36.
L'Ambrogino e il
Giannino risero sommessamente, trovando paradossale e surreale la situazione; erano
al cospetto del cadavere di don Filippo e il medico del paese era appena scappato
fuori sopraffatto da un attacco di dissenteria.
«Tutto bene?»,
vociò il sindaco dalla finestra principale.
Non ebbe
risposta, ma dopo pochi istanti, Gandolfo tornò al quartetto mezzo moribondo.
Lo guardarono
come si fissa un appestato.
«Sto malissimo,
sarà meglio che torni casa».
«Ci mancherebbe,
vai pure», gli disse il Marengo con aria fraterna, «d'altra parte non c'è più
motivo di fermarci, anche per noi».
Gandolfo non se
lo fece ripetere due volte, e sgattaiolò via dalla casa del prete come una
furia, di nuovo devastato dai crampi alla pancia.
«Così è tutto da
rifare e la morte di don Filippo è sempre più avvolta nel mistero», riattaccò il
Marengo.
«E adesso?»,
chiese il Giannino.
Nessuno fiatò di
fronte a una domanda così limpida, ma al tempo stesso tanto caliginosa. La
verità è che erano tutti fusi e in quel momento si sarebbero trovati in
difficoltà davanti a qualunque quesito. Il sindaco riacciuffò la sedia che fino
a pochi istanti prima aveva dato asilo al suo prorompente fondoschiena; e
sempre più cupo e assonnato si mise a fissare il soffitto come un pellagroso
allo stadio terminale.
Gli altri,
intanto, riprendevano a ciondolare senza motivo per la curia, come delle
marionette sfilate dal cursore e abbandonate a un crudele destino.
«Andate a casa
anche voi, ragazzi… avrete certo bisogno di una bella dormita», disse il
Marengo.
Il Giannino e
l'Ambrogino non si convinsero facilmente di dover lasciare la casa del curato,
sentendosi ormai indispensabili al proseguo della dannata storia e avendo quasi
il timore che, andandosene, non avrebbero potuto prendere parte a importanti
capovolgimenti delle indagini.
«Fidatevi»,
disse il sindaco, comprendendo la titubanza dei giovani, e il loro desiderio di
continuare imperterriti nella ricerca, a costo di stramazzare da un momento
all'altro, «fra poco ce ne andremo anche noi. La notte è fonda e solo dopo esserci
rinfrescati ben bene le idee potremo capire come andare avanti».
Il Marengo approvò
con un cenno del capo, con l'occhio destro ormai quasi completamente paralizzato
dal fumo delle candele e dalla spossatezza.
«Buonanotte,
signori», disse all'improvviso l'Ambrogino, «vorrà dire che ci vedremo
domattina per il funerale».
«Buonanotte», tagliarono
corto gli adulti.
I ragazzi lasciarono
la casa di don Filippo mettendosi a correre come lepri tallonate da un cane
rabbioso. Sfogarono così i quintali di adrenalina accumulati fino a quel momento,
scordando ogni patema, e provando un sentimento molto vicino alla felicità. Era
in fondo anche grazie al loro contributo che le cose avevano preso la piega
giusta. Di fatto, insieme erano corsi a chiamare il medico del paese; il Giannino
aveva poi trovato il biglietto di don Filippo e l'Ambrogino era addirittura
stato il primo a vedere il suo cadavere. Consci e orgogliosi delle loro azioni,
congedandosi, non ebbero remore a palesare la loro soddisfazione.
«A domani!», si
urlarono imboccando il bivio che li conduceva alle rispettive dimore.
Mentre il Marengo
e il sindaco si trattenevano ancora per un po’ nella stanza mortuaria, ipotizzando
nuovi assurdi scenari; benché fosse ormai a entrambi sempre più evidente che la
morte di don Filippo non fosse verosimilmente dipesa dalla sua volontà di farla
finita, bensì dall'azione di qualche malvagio.
«Non riuscirei, in
tal caso, a spiegarmi la faccenda del biglietto», commentò il Boffalora.
«Mi sa che
qualcuno l'ha scritto al posto del prete», arguì il Marengo, sospinto da una
specie di illuminazione.
«Sei sicuro che
non fosse la sua calligrafia?».
«Facciamo ancora
uno sforzo, e diamo una controllatina ai registri parrocchiali».
Ripresero il biglietto
scoperto dal Giannino, conservato in un cassetto della scrivania del pievano, e
andarono a confrontarlo con i documenti della curia.
37.
Il Marengo aprì
il registro più recente e si soffermò sulle prime righe in cui don Filippo
scriveva a proposito del battesimo del figlio di Giulio Sironi. Erano riportate
date, nomi dei genitori, dei padrini e del nascituro, dettagli legati alle
provenienze della famiglia buraghese, oltre a una specie di bollo che
testimoniava il buon esito del rito. Il Boffalora avvicinò il messaggio
incriminato e insieme paragonarono le due calligrafie.
Notarono al volo
che erano piuttosto simili, ma non identiche. Qualcosa, come sospettato, non
quadrava. Temporeggiarono sulla "s" maiuscola di "scusatemi",
che cozzava maldestramente con la "s" maiuscola di Sironi.
«Vedi anche tu
il riccio della "s" del registro?», chiese il Marengo.
«Vedo», affermò con
veemenza il Boffalora.
La seconda
"s" era, infatti, molto più raffinata, elegante, s'intuiva redatta da
una persona abituata a scrivere e a leggere.
«Qui non c'è»,
disse indicando l'angosciante traccia trovata dal Giannino.
«Pensi che il
biglietto sia stato creato intenzionalmente?».
«Tu?».
Il Boffalora
strizzò gli occhi e corrucciò la fronte, rassegnato dall'idea che a questo
punto qualunque risposta avrebbe avuto lo stesso peso.
«Mi pare la
soluzione più ovvia. L'hanno fatto per confondere le ricerche».
«Forse siamo
sulla strada giusta».
Lo pensarono
vicendevolmente, confortandosi con uno sguardo compiaciuto.
Sfogliarono quindi
le successive pagine del registro, cercando nuove "s" da confrontare con
il reperto del Giannino, e riscontrando lo stesso identico risultato: i due
scritti erano stati elaborati da mani differenti.
Si acquietarono
per un po’, immergendosi in un nuovo apocalittico silenzio. Finché il Marengo non
si alzò per chiudere le finestre e spegnere i ceri, presto imitato dal sindaco,
consapevole che ormai anche la loro autonomia fosse svanita: devastati dalla
stanchezza, non sapevano più che parole spendere e quali ragionamenti affrontare.
Diedero un'ultima occhiata al cadavere del prete, composto come un damerino
all'ultima moda, e in religioso mutismo lasciarono finalmente la curia.
Percorsero un
breve tratto di strada fianco a fianco, senza fiatare, con lo sguardo avvilito
e inespressivo di chi non ha più alcuna speranza per il domani. Si lasciarono al
bivio, dove pochi istanti prima si erano salutati anche il Giannino e l'Ambrogino,
benedetti dal luccichio di una bellissima luna.
«Domani ne
vedremo delle belle», mugugnò il Marengo.
«Non saprei
proprio da dove iniziare», disse il Boffalora.
«Dovremo coinvolgere
la gendarmeria di Vimercate».
Il Boffalora
stropicciò le labbra, conscio del fatto che non ci fosse alternativa, benché la
soluzione del giallo paresse lontanissima. Il Marengo colse l'invincibile stanchezza
del compaesano e si chiese se anche la sua faccia fosse altrettanto deturpata.
«A domani,
allora, più di così per oggi non potevamo fare».
Si congedarono
con un sorriso inutile. E giunti alle rispettive abitazioni, crollarono esausti
sui propri giacigli.
38.
6 agosto
Il giorno del
funerale di don Filippo brillava uno strano sole, pallido e scontato. Come se
Dio avesse voluto tenere a bada la sua furia, per consentire alla cerimonia di
scorrere mesta e raccolta, senza i clamori di una tradizionale e pomposa giornata
estiva. Fu il contorto pensiero che attraversò la mente della Cesira, la prima dei
buraghesi a tornare al feretro del prete. Lo giudicò, anche questo, un segno
del creatore, che, ancora una volta, nulla aveva lasciato al caso.
Il Marengo e il Boffalora
arrivarono poco dopo, preoccupati di raggiungere immediatamente l'Ambrogino e
il Giannino, per comunicargli di non dire nulla di quello che avevano scoperto
la sera prima.
«Per caso avete
spifferato qualcosa?», domandò il Boffalora ai due giovani, intenti a
chiacchierare sottovoce con alcuni coetanei.
«No, niente»,
disse il Giannino, quasi spaventato.
«Nulla»,
confermò l'Ambrogino.
In realtà
quest'ultimo aveva rivelato al padre della nottata trascorsa con i due capi del
villaggio, ma senza entrare nei dettagli, pervaso dalla consapevolezza che
certi argomenti sarebbe stato meglio tenerli in serbo per occasioni più
tranquille.
«Continuate a
tenere cucita la bocca», disse il Boffalora, «ne parleremo a tempo debito».
Don Giuliano giunse
in paese indossando una vestaglia scura e impolverata, a bordo di un carretto
da battaglia, con la perpetua al seguito e un paio di chierichetti con il volto
stralunato. Con la sua proverbiale mole, stuzzicò l'ilarità di qualche
buraghese, che sorrise sotto i baffi, imbarazzato dinanzi alla tragicità
dell'accaduto. Salutò svogliatamente un paio di contadini lungo il cammino e si
diresse verso l'abitazione di don Filippo; dove fu colpito dall'odore acre che
si respirava al suo interno, come se la dimora del pievano fosse stata isolata
dal mondo per troppo tempo, dando modo a tossine, batteri e altre oscenità di
colonizzare e snaturare ogni cosa. Vedendo l'amico prete, congelato in un'eterna
smorfia di dolore, non poté fare a meno di trattenere le lacrime, e lagnarsi come
un bambino strappato dalle braccia della madre. Lo rincuorò la perpetua, che
gli andò vicino accarezzandogli dolcemente le spalle.
«Possiamo
partire», disse pochissimi istanti dopo.
Il feretro di
don Filippo fece strada, seguito dal tonitruante e cadenzato ritmo dei paesani,
con gli occhi lucidi e le facce paonazze. Raggiunsero la chiesa, gli uomini si
disposero alla destra della navata, le donne a sinistra, come sempre. Calò una
cappa d'angoscia prima che il sacerdote di Cavenago prendesse parola e la messa
avesse inizio. Coincise con il tintinnio acuto della campanella della
sacrestia, e un segno della croce che risuonò nell'area come un mantra. Partì
don Giuliano, ma non disse nulla di strano, almeno fino al momento della
predica.
«Ho scelto
questo passo delle sacre scritture, perché sono convinto che il nostro don
Filippo sapesse benissimo cosa volesse dire amare il Signore, e scoprirlo e
venerarlo in tutte le sue forme ».
Aveva appena
finito di leggere un passo di Matteo, nel quale Gesù spiegava che per essere
degni del Regno dei cieli occorreva ridiventare bambini. Così disincantò buona
parte dei presenti, non alludendo ad alcuna ipotesi che potesse fare luce sulla
scomparsa tragica del prete, ma suggerendo che qualunque fosse stata la sua
fine, non avrebbe cambiato l'opinione nei suoi riguardi.
«Andiamo in
pace», disse con la voce rotta dal singhiozzo, prima che l'intero paese,
compresa Marta Bucchi che per l'occasione aveva esibito il suo abito più
sgargiante, si dirigesse al camposanto.
39.
7 agosto
Alla perpetua di
don Filippo non era stato possibile arrivare in tempo per la cerimonia funebre e,
sconvolta dal dolore, ancora non riusciva a perdonarselo. Piangeva a dirotto da
ore, al punto che qualcuno s'era chiesto da dove potesse sgorgare tutto quel
delirio lacrimale.
«Povera donna»,
bisbigliavano le paesane.
Eppure non era
per colpa sua che aveva fatto tardi. S'era, infatti, affidata a un ubriacone di
prima categoria che si era offerto di accompagnarla gratuitamente a Burago, su
una malandata carrozza. Sembrava la soluzione ideale per arrivare nel minor
tempo possibile al borgo brianzolo. Ma l'uomo aveva esagerato così tanto col
bere che, poco dopo aver lasciato Como, si era addormentato come un sasso,
lungo una strada poco battuta che, secondo il suo modesto parere, li avrebbe fatti
rincasare prima dell'ora di pranzo.
«Sei una botte
di ferro», le aveva detto pochi istanti prima di fermarsi per liberare la
vescica dietro a un cespuglio di vitalba e perdere definitivamente l'equilibrio
e la ragione. Si era ripreso tre ore dopo, con la perpetua che l'avrebbe voluto
uccidere con le sue mani se non avesse avuto timore di finire all'inferno.
Cercarono di rincuorarla
anche il Pinuccio e il Luciano.
«Forza perpetua,
non faccia così, adesso don Filippo è in paradiso e pregherà per lei e per noi».
Ma la donna
sembrava non essere presente, collegata ai barlumi di quella terra che da anni
battezzava con il suo passo trafelato; gli occhi tumefatti come chi le ha prese
di santa ragione e la mente lontana dalla realtà.
«Cosa mi ha
fatto? Cosa mi ha fatto? Cosa ha fatto il mio don Filippo? Cosa gli è venuto in
mente?».
Alludeva
all'unica ipotesi che le paresse plausibile e che ancora contraddistingueva l'opinione
di quasi tutti i buraghesi: il prete s'era ammazzato. Di fatto, gliel'avevano
detto subito del biglietto, e per lei ormai il caso era chiuso. Era tutto nero
su bianco. Non c'erano alternative. Certo, non aveva la più pallida idea di ciò
che avevano scoperto il Marengo e il Boffalora, con l'aiuto di Gandolfo e del
suo stomaco malandato.
«Bontà divina,
madre celeste», continuava a mormorare come rapita da un'estasi tormentata.
Maria Casiraghi
la guardò con aria compassionevole, comprendendo che per una donna così avanti negli
anni, abituata al suo tradizionale viversi addosso, non ci sarebbe stata parola
di conforto che avrebbe potuto sminuire la sua pena. Don Filippo era tutta la
sua vita.
Non sapeva
cos'altro fare se non badare a un prete. Anche prima di lavorare per il servo
del Signore di Burago, aveva offerto il suo aiuto a un pievano. Era don
Raimondo, prete di Calolziocorte, piccolo centro a due passi da Lecco. Viveva
con lui in una specie di vecchio eremo, a due passi dal corso dell'Adda. La sua
vita era trascorsa sempre serena e tranquilla, per non dire persa in una
monotonia senza speranze, ma in qualche modo per lei benefica e gioviale.
«Non sappiamo
ancora nulla», le disse la Maria, sfiorandole la mano gelida e ossuta, «non
sappiamo cosa possa essergli veramente accaduto».
La perpetua alzò
gli occhi al cielo, e il suo dolore si concretizzò in un grido soffocato.
«Lo sappiamo, lo
sappiamo, solo che nessuno ha il coraggio di ammetterlo!».
La Palmira tentò
di abbracciarla, ma la donna scosse le spalle soffocando nel suo calvario.
Intorno, alcuni ragazzetti osservavano la scena con gli occhi esterrefatti,
convinti di non avere mai visto una persona tanto sofferente.
40.
Ma il peggio
doveva ancora venire. Si accorse per prima la Maria, che dal corso principale
stavano arrivando i due capi del villaggio, come due condottieri al soldo di
qualche vecchio mercenario spagnolo. Il Marengo precedeva il compaesano di un
paio di passi, assorto in pensieri contorti, che con estrema facilità passavano
da un argomento all'altro. Poco dietro c'era il Boffalora, con lo sguardo
vagamente imbronciato, la camicia mezza sbottonata, i capelli arruffati; chiaro
segno che s'era alzato da pochissimo e che avrebbe volentieri fatto a meno di
correre di nuovo alla casa del morto per indagare su un mistero che, nel suo
intimo, credeva non avrebbero mai risolto.
Al loro arrivo
la piccola folla assiepata intorno alla perpetua si dissipò. I ragazzi smisero
di mugugnare e le donne di confortare la serva di don Filippo.
«Andate a casa
signore», disse il sindaco con fare deciso, «non serve tutta questa calca.
Tornate alle vostre famiglie, ormai c'è ben poco da fare».
Non fu un grande
sermone, tuttavia in pochi secondi i due uomini riuscirono a rimanere soli con
la perpetua, proprio ciò che volevano, sormontati da un affascinante cielo
cosparso di fili di nuvole.
La donna li
osservava come se avesse di fronte due extraterrestri. La mente in subbuglio
totale, non riusciva a mettere a fuoco le cose, come se all'improvviso fosse
precipitata in un vortice di emozioni appannaggio di un'altra dimensione, così
lontana dalla sua quotidianità. Se anche fosse stata morta stecchita come il
suo amato pievano, sarebbe stata la stessa cosa. Lo pensò seriamente.
«Signora»,
tartagliò il Marengo, notando l'incredibile afflizione della donna.
La perpetua lo
fissò con uno sguardo tremebondo. Voleva solo il silenzio.
«Forse è ancora
presto per farle un interrogatorio», sussurrò il sindaco all'orecchio del
Marengo.
«Se non lo
facciamo ora, potrebbero sfuggirci indizi preziosi».
Aveva ragione,
ma la perpetua era in uno stato tale di abbandono che sarebbe a malapena riuscita
a pronunciare il suo nome. Come se non bastasse passò quella che veniva da
tutti additata "la strega del villaggio", che, però, curiosamente, fornì
alla sofferente il pretesto per riacquisire un po’ di lucidità. Le scagliò,
infatti, un sasso che aveva tra i piedi.
Marta Bucchi non
se la prese e la derise.
«Signore, vi
prego», disse il Marengo, cercando di ripristinare l'ordine.
«Creatura
dell'inferno, va via, va via!».
Sbigottirono i
presenti, mentre Marta Bucchi prese a farle delle boccacce e a sventagliare la
gonna mettendo in mostra senza remore la rammendata sottana.
«Non mi prendi,
non mi prendi», si mise a cantilenare, come in un gioco per bambini non ancora
svezzati.
La perpetua si
alzò per rincorrerla, ma il Boffalora glielo impedì strattonandola per un
braccio.
«Perpetua, non
faccia così, la conosciamo tutti com'è fatta. Lasci perdere».
«E' lei che
porta il male in questo paese, è lei la strega, don Filippo lo diceva sempre».
Non ne fu così
convinto il Marengo, che dondolò il capo, in segno di disapprovazione. Sapeva
che don Filippo era un uomo al passo coi tempi e solo marginalmente succube
della credenza popolare e di certi stigmi che molte persone si portavano
appresso per l'ignoranza dei bifolchi; che la Marta Bucchi fosse una donna
quantomeno eccentrica non c'erano dubbi, ma lo infastidiva il fatto che molti
la ritenessero ancora una specie di creatura degli inferi. Erano passati i
tempi della santa inquisizione, rifletté.
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