sabato 3 settembre 2011

Affari condominiali: primo piano, appartamento C


Non era da tanti giorni che s'era fissato coi numerosi e anonimi fiorellini gialli che crescono spontanei un po' ovunque, nella sua zona e probabilmente in gran parte dell’Italia. Il trip era cominciato nel momento in cui s'era reso conto che, al contrario delle apparenze, questi fiori erano fra loro molto diversi, assolutamente originali, ognuno appartenente a una specie botanica ben precisa. Si chiamava, dunque, tassonomia vegetale - suono lessicale comparso di recente fra l'amalgama dei suoi neuroni - la materia che avrebbe, contraddistinto sempre più da vicino il suo divenire, le sue giornate, la sua intima voglia di affacciarsi a un mondo che non poteva che giudicare cool sotto ogni aspetto. Troppe le cose da scoprire, curiosare, rinverdire… La parola derivava dal greco, ma non ricordava più il suo significato etimologico, recondito. L'aveva, comunque - e questo lo conservava ben chiaro in mente - udita per la prima volta dal professor Benito Galimberti, esperto agronomo, al soldo dell'Istituto Agrario di Limbiate, che frequentava da nemmeno un anno. Benito, di corporatura robusta e con un naso che ricordava quello di Cyrano - al quale molti giovani si appellavano per sfogare barbaramente le loro ansie, tirando in piedi assurdi sfottò - sapeva parlare di piante come nessuno al mondo, e il suo fervore aveva contagiato anche altri studenti. La passione di Guido, però, era incondivisibile dai suoi coetanei più vicini, quelli con cui aveva a che fare anche e soprattutto al di fuori dell’universo scolastico, per cui provava un affetto non scontato. Costoro, bontà loro, erano affascinati da aspetti del vivere quotidiano più consoni ai ragazzi di una certa età, in bilico fra la fanciullezza e fase post puberale. Comprendevano, per esempio, elaborazioni mentali per cercare di farsi più ragazze possibili, trucchi per ottenere i punteggi più alti ai videogiochi, stratagemmi per vincere la prossima partita di calcio, cazzeggi onomatopeici tipo quello di vedere chi riusciva a sputare più lontano, e altre malattie generazionali. Ma a Guido non importava granché: aggirarsi solo come un cane per i prati e i campi di Omate, Agrate, Burago, Cavenago, Pessano, tutto sommato non gli dispiaceva. Anzi, era per lui una goduria sopraffina. Se agli altri, quindi, non interessava dedicarsi con lui e come lui alla tassonomia vegetale, peggio per loro, il problema non era di certo di sua competenza. Amava, peraltro, al di là dell’aspetto puramente didattico, scientifico, del rincorrere i riflessi giallo-arancio di questo o l’altro capolino, il silenzio, la poesia degli incolti, il camminare mesto e misterioso delle nuvole, il tracciare fantasioso di sentieri infiniti fra le spighe di grano e le cime dei girasoli, talvolta rimandandolo a epoche ancestrali… Questione di sensibilità, di attitudini psico-sensoriali se non altro al di fuori degli schemi ordinari. Da ciò non è difficile intuire che non fosse quel che si può propriamente dire un carattere esuberante o estroverso. Stava bene anche solo, con i suoi misteri, le sue ambizioni, la sua eccitante voglia di scoprire le meraviglie della natura, un Darwin in miniatura.
Nel 1986, aveva appena quindici anni, ma già ragionava come un naturalista superesperto. È possibile, considerando tutti i quindicenni italiani, che non fossero molti (forse nessuno?), quelli come lui in grado di dare un nome corretto alla maggior parte delle piante che lo circondavano; e poi un significato alle dinamiche architettoniche di un formicaio, a temi controversi di natura etologica come l'imprinting lorenziano, al sofisticato mondo delle particelle subatomiche. In realtà nelle sue farneticazioni biologico-sperimentali non era sempre, proprio sempre, solo. L'accompagnava spesso nelle sue missioni paranormali un'amica, tal Rosalba Citterio, anche lei piuttosto distaccata dalle consuetudini giovanili dell'epoca e dai leitmotiv delle coetanee tutto sesso, rossetto e mascara. Viso scarno, occhi a palla, labbra quasi sempre  screpolate, ma non per questo meno aggraziata delle altre ragazze frequentate da Guido, Rosalba era una delle migliori del liceo scientifico di Vimercate. Era anche lei, dunque, una testa calda, una potenziale Rita Levi Montalcini o madame Curie o Jocelyn Bell, la scopritrice delle pulsar. Ed è proprio a quest’ultima studiosa che, pur non essendone del tutto conscia, si rapportava; tenuto conto del fatto che, al di là delle materie scolastiche studiate con rigore e meticolosità, e della corrispondenza intellettuale con l'amico con il pallino per i vegetali,  il suo vero amore erano le stelle: passava le ore con un binocolo a studiare le costellazioni e i pianeti, il profilarsi di un pioggia di meteoriti o le nuove fotografie giunte da qualche sonda spedita nel cosmo per svelare i retroscena di qualche nuovo corpo celeste. Il suo pianeta preferito era Giove, sul quale, però, ancora non capiva come si potesse camminare, presupponendo che su ogni pianeta si potesse camminare, visto che era definito un “gigante gassoso”. Dalle ricerche che aveva fatto il corpo celeste risultava caratterizzato da una spessa atmosfera, composta prevalentemente da idrogeno ed elio. Non se ne capacitiva. Cosa sarebbe accaduto se un uomo si fosse trovato a passeggiare sulla superficie gioviana? Sarebbe precipitato? Sarebbe precipitato fin dove? Sarebbe stato a galla? A galla su una superficie gassosa? Impossibile. Parole come afelio e perielio mandavano, quindi, in estasi lei; foglie bilobate e ciclo di Krebs creavano in lui piaceri provocatoriamente indicibili. Guido era, dunque, partito da una delle compositacee in assoluto più frequenti del territorio nazionale, fra le più stoiche del vimercatese, capaci anche di crescere in un anfratto di muro o fra un tombino e l'altro, il piattello, per poi risalire a tutte le altre, un universo assai cospicuo di insignificanti steli tenacemente protesi verso il cielo.
“Il piattello è il nome volgare”, sottolineava agli amici, che ridevano di questa sua attitudine, interrogandolo ogni volta che in compagnia si trovavano ad avere a che fare con qualche erbaccia, solo per il gusto di prenderlo bonariamente in giro, consapevoli del fatto che, in qualche modo, la cosa galvanizzava anche a lui.
“In realtà il suo nome scientifico è Hipochoeris radicata”, andava avanti Guido imperterrito, “la specie va segnalata in minuscolo, il genere in maiuscolo. Sono cose che i tassonomisti sanno bene, ma non la gran parte delle persone che per la prima volta si cimentano con la nomenclatura linneana. Ed è un gran peccato, ché la botanica a certi livelli assicura grandi soddisfazioni, molto più di materie di moda come l’ingegneria e l’economia”.
Hipochoeris radicata non era più un mistero per Guido, essendo una pianta caratterizzata da tratti perfettamente distinguibili da tutti gli altri fiorellini gialli osservati fino a quel momento. L'Hipochoeris cresce, infatti, con un gambo completamente privo di foglie, lungo parecchi centimetri, in certi casi rasentando il metro di altezza, una figura slanciata a tutti gli effetti, verso il tetto del mondo. Le foglie crescono ai piedi del vegetale, raccolte in una caratteristica rosetta, utilizzata anche in ambito culinario, per preparare succulenti insalate: così riportano molti testi dove l’aspetto botanico viene spudoratamente surclassato da quello legato alla cucina, motivo per cui gli appassionati di stomi e vacuoli non possono che imprecare il buon dio delle specie fotosintetizzanti. Non ci si può sbagliare; anche senza stare a controllare morbosamente le sue qualità floreali, riconducibili a tipici capolini a fiori ligulati di giallo intenso. Col piattello sarebbe, dunque, stato in grado di identificare nel giro di poche settimane anche il soncino, il tarassaco, il radicchio, la radicchiella, la barba di becco, la lapsana, la pilosella, l'erigero, tutte piante, appunto, con la stessa monotona prerogativa: il giallo più o meno chiaro, più o meno chiassoso, delle corolle. Conosceva per di più il nome di parecchi animali, compresi quelli meno significativi per l'immaginario collettivo, animali che molte persone non hanno non solo mai visto, ma di cui non hanno mai nemmeno sentito parlare, la si potrebbe chiamare deformazione professionale. Dovendosi, pertanto, concentrare su una categoria, riguardante la tassonomia faunistica, preferiva di gran lunga quella degli artropodi, suddivisibili in insetti, aracnidi e crostacei. Erano animali comparsi su per giù 400 milioni di anni fa, per i quali provava un amore pericoloso. Esapodi e ragni, in particolare, erano i suoi beniamini. La loro classificazione era ancora più ardua delle compositacee, tuttavia non perdeva occasione di studiarne le caratteristiche, al di là dell'aspetto meramente tassonomico. In cantina incontrava gli esemplari che lo incuriosivano di più, prevalentemente ragni e insetti primitivi, quasi completamente ciechi. Dei primi amava il loro comportamento pacifico e disinteressato, la loro eccezionale capacità di rimanere ore e ore immobili in attesa di una nuova preda; dei secondi la morfologia ritagliata su misura per vivere nel buio della notte eterna, che solo un anfratto terrificante, avrebbe saputo garantire. Più di una volta ne aveva catturato qualcuno, affogandolo nell’alcol, per poi asciugarlo e conservarlo in cassettine di plastica. Poi, però, la gran parte di essi veniva attaccata da funghi o microrganismi causandone la putrefazione repentina, con esalazioni immani che sconvolgevano casa Sangalli, mandando in delirio i capostipiti:
“Cos’è questo terribile tanfo?”, domandava angustiata la prima donna di casa, tristemente rassegnata alle provocazioni del tutto particolari del figlio. “Non avrai mica imbalsamato ancora qualche animaletto strano? Te l’ho già detto che certe cose preferirei tu non le facessi in casa...”.
Guido annuiva e correva ai ripari prima che scoppiasse l’apocalisse, e anche il padre se ne accorgesse facendo tabula rasa di ogni sua nuova elucubrazione, di ogni suo tentativo di rivoluzionare le scienze con una nuova teoria darwiniana. C'era poi tutto il resto a condizionare la versatilità del suo ingegno: dalla geologia all'astronomia, dalla chimica alla paleontologia, dalla mineralogia all'antropologia, dalla anatomia comparata all’analisi matematica. C'era, quindi, anche la fisica e la fisica delle particelle subatomiche. Quelle stesse particelle alle quali sembrava alludere lo speaker televisivo di Rai Uno, un tipo imbalsamato con lo sguardo tetro e le sopracciglia folte, che con aria trafelata comunicava al telegiornale delle 20.00 di un'esplosione nucleare catastrofica in Ucraina, nei pressi dell'anonima Pripyat, cittadina grigia e spoglia, perdutamente sovietica. Guido non poteva staccare gli occhi dalla tv, essendo pane per i suoi denti: non capitava sovente durante i notiziari di avere a che fare con notizie di questo calibro, di questo fascino sinistro, in cui venivano addirittura tirate in ballo le particelle subatomiche. Fantascienza allo stato puro. Alieni quotidiani. Bufale da provetti cacciaballe. Era sempre la solita pallosissima politica ad avere la meglio, con le news di gossip che odiava con tutte le sue forze. Cosa gliene poteva importare a lui dell’ennesima tresca fra Simon Le Bon e una sgualdrinella da quattro soldi? Ora sì, invece, che c’era davvero di che divertirsi, anche se non sembrava per nulla bello ciò che pareva potesse essere accaduto ai lavoratori della centrale, indaffarati a spegnere le fiamme e a far sgombrare le persone nei dintorni del disastro. Già si parlava di eroi, eroi che avevano dato la vita per salvare migliaia di vite umane; in realtà era tutto molto frammentario. Dannatamente frammentario.
“Silenzio, grazie”, aveva intimato ai familiari, accomodati al suo fianco per l’ora di cena, mamma, papà, e sorella maggiore, incauto del primo piatto servito già da un paio di minuti.
“Silenzio”, aveva sorriso il padre, con fare ironico. Il ragazzo non aveva un particolare feeling con l'uranio, ma sapeva che quello usato nei rettori a fissione nucleare è il 235, l'isotopo 235. Sapeva, dunque, che l'uranio è caratterizzato da due isotopi e che l’altro era il 238. Era inoltre al corrente che l'uranio 235 è molto scarso in natura, che è molto costoso e, soprattutto, che può provocare danni seri alla salute delle persone. Ma non era solo l'uranio a impensierire i destini di mezza Europa, c'era anche il fantomatico cesio. Il cesio 137, anche questo un isotopo, sottoprodotto della fissione nucleare dell'uranio, che decade emettendo raggi beta, formando un isomero nucleare che i fisici definiscono “metastabile”: il bario 137. E probabilmente era proprio il cesio 137 l'elemento che preoccupava di più. Avrebbe, dunque, voluto parlare della contaminazione da uranio e cesio, ma con chi? La sorella studiava lingue in un liceo di Monza, mamma e papà avevano fatto solo le professionali e a malapena sapevano cosa fosse una centrale nucleare; gli amici, oltre al fatto di non essere lì con lui nel momento in cui la notizia della catastrofe veniva dipanata, non gli avrebbero dato retta nemmeno per un secondo, presi com'erano da tutte altre fantasie, col sottofondo delle canzoni di Jimmy Sommerville. Eppure la faccenda riguardava anche loro. Le parole dello speaker, infatti, si riferivano anche al fatto di impedire ai bambini di uscire di casa per qualche giorno; essendo più suscettibili alle radiazioni, avrebbero potuto correre più rischi degli adulti, e inoltre si raccomandava all’intera popolazione di non mangiare frutta e verdura; addirittura, si ammoniva, nella peggiore delle ipotesi, per mesi. Sicché veniva rigorosamente proibita la possibilità di giocare a calcio nei campetti di periferia, dove il veleno della centrale Ucraina si sarebbe concentrato maggiormente, mandando in tilt qualunque essere vivente, tranne, forse, i funghi. La faccenda era mostruosamente seria. Guido, nonostante l’aria da studioso e secchione, amava giocare a calcio; non gli faceva paura sfidare a suon di rincorse e calci negli stinchi avversari di ogni tipo; e proprio dietro casa sorgeva un campetto dove ogni primavera avveniva un torneo fra i palazzi e le corti del circondario. Era un campetto che gli stessi ragazzi coinvolti dalla kermesse sportiva avevano liberato dai sassi, allestendolo con due porte di fortuna, con le reti che non duravano mai più di due settimane, ma che comunque venivano prontamente sostituite non lasciando mai sguarnita la struttura. C'era molto folclore attorno all'evento e l’idea di non poterlo disputare avrebbe suscitato un bel clamore. I giocatori del palazzone di Omate sfidavano quelli di Agrate del Quadrifoglio, di Cascina Ghiringhella, delle Gescal... Due anni prima gli omatesi s'erano piazzati secondi, un traguardo davvero notevole, di cui erano andati avanti a vantarsi per l’intero anno, dietro ai giganti del Quadrifoglio, troppo forti per competere con gli altri, anche per via della presenza di due giocatori che militavano nelle giovanili della serie C: Amilcare Mariani, figlio del panettiere del borgo brianzolo, era stato notato perfino dai dirigenti dell'Inter, che s'erano fatti avanti per poterlo ingaggiare nelle file nerazzurre con l'arrivo della nuova stagione. Giocava da mediano, aveva un fisico possente, e non c'era verso di strappargli il pallone fra le gambe.
Lo scoppio della centrale nucleare a Chernobyl avrebbe, dunque, impedito le sfide fra i vari team, e di conseguenza anche la possibilità – soprattutto per i timidoni come Guido - di mettersi in mostra con le ragazze; circostanza che Guido, proprio perché non conosceva altro modo di farsi avanti con una ragazza, non voleva farsi sfuggire. Giocava a calcio piuttosto bene e sapeva che, come tutti gli altri anni, sarebbe venuta a vederlo anche il suo amore segreto, non la Citterio, ma una ragazza per la quale nutriva un sincero e profondo sentimento, benché non avesse mai avuto il coraggio di dichiararlo, né a lei, né a nessun altro. Si chiamava Valeria Stucchi, aveva un paio d'anni in meno di lui, il viso paffutello, una tenerezza che lo mandava in estasi, facendogli credere che solo con lei e in lei avrebbe incontrato il paradiso. Era davvero questa, inesorabilmente, l'unica occasione che aveva durante l'anno di farsi notare da Valeria, con magari un goal spettacolare, ma anche con una caduta eroica, da far intervenire una barella, si sarebbe rotto anche l’osso di una gamba pur di poter raggiungere la sua principessa.  
“Avete sentito?”, aveva mormorato la madre di Guido.
“Sentito”, aveva risposto mogio il ragazzo.
“Quest'anno mi sa che il torneo salta”, aveva mugugnato il capofamiglia.
Mentre la sorella s'era abbandonata a un sorriso cinico, sfidando lo sguardo accigliato del fratello. Fra i due non era mai corso buon sangue, situazione ironica e paradossale visto che più consanguinei di loro non c'era nessuno. Linda era giudicata dal fratello una sciocca, stupida abbastanza da far sì che da piccina si pulisse la suola delle scarpe nuove con uno straccio bagnato di saliva, convinta di poterle conservare meglio. Non smetteva mai di ripeterglielo ogni volta che si presentava l'occasione giusta per mandarsi vicendevolmente a quel paese. Ascoltava una musica per lui disdicevole: gruppi come Duran Duran, Spandau Ballett, A-Ha, Communards, condivisi, peraltro, da gran parte dei suoi coetanei. Linda, in compenso, riteneva il fratello uno smidollato, sfigato, fuori dal mondo. Non capiva come potesse un quindicenne passare tutto quel tempo a caccia di erbe assurde, al posto di andare a spasso con gli amici e di pensare a qualche bella ragazza da rimorchiare. Come potesse ascoltare Mozart e Chopin, con tutto il ben di Dio che circolava in radio o nei negozi di dischi, musica esaltante, e non di certo lanie da vecchiardi rompiballe con già un piede nella fossa. Lo riteneva un secchione senza speranze, un tipo senza futuro, per di più antipatico e saccente. Lo salvava il fatto di sapersela cavare a calcio, sapersi cimentare in uno sport era per lei un salvacondotto se non per il paradiso, almeno per il limbo. Era il parametro numero uno di cui si serviva per giudicare chi aveva davanti. Se un tipo non sapeva destreggiarsi almeno in uno sport non era degno della sua attenzione. Solo una volta i due fratelli erano stati veramente bene insieme. Una primavera di qualche anno prima che, con mamma e papà, erano andati per tre giorni a Parigi. Papà doveva incontrare un vecchio amico di Omate, trasferitosi da anni nel capoluogo francese, e aveva colto l'occasione delle vacanze pasquali per mettersi in cammino verso la capitale transalpina, coinvolgendo tutta la famiglia. Avevano alloggiato in un alberghetto nel cuore di Montmartre, vetusto, ma dal fascino a dir poco idilliaco. Si respirava al suo interno un’atmosfera retrò, che rimandava all’epoca dell’epopea picassiana, dai quadri e delle miserie dei vari Chagall, Braque e Modigliani. I due fratelli ridevano come matti dalla mattina alla sera, per le cose più stupide, con un grado di eccitazione pari solo a quello che li aveva contraddistinti il giorno della prima comunione. Nessuno di loro era mai stato prima d'ora all'estero, e debuttare a Parigi era veramente da favola; Parigi, in un certo senso, per un provinciale omatese, poteva benissimo rappresentare il centro del mondo. Bastava la parola a provocare sussulti estremi: Parigi. Una sera s'erano lasciati ritrarre da un mezzo matto lungo le rive della Senna. In realtà era una caricatura: Linda era stata disegnata con le ciglia più lunghe di quelle di Olivia, Guido con una bocca più larga di quella di Mick Jagger e due orecchi da Dumbo. I genitori erano rimasti a guardare ridendo sotto i baffi, felici di avere regalato ai loro piccoli una vacanza indimenticabile.
I Sangalli abitavano al primo piano, appartamento C del condominio omatese, quello a destra dell'ascensore. Le porte si aprivano sul pianerottolo e il rimbombo era udibile per l'intero soggiorno: una specie di colonna sonora, ripetitiva e assillante, rimandi di fabbriche e lavori disumani in catene di montaggio. Indisponeva soprattutto il padre di Guido, quarantacinquenne dall'aria vispa e attenta, spesso nervoso dopo il rientro dal lavoro, piazzato come un automa davanti alla tv, sperando in un film decente col quale accompagnarsi alle braccia di Morfeo; l'attività assicurativa messa in piedi una decina d'anni prima non gli dava tregua, ed era spesso costretto a tour de force micidiali che lo lasciavano a terra, esausto, privo di energie, per giorni. Girava soprattutto per l’Italia, specie in Lombardia; a volte era costretto a fermarsi fuori casa, o a passare ore e ore in coda prima di raggiungere qualche sede amministrativa o cliente da servire. Un lavoraccio grazie al quale, però, la famiglia Sangalli poteva tirare avanti con massima dignità. Da tempo avrebbe voluto scrivere una lettera all'amministratore per sollecitarlo a prendere provvedimenti per gli appartamenti confinanti con la tromba dell'ascensore, evidentemente tarata male, troppo rumorosa per il quieto vivere; ma un po' per pigrizia, un po' per indecisione, non era mai arrivato a sollevare la questione. La madre, donna dalle mille passioni, sempre elegante e piacente, curava la casa nei minimi particolari. L'appartamento dei Sangalli era, per questo, fra i più ordinati e puliti del palazzo. L'esatto opposto di quello dei Vismara, cataclisma esistenziale di quelli che lasciano il segno. Nel locale principale un grosso mobile copriva la parete sud, era pieno zeppo di bicchieri, piatti, soprammobili e suppellettili di ogni genere, dalle fantasie più assurde. Il soprammobile più prezioso arrivava dalla Grecia. Era un vaso risalente a prima dell'anno Mille. Raffigurava una specie di mappa, con una scrittura illeggibile, c’erano delle strane figure, quasi geometriche, che rimandavano a velleità cuneiformi. Le altre pareti del soggiorno erano letteralmente tappezzate di quadri, fra cui il ritratto vagamente angustiante di un clown con le labbra verdi. L’aveva disegnato un parente alla lontana della famiglia del primo piano, che abitava in un misero appartamento a Milano, zona Lambrate. I coniugi Sangalli amavano la pittura, le mostre d'arte, e non perdevano occasione per acquistare un nuovo lavoro da esibire nella propria personalissima pinacoteca. Non c'era nulla di veramente prezioso, ma non mancavano chicche di riguardo come uno schizzo attribuito a Fiume e acquistato a prezzo stracciato anni prima in un minuscolo negozio del cremonese. Non sapevano granché di Fiume ma il nome era risuonato così spesso nelle orecchie da spingerli a comprare un suo lavoro a occhi chiusi. C'era anche Guido con mamma e papà, un piccoletto di nemmeno dieci anni, pronto per dire la sua, anche se la pittura non avrebbe mai avuto preso su di lui come le scienze, e in particolare la botanica. In ogni caso i dipinti realizzati con piglio autorevole difficilmente passavano inosservati al suo sguardo attento. In cucina la madre di Guido passava gran parte del suo tempo, a far da mangiare, a lavare i piatti, a stirare. Ogni angolo, mensola, ripiano, era calibrato su misura per lei. C'era il frigo subito dopo l'ingresso sulla sinistra, con l'anta ricoperta dai disegni di Fiorenza, la figlia del fratello del padre di Guido, e una vetrinetta nella quale campeggiavano altri bicchieri, quelli da battaglia, usati tutti i giorni. Alcuni bicchieri erano stati accumulati grazie alle numerose Nutelle acquistate, con la scusa, appunto, di ricavarci simpatici oggetti per la casa con i disegni più curiosi, spesso inerenti piloti di Formula Uno. A dir poco perfetti gli antri nei quali attendevano di essere stappate delle bottiglie di vino da conservare per le ricorrenze speciali e un ripiano ospitante vari libri di cucina. Più avanti una piccola tv in bianco e nero, la macchina del caffé, un contenitore per i biscotti e il piano cottura, sormontato perennemente da una caffettiera pronta per l’uso… Una stretta anticamera accompagnava alle stanze e ai due bagni dell'abitazione. Era piuttosto buia, articolata in un disegno a L. Il pezzo forte della camera dei genitori era un antico specchio acquistato per una manciata di lire, dopo lo smantellamento di una casa del Settecento dalle parti di Osnago. I vecchi proprietari l’avrebbero tranquillamente gettato in discarica, se non fosse stato per l’intervento di un imprenditore della zona, che aveva deciso di portare tutto all’asta. Un’idea vincente, per gli ex proprietari, che a onor del vero non abbisognavano di ulteriori introiti, ma soprattutto per i tanti amanti di antichità come i coniugi Sangalli. Il lettone era un tutt'uno con i due comodini, quello della madre di Guido, quasi sempre caratterizzato da una pila di libri perennemente in bilico su se stessa; il dramma si verificava soprattutto in occasione delle pulizie; il far la polvere si rivelava, infatti, un’impresa risolvibile solo da mani esperte, in grado di spostare con metodica i testi, senza perderne qualcuno, e consentendo di ripulire adeguatamente la superficie del mobile da acari, frammenti organici di provenienza umana, e altre diavolerie delle microscopia ottica. Alla madre di Guido piaceva molto leggere, e ogni sera, in base all'umore, alle condizioni atmosferiche, ad altri parametri probabilmente impossibili da diagnosticare, puntava su questo o quell'altro testo. Al momento del patatrac di Chernobyl era alle prese con i racconti di Edgar Allan Poe. Amava definirlo il suo lato oscuro, emergeva sporadicamente, e la portava a confrontarsi con realtà letterarie a metà strada fra il noir, il gothic e in casi limite all'horror. Ma era e rimaneva comunque una donna solare e briosa, benché un po' ansiosa. Il comodino del marito era assai più spartano. C'erano le foto dei suoi due ragazzi e un quadretto a sfondo religioso, la sveglia e una specie di portasigari.
La camera di Linda e Guido era praticamente divisa in due metà. La metà di Linda era quella più confusionaria, la più ligia, ordinata ed esemplare quella del fratello. La libreria di fronte ai letti era riempita perlopiù dai libri di Guido, che come in un rito propiziatorio, tutte le sere contemplava nella penombra prima di addormentarsi. In alto a destra c'erano i libri di botanica, in alto a sinistra quelli di scienze, compreso un astruso trattato di matematica risalente agli anni Trenta. Poi tanti altri, compresi testi di letteratura, fra cui I Fiori del Male di Baudelaire in lingua francese. Se i suoi libri erano a posto, allora lo era anche lui e poteva fare sogni d’oro. C'era qualcosa di vagamente morboso in questo atteggiamento di riverenza nei confronti della carta stampata, ma di certo il ragazzo non ci aveva mai fatto caso. Provava un piacere metafisico nel rapportarsi al mondo dei libri, come se in essi non si celassero solo parole e parole da leggere e sfogliare, ma un vocio continuo e sommesso che gli garantisse sicurezza e protezione. I libri per lui erano come un terzo genitore. Al centro della camera c'era lo stesso lampadario che i coniugi Sangalli avevano acquistato diciassette anni prima, con la nascita della primogenita. C'era l'intenzione di cambiarlo, ma poi per un motivo o per l'altro continuava a rischiarare il covo giovanile degli abitanti dell'appartamento C del primo piano, anche se definirlo demodè sarebbe stato un eufemismo. Sua prerogativa, quella di essere contrassegnato da un cappello tessutale colorato di rosso, che conferiva un'originale atmosfera al locale, ma anche un tiro decisamente anni Settanta. Senz'altro, però, era un’atmosfera molto più calda di quella che si respirava in cucina con una lampadina gelida e fioca, simile a quella prodotta dai luccichii al neon.
La famiglia Sangalli era andata avanti in silenzio a mangiare, calata in una condizione di atemporalità, non solo per assecondare le esigenze del più piccolo della famiglia. All'unanimità s'erano resi conto che era successo davvero qualcosa di grave, qualcosa che ancora mancava di chiarezza e prospettive, ma che si mostrava in tutto il suo pallore terrificante. Perfino la sorella di Guido, dopo aver ridacchiato del fratello che non avrebbe più potuto giocare al torneo di calcio, s’era incupita di soprassalto, come contagiata da una misteriosa malattia dei sensi. Non capitava spesso di cambiare repentinamente umore in base a qualcosa che toccava solo in parte il proprio sé, ma il cui impatto psicologico era così forte da non poter lasciare nessuna anima indifferente. Il padre di Guido percepiva che cose di questa entità erano tutt’al più assimilabili a qualche episodio della seconda guerra mondiale, della quale aveva ancora un ricordo vivido, benché fossero passati quarant’anni dalla sua fine. Lui era appena nato, ma il fracasso delle sirene che annunciavano un raid aereo se le ricordava ancora benone. C’erano delle zie paterne che se la facevano sotto ogni volta che dovevano andare a rifugiarsi in fretta e furia in qualche rifugio. E ora, qui, era qualcosa di molto simile, per certi versi, onestamente, ancora più spettrale della realtà bellica. Fino a prova contraria il concetto di contaminazione durante il secondo conflitto mondiale era noto solo in rapporto alle due bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki, città mostruosamente lontane da qualunque logica geografica ed esistenziale. Tutti avevano smesso di parlare, ma nessuno di porsi interrogativi micidiali. Quale sarebbe stato il destino dei pompieri accorsi sul luogo dell'incidente? E degli abitanti di Pripyat? Cosa avrebbero provocato dosi eccessive di radiazioni nei bambini? E al di là dell'imminente torneo di calcetto fra i palazzi, cosa sarebbe accaduto in Italia? Fin dove sarebbe arrivata la nube tossica?
All'ora della frutta aveva ripreso la parola il padre, sempre più scombuiato dall'accaduto.
“Stasera faranno uno speciale su Rai Uno”, aveva detto, “non ho intenzione di perderlo”.
Le due donne s'erano abbandonate a una smorfia di disapprovazione, mentre Guido cominciava a gongolare:
“Sarò lieto di farti compagnia papà”, aveva proclamato il genietto dei Sangalli, accompagnandosi con un sorriso di vittoria.

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