
«Non conoscevo questo tuo lato
noir».
Ride di gusto.
«Noir? Ma dove vai a pescare
certe espressioni?».
«Non ti piacciono i romanzi
noir?».
«Non credo di averne mai letto
uno».
Viaggiamo serenamente
chiacchierando del più e del meno, soffermandoci sui capricci del tempo, seguendo
le indicazioni per paesi che mai avevo sentito prima: Usmate, Carnate,
Perego... Osservo con piacere il verde che ci circonda, non altrettanto florido
a Concorezzo, soffocato da capannoni industriali e grigie arterie che conducono
a Milano. All'orizzonte si intravedono cime che non conosco che di tanto in
tanto vincono la foschia per mostrare i loro pinnacchi ancora imbiancati.
L'occhio mi cade sul vestito di Ginevra, e per un attimo provo un brivido
legato all'idea di poterla possedere, nell'animo, nel corpo, nella mente. Cosa
mi sta succedendo? Non mi sono mai sentito così… libero. Un sentimento che non
provo da tempo si impossessa del mio animo fino a oggi indolenzito, portandomi
in alto, facendomi sentire incredibilmente leggero. Ringrazio Ginevra e Orso e
gli amici del circolino. Sono sicuro che questa mia bella sensazione di
rinascita, di apparente rinascita, dipenda da loro. Non so da dove scaturiscano
certe forze interiori. Può un bel paesaggio o la vicinanza di una bella ragazza
farci cambiare totalmente prospettiva? Può, mi dico, sorridendo a me stesso,
con un'indulgenza che non mi appartiene.
«Mi sono accorto che qui molti
paesi terminano con “ate”. Sai perché?».
Ginevra inarca le sopracciglia,
sospirando.
«No, ma me lo sono chiesto
anch'io tante volte. Dovrei chiedere ad Angelo…».
«Ma questo Angelo...».
Mi pesca in defaillance,
percependo troppa curiosità nella mia domanda, che non dovrebbe risiedere
quando si ha a che fare con qualcuno per cui non si provano altri interessi se
non quelli puramente amicali.
«Perché ridi sotto i baffi?».
«Così. Mi fai ridire».
Sembra che mi voglia tenere sulle
spine e non rivelarmi dettagli sul misterioso Angelo. Ma io insisto.
«Allora?».
«Allora cosa?».
Dà l'aria di divertirsi un sacco.
«Beh, Angelo è un mio carissimo
amico, c'è molta complicità fra noi e ogni occasione è buona per trascorrere
del tempo insieme».
Rimango di sasso. Mi sta
praticamente dicendo che è fidanzata.
«Quindi…».
«Quindi, niente. Ogni tanto ci
vediamo e trascorriamo dei momenti in "intimità", non vedo cosa ci
sia di male a passare qualche pomeriggio o sera con un amico».
«Amico?».
«Cosa vuoi dire?».
«Sembra che Angelo sia per te più
di un amico».
Ginevra scoppia a ridere. E'
senza freni. Fatico a capire il motivo di tanto divertimento.
«Cosa stai insinuando? Non credo
proprio che Angelo possa essere un mio amante o fidanzato. Forse mi sono
dimenticato di dirti che il suo vero nome è… don Angelo».
Freno di colpa, per poco non esco
di strada. Mi aveva completamente rimbambito con i suoi trabocchetti.
«Non potevi dirmelo prima?».
«Non pensavo fosse così
importante farti sapere che ho un amico prete».
In effetti, non era così importante,
ma evidentemente lo era per me.
«Laggiù! Devi curvare!», mi grida
all'improvviso. Di fronte a noi si staglia un bivio sormontato da un gigantesco
albero e da una vecchia costruzione a due piani, mezza ricoperta da rampicanti
sempreverdi.
«Dunque, dove abbiamo deciso di
andare?», recito con una vaga apprensione.
«In Egitto, ti piace l'idea?».
Torna a scherzare, rincuorandomi.
«Mi sembra idea geniale!».
Percorriamo una strada più
piccola che sprofonda nel cuore brianzolo, contornata da alberi d'alto fusto e
radure, disseminate da casette isolate, che evocano una romantica desolazione.
Sembra che qui tutto si sia fermato molti anni fa, a prima della guerra quando ogni
famiglia si sosteneva con i prodotti dei propri raccolti e degli animali che
venivano allevati. Dopo pochi chilometri il cammino diviene più tortuoso: la
via s'innalza, aumenta la pendenza, e il metraggio fra le sponde rimpicciolisce
a vista d'occhio, fino a ridursi a un piano sterrato riconducibile a un
sentiero di montagna. Troviamo parcheggio sotto le fronde spoglie di piante con
la corteccia divorata dal gelo. Intorno a noi non c'è anima viva. Il silenzio
domina sovrano. Tendo l'orecchio per percepire qualche suono animale, ma
invano, sembra giunta l'apocalisse.
«Un bel posticino», affermo con
una punta d'ironia.
«Da qui si parte per fare visita
alle tre piramidi», dice Ginevra, strattonandomi per una manica, annichilendo
il mio velleitario proposito di sminuire la scelta di giungere fin qui. Il suo
calore è contagioso. Rinfocola la mia allegria, che di tanto in tanto
affievolisce sotto il peso di una malinconia che non riesce a sparire del
tutto. Torna a essere la scolaretta in gita molto più giovane di me, che mi
aspetta per andare a visitare lo zoo o un museo di antichità.
«Deve essere bello d'estate. Mi
immagino questi prati coperti di fiori».
«Lo è, infatti. Ma anche in
questa stagione ha il suo perché».
Mi viene in mente la prima sera
che sono uscito con Laila; si respira la stessa aria soprannaturale. Ricordo le
sue parole e l'imbarazzo di sedersi per la prima volta allo stesso tavolo.
Sembrano passati pochi giorni, ma anche un'intera vita. E' l'effetto Ginevra,
che sta scardinando ogni mia autarchica considerazione sulla vita, il destino,
l'avvenire. Ci muoviamo verso la prima piramide che scorgiamo molto bene di
fronte ai nostri occhi, incoronata da un cerchio di cipressi appuntiti. In un
quarto d'ora siamo a destinazione. Dalla cima si potrebbe rimirare un
bellissimo panorama, se non fosse per la pesante coltre di nubi che offusca
anche i pensieri. Ginevra si stringe fra le braccia, intimorita da un filo di
vento gelido. Guardo il cielo chiedendomi come sia possibile non vedere il sole
per così tanto tempo. Chiedendomi per quanto tempo ancora andrà avanti così. Fa
freddo, come al solito, ma si resiste. Non vediamo più nulla. Le nubi hanno
avvolto ogni cosa. Ma è comunque un bello spettacolo. Ginevra aveva ragione: è
un posto magico.
«Ci credo che qui venivano a
compiere dei riti propinatori», dico alla mia compagna che mi fissa con lo
sguardo accigliato.
«Hai voglia di dirmi qualcosa?».
Ginevra affonda il coltello senza
pietà. So benissimo ciò a cui si riferisce, dopotutto siamo venuti qui anche
per questo, ma ancora mi chiedo se sia il caso di parlagliene. In fondo, ci
conosciamo da così poco tempo, e nei miei programmi c'era un disegno
completamente diverso: dovevo e volevo isolarmi da tutto e da tutti. Com'è che
ora mi trovo qui in intimità con una donna alla quale potrei già parlare di
Laila? In realtà, dovrei avere il coraggio di ammetterlo a me stesso: non è lei
che ne vuole sapere, ma io che ho creato i presupposti per far sì che ciò
avvenisse. Inutile negarlo. Ginevra mi dà fiducia, è una persona che mi piace,
ho il desiderio di raccontarmi. A lei, in modo particolare.
«Inizio da lontano, se ti va», e
mi lascio definitivamente andare.
Il mio racconto prosegue per
almeno mezz'ora, privo d'interruzioni. Ginevra mi guarda, sospira, mi regala
sorrisi innocenti e a tratti si commuove. E' meraviglioso osservarla e intuire
il piacere che prova a darmi sostegno, immedesimandosi nella mia parte. Le
racconto tutto di Filomena, di Francesco, del lavoro alla Vian e… naturalmente
di Laila. Della prima parte della mia vita con Laila. La seconda, quella più
terribile, invereconda, dannata, non mi sale alle labbra, si arena molto prima,
mente, cuore, polmoni e stop. La strada è sbarrata. Le narro degli episodi più
felici con Laila, delle nostre scampagnate e dell'amore sopraffino che ci
univa, ma mi blocco quando sta per arrivare il momento clou. Capisco che
Ginevra sta sulle spine, e vorrebbe capire il perché della mia fuga da Laila e
dal mondo, ma mi rendo conto che per entrare nei dettagli non sono ancora
pronto. Quando arrivo lì, mi fermo e mi metto a guardare il cielo in cerca di
un sostegno morale.
«Non te la senti di dirmi altro».
La guardo e vorrei abbracciarla,
ma pietrifico dinanzi all'opportunità di dover rivelare al mondo ciò che è
successo con Laila. E' ancora troppo presto, non potevo immaginarlo, ora sì, è
palese. Mi arrendo e le rispondo che per il momento non me la sento di proseguire.
Fa troppo male, la ferita del mio cuore riprende a sanguinare. Passano diversi
minuti e all'improvviso cambia tutto e vorrei non avere mai scelto di andare a
fare una scampagnata con Ginevra. A che pro? Ginevra mi diviene estranea, si
allontana dalla mia sofferenza, la vedo sbiadire e mimetizzarsi fra i fili
delle nuvole… Laila non potrà mai essere Ginevra; e viceversa. Cosa credevo?
Cosa mi aspettavo? E puntuali tornano a farmi la corte le creature delle
pozzanghere, come se fra la realtà e l'immaginazione non ci fosse più
distinzione e tutto si fondesse in una sola dimensione, esclusiva della mia
mente. L'empasse, però, non dura molto. Ansimo fissando una nuvola più spedita
delle altre che sembra dirmi che la strada percorsa è, invece, quella giusta,
che va bene così. Mi tranquillizzo e torno a soffermarmi sulla mia compagna che
mi guarda con vaga afflizione.
«Tutto bene?», mi domanda.
Annuisco cogliendo la delicatezza
di Ginevra, la sua eleganza, la sua volontà di non volere minimamente farmi
pesare il mio desiderio di fermarmi e non potere andare oltre. Si alza
mostrandomi i suoi occhi luccicanti da cerbiatto e mi tende la mano, intenzionata
a raggiungere le altre due piramidi che ancora ci attendono.
I segreti di Laila
Un giorno mi
accorsi che Laila stava cambiando. Dico fisicamente, perché, in fondo, dal
punto di vista umorale era sempre la stessa, gioiosa di avermi al suo fianco e
apparentemente spensierata; sempre pronta a lasciarsi catturare da qualche mia
inventiva o lei stessa propensa a inventare qualcosa per rendere il nostro
avvenire più roseo. Mi sembrava più magra del solito e aveva sempre le
occhiaie, come se anziché dormire, andasse a fare baldoria da qualche parte con
amici che non avevo mai conosciuto e che le davano puntello mentre io mi
abbandonavo al canto di Morfeo o di qualche altro dio appannaggio dei sogni.
Anche le gambe sembravano appassite, screpolate, la sua bellezza sembrava
sbiadire giorno dopo giorno; ma io l’amavo, e se anche si fosse trasformata in
un mostro dall’oggi al domani, probabilmente non me ne sarei accorto. Le
chiedevo se non voleva sottoporsi a qualche esame del sangue per capire se ci
fosse qualcosa che non andava come avrebbe dovuto; sarebbe bastata forse una
piccola cura ricostituente, pensavo, privo di qualunque ansia, tipo quelle che
anch’io da piccino osservavo quando ero un po’ più pallidino del normale. Non
ci sarebbe voluto molto, glielo dicevo fra una forchettata e l’altra o fra una
battuta e l’altra. Ma lei rideva e mi diceva che andava tutto bene... e invece
andava tutto male. Mi raccontava palle. Una bugia dietro l'altra, era una
provetta menzoniera. Ma la catastrofe era dietro l’angolo; avrei dovuto
immaginarlo, benché il mio perenne stato di beatitudine mi allontanasse da
qualunque capacità di elaborare un parere critico e accorgermi che dietro al
suo sorriso smagliante e sempiterno si nascondeva un’atroce verità. Un concetto
concreto...
Fu un giorno,
come ogni altro santo giorno, totalmente preso da lei, che precipitò il tutto.
Senza alcun preavviso mi rivelò, infatti, che era tornata a farsi di eroina. "Eroina",
aveva pronunciato proprio questa parola, con incredibile nonchalance: eroina.
Da brividi. Era una parola troppo lontana dalla nostra storia, come lontani
erano i bagliori delle quasar che più volte avevamo inutilmente cercato di
fotografare con i nostri sguardi perennemente assorti dal luccichio stellare.
Avesse pronunciato la parola “peste” o “tularemia”, termini esemplari che
rimandano a manuali di storia o prontuari medici, sarebbe stata la stessa cosa.
Non c’era corrispondenza con la nostra quotidianità, nessuno nelle nostre
famiglie si era mai fatto di eroina, mai l’eroina era giunta a impensierire i
nostri domani. Cosa c’entrava, ora, l’eroina? Dove stavamo sbagliando?
Quando qualcuno
(Filomena) mi diceva che, in fondo, dietro alla mia scorza di uomo d’affari
tutto d’un pezzo, rigido e benpensante, si nascondeva un tenerone ingenuo,
ingannabile da chiunque, aveva perfettamente ragione. Ne ebbi la prova proprio
in occasione della terribile rivelazione di Laila. Se non me l’avesse detto
così esplicitamente non me ne sarei mai accorto, se non vedendomela morire di
fronte agli occhi con l’ago ancora conficcato in vena. Nemmeno i buchi dei
pungiglioni veleniferi sugli avambracci mi avrebbero consentito di fare luce
sul mistero di questo suo progressivo e repentino appassimento.
Sedevo su una
seggiolina da campeggio traballante e piena di buchi dovuti a bruciature di
sigarette o da semplice incuria, e guardavo passivamente fuori dalla minuscola
finestra della veranda della roulotte. Scorgevo il solito campo ingiallito dai
raggi del sole e da un'arsura che avanti di questo passo avrebbe ridotto mezza
Europa a un deserto senza confini. Ormai ero abituato a quell’unico panorama,
per certi versi più vicino a una steppa caucasica che non a una regione del
centro Italia, stretta fra le cime degli Appennini e l’Adriatico. Benché fosse
così inutile e monotono, c'era qualcosa in esso che mi rincuorava e mi faceva
stare bene, mi conferiva una strana tranquillità. Come se ciò che mi trovavo
davanti non era solo ciò che realmente vedevo, ma la proiezione simultanea di
un passato e di un futuro, il scintillio di qualche imperscrutabile universo
parallelo. Per un attimo sbandai, convinto di non avere udito bene, di trovarmi
in cima a una montagna con un macigno nello zaino o chiuso un sommergibile
saturo di voraci scarafaggi, pronti a divorarmi membra e budella, frutto di un
tremendo esperimento di bioingegneria.
«Cosa hai detto?».
Laila sorrise
come sempre, come se stesse parlando di acciughe da aggiungere a una pasta ai
frutti di mare.
«Eroina, non
sono riuscita a smettere».
Questa volta
avevo sentito benissimo. Deglutii. Aveva proprio detto "eroina".
Aveva detto che si faceva. La mia Laila aveva detto che si bucava e che devastava
il suo corpo con sostanze che di certo non sono in grado di offrire prospettive
di vita tanto accattivanti. E no, non stava nemmeno scherzando, sarebbe stato uno
scherzo non solo stupido, ma anche vile, inopportuno, triviale, imbarazzante. A
che pro? No, non era uno scherzo. Mi sentii male, ma cercai di domare il mio
disappunto, il mio disagio, alzandomi di scatto e raggiungendo l'uscita della
veranda per tirare un respiro lungo come l'Archeano. Avevo la mente in
subbuglio. Troppi timori concorrevano per avere la meglio sui miei
ragionamenti, che, di fatto, non sapevano giungere da nessuna parte. Non
sembrava vero, sembrava irrealtà. Un sogno strano, lugubre, orrorifico, diverso
anche dagli incubi più accesi. Ma non era così, era tutto bianco su nero,
purtroppo: Laila si faceva di eroina, quant'è vero che piove sempre sul
bagnato.
«Vuoi vedere?».
«Cosa?».
«I buchi che ho
sulle braccia».
Rideva, come se
stesse parlando della vincita di un viaggio alle Barbados. Non risposi, fece
tutto lei e mi pose gli avambracci sotto gli occhi. C'erano tante crosticine,
che chissà come fino a quel momento non avevo mai notato. Mi sentii in colpa, e
il mio turbamento crebbe ulteriormente, quando mi resi conti della mia totale
cecità: come facevo a stare insieme a una che si bucava, senza sapere che si
bucava? Dovevo essere stato proprio un idiota… La guardai attonito, incapace di
pronunciare qualunque parola. Anche banale, anche inutile. Avrei voluto parlare,
ma sono sicuro che già parlasse benissimo la mia faccia. Mi prese la mano, e mi
invitò a sedermi, iniziando a raccontare la sua storia, una storia che non
avevo mai saputo, e ancora, nonostante tutto, punteggiata di incredibili
lacune.
«Mia mamma
faceva la prostituta e mio padre non l'ho mai conosciuto».
Iniziò così,
spiegandomi che l'eroina era comparsa prestissimo nella sua vita, quand'era
poco più di una bambina.
«Un giorno mia
madre sparì dall'oggi al domani, senza lasciare traccia. Mi lasciò sola in
mezzo a un mondo violento, corrotto, malato. Sarei dovuta andare a scuola come
tutte le mie coetanee, e invece mi ritrovai a lavorare come una serva per
raggranellare qualcosa da mettere sotto i denti. Feci parte di una specie di
gang di ragazzi che facevano razzie, si drogavano e si prostituivano. Non erano
tutte mele marce. C'era qualche ragazzo buono. C'era Michele che mi prese a
cuore e faceva tutto per me. Fu lui a propormi un lavoro di barista, dove
ritrovai un po’ di serenità. Anni dopo arrivai al botteghino».
Smise di drogarsi
rendendosi conto che la sua vita non era più tanto disastrosa. Capì che
l'eroina e la droga in generale non erano niente per lei. E che senza l'esempio
di sua madre, probabilmente, non si sarebbe mai fatta, pur trovandosi dalla
mattina alla sera circondata da eroinomani di prima categoria. In seguito,
arrivai io, trovandola con il suo solito colorito, e quell'espressione così
difficile da decifrare. Dietro le sponde di quel bancone, mai e poi mai avrei
immaginato che potesse nascondersi una storia tanto devastante. Avrei voluto
sapere molte più cose di lei… da dove veniva sua madre; perché c'era qualcosa della
sua figura che mi rimandava al Medio oriente e alle fattezze di persone vissute
centinaia di anni fa; chi la riforniva di droga, e soprattutto perché era
ritornata a bucarsi. Mi domandai se c'entrava qualcosa anche il misterioso
socio con cui diceva di spartire gli introiti del baracchino, di cui non mi
aveva mai voluto parlare. Ma alla fine mi sono sentito così desolato che non mi
è venuto da chiederle niente. Mi alzai e me ne andai a vagare per strade che
forse vedevo per la prima volta, troppo confuso per capire, per razionalizzare
ciò che stava accadendo e la via asfaltata che stavo percorrendo. Mi sembrava
di avere sbagliato tutto, di essere stato ingannato. Mi dispiaceva per lei, ma
anche per me. Non capivo. Forse avrei dovuto reagire diversamente, affrontando
di peso la situazione, come un vero uomo, invece di filarmela con la coda fra
le gambe, in cerca di risposte che verosimilmente non avrei mai avuto.
Quando tornai
alla dimora di Laila, era già buio e la trovai addormentata, con le gambe
rannicchiate e le braccia sotto il cuscino. Sembrava una bambina. Le rimboccai
il lenzuolo e mi sedetti per qualche ora a guardarla senza fiatare, immobile,
lasciando che il tempo trascorresse. Ogni tanto si girava e rigirava, ma era
sempre elegante e tranquilla e meravigliosa. Nel suo incredibile dramma, fu
comunque una bellissima nottata, nella quale potei godere di una Laila che non
conoscevo tanto a fondo: la Laila che dormiva, incorniciata in un presente
tanto difficile, quanto giustificabile e attendibile, perché, dopotutto, non
esiste nulla di veramente ingiustificabile e inattendibile. Non c'è nulla di
così impossibile alla vita, neanche l'eroina che scivolava nelle vene della
persona che fino a quel momento avevo amato di più e che ora non sapevo più
come vivere.
Alla fine,
sopraffatto dalla stanchezza, mi addormentai per terra, ai piedi del letto, dove
riposava Laila e dove per così tante notte avevamo tirato l'alba abbracciati.
Sarebbe stato ancora così? Avrei ancora respirato il suo profumo?
Al risveglio
Laila era già partita per il lavoro; non volendomi svegliare e non essendo in
grado di alzarmi di peso per regalarmi un degno giaciglio, mi aveva srotolato
una coperta sul fianco e preparato una tazza di caffè. Mi resi conto che se
tenevo veramente a lei dovevo fare qualcosa di più che piangermi addosso.
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