martedì 9 luglio 2013

Laila # 9


9.

Radio Varsavia

Oggi sono completamente rimbambito: ho la testa pesante, sento degli strani brividi che mi percorrono l'intero corpo e ho la gola secca. E ho un incommensurabile dolorino a livello scapolare, sulla sinistra… Volevo tornare al circolino, rivedere Orso e gli altri, godere della loro spontaneità così refrigerante per il mio spirito, ma è successa una cosa alquanto strana… inopportuna, che nemmeno se mi sforzassi riuscirei a ritrovare il me stesso degli ultimi giorni, pronto a rituffarmi nell'universo civile; non dico arrivare a pensare di riprendere il lavoro alla Vian - cosa che non accadrà mai - ma almeno ritrovare quella minima volontà, serenità, di voler fare parte in modo coerente e deciso del mondo. Tornare a vivere… ci stavo riuscendo, sennonché…
Stamattina accendo la radio, si chiama Radio Varsavia, m'è bastato il nome, uno spot pubblicitario dell'emittente a decidere di non cambiare più sintonizzazione, sapendo che altrove avrei trovato solo sciocchezze commerciali che vogliono dire tutto e niente. Parte una raffica di brani di nomi sconosciuti, rimandi all'amato Bruce Springsteen, rock di chiara fede americana. Mi dico che da un momento all'altro potrebbe spuntare qualche pezzo del Boss, ci starebbe benissimo, è il suo campo di battaglia. Al rock si alternano il blues e il country; in Italia - attualmente bombardata da "Vacanze romane" dei Matia Bazar e "Bravi ragazzi" di Miguel Bosè - non interessano a nessuno, ma Radio Varsavia, evidentemente, nutre un target più selezionato e appassionato. Se Francesco vedesse, udisse, si renderebbe conto di come, alla fine, le sue lunghissime lezioni, digressioni di storia musicale moderna, abbiano avuto successo anche su uno sprovveduto accademico come il sottoscritto. Mi dico che se dovessi sentire "The River" - estemporanea come solo una radio può promettere - esco per strada e mi metto a ballare nudo intorno alla casa dei vicini, come una cinciallegra in calore; non ci crederebbe nessuno, d'accordo, tuttavia… mi regala un po’ di folclore … amo il folclore, le radici dei popoli, le storie di civiltà morte e sepolte. In fondo dovrei lasciarmi andare di più a pazzie del genere per ridare pepe al mio presunto avvenire.
Non arriva il Boss ma una canzone che parte con un ottimo riff chitarristico (che chissà se Francesco avrà mai sentito, ma immagino di sì), per poi aprirsi su un ritornello di quelli che ti si stampano in testa come adesivi di cartoni animati appiccicati al frigorifero di una casa abitata da file di mocciosi. Ma è un inciso che, paradossalmente, non avrei mai voluto sentire: una picconata che mi apre in due lo stomaco. Mi sconvolge il catatonico ripetersi del nome di quella che, suppongo, sia la protagonista della canzone: Laila, Laila, Laila. Odo il ritornello, momento topico del brano, concentrarsi sulla mia infinita e mai rimpiazzata dolce metà e inevitabilmente subisco uno sconquassamento dell'animo, così feroce da sopportare. Zampillano le lacrime dalle mie palpebre arrossate. Pare incredibile, eppure bastano poche note a mandarmi in tilt, a farmi risentire il male che mi attanagliava prima di lasciare la Vian, subito dopo il macello di una storia naufragata, per colpa di un destino beffardo, crudele e beffardo.
Ma sarai mai possibile?, mi chiedo. Come fa a esistere perfino una canzone dedicata - volontariamente o involontariamente - all'unica donna che abbia mai amato in vita mia? Cosa diamine è successo? E se fosse veramente la mia Laila? Impossibile. Il nome non è così frequente, ma ce ne saranno a centinaia, almeno, spero, suppongo, nel mondo ce ne saranno un'infinità, o no? Mah. Rimango come un ebete drogato di ansiolitici a fissare il muro che ho di fronte; la parte più spoglia della casa, null'altro che l'intonaco bianco con cui sono state verniciate le pareti prima che arrivassi. All'improvviso un incubo mi prende alle spalle e cambia completamente i connotati della mia grigia esistenza. Degli insetti orripilanti percorrono avanti e indietro la parete, hanno le zampe lunghissime e sembrano in grado di divorarmi in un sol boccone. Li osservo meglio e scopro che non sono insetti, ma… centopiedi, qualcosa del genere, mi viene in mente un film visto di recente, con protagonisti esseri mostruosi, di immani proporzioni, riconducibili a specie vissute trecento milioni di anni fa; possono arrivare a due metri di lunghezza e muoversi veloci come saette.
Uno di essi sporge la sua testona oltre i confini del quadro magico in cui si specchiano e pare volermi dire qualcosa. Parla una lingua sconosciuta, emette frasette che mi incantano senza darmi modo di comprendere la finalità della sua azione. Cerco di esprimere le mie perplessità, ma la mia bocca riesce solo a ricamare fili stonati di note. C'è qualcosa che non va come dovrebbe, i sogni non sono così reali. Sono tormentato da un formicolio sempre più pressante, che mi intorpidisce mezzo corpo. Scompare il testone del centopiedi, e si profilano nuove maschere d'orrore. Una possiede una lunga proboscide che si incunea fra il mio sedere e il cuscino che mi ospita. Paiono l'alter ego delle creature delle pozzanghere. Non mostrano, infatti, un'area amichevole. Benché non mi stiano facendo del male, scorgo nei loro sguardi il tentativo di controllare ogni mia mossa, per poter sferrare quanto prima un colpo basso. E' un delirio che dura pochi secondi o un'intera vita, non saprei davvero quantificarlo. Ma so bene che quando torno in me ho gli occhi chiusi e sono madido di sudore. Mi spaventa l'idea di avere perso, seppure per un attimo, i lumi della ragione. Non mi è mai capitata una cosa del genere, nemmeno dopo i casini insorti con Laila. Era tutto così vivido… Cosa sarà mai? Tento invano di dare un senso all'apocalisse che mi ha attanagliato, ma i risultati sono alquanto sconfortanti. Agito la testa per sincerarmi che sia ancora attaccata, che sia tutto a posto, così sembra… Sarà forse il caso che mi faccia vedere da qualcuno… da uno strizzacervelli? Da quando in qua penso a migliorare le mie condizioni fisiche e mentali? Forse, nonostante l'ultimo delirio, qualcosa sta davvero cambiando, in meglio. Il divano di Freud, torno a disquisire a proposito del divano di Freud che vorrei possedere come un feticista… Il suo divano avrebbe senz'altro il potere di rimettermi in sesto e darmi la forza di combattere gli esseri misteriosi che affollano la mia mente.
Mi tranquillizzo respirando profondamente. Piano piano i muri tornano del loro usuale pallore, e ogni mostruosità si dilegua, nebulizza. Tutto torna come prima, sennonché la spina del mio cuore ricomincia a sanguinare in modo evidente, riprendendosi la rivincita sulle mie recenti conquiste in campo sociale. Si susseguono nuove canzoni che ridanno vita alla mia giornata; e alla fine ciò che rimane impresso nella mia memoria, più ancora del ritornello incriminato, è l'autore della canzone misteriosa: Eric Clapton.

While My Guitar Gently Weeps

Salto il pranzo sollecitato dal desiderio di rituffarmi in paese per fare un giro in biblioteca. Non ho idea di dove si trovi, ma è indubbio che un paese come questo ne possegga una. Esco e chiedo. Mi dà le indicazioni una signora sulla sessantina, tipica di queste lande, con una folta chioma grigia e due occhiali vistosi che le occupano mezza faccia. Sembra la moglie del tipo che avevo incontrato alla cappelletta degli appestati, che non ho più rivisto da quel giorno. Insieme starebbero meravigliosamente. Lo intuirebbe anche un bimbo, si incastrano alla perfezione. La loro genetica, penso non sia molto differente. Da queste parti sono tutti mezzi parenti, è anche per questo motivo che fino a qualche decennio fa nascevano spesso piccoli con qualche problema. E' la voce che mi è giunta da una creatura delle pozzanghere.
La biblioteca si trova nel centro del paese, nei pressi della chiesa principale, lungo una lunga via trafficata e avara di parcheggi. E' elegante, piccola ma elegante e apparentemente ben fornita. Al suo interno sono stato squadrato da quattro utenti che parlottavano fra loro. Solo uno mi ha salutato.
«Buongiorno», ho contraccambiato.
Mi sono guardato intorno un po’ a disagio, sentendomi addosso gli occhi dei presenti, come fucili a canne mozze piantati nella schiena. Sono stato pervaso dall'idea di tirare urlo, per dare almeno un motivo valido ai quattro per guardarmi come se stessero vedendo un extraterrestre. Toccandomi, però, il mento per scaricare l'ansia mi sono accorto della lunghezza della barba e del fatto che, verosimilmente, non sono molto presentabile. Quando sono in casa, di fatto, non mi guardo quasi mai allo specchio per vedere come sto e tantomeno quando devo uscire mi preoccupo di come possa apparire. Chissà se anche Ginevra lo avrà notato. Ginevra? Perché sto pensando a lei?
Dovrei rientrare nei gangheri e magari comprare qualche vestito nuovo. Alcuni sono davvero impresentabili. Non era così quando stavo alla Vian. Toelettatura e vestiario erano due aspetti che osservavo con rigore. Scrutandomi con maggiore attenzione, noto che, peraltro, indosso un paio di scarpe inadatte alla stagione, che si combinano malissimo con i pantaloni. Ora capisco lo sbigottimento dei presenti. Devono avermi scambiato per una specie di clochard.
«Sapete dirmi dove posso trovare qualche rivista o libro musicale?».
La bibliotecaria, una signora sgraziata e tonda, mi indica l'ultimo scaffale in fondo alla stanza che si apre davanti ai miei occhi. La ringrazio con un cenno del capo, muovendomi barcollando. Le riviste sono in cima al mobile, dove si intuisce che più persone vanno a mettere le mani. Comincio a sfogliare a casaccio, incredulo di fronte all'eccezionale numero di magazine di settore. Recupero l'indice di una raccolta di fascicoli musicali pubblicati da Curcio Editore, allegati a una rivista chiamata Rock & Blues. Cerco Eric Clapton. Mi manda a pagina 96 del quarto volume. Il servizio si apre con una bella immagine del musicista inglese, che suona con altri comprimari in una specie di teatro. Le luci falsano la realtà, facendolo sembrare una specie di robot con la chitarra in mano. Leggo cose interessanti sulla sua biografia: abbiamo quasi la stessa età, ma lui è nato a Ripley, piccolo villaggio a una quarantina di chilometri da Londra. E' soprannominato "slowhand", manolenta, curioso epiteto che non riesco a ricondurre a un'origine precisa. Risulta tutt'oggi essere uno dei più importanti musicisti blues. Leggo e leggo, finché non arrivo alla fatidica sentenza. Eric Clapton ha dato alle stampe nel 1970 a una delle sue canzoni di maggiore successo: Layla. Ho un fremito. Layla e non Laila. Dunque, ho la certezza matematica che la mia Laila non possa essere quella della canzone… Ridicolo che abbia ancora dei dubbi in questo senso, ma ora che posso appurare con certezza la sua estraneità nei riguardi del capolavoro claptiano provo un senso di sollievo. Layla non è Laila. Ma poco cambia. Quella canzone mi rimanderà per sempre al mio vecchio e indimenticato amore.
Proseguo nella mia ricerca, incuriosito dal fatto di scoprire chi si cela dietro alla protagonista del pezzo. Emerge che Clapton non è l'unico autore della canzone. Al suo fianco c'è Duane Allman, chitarrista e cantante statunitense, scomparso giovanissimo, l'anno dopo la pubblicazione di Layla, per via di un incidente stradale. Layla? Scopro che, in realtà, non è Layla, ma Pattie Boyd, moglie di un altro grande amico di Eric Clapton: George Harrison, nientemeno che uno dei quattro beatle. E che c'entra? Piccolo retroscena. Clapton e Harrison si stimano molto e non perdono occasione per suonare insieme. Il primo contribuisce alle registrazioni di "While My Guitar Gently Weeps", brano composto da Harrison per "White Album" dei Beatles; il secondo contraccambia in "Badge", dall'album "Goodbye" dei Cream, dove suonava Clapton. Risultato: Clapton vede sempre Harrison, ma anche la moglie di quest'ultimo, della quale alla fine si innamora, contraccambiato. L'amore, si sa, mette pepe all'ispirazione e così Clapton decide di dedicare un pezzo alla consorte dell'amico. Trova il pretesto per non utilizzare un nome fin troppo esplicito rifacendosi a un poeta azero, Nezami, autore di una storia dedicata a una principessa costretta a sposare per volontà del padre un uomo diverso da quello di cui era innamorata. Sembra proprio la sua storia. E visto che la protagonista della saga azera è Leylà… giungere a Layla pare inevitabile. Giochi chiusi? Non ancora.
La canzone, dopo qualche tentennamento iniziale, dovuto al fatto che vari opinion leader credevano che provenisse da un semisconosciuto gruppo della periferia londinese, ottiene un successo strepitoso, spendendo nel gotha dei più grandi musicisti di sempre il mitico slowhand, e consentendogli di soffiare definitivamente la moglie all'amico. Pattie Boyd divorzierà, infatti, da Harrison nel 1977 per sposare Clapton due anni dopo. Matrimonio che, a quanto pare, sta andando ancora oggi a gonfie vele.

Parametri esistenziali

Dopocena mi sono sdraiato sul divano e mi sono messo a fissare il soffitto, accantonando per un attimo Layla e Calpton, e ripescando un argomento affrontato qualche giorno fa: l'antropocentrismo. Ma da un nuovo punto di vista, o meglio, da un punto di vista basato sul fatto che probabilmente anche concetti tabù come la morte hanno valore solo se analizzati e valutati dalla nostra posizione. Non è escluso che anche il trapasso sia un immenso granchio e che, di fatto, non esista. Non sappiamo nulla del mondo che ci circonda, inutile negarlo, e diamo consistenza a parametri esistenziali sui quali probabilmente non abbiamo i mezzi per indagare. Non sappiamo quale sia l'energia che tiene in piedi l'universo, non sappiamo cosa succede a livello subatomico, c'è discrepanza fra le teorie di Einstein e l'immensamente piccolo, brancoliamo nel buio per ciò che riguarda l'ipotesi di un pre-big bang.
Si dovrebbe iniziare a parlare di biocentrismo, dove "il mondo", l'universo, è il centro, e noi solo una minuscola e infinitesimale appendice (che se anche non ci fosse non cambierebbe nulla). La morte, dunque, se si osservasse il processo da questo punto di vista, non dovrebbe sussistere, essendo una prerogativa della nostra mente, della nostra società. Siamo stati educati a credere nella morte e, paradossalmente, a evitar di discorrerne il più possibile. Ma, in realtà, non si muore mai, così come non si nasce mai, si esiste da sempre e per sempre sotto forme diverse, sotto materializzazioni differenti dell'energia. Ricordo di avere avuto questa sensazione anche quando mi capitò di vedere delle mummie mezze imbalsamate in un sotterraneo di Praga, in seguito a un'uscita improvvisa per la Vian. Guardavo quelle facce stranite e scheletriche e intanto avevo l'impressione che non fossero morte, ma che fossero altrove. Era come se a un certo punto l'energia in esse contenuta avesse smesso di irraggiare potere per volare chissà dove. Le cose credo che funzionino così, e anche i nostri sbagli, le nostre paure, dipendono verosimilmente dall'errata consapevolezza che abbiamo del genere umano. Lo stesso Einstein credeva che la morte fosse una sciocchezza. Quando gli diagnosticarono un aneurisma, rifiutò di farsi operare, sapendo che è tutto relativo, compreso il trapasso.
Il nostro principale errore è quello di vedere le cose sempre dallo stesso punto di vista. Dovremmo imparare, invece, a staccarci dalla nostra apparente solidità cosmica. Siamo in una stanza e vediamo di fronte a noi un tavolo, delle sedie, alcuni quadri appesi alle pareti. Ma non è quello che c'è veramente, è quello che crediamo ci possa essere: praticamente nulla rispetto a ciò che c'è davvero. I nostri occhi, certo, sono un limite sacrosanto alla conoscenza. Diamo giudizi in base a ciò che vediamo, ma gran parte di ciò che c'è non può essere visto con gli occhi, ma con la mente. Dunque, nella stessa stanza dove ci trovavamo poc'anzi, con l'intelletto arriveremmo a ben altro e vedremmo nuvole di atomi che si aggrovigliano fra loro, misteriose particelle che guizzano nell'aria, fantascientifiche creature che nemmeno il miglior microbiologo della Terra saprebbe diagnosticare ed energie che ci attraversano senza sapere cosa siano e da dove arrivino. E' grazie al potere della mente che possiamo vedere ciò che non c'è; se invece, come facciamo, ci affidiamo agli occhi e all'educazione che abbiamo ricevuto, non portiamo a casa nulla d'interessante. Continuiamo a sprofondare nella nostra boria, inconsapevoli di tutto e tutti.
L'antropocentrismo è in gran parte figlio della religione, temo; di quella cristiana soprattutto. Le cose sono state confuse dalle sacre scritture. Qual è il senso della resurrezione di Cristo se, in pratica, siamo già tutti i risorti e ogni giorno risorgiamo? Chiunque, infatti, se ragionasse con la mente e non con gli occhi, vedrebbe che la reincarnazione di Gesù - magistralmente ideata per alleviare le nostre pene convincendoci di un immenso potere sovrannaturale in grado di regalare l'immortalità - non è che un concetto arbitrario, obsoleto, mitologico. Non c'è nulla di vero in essa, per il semplice fatto che racconta una verità che si verifica tutti i giorni, e che, pertanto, non ha nulla di trascendentale. La superficialità del cristianesimo è stucchevole, e stucchevole è il fatto che ci siano ancora preti che non si siano accorti delle immense fregnacce che raccontano. Dovrebbero auto infliggersi delle punizioni, non per redimere il peccato universale (altra cosa stupida), ma per i continui lavaggi di cervello che operano nei confronti di seguaci ignari, incapaci di fare un po’ di autocritica. Senza contare la presunzione legata al fatto di ritenere santo Gesù, ma non Maometto e Buddha. Che differenza ci sarebbe fra queste persone?
Semmai è il mistero della carità cristiana che andrebbe approfondito e perseguito. Quella magica e indescrivibile spinta che porta a vincere le leggi darwiniane, antiponendo all'io, l'altro, questo sì che può avere un vero valore trascendentale, il resto sono sciocchezze. Ma il cristiano medio fa troppo spesso orecchie da mercante, facendo e predicando tutto, senza donare un bel niente e, quindi, rinunciando clamorosamente all'unico vero paradigma della comunione con Gesù. Al cristiano andrebbe, dunque, suggerito di evitare di parlare di cose che non ci sono e di santificare feste che non servono, ma di vivere come insegnava Cristo, all'insegna della rinuncia per l'altro. Mi viene in mente Kolbe, il sacerdote che durante la guerra si fece avanti per essere giustiziato al posto di un condannato a morte con moglie e figli. Questo è un bell'esempio di vero cristiano, uno fra i pochissimi, gli altri scimmiottano il cristianesimo con un'incoerenza spaventosa, abbeverandosi alla fonte dell'ipocrisia. Anche se poi si finisce per aprire una nuova questione: il donarsi agli altri è un puro e spontaneo regalarsi o è la modalità estrema per far stare bene noi stessi? In altre parole, per esempio i missionari, fanno del bene ai terzomondisti o al proprio spirito che altrimenti soccomberebbe?
Sono tornato a parlare di questo argomento anche perché l'altro giorno ho visto un documentario dedicato all'ipotesi di forme di vita aliene, su cui mi sono trovato a meditare subliminalmente fino a oggi. Quasi l'intera durata della trasmissione ha avuto come tema clou l'ipotesi che gli extraterrestri ci possano attaccare. Mi sono scaldato. Se ci sentissero gli alieni si farebbero della grosse, grasse risate… Ma possibile che a nessuno di noi venga in mente che per creature più o meno sviluppate delle nostre il concetto di guerra possa non avere alcun senso? Perché riconduciamo tutto all'uomo? Perché non s'impara a vedere le cose da un punto di vista universale? Il fatto che ci facciamo guerra dagli albori della civiltà non può e non deve significare che anche in altri punti del cosmo tutto ciò abbia un significato… Ancora una volta valutiamo il discorso come se fossimo al centro di tutto… mentre non siamo altro che minuscoli esseri terribilmente arretrati.

Un gatto nero a passeggio

E' notte e non riesco a chiudere occhio. Ripenso ancora alla canzone di Clapton, mi giro e rigiro nel letto come un drogato in crisi di astinenza; come i primi giorni di soggiorno a Concorezzo, con una colpa troppo grande da espirare con successo, senza un aiuto, un appoggio dall'esterno. Andare a fare una passeggiata nel cuore della notte, con il freddo che c'è, mi pare un'assurdità… Quindi? Quindi, come in un copione già visto, mi alzo e vagabondo per casa fino a trovarmi di fronte alla finestra che dà sulla casa del vicino. Nonostante l'ora tarda ha ancora le luci accese. Mi pare strano. La macchina al solito posto, i bagliori del soggiorno, la fine del mondo verosimilmente ancora lontana; ma qualcosa mi lascia di perplesso. Sono le due di notte e, domani, suppongo che, come tutti i mortali (a parte il privilegiato sottoscritto) debbano andare a lavorare: cosa ci fanno ancora in piedi? Noto delle ombre al di là delle tende che si sovrappongono freneticamente. C'è qualcuno che va e che viene; sembrerebbero persone diverse, affaccendate per qualcosa, ma è pressoché sicuro che siano solo i due proprietari della casa, che si avvicendano l'uno con l'altro come se si fossero messi in testa di traslocare col buio o fuggire per via di un'imminente esplosione. Perché sicuro? Non so, è un'idea, una certezza che mi sovviene, non ha senso che alle due di notte due tipi come loro stiano facendo festa con qualche amico particolare. Peraltro non vedo parcheggiate auto lungo la via, né ci sono altri mezzi motorizzati. Potrebbero esserci amici del paese, sopraggiunti a piedi… ma insisto: nei giorni feriali i brianzoli non fanno festa fino alle ore piccole. E allora… che diamine staranno facendo i miei vicini?
La luce si spegne e si riaccende, come se qualche imbecille si divertisse a pigiare sull'interruttore per fare passare il tempo. Lo facevo anch'io da bambino con qualche mio cuginetto, fingendo di trovarci in un casinò di Las Vegas. Continuano i loro assurdi avanti e indietro. Le tende subiscono uno sconquassamento, un movimento anomalo, sussultorio. Non ci sono, però, correnti d'aria, presumo non ce ne siano, non soffia un alito di vento e le finestre sono ben serrate; evidentemente uno dei due è finito addosso alla finestra: la schiena di una persona ricama un confine fin troppo netto nel drappo di tessuto, a mo' di uno spettacolo di ombre cinesi. Per poco non si riconoscono anche le vertebre dell'individuo sospinto da una forza a dir poco tracotante. Un brivido mi scombussola lo stomaco, facendomi andare su e giù quel poco che ho mangiato. Mi pare di sentire un urlo. E' un urlo. Mantengo la calma e mi avvicino alla porta di casa che disserro lentamente.
Ora domina il silenzio. Saluto con un cenno sbrigativo qualche creatura delle pozzanghere che tergiversa nei pressi di un minuscolo alveare lacustre condannato all'estinzione. Torno alla casa dei vicini. La luce del soggiorno sembrerebbe essere stata definitivamente smorzata. Vengo, di nuovo, sopraffatto dall'ipotesi che mi stia sfuggendo qualcosa, nel bene o nel male. Sono solo immagini distorte della mia mente? Cosa sta accadendo in quella casa?
Prendo le sigarette e mi metto a fumare sull'uscio di casa, seminascosto da un grosso vaso spoglio.  Dalla mia posizione posso vedere tutto senza essere visto da nessuno. Fa un freddo della miseria ma è come se fossi anestetizzato; benché in pigiama resisto come un eschimese alle ferite del gelo, soffiando in mezzo alla strada nuvole di fumo e vapore. Mi guardo intorno scoprendo una via totalmente deserta: perfino delle creature delle pozzanghere non c'è più traccia. C'è un rumore di fondo, che non riesco a decifrare, un rumore sordo e costante. Forse è l'eco dell'autostrada, dei mezzi ancora in circolazione. A quest'ora della notte? Mah. In ogni caso non devono esserci tantissimi metri fra il mio quartiere e la tangenziale e lì convergono molte altre strade.

Alla mia sinistra odo un miagolio che mi restituisce per un attimo il buonumore. E' un gatto nero che attraversa la strada. Gli dedico la mia attenzione, come se fosse la più bella cosa che abbia mai visto da un bel po’ di mesi a questa parte. Sembra l'animale più tranquillo e pacifico del creato, del tutto disinteressato alle vicissitudini degli umani che lo circondano. Con assoluta nonchalance filtra nel giardino dei vicini, attraversando l'ampia feritoia del cancello, perdendosi dietro un'araucaria mezza rinsecchita. Mi rimanda ai pensieri di oggi pomeriggio. Anche il senso di questa notte bizzarra dipende da un punto di vista: in questo caso, il mio e quello di un gatto teso a traguardi che non mi competono minimamente. L'antropocentrismo abiura lo spirito critico, ma è sufficiente il semplice galoppo di un felino domestico a far quadrare nuovamente le cose. Basta un piccolo sforzo, un misero e mistico ragionamento. Basterebbe poco, per tutto. 

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