giovedì 13 giugno 2013

Laila # 7


7.

Il concerto di Bruce

Partii per New York il 3 agosto del 1978. Era un giorno caldo e afoso. Presi l'aereo a Malpensa e volai per una decina d'ore fino all'aeroporto Kennedy della Grande Mela. Mi rimasero impressi i dintorni della mastodontica e rinomata città. Mi dissi che forse non era valsa la pena volare tutti quei chilometri per poi trovarsi di fronte a una periferia che sembrava in tutto e per tutto simile a quella di una qualunque metropoli italiana. Dominava il grigio; quello dei capannoni industriali e delle arterie periferiche, i cartelli stradali manomessi, la sporcizia, il verde degli alberi ammansito dallo smog: insomma, l'Italia. Pensai di avere preso un granchio. In realtà cambiai quasi subito opinione dopo aver assalito un taxi per dirigermi verso il cuore della city, dove avevo pernottato in un affascinante albergo. A Manhattan, di fatto, mi congratulai con me stesso, convinto di avere fatto la scelta giusta: "eccomi a New York, questa è la vera New York", mi dissi… ecco la città che desideravo visitare, Manhattan, il resto poteva anche essere dimenticato; parere che, in fin dei conti, chiunque avrebbe condiviso con me; la Grande Mela era ed è (lo penso ancora oggi) Manhattan; le cartoline ritraggono l'Empire State Building, Time Square, il Greenwich e non di certo i dintorni del JFK o qualche sperduto angolo del Queens.
Il taxista si chiamava Antonio ed era di origine italiana; era grassoccio e mezzo pelato; cercai di instaurare con lui una conversazione, ma non ricordava mezza parola di italiano, a parte "pizza" e così ce la intendemmo in inglese, per quanto il mio lessico mi consentisse di fare. Mi disse che i suoi avi provenivano dall'Abruzzo. Gli risposi che almeno un personaggio famoso aveva le sue stesse origini. Nicchiò, supponendo di non sapere a cosa e a chi mi stessi riferendo. Non aveva, del resto, mai sentito parlare di John Fante né del suo libro più celebre, "Chiedi alla polvere". Sbriciolò il mio tentativo di mettermi a parlare di autori americani figli dello Stivale, commentando la foto di una bellezza statunitense in bikini appiccicata a un gigantesco cartellone pubblicitario che anticipava di poco le indicazioni per il ponte di Brooklyn. Commentai con vago sarcasmo, dicendo che in America le ragazze pareva che crescessero più robuste e floride che in altre parti del mondo. Rise compiaciuto, sottolineando che per lui le donne migliori erano quelle del Kentucky.
«Come mai?», gli chiesi. «Che hanno quelle del Kentucky, che le altre non possiedono?».
Si trattenne, ma dalla smorfia del volto supposi che volesse dirmi che lì ci sono le ragazze con le tette più grosse, chissà per quale particolare retaggio evolutivo. Si limitò a ondeggiare la mano sul torace, facendomi appunto intendere che certi parabrezza si potevano rimirare solo in quello Stato, del paradiso statunitense. Poi si fece più serio indicandomi che a Hodgenville, una piccola città nella contea di LaRue, era nato Abramo Lincoln.
«Il presidente Lincoln», commentai a voce alta, come se stessi parlando di un mio connazionale.
Ci salutammo davanti all'hotel, sulla 39esima strada, a pochi passi dal Grand Central Terminal, la stazione ferroviaria più grande del mondo per numero di banchine; così avevo letto su una guida del Touring. La stanza era lussuosa ed elegante, con alle spalle del letto una gigantografia dello skyline newyorkese in piena notte. Mi avventai sul frigo per sorseggiare una birra gelata che per un attimo mi provocò spasmi allo stomaco. Ma mi compiacqui di tanta lungimiranza, ricchezza, abbondanza. Mi sentii un dio. Scaricai i bagagli senza troppi complimenti e benché completamente rimbambito dal fuso orario, me ne andai a fare un giro. Visitai il Central Park, non molto distante, e percorsi qualche chilometro lungo la 42esima. Ero come una specie di bimbo che vede per la prima volta la mamma dopo tanto tempo. I miei occhi zampillavano di entusiasmo e il cuore mi batteva di gioia. Al Central Park mi accomodai su una panchina e fumai due sigarette di fila, compiaciuto come non mai di trovarmi in un posto così meraviglioso. Il centro del mondo, pensai. Fui colto dall'ipotesi di mandare tutto a quel paese e trasferirmi a New York, ma capii presto che sarebbe stata una pazzia. Per la prima volta immaginavo il mio futuro al di là della Vian, senza sapere che un giorno la multinazionale sarebbe davvero divenuta un lontano ricordo. 
Notai con stupore le innumerevoli persone che facevano jogging, alcune abbigliate in modo incredibilmente buffo, con colori sgargianti che spesso non avevano nulla a che fare fra loro. Era la fine degli anni Settanta e Francesco mi aveva detto che in America si respirava un'aria nuova: la gente era spensierata e desiderosa di divertirsi e il nuovo presidente americano, Jimmy Carter, sconosciutissimo e ancora lontano dalla rivoluzione iraniana del '79, sembrava un pezzo di pane. Anche la musica, su cui andava sempre a parare, non era più quella di una volta, sosteneva, aveva molta più energia… era nata la disco music e c'erano in giro rocker di tutto riguardo. Probabilmente erano cambiate anche le droghe, con l'lsd in caduta libera e il sopravvento di nuovi sballi chimici. Si dimenticava che il sottoscritto aveva dimestichezza solo con la classica e che non aveva mai provato nemmeno uno spinello; ma tant'è. Mi diede una serie d'indirizzi che non avrei potuto saltare per nessun motivo al mondo, previo il rischio di ritrovarmi con un amico in meno (e visto che non ne avevo molti…). Mi rimase impresso il Bottom Line e il Caffè Wha? perché diceva che ci avevano suonato dei pezzi da novanta, come Bob Dylan e John Lee Hooker. Ma li considerai solo fino a un certo punto, tant'è vero che l'unico vero grande concerto di cui porto memoria con piacere fu quello di un tipo che non avevo mai sentito nominare, e che neppure Francesco mi aveva mai menzionato, ma che diede prova di una bravura fuori dal normale: Bruce Springsteen. 
Veniva dal New Jersey e non aveva nemmeno trent'anni. Le sue canzoni erano un perfetto incrocio fra i folk singer degli anni Sessanta e i gruppi rock dei Settanta. Lo andai a sentire il 22 agosto al Madison Square Garden. Mi ritrovai in fila, stupito dal fatto che un nome a me così sconosciuto potesse attirare tanta gente. Mi accodai con davanti una donna di colore di proporzioni gigantesche, con un decolleté sul quale mi sarei potuto comodamente sedere, e a un americano sui vent'anni che masticava continuamente gomme al mentolo. All'interno si stava comodi, ma cominciai presto a sudare come un beduino in pieno deserto. Sventolavano bandiere americane e benché mancasse ancora un'ora abbondante all'inizio del concerto, molti inneggiavano al loro beniamino come se lo avessero appena sentito suonare la loro canzone preferita. Erano davvero scalmanati e gridavano all'impazzata. Confesso che alcuni di essi mi dettero fastidio al punto di aver pensato di alzarmi e tiragli un dritto per farli tacere: nemmeno se si fosse presentato Dio in persona si sarebbero comportati così selvaggiamente, riflettei.
Bruce Springsteen comparve intorno alle 21.00 con una pronunciata mascella e un sorriso da reduce del Vietnam. Vestito di scuro, sembrava già pezzato ancor prima di iniziare. Partì con "Good rockin' tonight", un brano tipicamente rock 'n' roll, che immediatamente dette ragione all'enfasi dei fan: non avevo mai visto una furia simile sul palco, si muoveva con la disinvoltura di chi si trova a passeggiare nel proprio giardino di casa, totalmente preso dai decibel sprigionati con cattiveria da torri di altoparlanti che toccavano il cielo. Ed era solo il primo brano. Scolai la birra che avevo fra le mani prima che finisse il secondo pezzo, ma la serata prometteva troppo bene per stare a centellinare i sorsi e pensare a mantenere la sobrietà. Accennai a un venditore ambulante che avevo finito di consumare la mia bevanda all'orzo e che ne volevo un'altra. L'uomo mi guardò felice come cerbiatto al suo primo salto. Tornai su Springsteen, dimenticandomi del resto, e notando l'eccezionale accento americano che lo contraddistingueva, fra una parlata e l'altra; almeno alle mie orecchie da italiano medio, al confronto mi risultò straniero perfino il tipo che mi sedeva accanto con il berretto dei Boston Red Socks.
Poi arrivò una di quelle canzoni che sarebbe presto diventata fra le mie preferite di sempre e che mi avrebbe portato per la prima volta a guardare oltre i pentagrammi del romanticismo viennese e, finalmente, a darmi alla musica rock, per la gioia di Francesco (anche se non avrei mai abdicato agli Stooges). "Badlands" fu un vero e proprio pugno nello stomaco, l'adrenalina mi percorse da cima a fondo, non credevo che un brano musicale potesse infiammare così tanto una folla e soprattutto il freddo e gelido sottoscritto, abituato alla compostezza sinfonica. Per la prima volta in vita mia mi ritrovai a saltare su me stesso, felice come un liceale alla sua prima uscita con una ragazza, puntando il dito verso il cielo, urlando parole che nemmeno io sapevo cosa volessero dire. Mi piacquero moltissimo anche "Darkness on the edge of town" e "Born to run". Quella notte non chiusi occhio. Ero troppo eccitato per dormire. Nelle orecchie continuavano a risuonarmi le note incandescenti del Boss. Sicché il giorno dopo, anziché andare a visitare la città come avevo fatto fino a quel momento - mi mancava ancora la Statua della Libertà e tutta la zona sud di Manhattan, senza contare le capatine che avrei voluto fare al Bronx e a Brooklyn - mi prodigai per recuperare tutti i dischi del cantante proveniente dal New Jersey. Così scoprii che non era un novellino - peraltro originario anche lui (come John Fante) dall'Italia - e che aveva già dato alle stampe ben quattro 33 giri. Li acquistai in un negozietto molto caratteristico del Greenwich Village, intriso dall'odore misto umidità e carta marcescente, specializzato in prodotti legati alla musica folk e al rock tipicamente americano. Scambiai due chiacchiere con il commesso, un pingue personaggio sulla cinquantina, assolutamente convinto della validità di Springsteen, ma da sempre ancorato all'idea che non ci fosse niente di meglio della musica folk e del mondo perfettamente decantato da un suo coetaneo a me estraneo di nome Pete Seeger. Era anche un esperto etnomusicologo e uno studioso dei canti provenienti dagli Appalachi, catena montuosa che caratterizza alcuni stati orientali degli USA. Mi suggerì l'acquisto di un disco contenente vari brani tradizionali, ed io accettai di buon grado. Alla fine me ne andai con un borsone di 33 giri, metà dei quali scritti e composti dal genio del New Jersey. Comunque si voglia mettere, da quel momento ebbi un amico in più. Laila lo potrebbe confermare.

Vita da bar

Ormai lo chiamo il circolino, anche se non ho ancora capito bene di cosa si tratti. Non ci andavo da un paio di settimane, che ho dedicato all'ozio più puro. Lo insegnavano anche i greci del resto: oziare rende liberi e aiuta il pensiero. L'ozio, padre dei vizi, giunge molto più tardi quando anche la filosofia assume sfaccettature diverse. E si comprende che non porti a granché se non… allo psicanalista. Anche la religione, in particolare, il cattolicesimo non è mai andato molto d'accordo con l'ozio; s'è sempre predicato ora et labora, relegando il suo culto a una bizzarria per sfaccendati. Evidentemente la chiesa è stata brava a fare solo una cosa: convincere l'uomo del suo antropocentrismo malato e creando un mucchio di presupposti per costruire un'umanità dedita all'aggressività e alla competizione. Insomma ho dormito, mangiato, scritto pochissimo, ascoltato parecchia musica, classica naturalmente, ma anche "The River", disco del Boss del 1980, un doppio album davvero intrigante; (ormai sono tutti intriganti i dischi del Boss).
A destinazione ho incontrato le persone viste la volta precedente, come un film già raccomandato, ma felicemente ritrovato, perse nel loro agonizzante presente, intuendo che non abbiano molti altri posti dove andare e dove trovarsi a loro agio. Il loro guscio di tartaruga. Uscendo imbacuccato per il freddo, che da un po’ di giorni comincio anch'io a patire come un comune mortale, sono inciampato nel mio vicino, dimentico delle tante creature delle pozzanghere felici di rivedermi dopo giorni di oblio. Ci siamo salutati cordialmente, ma entrambi desiderosi di risolverci nel minor tempo possibile:
«Buonasera a lei».
«Sempre di fretta?».
«Non proprio».
«Il tempo non ne vuol sapere di aggiustarsi».
«Mi piace la pioggia».
«Serve la pioggia».
«Eccome».
«Ok, arrivederci».
«Arrivederci».
Era dall'episodio della torta che non scambiavano due chiacchiere; ma non mi ero dimenticato dei vicini. Avevo in più occasioni squadrato la loro macchina in attesa di nuovi arrivi e partenze, un modo come un altro di assistere a una specie di telenovela in diretta, per chi proprio non ne vuole sapere di mettere piede fuori di casa, ancorato alle proprie paturnie. Credo che molte casalinghe amino assistere a spettacoli di questo genere, un po’ come accade ai pensionati che si fermano per ore davanti al becco d'acciaio di una ruspa intenta a deflagrare nuove superfici argillose. Un giorno è stato più interessante del solito. Nel compiere l'inane operazione ho, infatti, notato che le cose non stavano andando come avrebbero dovuto. Forze estranee stavano intrappolando la quotidianità dietro alle tende del salotto che presero a muoversi con intensità, come se fossero state colpite da una forte raffica di vento. M'incuriosii, cercando di indagarne la natura, alla Cary Grant ne La finestra sul cortile. Intravidi la sagoma della moglie finire contro la finestra. Qualcuno, forse, l'aveva spinta. Cosa stava succedendo? L'adrenalina percorse rapidamente i miei distretti anatomici riportandomi a fantasie che avevo sopito. Non mi piacque per nulla l'idea che qualcosa stesse facendo del male a quella signora, antipatica quanto si vuole, ma pur sempre una signora. Era suo marito che gliele stava dando? Elucubrai per vari minuti, preso da una passione che non avevo ancora vissuto da quando ero giunto a Concorezzo, ma per fortuna il calvario della mia mente non proseguì per molto. Alla fine mi calmai quando vidi che, contrariamente alle mie funeree previsioni, la vicina stava uscendo tranquilla dalla propria casa: salutava dalla strada il marito ancora in pigiama, con un sorriso gaudente. Lui le mandava dei bacini al volo. Non avevo capito nulla? Forse. Forse era stata tutta suggestione…
Al circolino Orso mi guardò con fare circospetto, con l'aria stralunata e un diavolo per capello; ma mi sentii ben disposto nei suoi confronti, e lieto di assecondare le sue subliminali richieste. Mi stava chiedendo qualcosa sul mio passato e sul mio futuro.
«Niente di che, la mia vita non è così interessante».
Capì che non ci sarebbe stata trippa per gatti, come dicono da queste parti, ma fondamentalmente non gliene importò granché. Desiderava solo scambiare due parole con qualcuno che non fossero i soliti due noiosi amici con cui si trovava a gestire l'esistenza. Fui io, quindi, a farmi avanti tentando di accomodarmi al suo tavolo. Mi disse che era a casa in ferie, dopodiché gli chiesi della sua professione. Mi rispose che faceva lo stesso lavoro da decenni:
«Sono in una pescheria, pulisco il pesce prima di venderlo».
Mi stupì il fatto che si lavorasse il pesce anche in Brianza. Per un attimo andai con la mente al mio paese natale, dove la gente da millenni vive di pesca. Provai un vago senso di nostalgia per qualcosa che, in fondo, non avevo mai amato con particolare romanticismo. Non ho mai rivissuto con contentezza la mia infanzia. L'idea del pesce, però, che metteva in moto animi e futuri, mi aveva sempre suggestionato, come la lettura di un vecchio libro di Verne, fra le mie prime avventure letterarie. I tramonti e le reti da pesca, l'odore dell'alba e il rumore del mare… Ma la passione di Orso era ben altra, l'architettura d'interni.  
«L'architettura d'interni?».
Lo trovai decisamente disallineato con le interiora della fauna ittica, la salsedine e i disegni rocamboleschi delle conchiglie.
«Mi sono diplomato alle serali di Monza, sono un geometra».
Lo disse come se stesse parlando di un traguardo che in pochi sono in grado di raggiungere, appannaggio di chi è evidentemente più dotato degli altri, aperto e meritevole di occupare alti livelli nella società. In realtà non era mai riuscito a fare il geometra, e tantomeno l'architetto di interni, perché aveva preso il diploma troppo tardi, e perché probabilmente nessuno si sarebbe fidato di mollargli il destino del proprio salotto. Ma in casa aveva comunque un tavolo da disegno con cui si esercitava, inseguendo un sogno che non si sarebbe mai realizzato, ma che in qualche modo continuava a tenerlo in vita, rendendolo un po’ meno sciatto di chi frequentava abitualmente.  
«Cosa disegni?».
Gli diedi definitivamente del tu.
«In questo momento sto progettando la casa per un mio amico. Dovrei finire per il prossimo mese. Sto perdendo un sacco di tempo con la cucina che il mio cliente vorrebbe trasformare in una specie di acquario».
Avevo sentito bene: aveva detto acquario.
«In che senso?».
«Vuole circondare le pareti con delle vasche pieni di pesci».
Rimasi basito, ma feci finta di nulla e continuai a indagare sulla natura dei suoi interessi, convincendomi di non avere mai conosciuto un tipo così eccentrico. Ma la nostra conversazione fu bruscamente interrotta da Giorgio che sopraggiunse trafelato, dandomi l'impressione di essere piuttosto brillo. Aveva le guance rosse come quelle di un bimbo che ha appena finito di giocare una partita di pallone. Mostrandosi fin da subito logorroico e su di giri, prese a vorticare intorno ai tavoli come una trottola, cercando qualcuno che potesse dargli retta o ridere delle sue battute.
«Ciao a tutti, belli e brutti», si mise a urlare, prima di prendersela direttamente con la capetta del bar, abituata alle sue scaramucce e come al solito poco propensa a dargli spago.  
«Ciao Ginevra, sai che ho fatto oggi?».
Ginevra lo guardò con l'aria stanca.
«Sentiamo».
Giorgio rise abbandonandosi a un'espressione beota.
«Ho portato la mia bella a comprarsi un paio di scarpe».
«Bravo».
«Se ti va, un giorno, accompagno anche te».
La ragazza lo liquidò senza tanti giri di parole, persa in pensieri tutti suoi.   
«Vediamo, magari l'anno prossimo».
Giorgio non comprese l'insofferenza della giovane e completamente rimbambito dall'euforia andò avanti imperterrito con la sua pantomima.
«Ti porto in un posto che conoscono in pochi, a Milano, è una piccola traversa di corso Vittorio Emanuele. Sai…».
«So dov'è corso Vittorio Emanuele».
Giorgio non si arrese.
«E' un negozietto carino, dove vanno anche Trussardi e sua moglie».
L'Orso lo squadrò come si compatisce un venditore ambulante di chincaglierie, anche lui ormai stanco del suo sermone, e lo liquidò in men che non si dica:
«Hai finito di romperle i coglioni?».
Giorgio sorrise come un ebete, ma dopo l'uscita di Orso smise di accanirsi su Ginevra.
Trascorremmo in compagnia mezz'oretta, in cui riuscii a rilassarmi e a non pensare a niente, chiacchierando soprattutto di sport e politica. Orso ce l'aveva con Amintore Fanfani. Diceva che era troppo vecchio per comandare il paese. La verità è che non sopportava gli esponenti della Democrazia Cristiana, che riteneva più mafiosi di tutti gli altri. Gli dissi che Dario Fo aveva scritto una commedia su di lui, ma non mi diede soddisfazione: dall'espressione del volto capii che forse non sapeva nemmeno chi fosse Dario Fo.
In seguito si unirono alla nostra combriccola Delfino - così si chiamava l'ultimo del brillante trio che avevo avuto modo di conoscere una quindicina di giorni prima - e un bellimbusto a me sconosciuto, con una sottile cresta bionda e gli occhi azzurrissimi: Ivo. La sua passione era il modellismo. Ultimamente s'era messo a trafficare coi fiammiferi per riprodurre fedelmente alcuni fra i più importanti monumenti del mondo. Disse che nessuno sarebbe stato in grado come lui di rappresentare così bene la cattedrale di Notre Dame e il Buckingam Palace. Non aveva tutti i torti, io stesso, probabilmente, non avrei saputo da che parte iniziare. Tuttavia non mi diede l'impressione di una persona particolarmente equilibrata. Oltre il suo sguardo febbricitante si celava il desiderio bramoso di combinare qualcosa nella vita, senza però avere i mezzi concreti per realizzarlo.  Vedendo il mio luccichio perplesso, Orso mi si avvicinò all'orecchio dicendomi che da giovane ci aveva dato dentro pesantemente con l'lsd, e che un pomeriggio d'estate dei primi anni Settanta aveva esagerato compiendo una sorta di viaggio senza ritorno, popolato di mostri e streghe. Per sei mesi non fu più nemmeno in grado di riconoscere il proprio nome e il volto della madre. Ivo estrasse dal soprabito la foto del suo ultimo capolavoro: la sfinge. Orso lo guardò con sufficienza, abituato alle sue rocambolesche proposte artistiche.
«Bella», disse Giorgio, benché non fosse stato interpellato, «dovresti venderla al mercato di Imbersago».
Ivo non gli diede retta, cercando soprattutto l'approvazione di Ginevra, che da tutt'altra parte riordinava un po’ di giornali vecchi.
«Vuole qualcosa?», mi chiese pochi istanti dopo, vedendomi abbandonare il tavolo dei miei improvvisati amici, voglioso di sgranchirmi le gambe.
La trovai graziosa e suadente, e con qualche anno in più di quel che avevo supposto di primo acchito. Doveva avere trenta, trentacinque anni. Notai che non portava la fede al dito e ne rimasi colpito. Mi chiesi come potesse non essere sposata, una figura così attraente. Pensai che potesse essere fidanzata. E immaginai il tipo che l'avrebbe potuta affiancare; un tipino elegante e fascinoso, o un ragazzotto come gli ospiti del circolino coi quali cominciavo a fare amicizia? Non ci misi molto a rispondermi. Doveva essere per forza vera la seconda ipotesi. Bastava il suo nome: una che si chiamava Ginevra non poteva di certo stare con un Ivo o un Delfino. 
«Prendo un caffè, grazie».
Mi sorrise avviandosi al balcone. La seguii con garbo. Notai lo svolazzare della gonna e la robustezza dei suoi capelli, difficili da organizzare in una capigliatura prestabilita. Mi piacque quel suo stile vagamente anticonformista. Per un attimo mi venne in mente Laila, e la prima volta che la incontrai. Aveva la sua stessa grazia e il suo stesso modo di muoversi e atteggiarsi. Anche se non aveva certo la profondità dei suoi occhi e quel suo modo di essere al di sopra di tutto e tutti, lontana da qualunque concetto di spazio e tempo. Non era Laila, ma a modo suo le assomigliava.
«Lei è di qui?», mi chiese.
Era la terza volta in poco tempo che mi veniva posta la stessa domanda, ma con lei fui molto più disponibile:
«No, sono qui per espiare una colpa».
Lo dissi senza pensare, con un ghigno sul volto, malcelando la volontà di esprimermi con una boutade, e mostrando quindi fin da subito la veridicità della mia storia, e l'intensità della mia pena. Mi sorpresi scoprendo che per la prima volta stavo parlando di Laila a un perfetto sconosciuto; a una sconosciuta. Ginevra capì al volo che non stavo scherzando:
«Dice davvero?».
Mi feci scuro in volto, intuendo che forse avevo esagerato a espormi tanto. Ero scappato dalla Vian e dal mio vecchio mondo per eclissarmi, sparire, e ora mi trovavo dopo neanche un mese a giustificare me stesso a una ragazza di cui a malapena sapevo il nome. 
«Purtroppo sì».
La mia interlocutrice mi servì il caffè con delicatezza, appoggiando la tazzina al balcone, dando per scontato che l'avrei consumato lì. Mi fissò stranita come si inquadra un personaggio interessante, ma anche vagamente morboso. Da tempo, forse, non veniva solleticata da un argomento altrettanto affascinante. Toccava a lei ribattere, ma fu chiaro a entrambi che qualunque nuovo quesito, avrebbe innescato i presupposti per una lunga e personale conversazione, che evidentemente non si sarebbe potuta svolgere nel luogo in cui ci trovavamo. Ginevra giocò d'astuzia e tacque, obbligando me alla contromossa: se avessi insistito sull'argomento, avrei anche dovuto tenere conto del fatto di trovarmi a offrirle tutti i buoni motivi per poter continuare a indagare sulla mia anima. Alla fine, dunque, preferii muovermi su un terreno più sicuro, deviando altrove le mie argomentazioni. Trascorsi un paio di minuti buoni di silenzio, feci finta di niente e mi misi a parlare a vanvera.  
«Lavora qui da tanto?».
«Se le va possiamo darci del tu».
Ne fui felice. Non aveva preso male il mio mezzo passo falso.
«D'accordo».
«Da quando sono nata», mi disse con una punta d'insoddisfazione. «Questo posto l'ha fondato mio padre con altri soci. Da quando mio padre non c'è più, porto avanti io la baracca».
Puliva il lavandino tenendo gli occhi bassi. L'odore di detersivo inondò piacevolmente le mie narici.
«La mattina lavora mia madre, il pomeriggio e la sera toccano a me».
«E' un bel posto».
«Lo penso anch'io, ma c'è sempre un sacco di lavoro da fare. Fuori abbiamo anche le bocce, hai visto?».
Annuii, ma non potei proseguire nella conversazione; Giorgio mi richiamò perentoriamente all'ordine:
«Vieni a farti con noi l'ultimo bicchiere?».

Non era certo l'ora del vino, ma non potei non accettare. La semplicità e la schiettezza di quegli uomini, andava premiata. 

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