Viveva sola dal 1983 e mai si sarebbe immaginata di incontrare, all’alba dei quaranta anni, l’uomo giusto per lei. Lo aveva conosciuto in occasione di una gita col CAI di Agrate, associazione fra le meglio avviate del paese, presieduta da un manipolo di entusiasti camminatori e scalatori; fra questi c’era anche il fondatore dell’associazione, tal Vittorio Biancotti, titolare di un negozio di abbigliamento sportivo a Barzanò. L’escursione prevedeva una passeggiata in Valsavaranche, nel cuore del Gran Paradiso; una gita per tutti, compresi coloro che non hanno un particolare feeling con piccozze e scarponi. Innanzitutto l’arrivo a Degioz, capoluogo della valle, grumolo di case ricoperte di ardesia, pressoché disabitate durante l’inverno, ma prese d’assalto con la bella stagione; dopodiché la lunga e panoramica scarpinata verso le pendici perennemente imbiancate del Gran Paradiso: dal rifugio Chabod era possibile (ed è ancora oggi possibile) raggiungere la vetta del quattromila, ma anche le cime adiacenti, fra cui la pericolosa Grivola, un centinaio di metri in meno di altezza rispetto al gigante del parco. Cinzia Gariboldi non andava spesso in montagna, ma da un po’ di tempo, più o meno dal 1984, aveva deciso di prendere attivamente parte al gruppo di appassionati agratesi; s’era finalmente convinta a uscire un po’ di più dal suo guscio, frequentando gente nuova, e abbandonandosi a nuove ipotetiche corse post adolescenziali. Nel 1986 non c’erano così tante alternative per fare comunella; e dunque, quella di far parte di un gruppo associativo avviato, meglio se dinamico e sportivo, era fra le più gettonate. Dalla sua anche una presenza di tutto rispetto, che verosimilmente non avrebbe dato fastidio ai veterani, con legami interpersonali cementati da esperienze non solo montane, se non a qualche zitella in cerca di un’anima gemella che non avrebbe trovato mai. Aveva sulle spalle quaranta primavere, ma poteva tranquillamente considerarsi nel fiore dei suoi anni. Non ne dimostrava più di una trentina, aveva un visino grazioso, nemmeno un capello bianco, né rughe particolarmente infingarde. Si abbigliava come capitava, senza troppo badare al look, ma con un gusto mai pacchiano, anzi, talvolta con uno stile personale che in altri contesti sociali o in altri centri un po’ più all’avanguardia, avrebbe addirittura potuto dettar legge. La fregava, però, un carattere eccessivamente introverso, troppo chiuso, quasi sempre indeciso sul da farsi. Molte amiche l’avevano sollecitata a tirarsi fuori, non vivendo più l’ipotesi della vita da single come una condanna, ma come un’opportunità, una risorsa, contando sul fatto che solo così è possibile permettersi certe libertà, mentre tutti gli altri coetanei ostentando un benessere senza eguali, agonizzavano all’interno di matrimoni mezzi falliti e relazioni genitori-figli del tutto diverse da quelle immaginate al tempo del liceo. Eppure il suo atteggiamento nei confronti della vita non era cambiato granché, anche in seguito alle sollecitazioni delle compagne di ogni dì. Tuttavia, proprio grazie ai biancori del Gran Paradiso, aveva conosciuto Giorgio Esposito, trentacinquenne dai modi gentili e dalla parlantina sciolta, l’esatto opposto di lei, timida con chiunque e piuttosto riservata anche nelle condizioni di massima rilassatezza con gli amici e i parenti di una vita. Giorgio lavorava in banca, ma da tempo dedicava i suoi weekend ai monti. Aveva cominciato con chiodi e imbracature cimentandosi con le cime prealpine, tipo Grigna e Resegone, per poi puntare sempre più in alto, compresi vari quattromila. Il lavoro in banca gli assicurava un ottimo avvenire, e coi primi risparmi era riuscito a comprarsi un appartamento, un bilocale, nel cuore del paese, lungo la via principale. Ne andavano fieri i genitori di origine pugliese che per lui avevano fatto tanti sacrifici durante gli studi universitari, mantenendolo per un quinquennio in una casetta di Cologno Nord, a due passi dalla fermata della metropolitana. Durante la salita al rifugio Chabod l’aveva abbordata chiedendole della sua passione per la montagna. Lei gli aveva risposto in modo superficiale, quasi volesse fargli intendere che per rivolgerle la parola con tanta audacia, fosse necessario una specie di lasciapassare, fornito direttamente dal capo dei guardaparco. A modo suo sapeva mostrarsi sufficientemente snob, se non contraddistinta da un atteggiamento oggettivamente narcisistico. Ma Giorgio le era comunque sembrato fin da subito un tipo se non interessante, abbastanza simpatico, con quell’approccio alla vita e alle persone che credeva tipico dei meridionali, tale per cui non esiste niente di più bello che far amicizia senza porsi troppi problemi, ciò che invece non accadeva con gran parte dei suoi compaesani, sempre troppo attenti alle buone maniere e, di conseguenza, a frasi circostanziali che sapevano di falso lontano chilometri.
“Io sono un abitué della catena alpina”, le aveva raccontato Giorgio, dopo aver rotto il ghiaccio, indifferente alle esitazioni della nuova conoscente. “Benché sia di origini pugliesi, ho un debole ‘malato’ per la montagna e non di certo per il mare. Nella mia vita ho già raggiunto numerose cime, fra cui il Monte Rosa, il Gran Paradiso e il Bernina. Prossimamente non mi dispiacerebbe spostare la mia attenzione sulle Dolomiti. C’è l’intera area bellunese ancora tutta da esplorare e conquistare. Non sono cime troppo elevate, ma l'atmosfera che si respira in quei luoghi è a dir poco magica”.
Cinzia l’aveva ascoltato con vivo coinvolgimento, divertita dal suo pavoneggiarsi: narrava delle sue principali conquiste in montagna, come se non ci fosse niente di meglio di cui sparlare, ma riusciva a non apparire arrogante, semmai buffo e comico. Il fatto che avesse potuto vincere simili traguardi, dove in molti, secondo cronache risapute, ci avevano addirittura lasciato la pelle, la incuriosiva e le regalava una sorta di impercettibile eccitazione che la portava a osservarlo con occhi maliziosi e luccicanti. Valutava inoltre il fatto che lei non era mai arrivata a tanto, e mai ci sarebbe arrivata, ché a onor del vero non era ancora riuscita ad adattarsi totalmente alle altissime quote, quelle a cui un autentico amante della montagna dovrebbe ambire. Ma a lei, tutto sommato, andava bene anche così: le bastava toccare quota tremila per godere di sensazioni così forti da non voler cercare altro. Aveva deciso di non sfidare più le alte cime – quelle, dunque, superiori ai tremila - in seguito a un’esperienza vissuta in Val Veny, con un attacco di panico da record, così forte da ipotizzare l’intervento dell’elisoccorso; poi non era intervenuto nessuno, perché lentamente, nel giro di un'oretta, tutto era tornato come prima. Era un periodo davvero duro, l’ennesimo tentativo amoroso – con il direttore del palazzetto dello sport di Brugherio - era andato a vuoto, e in quel frangente si era sentita sola come raramente le era capitato nella vita; lo spasimante le stava dietro giusto i primi tempi, con il calore e la partecipazione che si conviene a qualunque love story degna di chiamarsi tale, ma poi, all'improvviso aveva cambiato atteggiamento, mostrandosi troppo frequentemente e inspiegabilmente freddo e distaccato; cosa fosse accaduto di preciso non era riuscita a capirlo, ma era viva in lei la sensazione che fosse comparsa un'altra donna che gli aveva completamente rintronato testa e cuore; lo aveva intuito percependo sui colletti delle camicie un profumo che non gli apparteneva. Aveva pertanto accettato di fare una scampagnata con alcuni colleghi di lavoro, credendo che la cosa potesse risollevarle un po’ il morale. In realtà le era solo servito a rendersi conto che sarebbe stato meglio per lei non muoversi più da casa, finché le sue condizioni psichiche non si fossero riequilibrate. Il problema è che fra le alte cime si lasciava condizionare dalla mancanza di ossigeno e ben presto, oltre tot metri, andava in iper-ventilazione, mandando in fumo ogni buon proposito di trasformarsi in una provetta scalatrice. Sapeva benissimo che si trattava di un problema psicosomatico, come sapeva, però, che non l'avrebbe mai risolto: dopo i 40 tanto valeva rassegnarsi a quel che si era, senza tirarsi troppe paranoie. In fondo, anche certe fobie, erano in grado di caratterizzare una persona, rendendola in qualche modo unica e universale. Ma continuava ad amare la montagna, dove percepiva una libertà assoluta, vicina alle nuvole, e a quel Dio al quale non smetteva di credere con tutte le sue forze e la sua volontà. La sua fede era perlopiù frutto dei tanti anni trascorsi in oratorio, prima come allieva catechista, poi lei stessa come educatrice. Molte ragazze più giovani, passate dai suoi sermoni, mai troppo noiosi per la verità, incontrandola in giro per il paese, non perdevano occasione di scambiare con lei due chiacchiere, in virtù dei bei tempi passati insieme, non solo nella struttura donboschiana, ma anche in qualche pizzeria della zona o convegno dell'Azione Cattolica. La circostanza la riempiva di speranza e orgoglio. Vedeva Dio ovunque, pure nella sfortuna di non essere ancora riuscita a mettere su famiglia. Non si faceva più troppe domande: se era così che voleva il Signore, così sarebbe stato, senza tante storie. Ma i giochi, evidentemente, non erano per nulla fatti.
“Sei pugliese?".
"Pugliese doc".
"Pugliese di dove?”.
“Ostuni. Conosci Ostuni?”.
“Non bene, ma so che da quelle parti ci sono posti meravigliosi… ci sono stata un paio di volte, facendo visita a una mia amica che abitava a San Vito dei Normanni".
"San Vito! Ci andavo sempre da ragazzino. Mi recavo con gli amici di scuola al Caffè Bagnardi, vicino al municipio. Presente?".
"Non saprei, sono stata parecchio tempo fa…".
“Il Salento, comunque, è un posto magnifico, con angoli che non si possono dimenticare… Se uno vede il Salento non può fare a meno di tornarci”.
Cinzia l'aveva guardato stupita:
“Perché, allora, vivi a Milano?”.
“Sono costretto per lavoro, ma spesso ci torno. E qui, in ogni caso, ho scoperto le Alpi, che mi danno le stesse sensazioni che provo quando visito la mia terra d’origine”.
Dopo la gita avevano preso a frequentarsi con una certa titubanza, poi con sempre maggiore convinzione. Una sera erano andati a passeggio a Montevecchia. Il sole era già calato da un po' e per le stradine del promontorio brianzolo si respirava una tiepida e profumata atmosfera. Le lucine dei paesini sottostanti abbellivano la cornice nella quale si ritrovavano calati, fino a far prendere loro coraggio e lasciarsi andare una volta per tutte. In questo idilliaco contesto s'erano presi per mano per la prima volta, di poco in anticipo sul primo bacio ufficiale consumato sulla balaustra della chiesa che guardava verso gli Appennini. Cinzia era diventata rossa tutto d'un colpo. Non si ricordava il giorno del suo ultimo bacio, un bacio vero, pieno di sentimento, non certo come quelli ricevuti dal brugherese, sporcati da una morbosa viscidità. Giorgio aveva tutto un altro stile: era a modo suo romantico e dolce, proprio ciò di cui aveva sempre avuto bisogno. Era avvenuto un miracolo. Sicché Cinzia, in poco tempo, era diventata un’altra persona, sconosciuta anche alle amiche storiche, Francesca e Marilena, con cui aveva vissuto le più belle esperienze giovanili e con le quali chissà quante volte da ragazzine s'erano scambiate battute su questo o quell'altro spasimante: s’erano confidate le due amiche di Cinzia, dicendosi che non l’avevano mai vista così euforica, così sicura di sé ed entusiasta della vita. Nei suoi occhi, spenti e mogi per così tanto tempo, all’improvviso, aveva cominciato a brillare il sole, per la gioia sua e dei genitori, finalmente felici di poter accompagnare una della quattro figlie all’altare. Le sorelle, nel frattempo, erano state colpite da una vivace ansia, legata al fatto che – essendo tutte e tre single - sarebbe ora toccato a loro; si sarebbero, peraltro, sentite addosso gli occhi di tutto il clan Gariboldi, particolarmente feroce e insistente con chi a una certa età non ha ancora messo su famiglia. Avevano deciso di sposarsi dopo nemmeno un anno dal primo incontro alle pendici del Gran Paradiso. Sarebbero convolati a nozze nella chiesa di San Zenone, a Omate, dove viveva Cinzia, e dove anche a Giorgio avrebbe fatto piacere poter abitare: si trattava, in fondo, di spostarsi solo di un paio di chilometri, nulla di che, considerando la sua anima pellegrina. Il matrimonio era stato fissato per il mese di luglio, e dunque al momento del patatrac di Chernobyl, mancavano solo tre mesi al lieto evento. Già avevano comunque preparato ogni cosa nei minimi dettagli - la lista nozze, i fiori, i regali, le bomboniere... - soffermandosi anche sulle letture evangeliche più appropriate per affrontare da degni cristiani il convolo. Come testimoni, Cinzia aveva scelto Marilena e Patrizio, un cugino di secondo grado col quale soleva confidarsi durante le estati trascorse nella casa presa in affitto dai suoi a Milano Marittima; Giorgio aveva invece puntato sul fratello maggiore Roberto, e su Anna Consoli, amica di una vita, ex compagna di università, con la quale, peraltro, aveva avuto una mezza tresca durante l’estate di fine anni Settanta. Don Alberto Girardelli, giovane sacerdote incontrato da Giorgio in occasione di una visita a una comunità di Cologno per il recupero dei tossicodipendenti, avrebbe officiato la cerimonia.
L’appartamento di Cinzia era il regalo dei genitori per i suoi 36 anni: da tempo la ragazza sentiva la necessità di rendersi indipendente, e i suoi vecchi, non avendo particolari problemi economici, erano stati ben lieti di assecondare il suo desiderio, acquistandole l’appartamento D, al primo piano del "lussureggiante" palazzone omatese. Sarebbe stato, probabilmente, più difficile con le altre figlie della coppia, ma intanto sistemarne una non poteva che essere considerato un successo, anche dal punto di vista imprenditoriale, gli immobili valeva sempre la pena conservarli come bene prezioso, più di qualunque sterile conto in banca. Era tipico dei brianzoli più veraci, d'altronde, quello di accaparrarsi anche a costo di sacrifici inauditi un capitale immobiliare, per poi tramandarlo di generazione in generazione. Ma era, certo, soprattutto il pretesto per convincere Cinzia a prendersi una volta per tutte le sue responsabilità, e magari con più disinvoltura scorgere, al di là dell’orizzonte dei soliti quattro amici, l’uomo giusto per lei, col quale mettere al mondo figli e cominciare a vivere la sua vita a tutti gli effetti. Premonizione quanto mai azzeccata.
“Spero sia di tuo gradimento…”, le aveva detto il padre, disposto a tutto pur di rendere felice la primogenita.
“Va fin troppo bene, papà, stai scherzando?", aveva ribattuto la figlia, ringraziando allegramente il genitore. “C'è tutto, ed è così spazioso…".
"Non manca proprio nulla. Ci sono perfino le scope per ramazzare!".
Cinzia non aveva colto l'ironia del genitore, ed era andata avanti con i suoi ragionamenti.
"Anzi, pensandoci bene… per me potrebbe addirittura essere troppo grande!".
"Così sarai a posto per un bel po’".
Cinzia aveva abbracciato il padre, benché raramente si trovasse a manifestare così apertamente i suoi sentimenti.
"Davvero, papà, non potrò mai ringraziarvi a sufficienza…".
Di fatto, Cinzia non aveva tutti i torti. Era un tre locali, ideale per una famiglia, ma forse eccessivamente ampio per una single. Tuttavia, come aveva accennato il padre, tanto valeva organizzarsi fin da subito per l’avvenire: semmai avesse incontrato l’anima gemella, non avrebbe dovuto perdere tempo a cercare il nido più appropriato. Nonostante le numerose riflessioni fatte, anche all’alba dei quarant’anni, la speranza di conoscere un uomo in grado di soddisfarla, e al quale lei stessa avrebbe potuto dedicare tutto il suo divenire, era tutt’altro che svanita. Perfino la cugina Elisa Gariboldi, che abitava a Macherio, in una casa del centro ristrutturata, s’era fidanzata tardi, guadagnando le luci dell’altare ormai oltre la quarta decade.
“Nulla è precluso al volere del Signore”, solevano pensare in tandem.
Spesso i loro ragionamenti si riferivano alla vicenda biblica di Giobbe, con tutte le traversie che aveva dovuto affrontare… Ma alla fine il Signore era stato clemente con lui e l'aveva beneficiato di ogni dono. Dio, dal loro punto di vista, aveva già disegnato il cammino di ogni singola persona… e, dunque, bastava solo avere un po’ di fiducia in lui per vedere esauditi i propri sogni. Ma se anche le cose non fossero andate come previsto, non ci sarebbero stati problemi; nell'aldilà Dio avrebbe ricompensato tutti, specialmente chi aveva patito di più in Terra. Si infervoravano quando affrontavano l'argomento, paragonandosi addirittura ai cristiani che, nell'antichità, arrivavano a farsi divorare dai leoni, pur di non rinnegare il Verbo. Erano tutti temi assai cari anche al futuro sposo, da sempre devoto alla religione cattolica.
L’ingresso della nuova casa di Cinzia si apriva su un ampio salone, preceduto da un acquario lasciato dal vecchio proprietario, un figuro di cinquant'anni migrato all’estero per lavoro. Al suo interno sguazzavano felici tanti pesciolini tropicali, acquistati da un rivenditore all’ingrosso di Pessano, del quale anche i suoi genitori beneficiavano per rinfoltire di pesci rossi della fontana che troneggiava nel mezzo del giardino della famiglia, sulla strada per Monza. Al di là di esso c’erano due divani composti a L, e un piccolo tavolino nel punto di convergenza dei due sofà: l’optimum per appoggiare qualche giornale acquistato di fresco, o un bel mazzo di fiori. La sera, Cinzia, grazie a questa confortevole soluzione, non disdegnava accompagnarsi a un bel film, meglio se di quelli tipicamente femminili, da lacrimucce nel finale, con una tazza fumante di tisana ai frutti di bosco che tra un sorso e l’altro, proprio sulla superficie del piccolo mobile poggiava con delicatezza. Era una consuetudine che la rilassava e in qualche modo la metteva di buonumore, facendola sentire parte di un grande progetto universale. La sala introduceva a una breve anticamera che si apriva prima di tutto sulla cucina, arredata con gusto, con tinte rossastre, poi sulle due camere e sui bagni. Uno dei due servizi era ancora spoglio e disadorno, con la porta quasi sempre chiusa: così l’aveva lasciato l’ex inquilino, e Cinzia non aveva ancora pensato di sistemarlo, non c’era tutta sta fretta, anche perché un bagno le bastava e avanzava. In fondo all’anticamera c’era un minuscolo disimpegno riempito da scope, spazzoloni, detersivi e saponi. In quella sede aveva anche sistemato dei vecchi dischi del padre, perlopiù raccolte di canzoni di guerra registrate da cori locali, fra cui quello di Carugate che godeva di un certo prestigio.
Benché abitasse a Omate ormai da tre anni, non aveva ancora preso confidenza con gli altri inquilini, specialmente quelli del pianerottolo che incontrava quasi tutti i giorni; abitando al primo piano s’era abituata a salire le scale, facendo a meno dell’ascensore, ma gli incontri con i vicini erano comunque frequenti, e potevano verificarsi nei momenti più disparati: trasportando la spazzatura, parcheggiando la macchina in box, fermandosi a bagnare le piante del balcone, interloquendo con il postino che nonostante gli anni di esperienza continuava a sbagliare le buche delle lettere. Quando il telegiornale delle 20.00 aveva diramato la notizia del disastro di Chernobyl, Cinzia era appena rientrata dall’Esselunga di Vimercate: da vari giorni meditava di fare una grossa spesa, così da non dover ricorrere per un po’ al minimarket di Agrate, dove lavorava una cassiera che non sopportava. Si chiamava Larissa Magni e il suo modo di fare la indisponeva: le chiedeva ogni volta che la incontrava se non aveva trovato il principe azzurro, e se e quando si sarebbe sposata. Non capiva che dopo un po’ certe domande cominciano a dare fastidio? Ma forse era per via della frustrazione costante che la contraddistingueva, non avendo mai avuto un uomo e per via di un appeal da scaricatore di porto; da qualche mese, peraltro, era vittima della paradontite, circostanza che la portava ad avere un alito pestilenziale, facendo tremare chiunque si trovasse a passare dai suoi paraggi.
Prima di guadagnare la porta d’ingresso del proprio appartamento, con due dei quattro sacchetti della spesa riempiti fino all’orlo (gli altri due erano ancora nel portabagagli), aveva scambiato due parole con la moglie di Andrea Canali che, con il suo perenne stato di alienazione mentale, in qualche modo riusciva a farla sentire a suo agio. Paradossalmente era proprio con chi stava peggio di lei che trovava il coraggio di guardare al futuro con risolutezza e stoicismo; chi viveva ai bordi della società, in silenzio, lontano da qualunque pretesto di farsi strada sgomitando, mettendo in luce i peggiori requisiti del genere umano… Si trovava, pertanto, perfettamente in linea con individui che normalmente venivano mantenuti a debita distanza dal popolino, poco predisposto a dar retta a chi non è conforme al vivere tradizionale. Fra questi c'erano anche un tal Pietro Castelli delle Gescal agratesi, le più famose case popolari, un ubriacone di prima categoria, ex operario della Falk; e Franco Rubini, uno che dopo essersi calato una pasticca di LSD a fine anni Settanta non si era più ripreso e andava in giro a dire che i nazisti continuavano a dominare il mondo a nostra insaputa. Con la Canali s'era incontrata presso il portone di ingresso, una pesante doppi vetri che divideva un piccolo atrio dal vano dell’ascensore, dove in estate si manteneva una costante frescura, e in inverno un confortevole tepore. Provava per lei e il suo moribondo modo di vivere una sincera pena; sicché dopo l’abituale buongiorno o buonasera di prassi, anziché fare finta di niente, aggiungeva puntualmente il classico, ma pur sempre cordiale, “come sta?” che metteva in moto l'ennesima affettuosa discussione. La signora Canali, che difficilmente dava confidenza agli omatesi, e ancor più a coloro che vivevano a pochi metri da lei, con la single dell’appartamento D si lasciava andare con piacere, giudicandola un’anima in sintonia con se stessa e sincera come pochi altri.
“Oggi andiamo abbastanza bene, ma sono tormentata dal mal di testa”, aveva mugugnato la Canali.
“Sarà anche per via della primavera”, aveva ribattuto Cinzia. “Con questa stagione è facile… subentrano una miriade di malesseri. Colpa anche della nostra sensibilità femminile…”.
“Gli uomini sono insensibili a tutto, e questa loro prerogativa gli garantisce riparo da ogni cosa”.
"Non so…".
C'era stata una piccola pausa di silenzio.
“A poter rinascere credo che molte di noi metterebbero la firma per vestire i panni di un uomo”.
“A volte, però, gli uomini con la loro insensibilità, sembrano più in difficoltà di noi”.
"Vorrei tanto crederlo. Mio marito non l'ho mai visto in difficoltà. Dagli una partita da seguire in tv, e gli passa tutto".
Cinzia aveva sorriso, prima di augurarle una felice cena. La notizia di Chernobyl, però, non le aveva provocato particolari emozioni. Ascoltava con interesse lo speaker, ma senza il comprensibile smarrimento che dovrebbe suscitare una notizia di questo calibro. Udiva parole a dir poco apocalittiche, ma era come se il suo cervello non si rendesse realmente conto della gravità della situazione. Era per via della condizione d'innamoramento che la contraddistingueva ormai da mesi e che la portava a vedere tutto come se un filtro rosa si fosse infrapposto fra i suoi occhi e la sua capacità di ragionamento. Il pensiero costante del suo Giorgio, di fatto, la allontanava da qualunque riflessione coerente, compresa quella relativa alle conseguenze di un inaspettato disastro nucleare. Uranio e plutonio erano nomi che aveva già sentito, ma ai quali non aveva mai dato alcuna importanza. Era – tanto per mettere in campo una correlazione a lei familiare - come quando aveva a che fare con la Formula Uno, realtà sportiva della quale sapeva a malapena ammettere l'esistenza di pneumatici di grande formato. E che odiava con tutte le sue forze. Non aveva mai capito cosa ci fosse di bello nel compiere come ebeti settanta giri di una pista a quasi trecento all'ora. E ancor peggio non si capacitava del fatto che ci fossero persone che per più di un'ora si mettono davanti alla tv a seguire il girotondo di piloti nascosti da caschi a dir poco appariscenti. A tenerla impegnata e a occupare mentalmente ogni frazione della sua giornata, c'era in verità tutto il trambusto dovuto all’organizzazione del matrimonio; circostanza che, mandandola in estasi, non le permetteva di mettere a fuoco come si dovrebbe un problema. Insomma, le fosse anche caduto un meteorite in casa, probabilmente non se ne sarebbe accorta. In giornata s’era confrontata con il futuro sposo sul complessino da ingaggiare per intrattenere gli invitati durante il pranzo nuziale. Giorgio conosceva un gruppo di amici che suonava musica country: i Melody Country Boys. A discapito del nome erano piuttosto bravi, giravano l’Italia con strumenti caratteristici come il banjo e il mandolino, e ogni loro live si trasformava in una festa di gran successo. Era un’idea, però, che non convinceva appieno Cinzia, pressoché digiuna di questo genere musicale, che ricollegava ai cowboy americani, e che non riusciva proprio ad assimilare a uno sposalizio.
“Ma sei certo di quel che dici?”, gli aveva chiesto.
“Se vuoi ti faccio sentire una loro cassetta, poi potremo decidere insieme…”.
“Temo sia un po' fuori luogo”.
“Io penso che sia originale”.
Giorgio non aveva insistito più di tanto, anche lui, del resto, in volo costante su una nuvoletta a metri e metri dalla superficie terrestre; e, dunque, tranquillamente indifferente all'ipotesi di dover rinunciare a un caldeggio particolarmente sentito. La sua era una semplice e divertente proposta, come lo era stata quella relativa a un amico del CAI che si sarebbe preso la briga di assisterli fotograficamente, ma se anche la futura moglie si fosse opposta alla sua iniziativa, non ne avrebbe certo fatto una malattia. Al momento delle digressioni su cesio e uranio, Cinzia era tutta presa dall’ipotesi che qualche invitato potesse seriamente non gradire un concerto di musica country, al punto da arrivare a commentare pubblicamente in negativo la performance, a discapito del clima festaiolo. Qualcosa che non avrebbe mai voluto potesse verificarsi. Lei conosceva bene i suoi invitati, fra amici e parenti, e sapeva benissimo che nessuno di loro aveva mai nutrito alcuna passione per la musica dei cowboy. Molti di essi ascoltavano musica pop italiana, capitanata da figure del calibro di Baglioni e Cocciante, o tutt’al più qualcosa di americano alla Michael Jackson; qualcuno amava i cantautori puri e impegnati, stile De Gregori o Guccini (ma erano mosche bianche); i suoi genitori, addirittura, non sapevano nemmeno che potessero esistere certe forme musicali, ancorati com’erano a evergreen di un’epoca trapassata, come Romagna Mia e Piemontesina. La musica country era come dire la musica dei campagnoli, sospettava, non di certo degna di far da contorno a un evento nuziale, al suo evento nuziale.
“Non fa parte del nostro costume e poi... chi li conosce i musicisti country e le canzoni che propongono? Di cosa parlano certe canzoni? E se poi nessuno le capisce?”.
Cinzia aveva cercato di trovare una soluzione al dilemma, ma senza particolare successo. A chi poteva chiedere? Lei non conosceva nessun suonatore... nessun musicista... in casa sua nessuno aveva mai preso in mano uno strumento, la musica veniva giudicata inutile fra i Gariboldi. Però si ricordava delle tante volte che le era capitato da giovane, con qualche amica, di recarsi in un ristorantino di Milano, zona Navigli, con un bel porticato colorato e profumato dai rampicanti, dove spesso faceva la sua comparsa un signorotto, bianco di capelli, che senza tante moine, prendeva a picchiettare sui tasti del pianoforte, ricamando suoni e melodie che potessero compiacere al meglio il pubblico. Ecco quel che ci voleva: un classico musicista di piano bar. Aveva avuto un lampo di genio, anche in questo, evidentemente, Dio le era stato solidale: macché country d'Egitto, un suonatore di piano bar, l'optimum. Quando lo speaker aveva preso a indicare le varie centrali sparse per il mondo, compresa quella di Caorso, a pochi chilometri di distanza dalla ridente Brianza, e i rischi inerenti la propagazione dell’onda radioattiva, Cinzia aveva ormai ben chiaro in mente ciò che avrebbe fatto: dopo cena si sarebbe messa in contatto con il suo lui, per comunicargli ufficialmente che avrebbero potuto fare a meno dei cowboy… ne sarebbe stato sicuramente felice. La sua idea, del resto, era decisamente più affascinante; considerato che gli italiani sono un popolo latino, ama la melodia, il romanticismo, mica le rudezze americane, di qualunque specie e categoria, un tipo che assecondasse l'animo nazionale, rappresentava, davvero, l'espediente più consono a benedire le orecchie degli invitati. Sicché, scolando la pasta, con un incalzante battito del cuore, aveva avuto l'ultima provvidenziale illuminazione: riguardava un cantante di piano bar ingaggiato dalla cugina Mirella, l’anno prima che s’era sposata ad Arcore. Un matrimonio sfarzoso al punto giusto, dove la musica aveva occupato con successo la parte finale del lieto evento; molti partecipanti si erano lasciati andare e avevano cominciato a cantare squarciagola, sollecitati dall'intrattenitore. Benché attempato e con un carisma pari a un incantatore di serpenti, lo showman aveva mostrato gran dimestichezza con tutte le principali canzoni italiane, comprese quelle di Baglioni & Co. Nel suo repertorio figuravano anche brani da osteria, che ottenevano sempre un grande seguito, e ballate popolari come La bella la va al fosso, La bella Gigogin e Me compare Giacometo. Il fratello di Mirella s'era alzato da tavola mezzo ubriaco, saltandogli al collo come un disperato, implorandolo di fargli un pezzo assurdo dei Gufi. Ebbene, anche in questo caso, era riuscito a risolvere la richiesta con la classe che solo un professionista poteva possedere. Inutile menare il can per l'aia: era l’uomo che faceva al caso suo.
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