giovedì 18 luglio 2013

Laila # 10


10.

Stalking suburbano

Stamane vado a prendere il pane e ho l'impressione di essere tallonato. Un'impressione sottile, quasi impercettibile, uno spirito che mi osserva, mi scruta, studia il mio comportamento. Un alito di vento che soffia alle mie spalle, rendendomi nervoso. Mi giro di scatto per capire se c'è davvero qualcuno pronto a scannarmi appena voltato un angolo, ma non scorgo che qualche uccellino intento a soffiare gli avanzi di una pizza a un suo simile. Una coppia nota i miei movimenti improvvisi e non può fare a meno di squadrarmi con biasimo: non devo essergli sembrato molto normale.
Il panificio si trova lungo una piccola stradina del budello storico. Forse ce ne sono altri, magari anche più vicini, ma questo è il primo che ho trovato e, per questo semplice motivo, ho deciso di eleggerlo mio panettiere di fiducia. A destinazione la sensazione di essere pedinato diviene ancora più palpabile e, di fatto, noto un tale, da lontano, che mi fissa. Sta appoggiato al muro e finge di leggere il giornale; dico finge perché in quel punto della strada e in quella posizione nemmeno un mentecatto si sognerebbe di mettersi a sfogliare qualcosa. Quando i nostri sguardi si incrociano, abbassa gli occhi, girando su se stesso e volgendo le sue attenzioni verso un bimbo che giochicchia con uno strano marchingegno. Me ne disinteresso e varco la soglia del panificio, ordino quanto devo e in pochi minuti mi rituffo nel caos cittadino; ma mi stupisco nel vedere che dell'uomo appoggiato al muro non c'è più traccia. Sparito. Volatilizzato. Che fine ha fatto? Chi era quell'uomo? Me lo domando senza giungere a una risposta esaustiva, eppure sono convinto che quel figuro fosse lì per me; non sono ancora del tutto rimbambito. Il problema è che se anche fosse stata una persona già incontrata sul mio cammino, non avrei potuto riconoscerla: era troppo camuffata. Vestiva in modo spartano, con un paio di stivali scuri e un cappello che gli adombrava mezzo volto. Aveva la barba e un soprabito beige; tutti chiari stratagemmi per cercare di mascherare una situazione ritenuta quantomeno delicata.  
Riprendo la strada di casa con lo stesso patema di non essere libero di muovermi come desidero, anelando sogni che solo io vorrei avere il diritto di gestire, ma non fotografo niente di strano; sennonché, a trecento metri dal panettiere inciampo nel tipo che mi aveva accompagnato a visitare la cappelletta degli appestati. E' stato, all'apparenza, come ritrovare un vecchio amico. In realtà, era soprattutto lui a stare sulle sue, come se avesse avuto qualcosa da nascondermi.
«Non è più tornato alla cappelletta?», gli domando gioioso.
«Vado ogni tanto», mi risponde, vago.
«Come va il libro?».
«Bene, grazie».
Fa a malapena in tempo a chiudere la frase e scompare come un missile. Mi osservo negli specchi di una vetrina per vedere se ho qualcosa in faccia che possa averlo turbato, ma il mio aspetto è quello di sempre, benché un po’ scompigliato, non noto nulla di così malevole da fare scappare una persona. Mi dimentico in fretta dell'accaduto, sgranocchio un pezzo di pane e trotterello verso casa. Ricomincia a piovere. Il freddo e soprattutto l'umidità hanno ripreso ad attanagliarmi le ossa. Ma è possibile che in questo paese non brilli mai il sole? In pochi secondi le creature delle pozzanghere tornano a farmi visita. Ne vedo un centinaio che saltellano una sull'altra, giocose come bimbi al primo giorno di asilo. So che l'inizio di una precipitazione è sempre vissuto con grande enfasi dal popolino misterioso, tuttavia questa volta mi sembrano davvero eccitati più del normale. Gli faccio un cenno con il capo, per congratularmi della loro contentezza e spensieratezza. Vorrei quasi essere al loro posto. Non hanno nulla da fare se non pensare a divertirsi, o almeno questa è l'impressione che trapela. Uno di essi mi si avvicina e mi regala un sorriso spettacolare. Ne sono felice. Chiedo il motivo di tanta affettuosità, ma nessuna creatura delle pozzanghere si degna di soddisfare la mia fame di verità. In un battibaleno, sopraffatte dal passaggio deciso e rumoroso di un tir, scompaiono nel nulla, così come sono venute. Che strane creature…
La via in cui abito si apre di fronte ai miei occhi; una via sempre più anonima e insignificante, perfetta per questo paese e per la mia odissea. Si allunga verso sud, sbiadendo fra i campi e i pali della luce del centro sportivo, lo scheletro arrugginito di un gigante precipitato dal cielo.
Da lontano osservo che il mio vicino non è in casa: manca la macchina. E torno a pensare al baccano della notte appena trascorsa. E a supporre che ci sia qualcosa che non va in quella famiglia. Movimenti troppo strani e orari sballati, non è normale, non è normale…

Io e Laila

Dopo la prima notte con Laila, ne sono arrivate molte altre, fino a trasformare il nostro incontro in una storia d'amore a tutti gli effetti. Dopo un paio di mesi ero completamente rimbambito dalla sua presenza. Facevo orari assurdi per poter presentarmi sul posto di lavoro puntuale e trascorrere con lei più tempo possibile. Dormivo tre, quattro ore per notte, ma mi sentivo sempre fresco come una rosa. Capivo che c'era qualcosa di chimico a tenermi sveglio: l'adrenalina che scorreva copiosa nel mio sangue. L'adrenalina, la voglia costante di vedere Laila e stare con lei, smorzava qualunque fatica, debolezza, stress. Filomena non mi riconosceva più e il suo sguardo era diventato triste e mogio come quello che avevo sempre osservato prima che diventassimo amici. Non era solo il fatto che le nostre uscite si fossero irrimediabilmente diradate; era anche e soprattutto perché si vedeva lontano miglia che il mio cuore era ormai appannaggio di altri mondi. Le nostre conversazioni erano divenute stanche e laconiche. Il tono dei discorsi strascicato. La magia della nostra intesa era scemata. Con Francesco andava un po’ meglio, ma anche lui in più occasioni mi aveva rivelato che non ero più lo stesso, che era come se vivessi in una bolla di sapone riempita di effluvi stupefacenti.
«Sembri innamorato, ragazzo mio», mi diceva, facendosi una sana risata.
Aveva perfettamente ragione, ma non mi capitò mai di raccontargli nei dettagli di Laila. Fui vago qualche volta, ma lui non ci fece nemmeno caso. Sembravano discorsi che non gli interessavano più di tanto: finché andavo a vedere con lui le partite allo stadio andava tutto bene. Poi, però, avevo cominciato a bigiare anche gli appuntamenti sportivi, giustificandomi col fatto che non ero molto in forma; erano scuse per poter correre ancora una volta da Laila.
Vivevamo nel suo camper come due adolescenti, in uno stato di ebbrezza costante. Lei rideva e sembrava serena, ma non mancavano i momenti in cui rabbuiava, perdendo la sua abituale freschezza. In questi casi avevo imparato a non disturbarla, conscio del fatto che il nostro bel rapporto si sarebbe ripristinato velocemente. Spesso le sue lune erano dovute a qualche mia domanda, da lei, probabilmente, giudicata inopportuna. Ogni volta che cercavo di sapere qualcosa della sua vita passata tergiversava, cambiava discorso o si metteva a fare la sciocchina, esibendosi in qualche strano ballo improvviso, sollevando la gonna come una danzatrice del Moulin Rouge, e facendomi perdere il lume della ragione. Tutto sembrava misterioso. Quando le chiedevo informazioni sulla sua vita sentimentale, mi liquidava dicendomi che nella sua vita c'era stato un solo uomo: io.
«Io?», le domandavo un po’ ridendo, un po’ palesando il mio sbigottimento.
Lei mi si avvicina e strizzava gli occhi come una strega.
«Sì, tu, e non so ancora se sia stato un bene o un male».
Parole che mi gelavano, ma che poi sdrammatizzava in un colpo, dicendomi che non c'era nulla di cui preoccuparsi.
«Stavo scherzando, scemo, ti pare che possa pensare certe cose?».
Mi prendeva le mani e cominciava a farmi roteare su me stesso, fino a farmi perdere l'equilibrio. Può sembrare assurdo ma talvolta, per impercettibili momenti, mi faceva paura. Vedevo in lei qualcosa che non riuscivo a decifrare e che suscitava in me un vago senso di terrore. Poi la guardavo, disegnata così bene, con quello sguardo così trascendentale, e ogni perplessità se ne andava.  
Di notte dormivamo abbracciati, anche quando il caldo rimbambiva i nostri corpi e pensieri. Era soprattutto Laila ad avvinghiarmi come una stella bisognosa di affetto e calore. A volte era esasperante. Mi discostavo un attimo per cercare un refrigerio inesistente, e all'istante mi inseguiva, cingendomi la vita o appoggiando il suo capo sulla mia spalla. Comunque mi piaceva. Amavo il profumo della sua pelle, un profumo naturale, mistico. A volte morivo per l'afa, ma era un supplizio che sostenevo con gioia. La mattina mi alzavo quasi sempre io per primo. Le preparavo la colazione e a volte partivo per il lavoro che non si era ancora alzata. La guardavo mentre risposava, ammirando la sua figura, la sua eleganza, che si manteneva anche durante le ore di sonno. Era bellissima anche quando dormiva, bellissima e silenziosa.
Per lei la giornata cominciava almeno tre ore dopo la mia: al botteghino non attaccava mai prima delle undici. Si alternava a un socio di cui non mi aveva mai voluto parlare. Ma io sospettavo che fra loro ci fosse qualcosa di più di un semplice sodalizio professionale. Mi nascondeva qualcosa, ma alla fine me ne ero fatto una ragione dimenticandomi di lui. La sera ero io il primo a crollare. Ogni tanto mi preparava una tisana ai mirtilli. Non so perché prediligesse proprio questa bevanda, fra le tante che c'erano. Non cambiava mai, per lei era sempre "tisana ai mirtilli". Bevendola crollavo su me stesso come se al suo interno ci fosse stato del veleno, quando lei era ancora nel pieno delle forze e avrebbe magari voluto fare chissà cosa, tipo andare a ballare da qualche parte o a bere un cocktail. Ma non si lamentava mai, comprendeva la mia necessità di dover rispettare degli orari di lavoro e un adeguato riposo. Sembrava semplicemente contenta di avermi al suo fianco, come se fino a quel momento non ci fosse mai stato nessuno a prendersi cura di lei.
Cambiavano le cose nel week end, quando entrambi avevamo molto più tempo a disposizione. Lasciavamo volentieri il camper perso nella radura e con la mia macchina partivamo senza aver fatto programmi, diretti ovunque capitasse, senza meta, senza orari, senza leggi. Ma erano, certo, quasi sempre posti strani, possibilmente lontani dal traffico quotidiano, dove non ci passa nessuno; come se solo in determinati angoli bistrattati dalla società e dimenticati dalla storia ci fosse data l'opportunità di ritrovare noi stessi, la nostra coppia, il nostro atipico stare insieme; benché non cavalcassimo a priori il desiderio di voler pascolare ai margini della civiltà, come individui snob che, per prosaica presa di posizione, evitano qualunque contatto con il mondo perché giudicato inferiore alle proprie capacità ed esigenze.
Una volta siamo finiti per visitare un'enorme tenuta agricola completamente abbandonata, in una provincia del centro Italia che non saprei nemmeno identificare. Come due boyscout ci mettemmo a esplorare ogni buco, cercando di indovinare dove potessero avere nascosto un tesoro, la traccia per sbucare in un mondo parallelo… Alla fine, fattosi tardi e avendo compreso che non sarebbe stato possibile rincasare per la notte, ci sistemammo alla bell'è meglio su un giaciglio di paglia tirando mattina. Fu come vivere in un film. Laila mi rimase appiccicata come una sardina tutta notte, e prima di prendere sonno andammo avanti per ore a parlare di tutto e niente, contemplando una volta celeste come non ne avevamo mai viste.
«E' ancora più bello del nostro posto magico».
Annuii.
«Chissà quanta gente abitava qui», proseguì in tono nostalgico. «E' triste che il tempo finisca per cancellare ogni cosa».
Condividevo la sua opinione, ma non seppi come controbattere. Avrei voluto dire che in fin dei conti il tempo non esiste, ma forse non avevo voglia di proseguire su un tema troppo impegnativo per una notte benedetta come quella che stavamo trascorrendo. Lasciai cadere il discorso e poco dopo ci addormentammo.
Siamo andati avanti così per numerosi mesi, un anno…  Abbiamo vissuto insieme in quel bugigattolo come due eterni innamorati, pur sapendo di avere a disposizione casa mia, molto più ampia e confortevole. Pareva sottinteso che dovessimo vivere nel suo camper, non ci fu nemmeno la necessità di metterci d'accordo. Solo una volta passammo insieme dalla mia dimora, per recuperare dei vestiti e qualche coperta. Ricordo la curiosità con cui tergiversò su ogni angolo del mio appartamento oggettivamente lussuoso, come se fino a quel momento avesse avuto a che fare solo con sistemazioni bieche e provvisorie; come la sua. Concentrò la sua attenzione su un soprammobile che veniva dall'Iran che mi aveva regalato un lontano parente almeno venti anni prima.
«Cos'è?», mi chiese incuriosita.
Era una riproduzione fedele del cilindro di Ciro, un pezzo di argilla riportante un'iscrizione cuneiforme risalente a cinquecento anni prima di Cristo.
«E' la copia di un famoso reperto persiano, credo indichi la conquista di Babilonia da parte di un re».
A Laila luccicarono gli occhi come se le avessi parlato di un amico o di un parente. E ancora una volta si fece strada la mia ipotesi che provenisse dal Medio Oriente.
«Come mai sei così interessata?», le chiesi.
«Mi piace l'archeologia».
Dribblò scaltramente il mio desiderio di sapere qualcosa di più sul suo conto. Anche in questo caso, compresi che, pur standole di fianco un'intera vita, non avrei mai saputo ricavare un ragno dal buco.

Horror movie

Un film del genere non mi era mai capitato… troppo inutile, troppo assurdo. Benché a notte fonda certi improbabili lungometraggi possano alla fine sembrare gli unici adatti ad accompagnare una notte tenebrosa. Il protagonista era un sedicente dottore a caccia di cadaveri per condurre esperimenti nel proprio laboratorio segreto, una specie di caverna lugubre piena di ampolle e liquidi mortali. Un film di serie B, un horror b-movie direbbero in America, con pessime riprese, pessimi attori… Chiari i rimandi alla storia di Frankenstein, la famosa creatura di Mary Shelley.
Arrivano al castello del "conte" due fanciulle che si sciolgono nell'improbabile clan di scappati di casa: con il dottore ci sono anche un nano, un gobbo e una specie di maggiordomo apparentemente normale; in realtà sembrano tutte creature assemblate con porzioni anatomiche di zombie raccattate qua e là dal genio malato del capobanda. Una delle due fanciulle è la figlia del dottore, l'altra un'amica della quale lo scienziato si innamora. Entrambi sono molto avvenenti e in una scena all'interno di pozze sulfuree mettono in luce le loro amabili grazie.
Abitano tutti insieme "appassionatamente" in un castello che sorge in cima a una rupe, bombardata dalle saette. Ma non sono soli. Nei dintorni, in alcune grotte, vivono esemplari dell'Uomo di Neanderthal, ideali per i test sperimentali dell'enigmatico ricercatore. Goliath è uno di essi e muore in un combattimento con vari popolani scagliatesi su di lui con pietre e bastoni. Il dottore lo porta a casa e gli ridà vita con scariche elettriche rubate ai fulmini e con il cervello di una ragazza appena scomparsa e trafugata da un sepolcro vicino. "Il castello della paura" è il titolo del film, ma la paura è lontana, relativa e impalpabile. Ho visto horror decisamente più sfrontati. In alcuni punti è addirittura noioso, per non dire ridicolo. Alla fine mi abbiocco sul divano e al risveglio le luci di un nuovo giorno sono già spuntate.  

Sandy Danny

Il tempo è ancora increscioso, ma dopo qualche giorno d'isolamento sento la necessità di tornare a fare visita ai vecchi amici del circolino. Ho voglia di risentire la voce di Orso e di rivedere il bel viso di Ginevra. La sera è fredda e pungente. Ha smesso di piovere da qualche ora; curiosamente non vedo in giro le creature delle pozzanghere. Si saranno dileguate per qualche ricorrenza, ne capitano spesso in questo periodo dell'anno, quello a loro più congegnale, in cui dominano le tinte scure, i bui, gli aghi di ghiaccio che penzolano dai tetti… Il cielo conserva i soliti connotati di un inverno senza fine, come un foglio di carta fresco di stampa che non fa certo fatica a preservare il proprio candore. Come ieri, oggi, l'altro ieri e domani: grigio, plumbeo, grigio, spento, è l'apocalisse del colore, della cromatografia… Non è mai cambiato da quando sono qui. Sembra che abbiano spento il sole e le stelle e i sentimenti. Le stelle che rimiravo per ore, affiancato da Laila, sono un ricordo lontano, perso, disincantato.
Al mio arrivo il locale è deserto e anche il bancone sgombro del personale. Rivivo il passato recente catapultato in una dimensione a me estranea, del tutto diversa da quella che avevo ponderato prima di muovermi. E' quasi un circolino che non riconosco più. Eppure ero proprio seduto lì, al tavolo che ho di fronte, con Orso e Delfino, pochi giorni fa. Non mi posso sbagliare. E' su quella superficie intelata che ho brindato con i miei nuovi… amici. La verità è che troppe volte finiamo ingannati dalla nostra stessa mente, dalle nostre supposizioni, ci crediamo a casa, e invece siamo in un mondo scivolato via, perfido e meschino. Perché sono tornato al bar?
E' una sensazione che mi mette l'amaro in bocca, ma, per fortuna, dura una quisquilia di minuti. E' un sogno quando dalla porta che dà sul retro spunta Ginevra con un sorriso abbacinante, come una cometa di Natale che arriva a far luce su una capanna abbandonata. All'improvviso ridiventa il mio circolino, la mia seconda casa, quella che veramente mi ha dato ospitalità in questo covo abitato da serpi. Ho un sussulto, tipo quando si rivede un vecchio amore. Mi sembra più giovane del solito, con un taglio di capelli che rende ancora più vivace la sua caratura. Mi accoglie gioiosamente, dandomi l'impressione che mi stesse aspettando.
«Era da un po’ che non ti facevi vedere», mi dice sorridendo, come se ci conoscessimo da anni.
«Ho avuto da fare», taglio corto.
«Perché, che lavoro fai?».
Non avevo calcolato che potesse farmi una domanda del genere e non so proprio che risposta dare. Tergiverso.
«Che cosa potrei fare secondo te?».
«Mi dai l'aria di uno scrittore, ho sempre avuto quest'impressione, dal primo giorno che sei venuto a farci visita. Mi sono domandata che cosa ci facesse un tipo del genere in un locale di bifolchi come questo».
«Hai una scarsissima considerazione dei tuoi clienti…».
Mi guarda sorridendo.
«Ma no, mi piace scherzare, figurati».
Mi fissa sorniona.
«Allora, mi vuoi dire di che ti occupi?».
Insiste, significa che le interessa veramente… le interessa veramente sapere qualcosa di me. Tiro un respiro profondo e tento una risposta quantomeno credibile.
«Sono in aspettativa. Prima lavoravo in una ditta farmaceutica».
Ginevra non si scompone, immaginando che qualunque prossimo quesito possa essere troppo personale, da mettermi in imbarazzo. Si fa da parte. 
«E' per via di quella colpa che ti dicevo…».
Annuisce.
«Ora capisco».
Si fa seria e silenziosa. Mette in moto la macchina del caffè pensando di offrirmi spontaneamente una tazza.
«Sei un tipo eccentrico. Mi piacerebbe capire di che colpa si tratta».
Corrugo la fronte, rendendomi conto di essere ormai in procinto di rivelare tutto me stesso.
«Dirlo così su due piedi, rischia di essere… precipitoso».
Ginevra sbuffa mentre raccoglie le tazzine di caffè piene fino all'orlo e le dispone sul bancone.
«Ecco lo zucchero».
Osservo le sue bellissime mani, affusolate e gentili. Le unghie ben curate con un velo di smalto, chiaro, trasparente. Noto un neo sul polso destro, che fa a pugni con un braccialetto d'argento che scorre su e giù.
«Grazie».
Zittiamo per qualche istante, mentre arrivano due nuovi clienti che si avvicinano al banco e ordinano due amari. Giunge anche Orso, con un soprabito nero e le scarpe da metalmeccanico.
«Puttana troia, non la smette più questo tempo infame».
Esordisce senza calcolare che ci sono due clienti davanti a lui e che la padrona di casa potrebbe infastidirsi per un'entrata dal genere. Ma forse è solo una mia impressione. Nessuno, di fatto, batte ciglio, come se fosse del tutto normale raggiungere un bar e mettersi a bestemmiare.
«Ciao Orso, caffè?», domanda Ginevra.
«Sì, grazie», fa l'uomo venendomi incontro.
«Allora come butta?», mi domanda vincendo le ultime gocce di pioggia che gli si sono appiccicate ai pantaloni.
«Non c'è male. Ha ripreso a piovere?».
«Che domande. E' da mesi che piove tutti i giorni. Non se ne può più di questo tempo di…».
Questa volta si trattiene. Lo sguardo di Ginevra basta a riportarlo in sé. Orso mi dà una spallata e raggiunge i due tipi poco distanti, che l'hanno richiamato con una specie di fischio. Intuisco che si conoscono, come la maggior parte delle persone che varcano la soglia del circolino. Ginevra si avvicina allo stereo e fa partire una cassetta.
«Che ascolti di bello?».
Glielo chiedo senza un reale interessamento, se non quello di cercare un nuovo pretesto per conversare.
«Roba poco apprezzata dalle nostre parti».
Oddio, mi sembra di avere a che fare con l'alterigia di Francesco.
«Si chiama Sandy Danny».
Naturalmente è un nome che non mi dice niente.
«Era una voce bellissima dei Sessanta inglesi. Ha suonato in vari gruppi, ma si è spesso esibita anche come solista».
«Perché parli al passato?».
«Se n'è andata giovanissima».
Me lo dice mostrando tutta la sua tristezza. Poi parte un pezzo intitolato "Matty Groves".
«Questo brano l'ha cantato con i Fairport Convention…».
«Com'è morta?».
Ginevra mi guarda con aria sospetta, non comprendendo come possa essere più interessato alla prematura scomparsa di Sandy, che non alla canzone che stiamo ascoltando e che mi ha appena presentato. Non so perché glielo chiedo.  
«E' morta qualche anno fa. Beveva, e un giorno è caduta malamente picchiando la testa. La madre che era con lei non dette importanza all'accaduto, ma un paio di giorni più tardi se ne andò per un'emorragia».
Mi devo sedere. Sento cedermi le gambe. Mi manca il respiro. Ginevra si accorge della mia difficoltà, non capendo come il suo racconto possa avermi fatto così male. In fondo parlavamo di una persona che nessuno di noi due aveva mai conosciuto.
«Qualcosa non va? Ho detto qualcosa che non dovevo?».
«Niente di tutto ciò, non ti preoccupare, è solo che… ogni tanto mi vengono questi giramenti di testa e ho bisogno di sedermi».
E' una scusa, logico. Ginevra mi offre un bicchiere di acqua e in pochi minuti riprendo la mia normale vitalità.
«Conosci la canzone intitolata Layla?».
«Certo, è di Eric Clapton».
Incredibile. E' tutto dannatamente incredibile. Come se Laila continuasse a perseguitarmi, anche se è così lontana da me… ed è incredibile che fuggendo da Filomena e da Francesco abbia trovato Ginevra che, in pratica, sembra riassumerli in un'unica persona; benché la mia ultima conoscente, a differenza della mia collega, mi susciti interesse anche dal punto vista fisico.
Dopo un quarto d'ora rientra tutto nella norma e mi rassereno. I due nuovi arrivati si accomodano con Orso a guardare la tv, presto raggiunti da Giorgio e Delfino, disinteressati dalla mia presenza. Anch'io resto defilato: preferendo la compagnia di Ginevra, rimango praticamente tutto il tempo asserragliato al bancone. Prima di salutarci torniamo sull'argomento accennato all'inizio della serata.
«Quando vorrai raccontarmi di più del tuo lavoro e soprattutto della colpa che hai da espiare, sarò felice di ascoltarti».
Me lo confida con il cuore in mano, con una tenerezza che non sapevo potesse ancora esistere sulla terra. Rimango colpito dalla sua ultima uscita, comprendendo che, forse, non le sono del tutto indifferente. La cosa mi stupisce parecchio: anche a me piace e sento che qualcosa comincia a smuovere il mio animo. Mi faccio forza per proporle una giornata insieme, pervaso da un sentimento che ancora non riesco a mettere a fuoco.
«Se ti va potremmo, un giorno, andare a fare un giro…».
Mi fissa con uno sguardo accattivante e civettuolo, intuendo che il nostro sodalizio sta prendendo una piega sempre più particolare, tipica di coppie per cui la sola e semplice amicizia comincia ad andare stretta.  
«Così potrò spiegarti cosa mi è successo».
Termino la frase quasi pentito di essermi esposto tanto. Vengo sopraffatto dal timore di avere esagerato, di essermi lasciato andare oltre il necessario, ma ormai la frittata è fatta. Sono sicuro di volerle parlare di Laila? E' passato così poco tempo… Me lo chiedo con apprensione, ma la ribattuta della mia interlocutrice ridimensiona le mie perplessità, restituendomi la volontà di tornare a credere nel luccichio delle stelle.
«Che bello», mi dice con vivo trasporto. «Sarei molto contenta di poter fare una gita, sono sempre chiusa in questo buco…».
«Una domenica?».

«La domenica va benissimo, è proprio il giorno in cui sono completamente libera». 

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