lunedì 14 ottobre 2013

FERRAGOSTO # 1


FERRAGOSTO

1.

Burago Molgora, 3 agosto 1855

Per colpa di una famigliola di topi che si era accasata nella sua credenza, aveva vissuto un risveglio a dir poco rocambolesco. Era caduta un paio di volte per inseguire il roditore più sveglio, che si era infilato da tutte le parti, impedendole di spazzarlo fuori con una brutale scopata. La Cesira aveva una fretta del diavolo e guai se qualunque altra cosa, animale o persona, le avesse fatto perdere altro tempo prezioso. Il punto è che doveva recuperare le quattro casse di legno in cima alla sacrestia, e cominciare a rammendare, lustrare, stirare i paramenti e gli stendardi con cui festeggiare degnamente l'Assunzione, fra le feste religiose più sentite nella comunità; era un lavoro lungo e noioso che tutti gli anni portava avanti con forza e stoicismo, quasi sempre da sola, benché più donne del paese si fossero fatte avanti per darle una mano. E soprattutto le occorreva l'approvazione di don Filippo che, come sempre, tendeva a rimandare gli impegni più barbosi, esasperando la buona volontà dei fedeli. Davvero, il tempo stringeva.
S'incamminò verso la casa del prete con passo sostenuto, la testa bassa e la faccia scura, consapevole che per convincere, per non dire obbligare, il curato a prendere la scala dal cascinotto della curia e salire in soffitta a rovistare fra ragnatele e nidi di rondine pieni di sterco, avrebbe dovuto fare i salti mortali. Questa volta, però - forse per via dell'arrabbiatura mattutina che in qualche modo le aveva infondato maggiore fiducia in se stessa - non si sarebbe arresa tanto facilmente: se ne sarebbe andata solo dopo aver ottenuto ciò che voleva. In fondo era per il bene della comunità e della santissima Vergine: come faceva don Filippo a non capirlo? Ogni anno era sempre la stessa storia.
Fra i due, peraltro, non scorreva ottimo sangue; e dunque il loro rapporto non sarebbe stato dei migliori, anche se tutto fosse andato a meraviglia. La donna non capiva come un prete potesse sempre essere così allegro e pacioso, in antitesi all'asciuttezza dei santi e dei sacerdoti che lo avevano preceduto e coi quali amava rapportarsi, in virtù di quella intrinseca morigeratezza che, dal suo punto di vista, doveva contraddistinguere ogni uomo al servizio della croce. Prima di lui c'era stato Omobono Farina, che la Cesira adorava; la sua pacatezza, la sua severità, il suo timor di Dio, erano prerogative caratteriali che don Filippo poteva solo sognarsi. Era un vero prete, un prete vecchia maniera, dai metodi ortodossi, ma efficaci e dalla fede incrollabile.
Per la Cesira don Filippo aveva in mente solo una cosa, mangiare; o al limite, dormire. Non poteva accettarlo. Il suo dogmatico senso del dovere scalpitava.
D'altra parte don Filippo trovava la fedele davvero troppo petulante e fastidiosa, sempre in apprensione per qualcosa, come se da un momento all'altro il paese avesse dovuto subire una delle dieci piaghe d'Egitto; mentre tutti sapevano che non c'era alcun pericolo del genere: bastava stare tranquilli, e la Provvidenza avrebbe risolto ogni cosa.
«Cesira, dove vai così di corsa?».
La interpellò la bella Palmira, da poco maritatesi con Giovanni Galbusera, l'arrotino, di ritorno da Carlo il panettiere.
«Corro dal prevosto per dirgliene quattro».
«Oddio, che succede di tanto urgente?».
«Ferragosto è dietro l'angolo e non si è ancora fatto niente per abbellire il paese».
«Ma ce n'è di tempo».
«Il tempo non basta mai. Poi le donne se la prendono con me».
Palmira dondolò la testa incredula di fronte all'esasperazione della compaesana. Non capiva come potesse prendersela tanto per una sciocchezza del genere; un giorno sarebbe valso l'altro per sistemare qualche addobbo. Ma dopo il primo disappunto, rifletté sul fatto che, probabilmente, per una donna come lei, che non aveva figli e non s'era mai sposata, le cose dovevano avere un valore diverso dalle persone comuni, prese da faccende familiari e obiettivi oggettivamente più concreti.
La salutò dolcemente, osservandola avanzare come un uragano verso la dimora del pievano, indifferente al caldo che già dalle prime ore del mattino aveva cominciato a soffocare il piccolo borgo del vimercatese.

2.

La Cesira conosceva molto bene la casa di don Filippo, essendovi stata innumerevoli volte, per risolvere incombenze di ogni tipo, sempre e comunque a beneficio della parrocchia e dei parrocchiani. Era una classica abitazione di fine Settecento, povera e scialba, umida e trasandata. Al primo piano c'era una grossa cucina e un grande camino e una vicina stanzetta dove il pievano si raccoglieva per meditare e pregare, dove non era raro vedere circolare cani, gatti e galline; il secondo era occupato dalle camere, quasi sempre fredde e rugiadose; quella del sacerdote era la più spaziosa e dava su un piccolo giardinetto che lui stesso curava. Il bagno era all'esterno, nei pressi del pollaio, un buco lugubre e fatiscente costruito ancor prima della casa parrocchiale per soddisfare le esigenze dei contadini al soldo di un altolocato che abitava una villa nelle adiacenze. Quasi sempre, però, i bisogni venivano risolti dove capitava; don Filippo, per primo, non si faceva certo tanti scrupoli a calare le braghe nel suo orticello per liberare il corpo dalle impurità e più o meno consapevolmente ridare vigore ai pomodori che incredibilmente crescevano più belli e resistenti di quelli di tutti gli altri compaesani, anche se la perpetua aveva appena aperto le finestre e avrebbe tranquillamente potuto vederlo in desabillè.  
Strano, però, che la mattina del 3 agosto, nessuno avesse ancora spalancato le imposte e i vetri appena sostituiti dopo un terribile temporale. La perpetua se ne accorse ancor prima di giungere al cospetto della curia, fotografando un orizzonte inspiegabilmente quieto, benché rischiarato da una luce accecante. Lo notò poco dopo esserci congedata dalla Palmira: l'intero paese era ormai sveglio da un paio d'ore, ma in casa del parroco sembrava che la notte non fosse ancora finita. Sapeva che la perpetua non c'era, essendo partita da qualche giorno per andare a fare visita ad alcuni parenti del comasco, ma doveva esserci don Filippo, che intorno alle otto non aveva niente da fare, se non preparare qualche lettura, un nuovo canto, i vespri per il pomeriggio. Vinta dall'ipotesi che stesse dormendo, le salì una rabbia che la fece vacillare. Ancora una volta giudicò malamente il reverendo. Non poteva credere che con tutto quello che c'era da fare, il pievano non si fosse ancora accorto che il giorno era già iniziato da un pezzo.
Bussò alla porta con forza belluina, facendo addirittura traballare il manico del catenaccio, che nemmeno un energumeno sarebbe arrivato a tanto. Passò una manciata di secondi e non ricevendo risposta il sospetto che don Filippo fosse ancora perso nel mondo dei sogni, si trasformò in sentenza scritta.
«Dio benedetto, don Filippo, sveglia!».
«Cesira, che succede?».
Era la voce dell'amica Maria Casiraghi di passaggio dalla casa del prete per una confessione al volo: il giorno prima aveva ferito il marito con un coltellaccio da cucina e, benché il gesto fosse stato del tutto involontario, si riteneva colpevole di non essersi mossa per casa con sufficiente malizia, negligenza che solo l'assoluzione divina avrebbe potuto distoglierlo dai suoi pensieri.    

3.

«Don Filippo dorme ancora, roba da non credere», blaterò la Cesira.
«Mica potrà essere ancora a letto, a quest'ora?», domandò, incredula, la Maria.
«Don Filippo non ha voglia di fare un bel niente, non l'hai ancora capito? Non ci sarebbe da stupirsi se sta ancora sognando».
La Maria storse la bocca stupefatta, non aveva nulla contro il curato del paese, ma l'ipotesi che potesse essere ancora a letto, scandalizzò anche lei.
«Bussiamo di nuovo, magari non ha sentito».
Lo fecero in due, provocando un boato lungo la via. Ancora nulla.
«Dorme, dorme, roba da pazzi», disse la Cesira, girando su se stessa come una trottola e fissando le nuvole nel velleitario tentativo di chiedere un aiuto al cielo.
«Proviamo a dare un'occhiata dalla finestra», propose la Maria che, per via del trambusto, s'era già scordata il vero motivo per cui era passata di lì.
Percorsero pochi metri e raggiunsero il fianco dell'abitazione di don Filippo, tappezzato di parietarie e celidonie mezze appassite, che dava su una piccola stradina polverosa, che d'inverno tutti evitavano perché sempre impantanata. La Cesira si avvicinò alle imposte serrate senza alcun tentennamento, convinta che in casi come questo non ci fosse nulla di male nel curiosare in casa altrui. Volarono, spaventati, alcuni piccioni, quando prese a gridare il nome del pievano con rinnovato vigore:
«Don Filippo, don Filippo, ci sente?! Don Filippo dobbiamo preparare le cose per l'Assunzione!! Don Filippo!!».
La Cesira era costernata: dalla casa del sacerdote trapelava il silenzio più assoluto, e non c'era motivo di credere che il prete se ne fosse andato chissà dove, lasciando la casa sigillata come uno scrigno prezioso da conservare per i posteri; di fatto, anche quando usciva per stare via dalla mattina alla sera, magari per dire messa in qualche villaggio vicino, non dimenticava mai di regalare al sole le umide mura della sua dimora, in accordo con la perpetua che spesso lo seguiva nei suoi vagabondaggi nel nome del Signore. Era peraltro un domicilio che cadeva a pezzi e se anche fossero entrati i ladri non vi avrebbero trovato granché. Insomma, inutile girarci intorno: le imposte e le finestre della curia ancora piombate a quell'ora del giorno erano un pessimo segno.
«E se gli fosse accaduto qualcosa?», domandò la Maria, colta da un presentimento tragico.
La Cesira la guardò con la faccia contratta. Tutto era possibile, ma don Filippo era troppo giovane per morire. Un colpo? Mah. Poteva, però, essere stato vittima di un attacco di ulcera, di una peritonite, della malaria, della pellagra… La verità è che non stava in piedi nulla; qualunque buraghese avrebbe potuto confermarlo: don Filippo godeva di ottima salute e, stando com'erano le cose, sarebbe campato cent'anni. Piuttosto era verosimile supporre che potesse essere andato a Como con la perpetua. Ma anche questa tesi, che la Cesira valutò in una frazione di secondo, pronta a confidarla alla compaesana, non era percorribile: la perpetua era già partita da qualche giorno, e fino a ieri don Filippo l'avevano visto tutti aggirarsi per il paese e durante le funzioni in chiesa; verso sera s'era perfino messo a giochicchiare a pallone con alcuni piccoli della comunità che si trovavano in piazza con i genitori in cerca di un po’ di refrigerio. Il mistero s'infittiva. Per un attimo le due donne rimasero come statue una di fronte all'altra, senza sapere che pesci pigliare.   

4.

Trovarono ispirazione notando il passaggio trafelato del Giannino, il simpatico e brioso figlio del porcaro di Cascina Amadio, che anche quando non aveva niente da fare, sembrava l'uomo più affaccendato del mondo.
«Giannino!», gridò la Cesira.
Il ragazzo strizzò gli occhi, per vincere l'abbaglio e vedere chi lo stava chiamando con tanta veemenza. Scorse la Cesira e tirò un respiro profondo e rassegnato, intuendo che, il richiamo della bizzarra compaesana, non avrebbe di sicuro celato qualche bella sorpresa.
«Abbiamo bisogno di te», disse la donna, lapidaria.   
Il Giannino storse la bocca e si avvicinò al duo, come si va incontro alla morte.
«Che succede? Che è accaduto di tanto grave?».
«Ti sembra normale che don Filippo stia ancora dormendo?».
Il Giannino corrugò la fronte infastidito.
«A me lo chiedete?».
Vide lo sguardo deluso delle donne e cercò di andargli incontro.
«Magari è nell'orto».
«E queste, allora, come le spieghi?», incalzò la Maria, indicando al giovane le finestre ancora mortificate dalle tenebre.
«Non saprei che dirvi. Avete provato a bussargli?».
«Eccome», disse la Maria, «ma sembra che non ci sia in casa nessuno o che, appunto, don Filippo stia ancora dormendo».
Il Giannino fissò insofferente le due donne, non sapendo davvero in che modo poterle aiutare.
«Tu non riusciresti ad aprire le imposte?», gli chiese la Maria.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, parendogli un'azione imponderabile quella di scardinare gli scuri della casa del curato.
«Potrei anche farlo, ma non vorrei che poi saltasse fuori qualche casino. Non ci conviene provare di nuovo a bussare?».
«Giannino, abbiamo già bussato, non risponde, prova anche tu se vuoi», disse la Maria con aria impaziente.  
«Don Filippo! Don Filippo!», urlò il ragazzo con la sua voce potente, ma anche in questo caso senza ottenere risultato.
«Hai visto?», reclamò la Cesira.
Il Giannino insospettito si avvicinò alla finestra del prete e cominciò a scuotere le persiane. Non gli ci volle molto ad allentare il gancio interno e a far sì che le imposte si aprissero. Le due donne lo guardarono soddisfatte e ansimanti.
«E adesso?», domandò il giovane.
«Prova a vedere se riesci a forzare i vetri», disse la Cesira, in fibrillazione.
Il ragazzo la squadrò preoccupato.
«Non le sembra di esagerare?».
«Prova almeno a scrutare», disse la Maria, «non possiamo stare qui con le mani in mano».
Il Giannino puntò alla finestra coprendosi gli occhi con un braccio per vincere i riflessi.
«Non vedo nulla. C'è buio pesto».
«Guarda bene», disse la Cesira.
«Niente».
«Fai fare a me», s'impose la donna, senza un minimo di riconoscenza.
«Vedi qualcosa?», domandò la Maria.
Temporeggiò per qualche secondo, lasciando presagire che potesse aver individuato qualcosa. 
«Un accidente».
Guardò il Giannino facendogli capire con uno sguardo assassino che c'era un solo modo per risolvere il problema: qualcuno doveva forzare le lastre per introdursi clandestinamente nella casa del prete.  
«No, questo no».
«Su, non fare il difficile».
«Ma se sta dormendo, lasciamolo dormire».
«Lo devi svegliare, se sta dormendo, ci sono mille lavori da fare!», gridò la Cesira.

5.

Il Giannino non ebbe modo di protestare. Con davanti due donne del calibro della Cesira e della Maria che, non dimentichiamolo, poche ore prima aveva rischiato di mandare al creatore il povero Galbusera, capì al volo che ogni protesta sarebbe stata vana. Fu costretto a obbedire anche perché fin da piccolo i suoi genitori gli avevano insegnato a portare il massimo rispetto alle persone più anziane, specialmente a quelle del proprio paese. Allorché, spinse le finestre con malizia riuscendo senza grandi difficoltà a vincere i cardini degli scuri, aprendosi così un varco per le inviolate secrete della casa del prete. I tre compaesani si guardarono come se si fossero trovati di fronte a un inestimabile tesoro, pronto da mettere in tasca.
«Don Filippo! Don Filippo!», gridò la Maria, nell'ultimo tentativo di evitare la spudorata violazione di una proprietà privata. Ma ancora una volta non si sentì anima battere ciglio.
«Dai!», disse la Cesira, «non perdiamo altro tempo. Andiamo a svegliare quel dormiglione».
Il Giannino dondolò la testa immalinconito, ancora mezzo incredulo di fronte a tutto quel can can mattutino.
«Mi fate fare una cosa che disprezzo».
«Su, non fare storie, lo fai per il bene della comunità», insistette la Cesira, «un punto in più per il paradiso».
«E va beh».
Con l'agilità propria di chi non ha ancora compiuto vent'anni, il Giannino fece forza sulle braccia, e con un abile gioco di reni, saltò dentro la casa di don Filippo; dove percepì immediatamente un odore stantio, come se la casa fosse stata chiusa da parecchio tempo, benché chiunque fosse al corrente che fino alla sera prima i locali erano stati arieggiati come consuetudine. 
«Dove vado?», domandò, palesando il suo disagio.
«In fondo a destra c'è la scala che porta alle camere», gli indicò la Cesira, con piglio sgarbato. «Datti una mossa che non possiamo aspettare tutto il giorno».
«Ma non si vede un cavolo».
«Non avrai paura del buio, grande e grosso come sei!?», replicò la Maria, che lo fissava con aria divertita.
Per la verità grande e grosso non era, anzi, da bambino lo chiamavano "chiodino" per via della sua esilità. In ogni caso abbandonò le due donne e, seguendo le indicazioni della più insopportabile, si inoltrò nel covo del curato. Muovendosi tentoni, badò bene di non andare a sbattere da qualche parte e rompere qualcosa; o rompersi qualcosa. Ci mancava solo quello per glorificare la giornata.
Individuò le scale, vagamente rischiarate da un filo di fotoni scappati da chissà dove, e prese a inerpicarsi come uno stambecco degli alti monti valdostani, che i buraghesi conoscevano solo per sentito dire. Affrancato al corrimano fu, in poche falcate, al piano superiore.
Indovinò la camera del prete per via di un grosso e un po’ inquietante crocefisso che troneggiava al suo ingresso, visibile nonostante la ridotta luminosità. Con una certa apprensione fece forza sulla maniglia e vinse l'eremo sacerdotale non trovando altro che un letto immacolato e una scrivania quasi del tutto spoglia.  
«Questa è bella», mugugnò fra sé.
Con due balzi felini guadagnò il lato opposto della stanza e spalancò le finestre che davano proprio sulla vietta presieduta dalla Cesira e dalla Maria, illuminando e riossigenando il locale. Vi si affacciò e, non privo di stupore, comunicò il verdetto alle compaesane:
«Nessuna traccia del prete! Il letto è fatto e… non c'è in giro anima viva».
La Cesira ci rimase di stucco: tutte le sue congetture andarono a farsi benedire. Ma se don Filippo non stava dormendo, dove poteva essere finito?  
«Dai un'occhiata anche nella camera della perpetua e…», continuò la donna.
Ma la Cesira non riuscì a completare la frase; il Giannino si riaffacciò sgomento con un biglietto in mano, trovato sulla scrivania del prete, nell'angolo più buio, sotto una specie di fermacarte.   
«C'è solo questo», disse con le mani tremanti.
«Che diamine è?», domandò la Cesira.
«E' un bigliettino con una scritta».
«Quale scritta?», chiese la Maria.
Il Giannino deglutì conturbato.

«C'è scritto "scusatemi"». 

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