sabato 4 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento B


Alle parole dello speaker Fabiano c’era rimasto di sasso: non aveva mai sentito parlare di una cosa del genere. Aveva provato una sensazione nuova, a metà strada fra l’eccitazione e la disperazione. Era esplosa una centrale nucleare in Ucraina. L’Ucraina sapeva a malapena cosa fosse. Uno stato dell’est, sotto l’egemonia sovietica; ma tutto ciò che arrivava dall’URSS era qualcosa di misterioso da cui, probabilmente, valeva la pena mantenere le distanze. Così la pensavamo molti suoi concittadini, assai devoti alla DC e alle numerose formazioni filo-clericali che con le manie della triade Marx-Lenin-Stalin avevano ben poco a che fare. In molti erano ancora convinti che i comunisti mangiassero i bambini, e che fossero, quindi, da contrastare il più possibile, come vittime della lebbra o di qualche altra malattia pestilenziale; i comunisti erano una brutta razza, facevano delle cose losche – appoggiavano il divorzio e l’eutanasia - e i loro intendimenti non erano mai chiari: usavano i servizi segreti per boicottare le iniziative dell’occidente, la civiltà dell’occidente, ben più avanzata di ogni altra, incentrata sui valori della democrazia e dell’uguaglianza sociale. L’uguaglianza sociale, però, non era anche una prerogativa dei bolscevichi? Mah, su questo punto non aveva le idee chiarissime. In ogni caso era certo che, agli occhi di tutti i suoi consimili (e condomini), ben più lungimiranti erano quelli dell’altra sponda, gli americani, gli USA del presidente Kennedy, anche se il presidente Kennedy era morto da più di vent’anni, assassinato da un mingherlino con gli occhi da furetto. Ma a metà anni Ottanta era ancora viva la sensazione che non ci fosse niente di meglio che affidarsi allo strapotere statunitense emancipatosi dopo l’epopea kennedyana e marylinmoriana. Ogni cosa, del resto, se si escludono i robot giapponesi, derivava da lì. E ancora adesso era qualcosa di incredibilmente affascinante, l’America dei cowboy, l’America di We Are The World, l’America dei film di Steven Spielberg e fra poco sarebbe stato l’America del primo ammartaggio: così aveva letto su un giornale di fantascienza trafugato nella biblioteca agratese di via don Minzioni. Nient’altro da aggiungere. Anche se, per Fabiano, non era esattamente così.
Lui la politica la viveva di sbieco, tuttavia gli ambienti che frequentava erano spudoratamente di sinistra. Proprio come il vicino di casa del secondo piano, il giornalista che si occupava di politica estera, segretamente innamorato della quarantenne del primo piano e con trascorsi affini ai gruppi di lotta armata. Non avevano un gran feeling, essendo entrambi sostanzialmente dei misantropi, ma i sorrisi che si regalavano bastavano a ragguagliarsi in merito alle proprie tendenze e a guardare gli altri con vivo snobismo. In realtà, più che da una vera e propria presa di posizione etica, questo suo atteggiamento era dovuto alla sua doppia professione: barista-batterista. Mai sentito parlare di un barista-batterista di destra? Basta la domanda a suscitare ilarità. Fabiano da almeno dieci anni saltava da un bancone all’altro, preparando cocktail e panini con indubbia maestria. Lo faceva con calma e dolcezza, come se tra le mani non avesse delle bottiglie di vodka o champagne, o fette di salame e prosciutto, ma minuscole opere d’arte da preservare e consegnare intatte ai posteri. La grazia faceva parte del suo DNA. Era un po’ così in tutte le cose che faceva. Pareva di sangue blu e invece era il più plebeo di tutti. Dopo qualche anno di gavetta, felice di avere abbandonato gli studi al terzo anno di elettronica, per un po’ di tempo aveva lavorato a Milano, in un centro di unità proletaria dalle parti di Precotto, benché il suo sogno fosse quello di lavorare al Leoncavallo, dove bazzicava con ardore durante il tempo libero; poi aveva avuto un’occasione a Vimercate, in un bar di piazza Marconi, e s’era trasferito definitivamente, per la gioia della famiglia stanca di vederlo rincasare una sera sì e una sera no alle quattro del mattino. Ma l’unico vero lavoro che amava con tutto se stesso e che lo rappresentava come l’ideale di fraternità per un monaco cistercense era un altro: suonare. 
Accompagnava più gruppi musicali possibili, e grazie a questo suo eclettismo arrivava a raggranellare un dignitoso stipendio con cui pagare il mutuo e mantenere la moglie e la figlia. La moglie era una tipina spigliata e vivace conosciuta per caso durante un incontro all’omnicomprensivo di Vimercate sulla pena di morte. Tra un intervento e l’altro Fabiano e la sua band avevano proposto dei pezzi di Bob Dylan, come suggerito dall’organizzatore della kermesse. La moglie di Fabiano s’era fatta avanti per chiedere a uno dei relatori cosa ne pensasse del fatto che in Cina i condannati a morte sono un’infinità ma non destano alcun interesse, al contrario di quelli dei paesi occidentali. Il relatore s’era scaldato, sostenendo che non si possono fare certi paragoni, perché la politica cinese poggia su presupposti civili lontani anni luce dai contesti sociali statunitensi; peraltro la Cina, dal suo punto di vista, aveva molte cose da insegnare agli americani che con il loro concetto di democrazia stavano devastando e assoggettando il mondo.
“I cinesi dovrebbero essere trattati come tutti gli altri”.
“Le ho già detto signorina, che la sua presa di posizione è fuori luogo. Dovrebbe cominciare a leggere qualche testo sulla filosofia comunista in Cina”.
“Mi basta attenermi a quel che raccontano i media”.
“I media sono strumentalizzati dall’occidente. In Italia sentiremo sempre parlare male dei cinesi perché la loro politica ci fa paura”.
“La paura andrebbe combattuta, non insabbiata”.
“Vede signorina che in fondo diciamo le stesse cose?”.
“Non credo proprio, occorrerebbe una volta per tutte avere il coraggio di fare un passo indietro e contribuire seriamente a un dialogo interrazziale”.
Fabiano aveva notato la grinta della ragazza che aveva avuto il coraggio di confutare parte delle tesi messe in campo durante l’incontro e alla fine non era riuscito a fare a meno di sorriderle invitandola a scambiare due chiacchiere. Aveva un atteggiamento che le ragazze non disdegnavano e anche questa volta era, dunque, riuscito a fare centro. S’erano appartati nei pressi dei gabinetti dell’auditorium, di fianco a un grande cartellone indicante l’imminente rappresentazione de Il lago dei cigni e, fin dall’inizio, s’erano trovati a loro agio: la ragazza si chiamava Simona, e guarda caso – Bob Dylan a parte – amava tutto ciò che non era convenzionale, compresi i ragazzi non convenzionali come Fabiano. L’anticonformismo della nuova conoscenza, del resto, era facilmente perscrutabile: i ragazzi seri non andavano in giro con la maglietta degli Smiths, i pantaloni stretti sul fondo e delle scarpe da ginnastica devastate dall’usura e dall’attività batterica. Da lì era scattata la scintilla che li avrebbe portati nel giro di pochi anni all’altare e alla nascita dell’unigenita, Benedetta.
C’era un palazzone a Omate che faceva proprio al caso loro: il paese era alla giusta distanza dai rispettivi genitori e comodamente raggiungibile da Milano, dove Simona lavorava per l’ufficio stampa di una casa editrice che trattava riviste e manuali per architetti e designer; non era il suo lavoro, ma per partire con la famiglia andava benissimo. In seguito non le sarebbe dispiaciuto gestire la comunicazione di qualche importante gruppo politico meneghino. Aveva un’amica che lavorava per il PCI, Rosalba Mariani, conosceva tutti gli esponenti politici del momento, ed era sempre in giro: una professione davvero affascinante, che, peraltro, le consentiva di mettere da parte un bel po’ di soldi. Il collegamento con Milano era congegnale anche a Fabiano che provava nel capoluogo lombardo, in una sala di registrazione buia e puzzolente ricavata da un ex rifugio antiatomico. Non c’erano le finestre per consentire un’aerazione adeguata e in certi momenti il tanfo prodotto dai presenti, associato alle esalazioni dei muri intrisi di umidità, era qualcosa di assolutamente stomachevole. La visita all’appartamento B del terzo piano s’era risolta in un battibaleno, convincendo fin da subito sia i due sposini che l’agenzia immobiliare. Un mutuo da risolvere in una ventina d’anni era la soluzione ideale per tutti, anche se Fabiano rabbrividiva ogni volta che gli veniva ricordato che fino al 2006 avrebbe dovuto versare alla banca una cospicua parte del suo mensile. Era sostanzialmente identico a quello dei due piani sottostanti. Un gemello dell’appartamento dei Vismara, benché più pulito e ordinato, con un muretto che divideva l’ingresso dal vicino salotto contraddistinto da un voluminoso camino. Simona, nonostante gli impegni di lavoro e Benedetta, riusciva a tenerlo sempre lindo e invitante. Non era certo merito di Fabiano, caotico di natura, e totalmente disorganizzato. Avevano conosciuto fin dal primo giorno i membri della famiglia Tresoldi che abitavano l’appartamento A del terzo piano, con una bambinetta di nemmeno dieci anni. Erano stati così gentili da presentarsi alla porta dei nuovi venuti con una scatola di cioccolatini, mai così gradita dai neo sposini.
Ma erano altri tempi, se non più belli, sicuramente più sereni. Poi Simona, nonostante i buoni propositi di voler cambiare lavoro, era andata avanti a servire le esigenze della casa editrice Floriana; mentre Fabiano passava da un gruppo all’altro, alternandosi dietro ai banconi dei bar in grado di offrigli un buco grazie al quale far quadrare i bilanci familiari. Ma rimaneva la musica la sua grande passione e valvola di sfogo. Di solito le band di cui faceva parte duravano due anni, poi, vedendo che le uniche porte che riuscivano a sfondare erano quelle degli spogliatoi delle ragazze di pallavolo, si muovevano verso nuovi lidi. Con l’ultimo gruppo, però, le cose erano andate decisamente meglio. Aveva, infatti, appena terminato un tour per mezza Europa, diramato da un management coi fiocchi facente capo a un entourage di ex musicisti con base a Zurigo. Avevano suonato soprattutto in Svizzera, Germania, Francia e Belgio, più una data estemporanea in un paesino della Cecoslovacchia, frequentando locali grigi e fatiscenti, nel ventre putrido delle città che sceglievano di invitarli per tenere testa a giovani scalmanati vogliosi di infrangere le regole. Erano in pratica finiti il più delle volte in centri sociali, dove falce e martello troneggiavano ovunque come capitelli dorici in un tempio greco. A Berlino erano stati accolti come dei messia, anche se viaggiavano su un pulmino che perfino un rom avrebbe ritenuto inadeguato al proprio criterio di sussistenza. L’etichetta che li aveva tenuti a battesimo aveva provveduto alla pubblicità e ora i Lazy Pigs erano più famosi all’estero che in patria. L’ultimo disco, intitolato Peace and (no) love aveva già venduto quasi diecimila copie. Anche vari magazine e fanzine italiane ne avevano parlato, giudicandoli degni delle migliori avanguardie londinesi e berlinesi, ma quasi nessuno li aveva seriamente presi in considerazione. Nel 1986 comandavano nel Belpaese, ancora succube dei fasti sanremesi, i vari Venditti e Baglioni, per gli altri c’erano ben poche chance di dettare legge, figuriamoci chi aveva l’arroganza di proporsi addirittura in lingua inglese. Spocchiosi da quattro soldi.
Proponevano un genere musicale indescrivibile a metà strada fra il garage e la new wave. Era un nuovo movimento, per non dire nuovissimo, con un ampio uso di chitarre e synth e ritmi indiavolati di batteria, coi quali Fabiano andava a nozze. Era andato a scuola da Valerio Malara, un batterista con trascorsi con Tullio De Piscopo, ma con un credo unico e assoluto: l’heavy metal. Perciò tutti coloro che passavano dalle sue grinfie finivano per picchiare sui tamburi come un metalmeccanico prossimo alla cassa integrazione che si sfoga sulla carcassa di una automobile da ridurre in cenere. I concerti dei Lazy Pigs prevedevano, pertanto, la distruzione totale dei timpani; e se si aveva la malaugurata idea di starli a sentire sotto agli altoparlanti, addio per sempre all’udito. Gli acufeni avrebbero imperversato fino a far impazzire l’incauto appassionato di musica live. Con ciò non dovrebbe stupire se, chi non aveva dimestichezza con le novità musicali del periodo, il sound dei Lazy Pigs avesse un solo nome: baccano infernale dal quale stare tenacemente alla larga, roba da indiavolati, drogati e nullafacenti, improponibili padri di famiglia condannati a una vita di stenti ed entrate e uscite dal carcere.
Comunque sia, la band omatese poteva dirsi orgogliosa dei traguardi maturati fino al giorno dell’esplosione del reattore di Chernobyl; è per questo motivo che ogni membro dell’ensemble, in cuor suo, nonostante il trascorrere degli anni, e l’inesorabile avanzamento dell’età, in combutta con l’iconografia classica della rock-star, nutriva la seria intenzione di riuscire un giorno a calcare definitivamente questa strada e poter fare il musicista a tempo pieno, abbandonando tutti gli altri lavoretti da proletari sottopagati e super incazzati. Per il momento, però, una volta a casa, c’era solo da rimboccarsi le maniche, soprattutto per chi, come Fabiano, aveva un duo sul gobbo con cui era sceso a patti inderogabili. Dall’ultima tournée era tornato stremato, dimagrito di cinque chili e con le occhiaie che avevano sbiadito anche le guance sottostanti, normalmente rosse e rubiconde.
“Sei conciato da fare schifo”, erano state le parole di accoglienza della moglie.
“Sei gentile”.
“Quando ti deciderai a trovare un lavoro normale, come tutte le persone normali? Non vedi che tua figlia si vergogna di dire a scuola quello che fa suo padre?”.
Fabiano aveva taciuto come un cane preso a sberle. Non era il tipo da ribattere alla moglie. Se qualcosa non andava preferiva chiudersi in se stesso e aspettare tempi migliori. Del resto non era mai piacevole il rientro a casa dopo un tour. Ma in questa occasione era stato ancora più traumatico: l’indomani l’avrebbe aspettato un doppio turno al Fagiano, locale milanese sui Navigli, attivo dalle otto di mattina alle tre di notte, per convincere la moglie che il suo doppio lavoro era una garanzia. Ma la moglie, ormai, aveva perso le speranze nel marito e non ne voleva più sapere delle sue tragiche vicissitudini professionali. Quando ripensava al giorno in cui l’aveva conosciuto, nel corso della conferenza sulla pena di morte, si metteva le mani nei capelli, e versava sommessamente lacrime amare. Come aveva potuto non rendersi conto che quello che aveva appena conosciuto, benché agile con le bacchette, non l’avrebbe portata da nessuna parte? Tuttavia, al momento del disastro ucraino, era ben lontana dalla sua ex dolce metà e, dunque, dal suo sbigottimento di fronte alla inusuale notizia, della quale non avrebbe saputo nulla fino all’indomani, con l’acquisto del Corriere della Sera: da un paio di mesi s’era trasferita con la figlia da sua madre, a Settala, lasciando il marito in condizioni deplorevoli, con l’arduo compito di vendere al più presto la casa in cui avevano abitato per nove anni, e avviare le pratiche di divorzio. C’era anche la faccenda mutuo da regolare, visto che mancavano ancora più di dieci anni dalla sua assoluzione. Non era nell’aria un patatrac del genere, in fondo, più per la figlia che altro, erano arrivati a sopportarsi con eleganza e dedizione: il problema è che Fabiano, questa volta, l’aveva davvero combinata grossa.
Una sera dopo un rocambolesco concerto a Pavia aveva conosciuto una ragazza inglese di nome Catherine. Veniva da Manchester. Manchester era la città preferita da Fabiano e solo per questo chi veniva da lì acquisiva ai suoi occhi vari punti in più. Era la città dalla quale provenivano tutte le sue band preferite e dove secondo lui la cultura aveva tutto un altro tiro. Per quel che il concetto di cultura potesse farlo realmente sorridere. Laggiù si respirava il vero senso del proletariato, l’unico contesto sociale nel quale, pur non riconoscendosi apertamente in un movimento politico, si ritrovava come un piccolo di Labrador nella sua nuova cuccia. A Manchester ci sarebbe andato a vivere, se fosse stato per lui, perfino col cielo perennemente grigio, pregno di acqua e umidità, come lasciavano presagire i racconti del National Geographic, che leggeva ogni volta che andava dal dentista o dal dottore. Lì valeva perfino la pena vivere da mentecatto. C’era poi un altro particolare non del tutto trascurabile: Catherine era oggettivamente uno schianto, con un’aurea da “saltami addosso ora o mai più” che avrebbe rintronato perfino il nonno di Fabiano, in andropausa da un paio di decenni. Era una biondina alla Kim Basinger, tanto avvezza all’alcol quanto alle bottarelle da una notte e via. La ragazza aveva notato Fabiano esibirsi sul palco del Rococò e a fine concerto l’aveva invitato a bere qualcosa. Parlava a stento l’italiano, ma il batterista dei Lazy Pigs riusciva a capirla benissimo, anche grazie alla sua egregia mimica, degna di un’attrice della Scala. Quando aveva dovuto fargli capire che doveva correre in bagno s’era accovacciata alzando la gonna e mostrandogli le mutande con le fragoline, sibilando il classico motivo legato allo scroscio delle acque vescicali. Ma le cose non erano certo finite lì. I due erano andati avanti a bere in tandem fino alle due e mezza del mattino e quando s’erano trovati sul punto di congedarsi – o consumarsi vicendevolmente ai piedi di qualche siepe - a Fabiano era venuta la brillante idea di invitarla a casa sua, tenuto conto del fatto che la moglie era via per lavoro e la figlia dai nonni. Per almeno quarantotto ore se la sarebbero potuta godere in santa pace.
Non era la prima volta che Fabiano tradiva la moglie: in otto anni – se si escludono fugaci effusioni senza tragiche conseguenze - c’erano già stati un paio di episodi, dei quali, naturalmente, la partner non aveva mai saputo nulla. Uno s’era verificato in occasione della citata data in Cecoslovacchia con un’abitante del posto, vogliosa come un babbuino dopo anni di cattività, in compagnia esclusiva di oche, anatre e colibrì, figure secondarie di uno zoo destinato al fallimento. Alta, mora, fisico palestrato, un seno da maggiorata, con i collant rigorosamente bucati in corrispondenza di entrambi gli alluci e una passata di rimmel da sfidare gli occhi di un barbagianni, non aveva perso tempo a farsi “il tipo della band che suonava la batteria”: era filata liscia come l’olio, ma lui era talmente fuori che il giorno dopo non ricordava nemmeno il nome di colei che gliel’aveva appena trastullato con tanta avidità. Ma gli andava bene così: non aveva nessuna intenzione di stringere rapporti con una beota mezzo russa, presumibilmente capace solo di produrre latte in grande quantità.
La seconda performance fedifraga era andata un po’ meglio, con un po’ più di cuore, e aveva avuto come protagonista Monica Bucchi, una giovane di Caponago che seguiva i Lazy Pigs per ogni dove, comprese le suddette performance per l’Europa. Minuta, né più né meno come Simona, ma decisamente più sfrontata, andava in giro con una automobile verniciata di rosa e un abbigliamento a dir poco appariscente, più consono a una ballerina di burlesque che non a una fan dei Lazy Pigs. Vari tatuaggi le ricoprivano il corpo, anche in zone ben esposte, sottolineando a chiunque la sua originalità. Aveva già avuto un flirt con un membro del gruppo, con il cantante della band, Gianluca Remigi, che s’era protratto per qualche mese, prima della sua definitiva capitolazione con una brasiliana conosciuta dopo un viaggio a Salvador de Bahia. Anche qui, dunque, la miccia s’era accesa in seguito a un’esibizione live: Fabiano, con un calice di birra in mano, rubato al bancone del bar appena dimesso il ruolo di musicista, s’era inventato giullare di corte giochicchiando con il ciuffo della ragazza, laccato di fresco, sollecitando inevitabilmente le sue voglie sessuali. Alla fine, dopo aver tergiversato per una buona oretta in un luogo sufficientemente romantico, s’erano concessi l’uno all’altro nel parcheggio della STAR, sotto la provocatoria scritta illuminata da lampadine colorate che inondavano l’intera via Lecco:
“Mi piace fare sesso in macchina”, aveva detto lei.
“Non sempre è comodo, ma ci si può accontentare”.
“Sai essere elegante anche in questi frangenti”.
“Ti ringrazio”. 
Fabiano aveva riso.
“Uno come te è proprio il tipo giusto da sposare”.
“Per sfortuna sono già sposato”.
“Cosa intendi dire?”.
Fabiano le aveva morso il lobo dell’orecchio.
“Lasciamo stare. La notte brama di vita e spensieratezza. Non roviniamola con assurde...”.
“Vieni qui maialino mio”.
Dopo l’episodio c’erano stati altri potenziali momenti per macchiare la propria fedeltà coniugale, ma per un motivo o per l’altro non si era avuto un seguito della vicenda, forse anche perché di lì a poco le attenzioni di Monica sarebbero state catturate dal terzo della lista, Rocco Primula, tastierista della band. Ma con Catherine, Fabiano, aveva oggettivamente passato ogni limite, sconsacrando per sempre il patto sancito di fronte a don Michelangelo, nel piccolo tempio di San Zenone.
C’era da rientrare da Pavia, e non era uno scherzo con tutto l’alcol che avevano in corpo: non sempre finivano per bere così tanto, ma quella sera, complice un pubblico a dir poco eccitato, con fan che si lanciavano dal palco contando ciecamente sulla franca e solidale presa del pubblico, era andata così; non c’erano peraltro altre date nei paraggi e nessuna bettola prenotata nelle vicinanze: non restava, insomma, che rimettersi in carreggiata per il capoluogo. Cristiano Galbusera, il più morigerato della band, di mestiere barista-bassista, felicemente single, con trascorsi dubbi nel campo della moda, s’era preso carico di accompagnare a casa l’allegra comitiva. Capitava quasi sempre a lui l’arduo compito, anche se ogni volta lo si sentiva imprecare gli angeli e la madonna. Ma era un ragazzone così disponibile, che frequentemente chi gli chiedeva un piacere finiva per provare per lui un sincero senso di colpa. A bordo del camioncino tutto scassato della band, Fabiano e Catherine s’erano accucciati nella coda del mezzo, il vano di solito predisposto a ospitare casse, fili, mixer e strumenti vari, con il vivido proponimento di concedersi un viaggio in solitaria; un’asta del microfono s’era conficcata nel didietro della giovane inglesina, ma curiosamente sembrava non darle alcun fastidio; mentre Fabiano ne osservava gli impercettibili spostamenti per trovare in ogni caso la posizione più idonea per proseguire fino a casa.
“Sei comoda?”, le aveva chiesto.
Lei rideva.
“Non ti dà fastidio...”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Durante il tragitto ci aveva provato spudoratamente, cercando di farsi strada nella lampo dei suoi jeans e gemendo come un bambolotto robotizzato rimasto senza il biberon. Ma il Lazy Pigs, da vero signore, se non altro per rispetto dei commilitoni, l’aveva ammonita con uno sguardo da vero “uomo che non chiede mai”.
“Just a moment”.
Non si potevano fare certe cose in pubblico mentre c’era chi assolveva compiti ingrati teoricamente da risolversi in fraterna collaborazione. Era l’etica del gruppo. Ma l’aveva presa bene, e le aveva regalato una felice sequenza di baci appassionati che avevano mandato in delirio la groupie, auspicando un futuro imminente da Mille e una notte. Andava una vecchia canzone di Van Morrison intitolata Rolling Hills, e nel cielo brillavano le stelle preannunciando un domani soleggiato e pieno di grazia. Per un attimo il ragazzo s’era messo a pensare alla moglie e alla prima volta che s’erano baciati. Si trovavano in campagna, a passeggio, fra le radure omatesi e quelle caponaghesi, sormontati da un inebriante cielo disseminato di nuvolette a forma di batuffoli di cotone. Dopo essersi strattonati qua e là, come fanno i teenager per vincere l’imbarazzo del primo approccio, Fabiano l’aveva presa con forza fra le sue braccia e, fissandola negli occhi come un divo hollywoodiano, l’aveva baciata con un’intensità sopraffina. Se il primo bacio era andato bene, c’erano tutti i presupposti per volare insieme verso nuovi orizzonti, ciò che, in effetti, s’era poi verificato. Come li sentiva, però, lontani quei tempi, e come aveva ragione chi diceva che l’amore è solo un’immensa illusione:
“Speri nell’amore eterno e quel che ti ritrovi in tasca dopo pochi anni è solo una brutale gatta da pelare”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Arrivati a casa, assonnati come marmotte prossime al letargo, s’erano preparati un doppio caffè e avevano cominciato a darci dentro con una foga, che lo stesso Fabiano, aveva giudicato quantomeno esagerata. Non s’era ancora tolto la maglietta che la giovane stava già dando il meglio di sé per regalare al musicista il godimento più eccelso. La trovava davvero eccitante, ma aveva anche pensato che, evidentemente, una tipa del genere, fosse molto più vicina a una del mestiere che non a una moglie normale come la sua Simona. Al confronto la sua partner storica poteva sembrare addirittura pudica. Ma non erano certo gli scrupoli a interferire con la sua libidine. Fosse stata anche una conclamata donna di strada, per quell’occasione trovava che andasse benissimo. In fondo erano solo quarantotto ore di libertà. Un volta raggiunto il letto, la concubina aveva, dunque, preso a sbattere i pugni contro il muro, saltando come un cavallo al galoppo sul torace dell’impavido batterista, con il cuore in tachicardia. Fabiano era troppo rimbambito per capire quanto stesse accadendo e correre ai ripari e così, nel giro di una decina di minuti, erano partite le telefonate di Zanetti, del piano di fianco, inalberato come pochi. Le prime chiamate erano andate a vuoto, ma al terzo tentativo il padrone di casa non aveva potuto fare altro che scoprire chi cercava di mettersi in contatto con lui con tanta insistenza: sbalestrata di forza la cavallerizza, persa in mondi metafisici, aveva impugnato la cornetta del telefono con la stessa dolcezza con cui sceccherava un Negroni sbagliato, pronto a svelare l’arcano mistero.
“Sì, pronto...”, aveva mugugnato in piena crisi orgasmica.
“Pronto un cazzo, adesso vengo lì e ti spacco la testa!”.
La crisi orgasmica era sbiadita in un nanosecondo, e Fabiano all’improvviso s’era ritrovato coi piedi per terra.
“Cosa succede?”, era l’unica frase che era riuscito a pronunciare, pur conscio della sua totale inutilità.
“Ma che cazzo state facendo? Siete rincoglioniti? Sono le quattro di mattina!”.
Fabiano aveva tossito senza la reale necessità di dare sfogo al diaframma, sospinto, semmai, da un crescente stato d’ansia.
“Sì, no, beh... mi scusi...”.
“Mi scusi un cazzo, siete proprio dei coglioni. Se non la piantate chiamo i carabinieri!”.
Catherine rideva. Rivoli di saliva le scendevano dalle labbra, mentre cercava in tutti i modi di riconquistare la bocca dell’amato, in oggettiva defaillance.
“Forse è il caso di evitare schiamazzi?”, aveva domandato Fabiano, incapace di prendere una valida decisione. 
Ma lei non aveva orecchie e guaiva come se niente fosse e solo per puro caso aveva quindi smesso di prendere a pugni la parete, evitando l’arrivo delle forze dell’ordine; s’era accorta, in effetti, che lo stesso  compiacimento poteva essere raggiunto tirando con forza i capelli dell’amato. Così erano andati avanti fino alle prime luci dell’alba, quando, sfiancati oltre ogni immaginazione, s’erano addormentati uno accanto all’altro.
S’erano ripresi dopo l’ora di pranzo, con gli occhi rimbecilliti e un alito da arma batteriologica, e all’unisono avevano deciso di farsi una doccia. Erano già nudi, per cui il passo per mettere in atto la prima azione pomeridiana era stato breve. Con l’acqua che scendeva s’erano immedesimati di nuovo nel film interrottasi alle 6.30 di mattina, divertendosi ancora come matti, con in più il fascino delle gocce di pioggia che scivolavano sulle loro pelli in escandescenza. Catherine aveva ripreso a ridere senza freni, dando seriamente l’impressione di non avere ancora smaltito la sbornia della serata precedente. Sicché Simona, rientrando con largo anticipo dalla trasferta di lavoro, dopo aver disserrato la porta blindata, non aveva potuto credere alle sue orecchie. Per un attimo aveva temuto di soffrire di allucinazioni acustiche. Non era una cosa così strana. Sua nonna, ormai ultranovantenne, era solita credere che per strada stessero recitando a squarciagola il rosario, col sottofondo di grida naziste, quand’era evidente che era tutto frutto della sua immaginazione. Nel suo caso poteva, dunque, essere colpa dello stress: dormiva male da almeno tre notti e le preoccupazioni per la casa non le davano tregua. Ma la verità era ben più spiccia: le voci che stava sentendo erano vive e vegete, il suo cervello non aveva alcun difetto, c’era qualcuno di troppo nel suo appartamento… Ne aveva avuto prova muovendosi catatonicamente verso il bagno come attratta da un abbaglio miracoloso. Andava la doccia e all’interno del box si intravedeva una massa enorme di carne che si contorceva su se stessa. Non era riuscita a trattenersi e, in preda al presentimento più cupo, aveva aperto con un guizzo una delle due ante del servizio; trovandosi innanzi alla nuda e cruda consapevolezza di essere stata tradita senza ritegno. 
“Ma tu guarda questo lurido porco…”.
Fabiano per poco non era svenuto.   
“E da dove arriva la puttana?”.
Christine non capiva l’italiano, ma aveva inteso ogni cosa e per un breve istante s’era resa perfino conto che forse non era più il caso di ridere come una demente. Quella che si trovava di fronte, con ogni probabilità, era la moglie del tipo che si stava spudoratamente facendo sotto la loro doccia e della quale non aveva mai sentito parlare: aveva gli occhi fuori dalle orbite e se avesse avuto in mano un coltello, si sarebbe scagliata su entrambi eliminandoli senza pietà. Invece era stata molto più contenuta: 
“Sei davvero un porco, lurido, infame. E adesso che gli racconterai a tua figlia?”.
Simona, senza aggiungere una parola di più, se n’era andata devastata da una rabbia sovrumana, ma evitando di versare lacrime. In fondo c’era una considerevole parte di sé che aspettava da sempre questo momento, per mettere una volta per tutte la parola fine alla sua storia malata. Di lì a tre giorni avrebbe preparato le valigie sparendo per sempre dalla miserabile vita del marito barista-batterista.

Affari condominiali: terzo piano, appartamento A


Gli unici rapporti con quelli del condominio li aveva misurati con la primogenita dei Canali, la Cristina del primo piano, impertinente e spocchiosa come lei (ma con più brufoli). Con lei solo, infatti, riusciva a confidarsi e raccontarsi, fermarsi a blaterare del più e del meno, cincischiare liberamente come pulcini la mattina benedetti dal primo sole primaverile, più di quanto non accadesse perfino con i propri familiari, mamma e papà. Per il resto si faceva tranquillamente gli affari propri, disinteressandosi completamente dei vicini, alcuni dei quali, quasi, non sapeva nemmeno che faccia avessero. È per questo lapalissiano motivo che molti la ritenevano una ragazza se non maleducata, perlomeno difficile, scontrosa, in preda a chissà quali paturnie o crisi adolescenziali.
«Ha l'età della stupidera», solevano confidarsi le anziane del circondario, vedendola aggirarsi furtiva per gli spazi condominiali con il capo chino e il passo da lince impaurita.
Ma con Cristina era diverso. Era, certo, anche per via dell'età. L'amica aveva quindici anni, lei diciassette, insieme se la intendevano a meraviglia; non servivano codici segreti per capirsi e anche la semplice allusione di una era catturata al volo dall'altra, come se fossero legate da impercettibili e misconosciute frequenze sensoriali, a loro esclusivo appannaggio. Avevano un feeling speciale che le portava a viversi come parenti stretti, se non sorelle. Ma c'era dell'altro, ben più pragmatico, ossia quel famigerato modo di concepire l'esistenza, ai limiti del buonsenso, intriso di un'emotività borderline, che raramente trovava riscontro in altre coetanee, tipo le gemelle che vivevano nei pressi del ponte sul Molgora. E che odiavano: se non erano delle stupide, erano delle cagne in calore. Solo loro erano il non plus ultra.
Il 99 percento dei loro discorsi verteva sui ragazzi. E quindi sul sesso. Altri argomenti venivano affrontati con una frequenza paragonabile all'alternarsi dei periodi glaciali. Tantomeno affrontavano lirismi scolastici o faccende legate al mondo dello sport, spesso accarezzati con piacere dalla gran parte dei giovani dell'epoca. Amavano parlare dei ragazzi e ce n'era sempre qualcuno sul quale concentrarsi con vivido accanimento. Discutendone la forma dei capelli, il vestiario, il profumo emanato. I ragazzi, insomma. Bastava la parola a provocare in entrambe uno spasmo ormonale che ancora non comprendevano dal punto di vista fisiologico, ma psicologicamente sì: si sentivano montate da un'euforia elettrizzante, che mai durante l'infanzia aveva fatto capolino, era qualcosa di dannatamente nuovo e affascinante. A onor del vero anche le conoscenti amavano ricamare fantasie sui principali esponenti del sesso forte, tuttavia, nel loro caso, questa attitudine sembrava francamente più spiccata della norma, come se un barlume di morbosità potesse realmente nascondersi dietro ai loro intendimenti apparentemente immacolati. Lo avrebbe inteso anche il meno dotato sordo impossibilitato dalla cataratta a scorgere giochi amanuensi per non udenti. Dimostravano questa loro predisposizione andandoci giù pesante, affrontando a briglia sciolta argomenti per i quali, verosimilmente, non è sufficiente essere vaccinati. Era, dunque, comprensibile fino a un certo punto il sacrosanto desiderio di conoscere nei dettagli le meraviglie del sesso, la vivace curiosità per un corpo dell'altra sponda, il compiacimento di vedere anche dei signori maturi girarsi su se stessi inseguendo circonferenze anatomiche di raro pregio. Nel loro caso si sconfinava in campi estremi, non molto in voga, evidentemente, fra chi ha a malapena cominciato a parlare bene in italiano.
«Sai cosa fanno i feticisti?», domandava una.
«Lo so benissimo, cosa credi? Il mio ragazzo è un feticista».
«Il tuo ragazzo è un feticista?».
«Per forza, parte leccandomi il didietro delle orecchie tutte le volte che ci mettiamo in ballo».
«Allora potrebbe essere un vero feticista».
Si incontravano laddove retroscena saffici, rapporti a tre, masochismi e altre idee sciagurate prendevano forma nelle loro menti vibranti, facendole provare una specie di estasi. Erano minuscoli buchi neri in dote a curve emozionali del cervello, tanto innocui, quanto potenzialmente in grado di fagocitare il mondo intero anche al solo comando di un pusillanime pensiero. Nel 1986, peraltro, non si sapeva ancora bene dell'Aids. Si sapeva a malapena che era morta la prima persona importante per via dell'HIV, qualche mese in anticipo sull'esplosone del reattore di Chernobyl: Rock Hudson, popolare attore statunitense, se n'era andato nel 1985 dopo averle tentate tutte a Parigi e aver perfino noleggiato un aereo tutto per sé per non correre il rischio di contagiare gli altri passeggeri. Erano stati, in realtà, i rispettivi genitori a parlarne; per entrambe, infatti, la star hollywoodiana non era che uno dei tanti nomi che sembrava di aver sentito, ma senza esserne tanto sicuri. Del resto era una figura che apparteneva a decenni prima, in virtù di film come Il Gigante o Addio alle Armi. Per loro, giustamente, preistoria. Qualcuno diceva che il virus fosse stato veicolato dalle scimmie, ma sarebbero potute essere anche state le mosche, le libellule, le farfalle, non sarebbe cambiato molto per l'esuberante intellighenzia omatese. In ogni caso il problema non era solo quello dell'Aids. C'erano un mucchio di altre malattie delle quali non si conoscevano le caratteristiche, un'infinità di nomi tale da riempire un libro intero, a partire dalla sifilide, forse la più ricorrente per l'immaginario collettivo. E non ultimo c'era il rischio di mettere al mondo una creatura con largo anticipo sulla tabella di marcia. A questo tipo di problema, inesistente fino a qualche decina d'anni prima, quando la gravidanza di una sedicenne poteva addirittura essere considerata una benedizione, le due non ci pensavano minimamente: erano come convinte di essere immuni da certi casini, a loro sarebbe filato tutto liscio.
Cristina, in realtà, nonostante ciò che voleva far sembrare, per poter tenere testa alla provocante amica, era tutt'altro che esperta. Ne diceva di tutti i colori, ma in verità il sesso per lei era ancora un mistero in gran parte da svelare. Di fatto la sua prima volta era avvenuta solo poche settimane prima del patatrac ucraino e non era nemmeno sicura che la cosa si fosse compiutamente realizzata. Tuttavia si era già sbizzarrita in altri sensi, confortando libidinose attenzioni riservate verosimilmente al mondo adulto, che le sue coetanee – qualora avessero deciso di abbandonare per sempre bambole a bambolotti - non si sognavano nemmeno. Ma per la compagna di avventure, che aveva due anni in più e già si sentiva al pari di una donnona dalle mille esperienze, era diverso. Nel suo caso, infatti, la prima volta c'era già stata da un pezzo, risalendo ormai a circa tre anni prima, facendo sì che da quel giorno non avesse più remore sessuali e ogni eccesso rientrasse nella sua normalità esistenziale.
Si davano appuntamento alle spalle del caseggiato, dove sorgevano i box, in un angolo del palazzone omatese che guardava alla strada principale che conduce ad Agrate, su un rivolo di asfalto ricoperto da bolle di cicche spiaccicate; e lì, nascoste dalla viscosità e dal profumo dei tigli, rimanevano come vecchie megere a ciangottare e a fumare, finché una mamma di turno non si faceva avanti per richiamarle all'ordine, per la cena imminente, un impegno da assolvere, un incontro da rispettare. Cristina, tanto per dare un'idea dei loro fantasmagorici tete a tete, pochi giorni prima di Chernobyl, le aveva confidato tutto della sua storia con Alberto Bosetti.
«Quello sfigato?», aveva esordito l'amica, con un'aria vagamente malinconica.
«Quello sfigato è uno che sa il far suo, fidati. Nessuno bacia bene come lui».
«Quanto è durato?».
«Non l'ho certo cronometrato, ma un bel po'».
«Gli hai fatto anche dell'altro?».
«Quello non manca quasi mai se non mi fa incazzare».
«Perché me lo dici solo adesso? Credevo che fra noi non ci fossero segreti».
«Perché un po' ho sofferto».
«Ahia».
Marina Tresoldi era la figlia dei Tresoldi del terzo piano, appartamento A, incolonnati sopra ai Canali del primo piano e ai Meroni del secondo. Era una bellissima ragazza, con i capelli a caschetto neri, un visino perfettamente disegnato, e un corpo da fare invidia a quelli che si vedevano in televisione. Se non fosse per l'aria compassata che lasciava volutamente trapelare col suo dinoccolato incedere, sarebbe potuta essere ritenuta all'unanimità la più bella ragazza del paese.
«Dovrebbe partecipare a Miss Italia», mugugnavano in molti.
I commenti fatti dai ragazzi di Agrate e Omate sul suo conto erano ormai appannaggio della storia popolare locale.
«Che figa», accompagnato da un bestemmione, era il concetto contemplato con maggiore vigore.
In pochi, d'altronde, potevano permettersi il lusso di pensare seriamente a lei in qualità di ragazza con cui dividere una storia d'amore e, dunque, le vicende con Marina erano il più delle volte virtuali, immaginate e trasognate fra un andirivieni e l'altro dal bagno con intenzioni manuali ben precise. Era troppo in là, troppo fascinosa, troppo immortale (e immorale). Era l'unica figlia di Stefano Tresoldi e Monica Valcepina, lui un esigente signore di mezza età, bancario di professione, lei una brillante signora di pochi anni più giovane del marito, con il pallino per le calze a pois e il bricolage, di mestiere, casalinga.
Con i genitori viveva in perenne conflitto. Quasi non ci parlava più. Andava avanti così, praticamente, dalla seconda mestruazione. Ogni monosillabo era sufficiente a scatenare una guerra familiare. La madre, soprattutto, era la persona con cui andava meno d'accordo; da lei si dissociava per ogni iniziativa, pensiero, volontà, quasi preventivamente. Peraltro provava un piacere infimo nel criticarla per non essersi ancora realizzata nella vita, sapendo di mandarla su tutte le furie:
«Dovevi fare l'attrice», le aveva detto un giorno che s'erano fermati in oratorio per il concerto di una band del posto. «Così saresti stata meno apprensiva e più...».
«Non mi piace che sia a tu a dirmi quello che dovevo fare. Sei troppo giovane per capire le cose. Vedremo, in ogni caso, quello che combinerai tu».
Marina pensava che la madre non avesse avuto il coraggio di affrontare il futuro che avrebbe desiderato, dedicandosi alla recitazione, come aveva fatto da ragazza nella filodrammatica agratese. Avrebbe voluto una madre importante e avvenente e invece ne aveva una, per nulla sgraziata, ma dedita quasi esclusivamente ai lavori di casa, circostanza che la rendeva ai suoi occhi inutile e banale. C'era un bel po' di vanità in tutto ciò. Non le piaceva, infatti, far sapere in giro che sua madre fosse una casalinga, una come tante, il solito genitore basso borghese, senz'infamia né lode. Voleva poter dire di avere una madre veramente cool, tale da giustificare in qualche modo anche la sua superiorità e il suo distaccamento dal provincialismo omatese che odiava con tutte le sue forze. Col padre le cose non andavano meglio, ma almeno non c'era il pericolo di grossi scontri. La verità è che non si filavano nemmeno di striscio. Vivevano su mondi paralleli. Il genitore era un tipo che amava starsene sulle sue, disquisendo più con gli amici che con i membri della famiglia. Gli sembrava di non avere argomenti per affrontare convincentemente le due donne di casa; con i compagni di merende, invece, poteva parlare di calcio, politica, economia, e perfino di caccia. Si ritrovava con loro il sabato e la domenica, nel bar dell'oratorio, o da Jimmy, l'unico locale omatese degno di chiamarsi tale ed è così che trascorreva il suo tempo libero, fra accese discussioni, risate e calici di vino. La situazione cronicamente malata che contraddistingueva il suo rapporto filiale era così palese che quando doveva comunicare qualcosa alla piccola di casa, lo faceva rivolgendosi alla moglie e inoltrando, dunque, l'argomento dicendo «tua figlia...», proprio come se la ragazza fosse un'estranea o venisse da chissà quale pianeta. Sicché la madre, ormai rassegnata, non poteva far altro che tradurre ciò che il padre intendeva di volta in volta dirle, come se i due parlassero veramente lingue diverse.
Veri diverbi fra padre e figlia maturavano solo in seguito a sguardi infuocati legati al fatto che la famiglia di Marina era molto religiosa e non tollerava le intemperanze e la strafottenza della figlia, concernenti soprattutto l'ipotesi che la ragazza potesse avere rapporti prima del matrimonio. In casa Tresoldi l'illibatezza era una considerata una regola incommensurabile. Mamma e papà avevano fatto di tutto per crescere la propria figlia con l'idea che la sua verginità fosse un dono straordinario, destinato unicamente all'uomo della vita, un uomo che la meritasse veramente e le donasse tutto se stesso, come insegnava il cristianesimo, ma s'erano presto resi conto che le loro prediche non dovevano essere servite a granché. Il padre, in particolare, era ossessionato dal pensiero che la carne della sua stessa carne potesse concedersi per puro piacere al primo che passava per strada. Questa agonia la coltivava fin dal giorno in cui Marina aveva pronunciato per la prima volta la parola “mamma”. Una volta aveva trovato la figlia in mutande che giochicchiava con un cuginetto, toccandosi punti considerati rigorosamente off-limits. Aveva cinque o sei anni. Per giorni era andato avanti a rimuginare sulla faccenda, temendo di avere una figlia perversa. E a poco erano serviti i ragguagli della moglie che, avendo sfogliato un libro di pediatria, sapeva che quelli erano comportamenti dell'infanzia perfettamente normali, riscontrabili quasi sempre nell'ambito di un sano sviluppo fisico e cognitivo. Una volta cresciuta, però, l'idea che potesse commettere atti impuri s'era insediata con ancora più vigore nella sua mente coercitiva. Più volte s'era perfino introdotto clandestinamente nella sua camera per trovare tracce di rapporti completi, cosa che gli avrebbe provocato come minimo una sincope.
Sicché l'unica persona con cui la ragazza andava d'accordo - se non altro per un fugace e scontato saluto - era la nonna Gianna che viveva da sola in una casetta per andare a Burago e che vedeva sì e no un paio di volte la settimana. Andava lei stessa a trovarla in bicicletta, qualche volta a piedi, affrontando senza remore la lunga lingua di asfalto che divide Omate dai confini di Vimercate, costeggiante gli alberi secolari del parco Trivulzio. Insieme bevevano il tè o chiacchieravano delle cose di tutti i giorni. La nonna le chiedeva come andava a scuola e se aveva ancora intenzione di andare avanti con la ginnastica artistica, sapendo che dai diciotto anni su, non valeva più la pena spendere energie per questo sport in cui l'apice agonistico, sopraggiunge intorno ai 15 anni. Raramente parlavano dei genitori; ma spesso Marina le chiedeva del nonno che non aveva mai conosciuto.
«Credi che mi avrebbe voluto bene?».
«Sicuramente. Non dovresti nemmeno chiedermelo».
«Mi sarebbe piaciuto parlare con lui. Non è facile parlare con gli adulti».
«Se n'è andato pochi mesi prima che arrivassi tu».
«Dici che avremmo avuto un bel rapporto?».
«Ti dico solo che il suo ultimo desiderio era quello di poterti prendere in braccio. Avrebbe pagato per vedere la sua nipotina».
«Veramente?».
«Quella maledetta tosse che andava avanti giorno e notte. Se solo i medici avessero capito che si trattava di un'allergia... Ma adesso non mi ci fare pensare che mi viene da piangere...».
Dalla nonna cercava rifugio anche perché il precario rapporto con mamma e papà, negli ultimi tempi, era addirittura peggiorato. Era per via della storia che aveva messo in piedi da quasi un anno con un ragazzo, Sandro Beretta, incontrato un giorno a scuola, a Vimercate: Marina frequentava la seconda ragioneria, Sandro, la quarta geometra. Erano al bar e lui s'era fatto avanti fra la folla per prenderle il panino desiderato; non era facile incunearsi fra i tanti studenti che si accalcavano presso l'unico angolo dell'omnicomprensivo dove era possibile recuperare qualcosa per ammazzare il brontolio dello stomaco di mezza mattina. Marina se n'era innamorata all'istante. E non sarebbe stata da biasimare: Sandro era giudicato all'unanimità uno dei più bei ragazzi della scuola. Ma non era solo per questo che lo aveva scelto. Era come se l'avesse conosciuto da sempre, e da sempre fosse stato lì a due passi da lei, per chiederle di starci insieme, per amarlo, curarlo e proteggerlo. Perché una della cose che aveva subito messo a fuoco era che, al di là della apparenze, Sandro non era un ragazzo felice, bensì un tipo che aveva bisogno di qualcuno che gli volesse bene veramente, di aiuto, del suo aiuto. Peraltro si ritrovava un po' in lui: nascosto da qualche parte le sembrava, infatti, di intuire la presenza di un tarlo, un'angoscia, un dolore mai sopito, come era per lei l'incapacità di vivere un rapporto sereno coi genitori. Forse anche per lui il problema erano i genitori. Non ne parlava mai, ed era arrivata perfino a pensare che non li avesse più. Un giorno aveva provato ad affrontare l'argomento, ma senza successo:
«Mi piacerebbe un giorno poter conoscere i tuoi genitori».
«Magari più avanti».
«Perché non vuoi presentarmeli?».
A Sandro s'erano illuminati gli occhi, e Marina non aveva più avuto il coraggio di andare avanti. Sicché una volta conosciutesi, era stata anche la chimica del suo corpo a dirle molto, un epidermide che si sposava benissimo con le trame del suo e un odore naturale che non trovava mai cattivo, anche se poi veniva a sapere che non si faceva la doccia da tre o quattro giorni. Come se non bastasse era assai intelligente, fra i migliori della sua classe: in un test di matematica affrontato in terza, era arrivato primo. Anche in italiano eccelleva, nei temi era insuperabile; in più di un'occasione la professoressa Giuliacci aveva selezionato il passo di un suo scritto col quale allietare una quinta ora bucolica. A scuola, a onor del vero, si applicava con scarso interesse, ma arrivava senza problemi al sei e oltre: gli bastava ascoltare le lezioni e ogni cosa veniva metabolizzata con successo dalla sua mente. I primi mesi con lui erano stati magnifici. Si vedevano un giorno sì e un giorno no, quasi sempre di nascosto, soprattutto dai genitori di Marina, al parco Manzoni o ai giardinetti di Cavenago, e passavano il tempo a riempirsi di baci e carezze.
«È dolcissimo. Di così dolci non ne ho mai trovati», aveva detto un giorno la piccola dei Tresoldi a Cristina.
In effetti, Sandro era caratterizzato da una dolcezza innata, bastava guardare il suo sorriso: uno di quei sorrisi che anche solo esprimendosi a metà, avevano così tanto da dire e da dare.
Da un po', però, le cose avevano iniziato a girare male. C'era qualcosa che Marina non riusciva più a inquadrare nel suo rapporto con Sandro. Il carattere del ragazzo, all’improvviso, era cambiato e il più delle volte pareva distante, ombroso, silente, scostante. Sembrava l'uomo più felice del mondo per qualche minuto, per poi, apparentemente senza motivo, piombare nell’oblio, perso in qualche misterioso viaggio cosmico. Le sembrava, in alcune occasioni, di far compagnia a un fantasma. Anche la sua dolcezza ne aveva risentito. Il suo sorriso non aveva più la verve di un tempo, e l’inespressività faceva capolino sul suo volto con inusuale frequenza. I pomeriggi avevano così cominciato a perdere la loro caratura briosa e spensierata. Ma era stato proprio nel corso di uno di essi che l'arcano mistero inerente questo cambiamento caratteriale era emerso in tutta la sua drammaticità. A un certo punto, semisdraiati su una panchina del parco Manzoni, con un ghigno che non gli apparteneva, Sandro aveva sollevato la manica della camicia, sottoponendo il braccio allo sguardo dell’amata. Marina, soprappensiero, non ci aveva nemmeno fatto caso, ma lui l’aveva scossa, sottolineandole che il suo braccio aveva qualcosa di impellente da dirle.
«Ma che hai da rompere?».
«Non noti niente?».
«Cosa dovrei...».
Marina non aveva finito la domanda, perché s’era accorta che il braccio di Sandro, proprio dove di solito si effettua l’esame del sangue, era coperto di minuscole crosticine.
«Cos’hai, le zecche?», aveva chiesto Marina, ridacchiando impunemente.
«Non sono zecche».
«E allora cos’è?». 
Sandro aveva fissato gli occhi di Marina con un sentimento inconcepibile. Gli veniva da ridere, ma nello stesso tempo avrebbe voluto piangere. In fondo, voleva sinceramente bene alla piccola dei Tresoldi, ma evidentemente non era più sicuro del loro futuro insieme. Certi rapporti difficilmente sarebbero potuti andare avanti con una nuova folgorante e micidiale passione da gestire.  
«Sono le punture con cui mi faccio di eroina».
Marina era trasalita. A malapena sapeva che esistesse la parola eroina. Mai l’aveva incontrata nella sua breve vita. Sapeva che era una droga, ma non avrebbe certo saputo dire che colore avesse, come veniva preparata, come veniva iniettata e quali fossero i sintomi dovuti alla sua assunzione. Non s’era nemmeno lontanamente immaginata che dei buchi in corrispondenza dell’avambraccio potessero avere a che fare con l’abitudine di volare in un altro mondo, fittizio e mostruosamente pericoloso.
«Ma ti sei rincoglionito?», era stata la sua domanda bruciapelo, formulata più per una semplice e spontanea reazione al termine eroina, che non per un’autentica consapevolezza della tragedia.
«Lo so che è terribile, ma vorrei che non mi giudicassi per questo».
All’improvviso a Marina era venuto da piangere. Non ci capiva più niente. Com’era possibile che il suo ragazzo si facesse di eroina? Com’era possibile che il più bel ragazzo dell’omnicomprensivo di Vimercate potesse essere un tossicodipendente? Lei non doveva essere immune dai cataclismi dell’esistenza? E ora, la loro storia come sarebbe proseguita?
«Dai, non piangere».
«Ma adesso che facciamo?».
«Vedrai che ne vengo fuori». 
Marina lo aveva abbracciato, prima di salutarlo e vederlo allontanarsi con il suo Ciao. A casa, però, la situazione era precipitata. Non aveva mangiato niente e una volta a letto non era riuscita a chiudere occhio. Il suo ragazzo si faceva di eroina. Era una cosa che non riusciva a metabolizzare. Non rientrava nella sua sfera mentale, cresciuta com’era fra le mura dell’oratorio e una famiglia bigotta e intransigente che non lasciava trapelare certe drammatiche realtà esistenziali. Il mondo che le era stato descritto, benché lei facesse di tutto per contraddirlo e andargli contro, non contemplava risvolti così diabolici. Ma evidentemente il vero mondo era un altro, ed era un universo che le faceva davvero una dannata paura. Pensando alla siringa con cui Sandro si faceva, quel che ne scaturiva era l’immagine di un teschio, che dalle sue elucubrazioni notturne prendeva forma nel buio della stanza: le sembrava di vederlo materializzarsi con quelle terribili fosse orbitarie con incise le iniziali del suo amore. Sicché solo ora comprendeva il motivo per cui tante volte, negli ultimi tempi, lo aveva visto con quell’aria abbacchiata e triste, le occhiaie e un atteggiamento negativo verso ogni cosa. Ora tutto tornava, comprese quelle assurde circostanze in cui aveva rifiutato perfino di andare a letto con lei.
«Perché no? Non stai bene?», gli aveva detto la prima volta che era successo.
«Sto fin troppo bene», aveva ribattuto lui con un'aria da prendi schiaffi.
«E allora perché non vuoi fare l’amore con me?».
«Non mi funziona più l’uccellino».
«Cosa?».
Non c’era tempo da perdere. Se voleva salvare il loro rapporto e soprattutto l’avvenire di Sandro non serviva a nulla piangersi addosso e farsi prendere dal panico notturno: doveva farsi coraggio e affrontare il problema a testa alta, pur sapendo di non poter contare su nessun altro che non se stessa; l’avessero saputo i suoi genitori, come minimo, non l'avrebbero più fatta uscire di casa. L’indomani aveva, dunque, cominciato la sua opera di persuasione nei confronti dell’amato, sulla solita panchina del parco Manzoni, con un Sandro più allegro del solito, l’esatto contrario di quello del giorno prima, in cui le aveva confidato la sua assurda dipendenza. 
«Mi prometti che la smetterai?».
«Te lo prometto».
«Già da domani».
«Ci provo».
«Potrebbe non bastare».
«Smetto quando voglio».
Ma le cose avevano presto preso una piega diversa da quella perseguita da Marina. Sandro a volte mostrava una fiducia in se stesso pazzesca, tale da influenzare anche il pensiero della diciassettenne che, all’improvviso, le sembrava di aver preso troppo seriamente la cosa e che veramente, un domani, di tutto ciò che stava accadendo, ne avrebbero riso insieme. Ma col passare delle settimane, in un susseguirsi di alti e bassi, con lui che continuava a farsi come un ossesso, indifferente agli sforzi di Marina, la giovane dei Tresoldi s’era cominciata a porre dei grossi interrogativi, rendendosi conto che, presumibilmente, le parole di Sandro andavano prese con le pinze, e che la metà delle cose che raccontava erano fandonie; in pratica le raccontava quello che voleva e lei, fidandosi, non faceva altro che procrastinare la sua salvezza, semmai si fosse avverata. Di fatto, se voleva veramente ottenere qualcosa doveva agire in un altro modo, arrivando a fargli capire che se non cambiava radicalmente atteggiamento l’avrebbe persa. Per sempre. Così aveva iniziato a minacciarlo. Per il suo bene.
«Se non ti decidi a smettere, ti lascio. Mi dispiace».
«Ti ho detto che smetto quando voglio. Posso stare una settimana senza bucarmi, così ti do prova della mia forza».
«Non mi interessano questi esperimenti. Voglio che la finisci una volta per tutte. Come fai a dire di amarmi se non riesci nemmeno a promettermi qualcosa che farebbe bene soprattutto a te?».
Ma ancora una volta Marina doveva avvedersi che erano le solite e assurde scuse: Sandro, nelle condizioni in cui si trovavano, non avrebbe smesso mai. E magari all’inferno ci avrebbe portato pure lei.
Sicché un giorno, il giorno dell’esplosione del reattore di Chernobyl, Marina aveva preso la decisione che non avrebbe mai voluto prendere: avrebbe lasciato Sandro, una volta per tutte, anche a costo di morire di dolore, lo doveva a se stessa, e lo doveva soprattutto a lui, che senza una scossa veramente importante avrebbe raggiunto il punto di non ritorno. Certo non avrebbero mai immaginato che da lì a qualche giorno avrebbero proibito rigorosamente di andare in giro per i campi della zona, e obbligato a mantenersi lontani dagli spazi verdi come il parco Manzoni, dove le radiazioni si sarebbero accumulate con maggiore forza. Il sole brillava sereno e la primavera era ormai spuntata da un pezzo. C’erano mille e altri motivi per essere felici, ma forse non quel pomeriggio. Avevano iniziato a parlare di scuola e di rock’n’roll e solo con le prime luci dell’imbrunire Marina s’era decisa a passare all’attacco.
«Sandro... ».
«Che c’è?».
«Ti lascio».
«Come?». 
«Non voglio più stare con un tossico».
Sandro l'aveva presa malissimo. Nei momenti di lucidità si rendeva perfettamente conto di tenere tantissimo a Marina e a modo suo di amarla. Ma forse più che amore era la consapevolezza di avere una spalla su cui contare, un sentimento che si concretizzava quando il senso di solitudine che lo pervadeva si faceva sentire più del normale.
«Non mi puoi lasciare, non mi puoi lasciare proprio adesso».
«Mi stai rovinando la vita. Non posso andare avanti così. All'inizio fra noi era magia, era un sogno, adesso mi sembra di perdere il mio tempo con uno zombie».
«Ma io smetterò. Non ti devi preoccupare».
«Non ci credo più. Me lo hai già detto mille volte. Sono passati mesi dalla prima volta».
«Questa è la volta buona».
Marina lo aveva fissato con aria circospetta, pervasa da una forza interiore che non sapeva di avere: capiva il passo che stava per fare, un passo travolgente, ma sentiva che il coraggio questa volta non l’avrebbe abbandonata. La storia con Sandro s'era trascinata per troppo tempo e alla fine il dolore per la paura di perderlo a causa di fattori esterni, era coinciso con l’idea di dire addio alla persona cui teneva di più; in sostanza tanto valeva optare per la seconda, terribile, soluzione. Lui era il ragazzo perfetto, ma se la perfezione doveva fare rima con autodistruzione, allora, forse, non ne valeva più la pena. Era ancora piccola per comprendere tante cose, ma in questo frangente capiva che doveva dire grazie a mamma e papà che, con la loro educazione, con i principi che le avevano trasmesso, le avevano anche inculcato l’amore per la vita, la consapevolezza che, purtroppo, a volte è necessario agire anche contro le proprie volontà e contro ciò che il cuore detta. L’aveva in qualche modo aiutata la bella atmosfera che si respirava, con l'aria tersa, lo svolazzare degli insetti, il cinguettare degli uccelli; in lontananza il cielo rosseggiante, che faceva da sfondo ai numerosi comignoli delle case che guardavano ad Agrate, come in un vecchio quadro ottocentesco; e i rumori della strada attutiti dalle numerose specie arboree che crescevano a ridosso della cancellata principale, poco prima dello spazio dedicato ai giochi dei bambini e che da qualche giorno s’erano riempite di foglioline verdi, un inno alla bella stagione ormai alle porte. Marina, senza perdere altro tempo, continuando a fissare la persona che amava più di ogni altra cosa, s'era alzata e aveva cominciato a dondolare la testa a destra e a sinistra, come chi in preda alla disillusione più completa, non trova una sola parola per esprimersi. 
«Addio, aveva sussurrato senza ricevere risposta».
A casa per l’ora di cena c’erano mamma e papà alle prese con il telegiornale. Stavano trasmettendo le immagini del reattore nucleare ucraino da poco saltato in aria. Si parlava di scorie nucleari, di campi contaminati, morti per le radiazioni, ma Marina sembrava del tutto indifferente alla catastrofe. La sua mente era altrove, per chissà quanto ancora ai piedi di quella panchina, dove s’era congedata dal suo domani e, forse, definitivamente dalla sua innocenza. Sicché al padre era bastato un solo sguardo per capire tutto; e per far capire alla sua piccola che nel momento del vero bisogno lui ci sarebbe sempre stato, senza ricorrere alla moglie traduttrice. A tal punto anche per il genitore il disastro di Chernobyl s’era fatto piccolo e insignificante. 
«Ti va di parlare un po’?».
«Grazie papà».

... e le noiosissime cene con gli amici della moglie



·         Spread.
·         Prego?
·         Spread.
·         Ah, piacere, Gianni.
·         Spread.
·         Sì, sono sempre io, Gianni.
·         Ma non si rende conto che stiamo diventando come la Grecia?
·         Amo la Grecia.
·         La Grecia?
·         Sì, la Grecia, presente Omero?
·         Chi? Mia nonna ha rotto l'omero, è caduta dalle scale, poveretta.
·         Poveretta, speriamo si riprenda in fretta.
·        
·         BRIC.
·         Oh, piacere, Gianni.
·         BRIC.
·         Sì, sono sempre io, Gianni.
·         Ma non si rende conto che di questo passo i cinesi finiranno per surclassarci?
·         Interessante la Cina.
·         La Cina?
·         Sì, la Cina, mai sentito parlare della Cina?
·         Anch'io ho una nonna che mi sta vicina.
·         Ah, le nonne, se non ci fossero loro.
·        
·         Bond.
·         James Bond?
·         Ma no, che sciocco, i bond.
·         Oh, mi perdoni, pensavo all'attore.
·         Si vede che lei è un tipo con la testa fra le nuvole.
·         Trova?
·         Perché sta cercando qualcosa?
·         Beh, sì, ieri ho acquistato un accendino tutto colorato, e ora non so proprio dove sia finito.
·         Mi dispiace, davvero, ma se vuole le do una mano a cercarlo.
·         Gentile da parte sua, ma la prego, non si disturbi… la cena potrebbe raffreddarsi.

giovedì 2 febbraio 2012

El Paso de Los Toros, Minitalia, Volo Orio al Serio-Budapest...

108 - El Paso de Los Toros - Milano

109 - Minitalia - Capriate

110 - Volo Orio al Serio - Budapest

Caserma dei carabinieri, Spazio Oberdan, El Beverino Café, Carosello...

104 - Caserma dei carabinieri - Milano

105 - Spazio Oberdan - Milano

106 - El Beverino Café (Brera) - Milano

107 - Centro commerciale Carosello - Carugate