FERRAGOSTO
1.
Burago Molgora,
3 agosto 1855
Per colpa di una
famigliola di topi che si era accasata nella sua credenza, aveva vissuto un
risveglio a dir poco rocambolesco. Era caduta un paio di volte per inseguire il
roditore più sveglio, che si era infilato da tutte le parti, impedendole di
spazzarlo fuori con una brutale scopata. La Cesira aveva una fretta del diavolo
e guai se qualunque altra cosa, animale o persona, le avesse fatto perdere
altro tempo prezioso. Il punto è che doveva recuperare le quattro casse di
legno in cima alla sacrestia, e cominciare a rammendare, lustrare, stirare i
paramenti e gli stendardi con cui festeggiare degnamente l'Assunzione, fra le
feste religiose più sentite nella comunità; era un lavoro lungo e noioso che
tutti gli anni portava avanti con forza e stoicismo, quasi sempre da sola,
benché più donne del paese si fossero fatte avanti per darle una mano. E soprattutto
le occorreva l'approvazione di don Filippo che, come sempre, tendeva a
rimandare gli impegni più barbosi, esasperando la buona volontà dei fedeli. Davvero,
il tempo stringeva.
S'incamminò
verso la casa del prete con passo sostenuto, la testa bassa e la faccia scura,
consapevole che per convincere, per non dire obbligare, il curato a prendere la
scala dal cascinotto della curia e salire in soffitta a rovistare fra ragnatele
e nidi di rondine pieni di sterco, avrebbe dovuto fare i salti mortali. Questa
volta, però - forse per via dell'arrabbiatura mattutina che in qualche modo le aveva
infondato maggiore fiducia in se stessa - non si sarebbe arresa tanto
facilmente: se ne sarebbe andata solo dopo aver ottenuto ciò che voleva. In
fondo era per il bene della comunità e della santissima Vergine: come faceva
don Filippo a non capirlo? Ogni anno era sempre la stessa storia.
Fra i due,
peraltro, non scorreva ottimo sangue; e dunque il loro rapporto non sarebbe
stato dei migliori, anche se tutto fosse andato a meraviglia. La donna non
capiva come un prete potesse sempre essere così allegro e pacioso, in antitesi
all'asciuttezza dei santi e dei sacerdoti che lo avevano preceduto e coi quali
amava rapportarsi, in virtù di quella intrinseca morigeratezza che, dal suo
punto di vista, doveva contraddistinguere ogni uomo al servizio della croce. Prima
di lui c'era stato Omobono Farina, che la Cesira adorava; la sua pacatezza, la
sua severità, il suo timor di Dio, erano prerogative caratteriali che don
Filippo poteva solo sognarsi. Era un vero prete, un prete vecchia maniera, dai
metodi ortodossi, ma efficaci e dalla fede incrollabile.
Per la Cesira
don Filippo aveva in mente solo una cosa, mangiare; o al limite, dormire. Non
poteva accettarlo. Il suo dogmatico senso del dovere scalpitava.
D'altra parte don
Filippo trovava la fedele davvero troppo petulante e fastidiosa, sempre in
apprensione per qualcosa, come se da un momento all'altro il paese avesse
dovuto subire una delle dieci piaghe d'Egitto; mentre tutti sapevano che non c'era
alcun pericolo del genere: bastava stare tranquilli, e la Provvidenza avrebbe
risolto ogni cosa.
«Cesira, dove
vai così di corsa?».
La interpellò la
bella Palmira, da poco maritatesi con Giovanni Galbusera, l'arrotino, di
ritorno da Carlo il panettiere.
«Corro dal
prevosto per dirgliene quattro».
«Oddio, che
succede di tanto urgente?».
«Ferragosto è
dietro l'angolo e non si è ancora fatto niente per abbellire il paese».
«Ma ce n'è di
tempo».
«Il tempo non
basta mai. Poi le donne se la prendono con me».
Palmira dondolò
la testa incredula di fronte all'esasperazione della compaesana. Non capiva
come potesse prendersela tanto per una sciocchezza del genere; un giorno
sarebbe valso l'altro per sistemare qualche addobbo. Ma dopo il primo
disappunto, rifletté sul fatto che, probabilmente, per una donna come lei, che
non aveva figli e non s'era mai sposata, le cose dovevano avere un valore
diverso dalle persone comuni, prese da faccende familiari e obiettivi
oggettivamente più concreti.
La salutò
dolcemente, osservandola avanzare come un uragano verso la dimora del pievano,
indifferente al caldo che già dalle prime ore del mattino aveva cominciato a
soffocare il piccolo borgo del vimercatese.
2.
La Cesira conosceva
molto bene la casa di don Filippo, essendovi stata innumerevoli volte, per
risolvere incombenze di ogni tipo, sempre e comunque a beneficio della
parrocchia e dei parrocchiani. Era una classica abitazione di fine Settecento,
povera e scialba, umida e trasandata. Al primo piano c'era una grossa cucina e
un grande camino e una vicina stanzetta dove il pievano si raccoglieva per
meditare e pregare, dove non era raro vedere circolare cani, gatti e galline;
il secondo era occupato dalle camere, quasi sempre fredde e rugiadose; quella
del sacerdote era la più spaziosa e dava su un piccolo giardinetto che lui
stesso curava. Il bagno era all'esterno, nei pressi del pollaio, un buco
lugubre e fatiscente costruito ancor prima della casa parrocchiale per
soddisfare le esigenze dei contadini al soldo di un altolocato che abitava una
villa nelle adiacenze. Quasi sempre, però, i bisogni venivano risolti dove
capitava; don Filippo, per primo, non si faceva certo tanti scrupoli a calare
le braghe nel suo orticello per liberare il corpo dalle impurità e più o meno
consapevolmente ridare vigore ai pomodori che incredibilmente crescevano più
belli e resistenti di quelli di tutti gli altri compaesani, anche se la
perpetua aveva appena aperto le finestre e avrebbe tranquillamente potuto
vederlo in desabillè.
Strano, però,
che la mattina del 3 agosto, nessuno avesse ancora spalancato le imposte e i
vetri appena sostituiti dopo un terribile temporale. La perpetua se ne accorse
ancor prima di giungere al cospetto della curia, fotografando un orizzonte inspiegabilmente
quieto, benché rischiarato da una luce accecante. Lo notò poco dopo esserci
congedata dalla Palmira: l'intero paese era ormai sveglio da un paio d'ore, ma in
casa del parroco sembrava che la notte non fosse ancora finita. Sapeva che la
perpetua non c'era, essendo partita da qualche giorno per andare a fare visita
ad alcuni parenti del comasco, ma doveva esserci don Filippo, che intorno alle
otto non aveva niente da fare, se non preparare qualche lettura, un nuovo canto,
i vespri per il pomeriggio. Vinta dall'ipotesi che stesse dormendo, le salì una
rabbia che la fece vacillare. Ancora una volta giudicò malamente il reverendo. Non
poteva credere che con tutto quello che c'era da fare, il pievano non si fosse
ancora accorto che il giorno era già iniziato da un pezzo.
Bussò alla porta
con forza belluina, facendo addirittura traballare il manico del catenaccio,
che nemmeno un energumeno sarebbe arrivato a tanto. Passò una manciata di
secondi e non ricevendo risposta il sospetto che don Filippo fosse ancora perso
nel mondo dei sogni, si trasformò in sentenza scritta.
«Dio benedetto, don
Filippo, sveglia!».
«Cesira, che
succede?».
Era la voce
dell'amica Maria Casiraghi di passaggio dalla casa del prete per una
confessione al volo: il giorno prima aveva ferito il marito con un coltellaccio
da cucina e, benché il gesto fosse stato del tutto involontario, si riteneva
colpevole di non essersi mossa per casa con sufficiente malizia, negligenza che
solo l'assoluzione divina avrebbe potuto distoglierlo dai suoi pensieri.
3.
«Don Filippo
dorme ancora, roba da non credere», blaterò la Cesira.
«Mica potrà essere
ancora a letto, a quest'ora?», domandò, incredula, la Maria.
«Don Filippo non
ha voglia di fare un bel niente, non l'hai ancora capito? Non ci sarebbe da
stupirsi se sta ancora sognando».
La Maria storse
la bocca stupefatta, non aveva nulla contro il curato del paese, ma l'ipotesi
che potesse essere ancora a letto, scandalizzò anche lei.
«Bussiamo di
nuovo, magari non ha sentito».
Lo fecero in
due, provocando un boato lungo la via. Ancora nulla.
«Dorme, dorme,
roba da pazzi», disse la Cesira, girando su se stessa come una trottola e
fissando le nuvole nel velleitario tentativo di chiedere un aiuto al cielo.
«Proviamo a dare
un'occhiata dalla finestra», propose la Maria che, per via del trambusto, s'era
già scordata il vero motivo per cui era passata di lì.
Percorsero pochi
metri e raggiunsero il fianco dell'abitazione di don Filippo, tappezzato di
parietarie e celidonie mezze appassite, che dava su una piccola stradina
polverosa, che d'inverno tutti evitavano perché sempre impantanata. La Cesira
si avvicinò alle imposte serrate senza alcun tentennamento, convinta che in
casi come questo non ci fosse nulla di male nel curiosare in casa altrui. Volarono,
spaventati, alcuni piccioni, quando prese a gridare il nome del pievano con
rinnovato vigore:
«Don Filippo,
don Filippo, ci sente?! Don Filippo dobbiamo preparare le cose per
l'Assunzione!! Don Filippo!!».
La Cesira era
costernata: dalla casa del sacerdote trapelava il silenzio più assoluto, e non
c'era motivo di credere che il prete se ne fosse andato chissà dove, lasciando la
casa sigillata come uno scrigno prezioso da conservare per i posteri; di fatto,
anche quando usciva per stare via dalla mattina alla sera, magari per dire
messa in qualche villaggio vicino, non dimenticava mai di regalare al sole le
umide mura della sua dimora, in accordo con la perpetua che spesso lo seguiva
nei suoi vagabondaggi nel nome del Signore. Era peraltro un domicilio che
cadeva a pezzi e se anche fossero entrati i ladri non vi avrebbero trovato
granché. Insomma, inutile girarci intorno: le imposte e le finestre della curia
ancora piombate a quell'ora del giorno erano un pessimo segno.
«E se gli fosse
accaduto qualcosa?», domandò la Maria, colta da un presentimento tragico.
La Cesira la
guardò con la faccia contratta. Tutto era possibile, ma don Filippo era troppo
giovane per morire. Un colpo? Mah. Poteva, però, essere stato vittima di un
attacco di ulcera, di una peritonite, della malaria, della pellagra… La verità
è che non stava in piedi nulla; qualunque buraghese avrebbe potuto confermarlo:
don Filippo godeva di ottima salute e, stando com'erano le cose, sarebbe
campato cent'anni. Piuttosto era verosimile supporre che potesse essere andato
a Como con la perpetua. Ma anche questa tesi, che la Cesira valutò in una
frazione di secondo, pronta a confidarla alla compaesana, non era percorribile:
la perpetua era già partita da qualche giorno, e fino a ieri don Filippo
l'avevano visto tutti aggirarsi per il paese e durante le funzioni in chiesa;
verso sera s'era perfino messo a giochicchiare a pallone con alcuni piccoli
della comunità che si trovavano in piazza con i genitori in cerca di un po’ di
refrigerio. Il mistero s'infittiva. Per un attimo le due donne rimasero come
statue una di fronte all'altra, senza sapere che pesci pigliare.
4.
Trovarono
ispirazione notando il passaggio trafelato del Giannino, il simpatico e brioso figlio
del porcaro di Cascina Amadio, che anche quando non aveva niente da fare,
sembrava l'uomo più affaccendato del mondo.
«Giannino!»,
gridò la Cesira.
Il ragazzo
strizzò gli occhi, per vincere l'abbaglio e vedere chi lo stava chiamando con
tanta veemenza. Scorse la Cesira e tirò un respiro profondo e rassegnato, intuendo
che, il richiamo della bizzarra compaesana, non avrebbe di sicuro celato
qualche bella sorpresa.
«Abbiamo bisogno
di te», disse la donna, lapidaria.
Il Giannino
storse la bocca e si avvicinò al duo, come si va incontro alla morte.
«Che succede?
Che è accaduto di tanto grave?».
«Ti sembra
normale che don Filippo stia ancora dormendo?».
Il Giannino
corrugò la fronte infastidito.
«A me lo
chiedete?».
Vide lo sguardo
deluso delle donne e cercò di andargli incontro.
«Magari è
nell'orto».
«E queste,
allora, come le spieghi?», incalzò la Maria, indicando al giovane le finestre
ancora mortificate dalle tenebre.
«Non saprei che
dirvi. Avete provato a bussargli?».
«Eccome», disse
la Maria, «ma sembra che non ci sia in casa nessuno o che, appunto, don Filippo
stia ancora dormendo».
Il Giannino fissò
insofferente le due donne, non sapendo davvero in che modo poterle aiutare.
«Tu non
riusciresti ad aprire le imposte?», gli chiese la Maria.
Il ragazzo
strabuzzò gli occhi, parendogli un'azione imponderabile quella di scardinare gli
scuri della casa del curato.
«Potrei anche
farlo, ma non vorrei che poi saltasse fuori qualche casino. Non ci conviene
provare di nuovo a bussare?».
«Giannino,
abbiamo già bussato, non risponde, prova anche tu se vuoi», disse la Maria con
aria impaziente.
«Don Filippo!
Don Filippo!», urlò il ragazzo con la sua voce potente, ma anche in questo caso
senza ottenere risultato.
«Hai visto?»,
reclamò la Cesira.
Il Giannino insospettito
si avvicinò alla finestra del prete e cominciò a scuotere le persiane. Non gli
ci volle molto ad allentare il gancio interno e a far sì che le imposte si
aprissero. Le due donne lo guardarono soddisfatte e ansimanti.
«E adesso?»,
domandò il giovane.
«Prova a vedere
se riesci a forzare i vetri», disse la Cesira, in fibrillazione.
Il ragazzo la
squadrò preoccupato.
«Non le sembra
di esagerare?».
«Prova almeno a
scrutare», disse la Maria, «non possiamo stare qui con le mani in mano».
Il Giannino puntò
alla finestra coprendosi gli occhi con un braccio per vincere i riflessi.
«Non vedo nulla.
C'è buio pesto».
«Guarda bene»,
disse la Cesira.
«Niente».
«Fai fare a me»,
s'impose la donna, senza un minimo di riconoscenza.
«Vedi
qualcosa?», domandò la Maria.
Temporeggiò per
qualche secondo, lasciando presagire che potesse aver individuato qualcosa.
«Un accidente».
Guardò il
Giannino facendogli capire con uno sguardo assassino che c'era un solo modo per
risolvere il problema: qualcuno doveva forzare le lastre per introdursi clandestinamente
nella casa del prete.
«No, questo no».
«Su, non fare il
difficile».
«Ma se sta
dormendo, lasciamolo dormire».
«Lo devi
svegliare, se sta dormendo, ci sono mille lavori da fare!», gridò la Cesira.
5.
Il Giannino non
ebbe modo di protestare. Con davanti due donne del calibro della Cesira e della
Maria che, non dimentichiamolo, poche ore prima aveva rischiato di mandare al
creatore il povero Galbusera, capì al volo che ogni protesta sarebbe stata
vana. Fu costretto a obbedire anche perché fin da piccolo i suoi genitori gli
avevano insegnato a portare il massimo rispetto alle persone più anziane,
specialmente a quelle del proprio paese. Allorché, spinse le finestre con malizia
riuscendo senza grandi difficoltà a vincere i cardini degli scuri, aprendosi così
un varco per le inviolate secrete della casa del prete. I tre compaesani si
guardarono come se si fossero trovati di fronte a un inestimabile tesoro,
pronto da mettere in tasca.
«Don Filippo!
Don Filippo!», gridò la Maria, nell'ultimo tentativo di evitare la spudorata violazione
di una proprietà privata. Ma ancora una volta non si sentì anima battere
ciglio.
«Dai!», disse la
Cesira, «non perdiamo altro tempo. Andiamo a svegliare quel dormiglione».
Il Giannino dondolò
la testa immalinconito, ancora mezzo incredulo di fronte a tutto quel can can
mattutino.
«Mi fate fare
una cosa che disprezzo».
«Su, non fare
storie, lo fai per il bene della comunità», insistette la Cesira, «un punto in
più per il paradiso».
«E va beh».
Con l'agilità propria
di chi non ha ancora compiuto vent'anni, il Giannino fece forza sulle braccia,
e con un abile gioco di reni, saltò dentro la casa di don Filippo; dove percepì
immediatamente un odore stantio, come se la casa fosse stata chiusa da
parecchio tempo, benché chiunque fosse al corrente che fino alla sera prima i
locali erano stati arieggiati come consuetudine.
«Dove vado?»,
domandò, palesando il suo disagio.
«In fondo a
destra c'è la scala che porta alle camere», gli indicò la Cesira, con piglio
sgarbato. «Datti una mossa che non possiamo aspettare tutto il giorno».
«Ma non si vede
un cavolo».
«Non avrai paura
del buio, grande e grosso come sei!?», replicò la Maria, che lo fissava con
aria divertita.
Per la verità
grande e grosso non era, anzi, da bambino lo chiamavano "chiodino"
per via della sua esilità. In ogni caso abbandonò le due donne e, seguendo le
indicazioni della più insopportabile, si inoltrò nel covo del curato.
Muovendosi tentoni, badò bene di non andare a sbattere da qualche parte e
rompere qualcosa; o rompersi qualcosa. Ci mancava solo quello per glorificare
la giornata.
Individuò le
scale, vagamente rischiarate da un filo di fotoni scappati da chissà dove, e
prese a inerpicarsi come uno stambecco degli alti monti valdostani, che i
buraghesi conoscevano solo per sentito dire. Affrancato al corrimano fu, in
poche falcate, al piano superiore.
Indovinò la
camera del prete per via di un grosso e un po’ inquietante crocefisso che
troneggiava al suo ingresso, visibile nonostante la ridotta luminosità. Con una
certa apprensione fece forza sulla maniglia e vinse l'eremo sacerdotale non
trovando altro che un letto immacolato e una scrivania quasi del tutto spoglia.
«Questa è
bella», mugugnò fra sé.
Con due balzi
felini guadagnò il lato opposto della stanza e spalancò le finestre che davano
proprio sulla vietta presieduta dalla Cesira e dalla Maria, illuminando e
riossigenando il locale. Vi si affacciò e, non privo di stupore, comunicò il
verdetto alle compaesane:
«Nessuna traccia
del prete! Il letto è fatto e… non c'è in giro anima viva».
La Cesira ci
rimase di stucco: tutte le sue congetture andarono a farsi benedire. Ma se don
Filippo non stava dormendo, dove poteva essere finito?
«Dai un'occhiata
anche nella camera della perpetua e…», continuò la donna.
Ma la Cesira non
riuscì a completare la frase; il Giannino si riaffacciò sgomento con un
biglietto in mano, trovato sulla scrivania del prete, nell'angolo più buio,
sotto una specie di fermacarte.
«C'è solo
questo», disse con le mani tremanti.
«Che diamine
è?», domandò la Cesira.
«E' un
bigliettino con una scritta».
«Quale scritta?»,
chiese la Maria.
Il Giannino
deglutì conturbato.
«C'è scritto
"scusatemi"».
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