giovedì 27 giugno 2013

Laila # 8


8.

Araba fenice

Sto meglio, o vorrei dire mi sembra di stare meglio; ho un vago timore ad ammetterlo, non vorrei trovarmi con un pugno di mosche in mano. Dopo quasi due mesi dal mio incontro con la landa perduta degli appestati, posso dire di sentirmi… più in forma? Forse. Anche se non avrei mai immaginato di poter di nuovo respirare con piacere dopo appena pochi mesi dal cataclisma che ha sconvolto la mia pacata esistenza: Laila.
Non riesco bene a capire cosa sono, cosa voglio, come e perché e se sto realmente meglio. Di certo sono più rilassato, il peso che un tempo sfondava il mio torace, specialmente durante le prime ore del giorno (ma anche nel buio della notte), s'è fatto più leggero, volatile; non so se sto realmente meglio o se è la rassegnazione che sta avendo il sopravvento. Quale sia il vero motivo, comunque, m'interessa solo fino a un certo punto. Di fatto il passato mi mette meno angoscia, come se piano piano lo stessi esorcizzando. Il passato sta scemando in virtù di una scelta azzeccatissima. L'abbandono della Vian è stato provvidenziale. Se fossi rimasto alla Vian starei ancora agonizzando per un dolore insopportabile, rasenterei la pazzia. Solo qui dove regna il niente e il nulla ho l'impressione di potere recuperare me stesso, calato in un estemporaneo quieto vivere. Respiro aria nuova, come se stessi rinascendo dopo anni di sopimento e apatia. La spina nel cuore continua a sanguinare, ma sanguina in silenzio, e il mondo sembra… meno ostile.
I miei vecchi amici? Direi una bugia se affermassi che non mi mancano, tuttavia anche questa sofferenza è stata messa in conto, fa parte del gioco; guadagnando da una parte, si è costretti a perdere qualcosa dall'altra. Mi mancano Filomena e Francesco, spesso mi chiedo cosa staranno facendo e pensando. Come avranno mandato giù la mia sparizione misteriosa e improvvisa. Mi avranno cercato? In fondo credo che non l'abbiano fatto, proprio in virtù dell'amicizia che ci univa. Credo abbiano capito che se sono scappato senza dire niente, era perché desideravo fuggire da me stesso e dal mondo senza dare spiegazioni a nessuno; capendolo, devono avere lasciato correre le cose, senza troppo dannarsi l'anima. Certo, si saranno domandati quale potesse essere il motivo della mia insofferenza, un'incongruenza di sentimenti tale da spingermi all'auto licenziamento e a una sorta di volontaria alienazione. Filomena potrebbe avere sospettato qualcosa… ma Francesco no, no di certo. La mia eclissi deve averlo colpito come un terremoto nella notte, portandolo a supporre, chissà mai, che potessi essere finito in qualche strano giro o essere stato rapito. Filomena sapeva di Laila, ma non il mio amico. Non ne parlavo mai, del resto.
Laila era il mio mondo che non volevo condividere con nessuno. Anche a Filomena non ne parlavo esplicitamente, ma a lei non serviva raccontarle qualcosa. Sapeva già tutto senza che le dicessi nulla. Leggeva i miei occhi. E da quel primo giorno che ero uscito con Laila, sapeva che non sarebbero stati più gli stessi. Il suo sguardo meditabondo lo rivedo come se fosse ieri. Sicuramente si saranno confrontati per capirsi, per capire che fine abbia fatto. Ma poi avranno mollato la presa, non avendo scelta… Oggi mi staranno aspettando o si staranno dimenticando di me. Deve essere assurdo vivere gomito a gomito con una persona che sparisce dall'oggi al domani senza alcun preavviso. Si potrebbero costruire interi film. 

Nuovi amici

Anche se il tempo, intendo dire quello atmosferico, è tutt'altro che benevolo. Da quando sono giunto a Concorezzo non c'è ancora stata una giornata di sole. Piove sempre, e se non piove, fa un freddo terribile. Anche i meteorologi sono perplessi. Parlano di uno degli anni più freddi della storia. Curioso che cada proprio durante il momento più cruciale della mia vita. C'è il risvolto della medaglia, certo. I miei amici, le creature delle pozzanghere, sussistono proprio perché piove sempre o nevica. Se non ci fosse questo tempo inclemente, di loro non ci sarebbe traccia. Si nasconderebbero negli antri più bui e profondi della terra dimenticandosi di dover servire qualche anima in pena. Le buche delle strade si riempiono dei loro guizzi, e così finiscono per tenermi compagnia, senza assillarmi, senza il ghigno sospetto dei vicini. Senza di loro sarebbe stato difficile tirare avanti. Sono esseri discreti, ben lontani dalle arroganze umane. Proprio ciò che fa per me.
E c'è da tenere conto anche dei nuovi incontri reali, fisici, avuti in queste settimane, che non pensavo di poter vivere, che incredibilmente hanno contribuito a darmi sollievo e speranza. Non dovevo mica isolarmi da tutto e da tutti? Beh, non è andata così. Le carte in tavola sono cambiate quasi subito, dopo le capatine al circolino. Orso, Giorgio, Delfino, Ivo… e la bella ed enigmatica Ginevra, sono stati una manna dal cielo. Tra qualche giorno tornerò a trovarli.

Se Kant fosse un po’ più comprensibile…

Passo il tempo a cincischiare con me stesso, come un mendicante o un eremita. Mi piace cincischiare con me stesso, come se i "me stesso", in realtà, fossero più di uno. Talvolta mi sdoppio ed è come se un microcosmo schizofrenico della mente interpellasse una misteriosa mia dolce metà relegata chissà dove. Così è come essere sempre in compagnia di qualcuno, in un mondo dove domina il silenzio e, apparentemente, la noia. In effetti, penso molto, mi piace pensare, affidandomi spesso al pensiero altrui, menti illuminate che ci hanno preceduto.
Sarei già su Kant se fosse un po’ più accessibile. Ho tentato con "Critica della ragion pura", ma per ora, almeno per il sottoscritto, è arabo. Non mi raccapezzo. E' un inferno di considerazioni esagerate, complesse, funamboliche, voli pindarici che non riesco a cogliere, lontani dalla mia capacità di sintesi. Non è sempre così. Ho trovato più abbordabili, per esempio, Nietzsche e Schopenahuer. Ma è a Kant che vorrei arrivare, forse proprio perché è molto difficile. Amo, infatti, le sfide. Confrontarmi con ciò che mi sembra invalicabile. Kant, al momento, è per me invalicabile. Avrei bisogno di un passepartout, qualcuno che mi indichi la via, che mi tracci il cammino per capirlo e comprenderlo. Non sapevo che fosse anche un astronomo. Credo che abbia contribuito all'elaborazione di qualche importante tesi, ancora oggi appannaggio del mainstream astronomico. E' incredibile come un filosofo di simile portata possa anche aver messo lo zampino in ambito scientifico. Che mente sarà mai dovuta essere?
Mi sono accorto che le relazioni metafisiche che si vengono misteriosamente a instaurare fra una persona comune e uno scrittore o un filosofo, variano enormemente negli anni, determinando spessori amicali differenti. Ho notato che certe letture da me giudicate improponibili venti anni fa, ora mi sono del tutto comprensibili. Come se delle onde provenienti da chissà dove, da realtà ultraterrene, a un certo punto di un'esistenza entrassero in comunione con barlumi della stessa natura derivanti da coscienze simili, vissute magari secoli fa. Così, suppongo, potrebbe accadere con Kant. Non escludo che fra vent'anni potrei trovare il suo lavoro del tutto accessibile. Peraltro "Critica della ragion pura" è del 1871. E' stato scritto quando l'autore aveva quasi sessant'anni. Io sono intorno ai quaranta, per un effetto mistico legato alla maturazione psichica di un individuo, probabilmente, sarò pronto per Kant fra una ventina d'anni.
Può sembrare un'idiozia, visto che Kant viene studiato anche al liceo, tuttavia sono quasi convinto che certe cose vengono assimilate meglio se per imprescindibili meccaniche neurologiche il nostro cervello viene a trovarsi in sintonia con paradigmi cerebrali appannaggio di altri mondi e tempi. Lo dimostra, per esempio, l'amore che oggi provo per Manzoni. Quando lessi i "Promessi Sposi" alle superiori mi sembrava un testo noiosissimo, incomprensibile, verboso, assurdo. Oggi lo trovo invece meraviglioso, leggero, con un intreccio straordinario, quanto di meglio possa concedermi quando ho voglia di leggere qualcosa. Kant… ci vediamo fra qualche anno.

La prima notte con Laila

Laila abitava in un camper, isolato, da lontano sembrava un bugigattolo sperso fra le polveri di una radura texana. Mi vennero in mente alcuni film western visti da ragazzino, con indiani e cowboy che si inseguono per infiniti cortei di piante rinsecchite e animali alieni. Era davvero surreale e atemporale, appunto, come in un lungometraggio alla Leone. Non mi parve possibile che qualcuno, ormai prossimi al Duemila, potesse vivere in una dimora del genere. Non le feci domande per non metterla in imbarazzo e darle l'impressione di volere indagare la sua apparente indigenza, anche se poi, conoscendola meglio, avrei saputo che non avrebbe provato imbarazzo per nulla.
«Ti piace?», mi domandò bruciapelo, come se fosse normalissimo abitare in un buco del genere.
Rimasi interdetto per qualche secondo, osservando lo strano silenzio che ci circondava, un paradiso in confronto al terrore che si respirava dove Laila vendeva hamburger e hot dog. Di primo acchito mi chiesi dove e come potesse procurarsi l'energia per far funzionare la casa, gli elettrodomestici, la luce, i termosifoni. Sembrava un fungo spuntato dal nulla, dopo una rocambolesca notte di pioggia. Aggrottai le sopracciglia e le risposi di sì, ma tutt'altro che convinto.
«D'estate rimango fuori, tiro la tenda e si sta al fresco. Capirai, al suo interno, con il solleone non è una bella avventura…».
Aveva uno straordinario sorriso sulle labbra, come se stesse giocando, divertendosi un mondo, dimentica degli affanni che probabilmente la perseguitavano. La sua allegria era contagiosa e finì per stuzzicare anche il mio umore, vagamente immalinconito dal senso di straniamento patito innanzi a quel mezzo rudere appannaggio di una campagna con passaporto straniero. Mi prese per  mano, indicandomi il punto in cui era solita concedersi la pennichella prima di riprendere col lavoro al botteghino, che poteva proseguire fino alle ore piccole. Era una specie di brandina, rialzata da terra di una ventina di centimetri, affiancata da un improbabile comodino sormontato da una pila di libri. C'era anche una piccola e originale abatjour: in qualche modo, quindi, la corrente elettrica doveva arrivare, riflettei. Certo, era una sistemazione alquanto spartana, molto più indicata per un militare in missione che non una bella e suadente ragazza come lei.
«Non fare caso al disordine, io vivo nel disordine. E' il mio ordine mentale».
Sembrava parlasse per ossimori. A volte i suoi discorsi erano delicati e imprevedibili. Non capivo mai dove volesse andare a parare e se fosse del tutto conscia di ciò che diceva. Ancora una volta vissi un senso di atemporalità, che mi fece perdere l'orientamento e supporre di avere a che fare con una specie di sibilla dai poteri occulti. Mi mollò la mano rientrando nella normalità.
«Di cosa ti occupi?».
Me lo chiese senza un reale interessamento, come se avesse bisogno di un pretesto per organizzare la sua prossima imprevedibile mossa. Me lo dimostrò, infatti, non lasciandomi nemmeno il tempo per rispondere, esordendo con un quesito quantomeno provocante.
«Ti va di restare qui a dormire con me?».
Deglutii imbarazzato, non potendo credere alle mie orecchie. Ci conoscevamo solo da qualche ora e già mi chiedeva se volevo dormire con lei. Mai prima d'ora mi era capitato di vivere un'avventura del genere, su due piedi, con un corpo femminile a me totalmente estraneo. Non seppi cosa pensare. Temporeggiai, guardandomi attorno come una falena all'imbrunire che danza intorno alle prime luci di un lampione. Da un lato ero super eccitato, ma dall'altro… dall'altro era come se percepissi un freno, come se quel respiro carico d'angoscia che già mi aveva attanagliato conoscendola, stesse tornando a ordire il suo pegno. Era di nuovo quel sorriso così elettrizzante e quelle guance da ragazzina bramosa di vita che celavano un oscuro, imprevedibile e bieco presagio. Ma non mi feci intimorire dalle apparenze; mi lasciai tranquillamente incantare dall'idea che una ragazza tanto affascinante potesse invocare la mia presenza e andai oltre, riprendendo a gloriarmi di una frenesia sentimentale senza eguali. La guardai con un sorriso idiota, belligerante; e alla fine non potei che risponderle affermativamente:
«E dove mi sistemeresti?».
Mi regalò un'espressione così buffa che non trovo modo di spiegarla: fu come una bambinetta che si rende conto di avere compiuto una marachella.
«Dormirai nel mio letto… con me».
Fu una recita devastante, come se dal suo punto di vista fosse già stato tutto scritto e neanche il padreterno avrebbe potuto cambiare il destino. Percepii una scarica di adrenalina percorrere tutto il mio corpo a velocità supersonica. Ci misi qualche minuto a rientrare nei gangheri. Le cose si acquetarono quando una folata di vento finì per sollevare degli strani fogli che giacevano sul piccolo davanzale della finestrella del camper, alcuni ricoperti d'indecifrabili graffiti. All'improvviso divenne ombrosa e silenziosa e la magia di pochi secondi prima scemò. Ancora una volta subii il fascino dei suoi repentini cambi umorali. Ricordai molto bene l'episodio della prima volta che la vidi, quando, dopo l'euforia, la malinconia ebbe su di lei il sopravvento; come se un mantello oscuro avesse seppellito il suo cuore leggero sotto uno spesso strato di mal intenzioni. Mi disse di accomodarmi in veranda che lei avrebbe dovuto sbrigare un paio di faccende all'interno del camper; faccende di cui non potei neanche vagamente supporre l'identità.
«Ciao, ciao», nicchiò, sparendo oltre l'uscio.
Mi lasciò solo, concedendomi tutto il tempo che volevo per guardarmi intorno come una marmotta appena nata, che spinge per la prima volta gli occhi al di là della tana. Era davvero un caos infernale, come se un temporale di immani proporzioni fosse appena passato. Non mi sembrava possibile vivere in uno scompiglio del genere. Su un tavolino traballante c'erano cartoni del latte e bottiglie di acqua mezze vuote; per terra un cumulo di giornali, alcuni che non avevo mai visto, in lingua inglese e francese; le pareti erano addobbate da foto di cani e gatti e disegni di esserini simili agli elfi; su quella alle mie spalle c'era una foto che la ritraeva con un ragazzo dalla carnagione scura e le labbra carnose, con uno sguardo profondo e misterioso come il suo. Mi domandai con forza chi fosse, punto da un'indecifrabile gelosia.
Non riuscii a razionalizzare e giustificare un pandemonio del genere, per cui nuovi quesiti cominciarono a frullarmi per la testa. Domande che mi posi per cercare di capire con chi stavo avendo a che fare; perché mi suonava così strana questa ragazza? Il suo esotismo? Il suo esoterismo? Dov'erano e chi erano i suoi genitori? Da dove venivano? Il Libano? Perché viveva in modo così sciatto? Si nascondeva da qualcuno? Non seppi rispondere a nessuna di queste domande, tuttavia mi sopravvenne il peggiore dei pensieri; che si trattasse di una ragazza che viveva di espedienti, senza nessuna regola sociale, morale, venuta al mondo per sbaglio, per uno scherzo del destino, abbandonata a se stessa in tenera età. Nel nostro immaginario tradizionale sarebbe stato possibile associarla a una zingara, benché non avesse nulla delle fattezze rom; ma aveva la loro stessa passione, quel senso di perenne precarietà che contraddistingue l'etnia di origine indiana, rendendola, però, uno dei popoli più affascinanti e straordinari della terra. Non potei altrimenti spiegarmi tutta questa smania di volere raggiungere l'intimità e darsi l'uno all'altro in modo così spregiudicato, senza prima avere voluto discernere le rispettive intenzioni di vita, progetti, suoni, emozioni, profumi della pelle. Non che io fossi particolarmente devoto a qualche dogma universale; semplicemente avevo sempre trovato perlomeno utile conoscere un po’ più a fondo una donna prima di poter raggiungere certi traguardi. Sarò anche all'antica, ma il sesso mordi e fuggi è un concetto che mi è sempre sfuggito. Con una donna desidero avere innanzitutto uno scambio intellettuale, spirituale, solo così trovo che abbia senso tutto il resto. Non è una questione morale o religiosa. Ho sempre avuto bisogno di studiare le situazioni, confrontarmi con realtà diverse dalle mie, ma in qualche modo a me simili per lunghezza d'onda, prima di lasciarmi andare; parametri per me essenziali per un dialogo completo con una potenziale partner. Per altri motivi, in fondo, c'erano, ci sono le prostitute. Si sa dove trovarle, paghi e il gioco è fatto. Perché perdere tempo con una di cui non interessa altro che la sorca? Perché bruciare tutto in un istante, privando le nostre intenzioni di mete ancor più gratificanti? Mi dissi, precipitando nello sconforto, che si era forse comportata allo stesso modo con moltissime altre persone e che io ero solo uno dei tanti; e come se non bastasse iniziai a pensare che potesse non essere così lontana dal suo mondo l'ipotesi di poter guadagnare qualcosa vendendo se stessa. Mi vennero i brividi. Ma subito dopo mi acquietai, quando mi sovvennero le sue vecchie parole, che, in qualche modo, mi rendevano unico:
«La verità è che ti stavo aspettando».
Tornò da me dopo un quarto d'ora, vestita di rosso, un completino elegante, ma allo stesso tempo casual, mi sorrise e mi diede un bacio sulla guancia; aveva le labbra calde e morbide. Avrei voluto farle mille domande - il perché di tutto quel disordine, le sue origini, i suoi rapporti affettivi - ma come al solito fu lei per prima a mettermi alle corde.
«Ti piaccio?», me lo chiese girando su se stessa come una trottola, facendo volare la gonna oltre il senso del pudore.  
Vinsi l'imbarazzo e le risposi che la trovavo incantevole; a ben vedere penso che i miei occhi parlassero da soli. Mi fissò sopraffatta dalla gioia, con un luccichio che sfiorava le lacrime. Mi prese le mani e m'invitò ad alzarmi, trastullandomi un po’, smuovendo le mie membra irrigidite: era ora di decidere cosa fare insieme.  
«E ora dove mi porti di bello?».
Era da poco passata l'ora di cena, ma nessuno dei due aveva ancora messo qualcosa sotto i denti: la fame ci stava attanagliando e la prospettiva di poter mangiare allo stesso tavolo venne di conseguenza.
«Dove vuoi», le risposi.
«Portami a mangiare in un posto dove si possono vedere le stelle».
Qualunque altra donna avrebbe potuto avanzare mille richieste, riflettei, partendo da un ristorante specializzato in piatti sfiziosi, magari col sottofondo di un po’ di musica. Solo Laila poteva pensare a una cosa del genere: all'idea di cenare illuminati dal chiarore degli astri, come se da essi potesse scaturire una polverina magica in grado di renderci tutti immortali o almeno invincibili ed eroici come i grandi protagonisti della Magna Grecia. Lo trovai romantico e disperato allo stesso tempo.
«Dovrei pensarci. Così su due piedi…».
Mi liquidò in un istante, dimostrando la sua insofferenza di fronte a un uomo incapace di prendere una decisione immediata e palesando un'intenzione che forse andava già covando da un po’.
«Ok, allora lascia fare a me».
Mi guidò per strade che non avevo mai percorso, circondate da quelli che parevano fitti boschi, benché non fossi al corrente che in zona esistessero spazi verdi tanto rigogliosi. Il camminamento era buio e pareva appannaggio del mondo selvaggio, ostile all'uomo comune, lontano dalle nostre giurisdizioni. Non mi sarei stupito di vedere spuntare dal nulla, dal ciglio della strada, un lupo, un cinghiale… o un vampiro. All'improvviso cominciò una salita impervia, contrassegnata da spigolosi tornanti, simili a quelli che avevo percorso pochi mesi prima con Filomena durante una gita nel parco d'Abruzzo. Mi chiesi dove stessimo andando, ma senza interpellarla, non volendo passare per un pusillanime accompagnatore. In realtà mi stava piacendo tantissimo questa corsa verso l'ignoto.
«Eccoci», mi disse euforica.
Le ombre della sera erano ormai calate e per aria volavano alcuni misteriosi uccelli dal canto stonato. Smontammo dalla macchina in un parcheggio molto approssimativo, ricoperto di ghiaia, ritrovandoci avvolti dal metallico fischio dei grilli e delle cicale; una consuetudine che avevo sempre amato e che mi portava inevitabilmente con piacere alla stagione più calda e desiderata dell'anno.
«Dove diamine mi hai portato?», domandai ridacchiando.
L'oscurità non permetteva di indagare adeguatamente i dintorni e non vedendo praticamente nulla di simile a un posto dove poter andare a mangiare, pensai che Laila volesse digiunare al chiarore delle stelle. Ma non fu così. Mi accorsi quasi subito, dopo avere percorso pochi passi verso una collinetta asimmetrica, le luci di un edificio piccolo e dimesso, affiancato da una radura ammantata di tavolini illuminati dai ceri.
«Ti piace?».
Rimasi titubante.
«Credo di sì».
«Lo sai che questo è il più bel posto del mondo?».
«Non ci sono mai stato. Non potrei saperlo…».
«Tu credi alle fate?».
Risi di gusto. Le sue domande incalzanti erano assolutamente divertenti, ma anche difficili da gestire. Ogni volta che apriva bocca era come un fulmine a ciel sereno.  
«Alle fate?».
Stava parlando di fate?
«Vuoi dire che non conosci le fate?».
«Non dico questo».
«Solo gli uomini cattivi non conoscono le fate».
Fui sul punto di parlarle delle creature delle pozzanghere, a modo loro anch'esse ascrivibili al fantomatico mondo fatato. Ma evitai per non cadere nel banale, apparire ridicolo, se non altro a me stesso.
«Allora?».
«Beh, non posso dire di conoscerle…». Riflettei un attimo. «Ma non significa che non esistano».
Mi compatii. Come poteva un mezzo scienziato arrivare a proferire simili scemenze? Mi discolpai pensando che fosse doveroso assecondare la sua insistenza o dirle quello che supponevo volesse sentirsi dire. Non volevo rovinare un momento così idilliaco. In fondo mi costava ben poco, ed ero stuzzicato dall'idea di avere a che fare con una persona adulta che credeva nelle fate. Avevo sempre amato le persone un po’ fuori della norma, che non si fermavano alle apparenze, ma andavano oltre, interrogando realtà dissacranti. Anche se il rischio era quello di scivolare lentamente nell'idiozia.
«Eppure mi dai l'aria di uno che se ne intende…».
«Di cosa?».
«Di queste cose».
Ancora una volta colpì nel segno, dandomi idea di conoscermi più di quanto chiunque avrebbe potuto mostrare dopo così poco tempo dal primo incontro, obbligandomi a lasciarmi andare.
«Io credo nelle creature delle pozzanghere».
Mi sorrise, come se avesse saputo fin dapprincipio quel che le tenevo in serbo.
«Mi dici qualcosa di loro?».
«Non so se ne vale la pena».
«Ne vale sempre la pena».
«Forse sono solo creazioni della mia mente».
«Non c'è differenza fra ciò che vediamo con i nostri occhi e quello che celano le nostre menti».
«Sarebbe bello se fosse così, però non ne sarei tanto sicuro».
Rise.
«Dovresti credermi. E' questa reticenza a rendere molti uomini tristi, inconcludenti, spesso amareggiati, lamentosi... Solo chi crede anche in ciò che non si vede conosce la verità».
«La verità…», bofonchiai pensieroso, «cosa sarà mai la verità?».
«La verità siamo noi, io e te, e miriadi di esserini di altri mondi che ci circondano e che qualche persona, come per magia, ha l'onore di poter incontrare e intrattenere».
Arrivammo al ristorantino, molto frugale; da una specie di balaustra si poteva rimirare un ottimo panorama, e sopra alle nostre teste brillavano le stelle. Proprio come desiderava Laila.
«Ci sediamo qui?».
Era il tavolino più esterno di tutti, oltre il quale le tenebre toglievano il respiro. Si intravedevano i limiti di alcuni monti che con le loro creste aguzze sembravano messi lì per la scenografia di un film. Ci accomodammo sereni come due innamorati di compassato menage e subito ordinammo da bere e mangiare. Mi stupii notando che Laila non prese quasi nulla. Si limitò a un misero secondo piatto a base di verdure e formaggini locali. Osservai di riflesso la sua magrezza; se mangiava sempre porzioni così risicate… capivo perché non metteva su chili. Ma a me andava bene comunque, aveva un fascino irresistibile, era oltre il concetto di corporatura e fisicità, era… spirito. Per stare al suo passo e non mostrarmi troppo venale, un famelico abitante delle caverne, nonostante l'appetito, ordinai un tradizionalissimo e mestissimo piatto di spaghetti. Laila chiuse gli occhi e mi dette l'impressione di volare in un altro mondo. La lasciai fare. Quando li riaprì, mi regalò un sorriso stupefacente, dopodiché cercò la mia gamba con un piede, tirandomi una specie di calcio negli stinchi. Mi fissò mettendomi in agitazione. Non riuscivo a prevedere le sue mosse. Appena ne giocava una, ce n'era subito un'altra da decifrare pronta a mandarmi definitivamente in crisi. Era un sortilegio. Che, però, cominciava a piacermi tantissimo.
Alle pietanze ci accompagnammo con una bottiglia di vino rosso che bevemmo con grande disinvoltura. Era un vino della casa, non buonissimo, piuttosto acido, ma perfettamente in linea con gli atomi di ossigeno e azoto che andavano inebriando le nostre narici. Al termine della cena ci prendemmo per mano, guadagnando un sentiero impervio che Laila mi dette l'impressione di conoscere molto bene.
«Hai intenzione di farmi scalare una montagna?».
Non rispose, ma era evidente che aveva in programma un bel po’ di strada. Da una sporgenza dell'altura che stavamo circumnavigando, potemmo vedere le luci del ristoro far risplendere il buio sottostante, che si era definitivamente nutrito della nostra automobile, ormai indecifrabile.
Alla fine, con il fiatone, raggiungemmo una specie di terrazzamento, dove coltivavano la vite e anticamente, forse, conducevano riti propiziatori: lo supposi dalla presenza di un grosso monolite che indirizzava la sua punta verso la costellazione di Orione.
«Ti piace?».
«Moltissimo».
«Hai mai visto un posto migliore per vedere le stelle?».
La guardai conturbato dalla sua leggiadria.
«Non credo», bofonchiai, rimbambito da una pericolosa beatitudine.
«Io vengo dalle stelle».
Francesco al mio posto avrebbe prontamente ribattuto "e io da Marte", ma l'incantevole momento mi suggerì di non ironizzare. C'era qualcosa di vero nelle sue assurde parole.
«Ecco perché mi piace venire quassù».
Sorrisi.
«Ti capisco».

Ci sedemmo e in pochi secondi ci ritrovammo sdraiati l'uno di fianco all'altro, per mano, l'erba umida sotto le nostre schiene che emanava un respiro atavico e ancestrale. Poi ci incontrammo davvero per la prima volta nel calderone dell'estate.   

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