7.
Il
concerto di Bruce
Partii per New York il 3 agosto del
1978. Era un giorno caldo e afoso. Presi l'aereo a Malpensa e volai per una
decina d'ore fino all'aeroporto Kennedy della Grande Mela. Mi rimasero impressi
i dintorni della mastodontica e rinomata città. Mi dissi che forse non era
valsa la pena volare tutti quei chilometri per poi trovarsi di fronte a una
periferia che sembrava in tutto e per tutto simile a quella di una qualunque
metropoli italiana. Dominava il grigio; quello dei capannoni industriali e
delle arterie periferiche, i cartelli stradali manomessi, la sporcizia, il
verde degli alberi ammansito dallo smog: insomma, l'Italia. Pensai di avere
preso un granchio. In realtà cambiai quasi subito opinione dopo aver assalito
un taxi per dirigermi verso il cuore della city, dove avevo pernottato in un
affascinante albergo. A Manhattan, di fatto, mi congratulai con me stesso, convinto
di avere fatto la scelta giusta: "eccomi a New York, questa è la vera New
York", mi dissi… ecco la città che desideravo visitare, Manhattan, il
resto poteva anche essere dimenticato; parere che, in fin dei conti, chiunque
avrebbe condiviso con me; la Grande Mela era ed è (lo penso ancora oggi)
Manhattan; le cartoline ritraggono l'Empire State Building, Time Square, il
Greenwich e non di certo i dintorni del JFK o qualche sperduto angolo del
Queens.
Il taxista si chiamava Antonio ed era di
origine italiana; era grassoccio e mezzo pelato; cercai di instaurare con lui
una conversazione, ma non ricordava mezza parola di italiano, a parte "pizza"
e così ce la intendemmo in inglese, per quanto il mio lessico mi consentisse di
fare. Mi disse che i suoi avi provenivano dall'Abruzzo. Gli risposi che almeno
un personaggio famoso aveva le sue stesse origini. Nicchiò, supponendo di non
sapere a cosa e a chi mi stessi riferendo. Non aveva, del resto, mai sentito
parlare di John Fante né del suo libro più celebre, "Chiedi alla
polvere". Sbriciolò il mio tentativo di mettermi a parlare di autori
americani figli dello Stivale, commentando la foto di una bellezza statunitense
in bikini appiccicata a un gigantesco cartellone pubblicitario che anticipava
di poco le indicazioni per il ponte di Brooklyn. Commentai con vago sarcasmo,
dicendo che in America le ragazze pareva che crescessero più robuste e floride che
in altre parti del mondo. Rise compiaciuto, sottolineando che per lui le donne
migliori erano quelle del Kentucky.
«Come mai?», gli chiesi. «Che hanno
quelle del Kentucky, che le altre non possiedono?».
Si trattenne, ma dalla smorfia del volto
supposi che volesse dirmi che lì ci sono le ragazze con le tette più grosse, chissà
per quale particolare retaggio evolutivo. Si limitò a ondeggiare la mano sul
torace, facendomi appunto intendere che certi parabrezza si potevano rimirare
solo in quello Stato, del paradiso statunitense. Poi si fece più serio
indicandomi che a Hodgenville, una piccola città nella contea di LaRue, era
nato Abramo Lincoln.
«Il presidente Lincoln», commentai a
voce alta, come se stessi parlando di un mio connazionale.
Ci salutammo davanti all'hotel, sulla
39esima strada, a pochi passi dal Grand Central Terminal, la stazione
ferroviaria più grande del mondo per numero di banchine; così avevo letto su
una guida del Touring. La stanza era lussuosa ed elegante, con alle spalle del
letto una gigantografia dello skyline newyorkese in piena notte. Mi avventai
sul frigo per sorseggiare una birra gelata che per un attimo mi provocò spasmi
allo stomaco. Ma mi compiacqui di tanta lungimiranza, ricchezza, abbondanza. Mi
sentii un dio. Scaricai i bagagli senza troppi complimenti e benché
completamente rimbambito dal fuso orario, me ne andai a fare un giro. Visitai
il Central Park, non molto distante, e percorsi qualche chilometro lungo la
42esima. Ero come una specie di bimbo che vede per la prima volta la mamma dopo
tanto tempo. I miei occhi zampillavano di entusiasmo e il cuore mi batteva di gioia.
Al Central Park mi accomodai su una panchina e fumai due sigarette di fila,
compiaciuto come non mai di trovarmi in un posto così meraviglioso. Il centro
del mondo, pensai. Fui colto dall'ipotesi di mandare tutto a quel paese e
trasferirmi a New York, ma capii presto che sarebbe stata una pazzia. Per la
prima volta immaginavo il mio futuro al di là della Vian, senza sapere che un
giorno la multinazionale sarebbe davvero divenuta un lontano ricordo.
Notai con stupore le innumerevoli
persone che facevano jogging, alcune abbigliate in modo incredibilmente buffo,
con colori sgargianti che spesso non avevano nulla a che fare fra loro. Era la
fine degli anni Settanta e Francesco mi aveva detto che in America si respirava
un'aria nuova: la gente era spensierata e desiderosa di divertirsi e il nuovo
presidente americano, Jimmy Carter, sconosciutissimo e ancora lontano dalla
rivoluzione iraniana del '79, sembrava un pezzo di pane. Anche la musica, su
cui andava sempre a parare, non era più quella di una volta, sosteneva, aveva molta
più energia… era nata la disco music e c'erano in giro rocker di tutto
riguardo. Probabilmente erano cambiate anche le droghe, con l'lsd in caduta
libera e il sopravvento di nuovi sballi chimici. Si dimenticava che il
sottoscritto aveva dimestichezza solo con la classica e che non aveva mai
provato nemmeno uno spinello; ma tant'è. Mi diede una serie d'indirizzi che non
avrei potuto saltare per nessun motivo al mondo, previo il rischio di
ritrovarmi con un amico in meno (e visto che non ne avevo molti…). Mi rimase
impresso il Bottom Line e il Caffè Wha? perché diceva che ci avevano suonato
dei pezzi da novanta, come Bob Dylan e John Lee Hooker. Ma li considerai solo
fino a un certo punto, tant'è vero che l'unico vero grande concerto di cui
porto memoria con piacere fu quello di un tipo che non avevo mai sentito nominare,
e che neppure Francesco mi aveva mai menzionato, ma che diede prova di una bravura
fuori dal normale: Bruce Springsteen.
Veniva dal New Jersey e non aveva
nemmeno trent'anni. Le sue canzoni erano un perfetto incrocio fra i folk singer
degli anni Sessanta e i gruppi rock dei Settanta. Lo andai a sentire il 22
agosto al Madison Square Garden. Mi ritrovai in fila, stupito dal fatto che un
nome a me così sconosciuto potesse attirare tanta gente. Mi accodai con davanti
una donna di colore di proporzioni gigantesche, con un decolleté sul quale mi
sarei potuto comodamente sedere, e a un americano sui vent'anni che masticava
continuamente gomme al mentolo. All'interno si stava comodi, ma cominciai
presto a sudare come un beduino in pieno deserto. Sventolavano bandiere
americane e benché mancasse ancora un'ora abbondante all'inizio del concerto,
molti inneggiavano al loro beniamino come se lo avessero appena sentito suonare
la loro canzone preferita. Erano davvero scalmanati e gridavano all'impazzata.
Confesso che alcuni di essi mi dettero fastidio al punto di aver pensato di
alzarmi e tiragli un dritto per farli tacere: nemmeno se si fosse presentato
Dio in persona si sarebbero comportati così selvaggiamente, riflettei.
Bruce Springsteen comparve intorno alle
21.00 con una pronunciata mascella e un sorriso da reduce del Vietnam. Vestito
di scuro, sembrava già pezzato ancor prima di iniziare. Partì con "Good
rockin' tonight", un brano tipicamente rock 'n' roll, che immediatamente
dette ragione all'enfasi dei fan: non avevo mai visto una furia simile sul
palco, si muoveva con la disinvoltura di chi si trova a passeggiare nel proprio
giardino di casa, totalmente preso dai decibel sprigionati con cattiveria da torri
di altoparlanti che toccavano il cielo. Ed era solo il primo brano. Scolai la
birra che avevo fra le mani prima che finisse il secondo pezzo, ma la serata
prometteva troppo bene per stare a centellinare i sorsi e pensare a mantenere
la sobrietà. Accennai a un venditore ambulante che avevo finito di consumare la
mia bevanda all'orzo e che ne volevo un'altra. L'uomo mi guardò felice come cerbiatto
al suo primo salto. Tornai su Springsteen, dimenticandomi del resto, e notando l'eccezionale
accento americano che lo contraddistingueva, fra una parlata e l'altra; almeno
alle mie orecchie da italiano medio, al confronto mi risultò straniero perfino
il tipo che mi sedeva accanto con il berretto dei Boston Red Socks.
Poi arrivò una di quelle canzoni che
sarebbe presto diventata fra le mie preferite di sempre e che mi avrebbe
portato per la prima volta a guardare oltre i pentagrammi del romanticismo
viennese e, finalmente, a darmi alla musica rock, per la gioia di Francesco
(anche se non avrei mai abdicato agli Stooges). "Badlands" fu un vero
e proprio pugno nello stomaco, l'adrenalina mi percorse da cima a fondo, non
credevo che un brano musicale potesse infiammare così tanto una folla e
soprattutto il freddo e gelido sottoscritto, abituato alla compostezza
sinfonica. Per la prima volta in vita mia mi ritrovai a saltare su me stesso,
felice come un liceale alla sua prima uscita con una ragazza, puntando il dito
verso il cielo, urlando parole che nemmeno io sapevo cosa volessero dire. Mi piacquero moltissimo anche "Darkness on the
edge of town" e "Born to run". Quella notte non chiusi occhio. Ero
troppo eccitato per dormire. Nelle orecchie continuavano a risuonarmi le note incandescenti
del Boss. Sicché il giorno dopo, anziché andare a visitare la città come avevo
fatto fino a quel momento - mi mancava ancora la Statua della Libertà e tutta
la zona sud di Manhattan, senza contare le capatine che avrei voluto fare al
Bronx e a Brooklyn - mi prodigai per recuperare tutti i dischi del cantante
proveniente dal New Jersey. Così scoprii che non era un novellino - peraltro
originario anche lui (come John Fante) dall'Italia - e che aveva già dato alle
stampe ben quattro 33 giri. Li acquistai in un negozietto molto caratteristico
del Greenwich Village, intriso dall'odore misto umidità e carta marcescente, specializzato
in prodotti legati alla musica folk e al rock tipicamente americano. Scambiai
due chiacchiere con il commesso, un pingue personaggio sulla cinquantina,
assolutamente convinto della validità di Springsteen, ma da sempre ancorato
all'idea che non ci fosse niente di meglio della musica folk e del mondo
perfettamente decantato da un suo coetaneo a me estraneo di nome Pete Seeger.
Era anche un esperto etnomusicologo e uno studioso dei canti provenienti dagli
Appalachi, catena montuosa che caratterizza alcuni stati orientali degli USA.
Mi suggerì l'acquisto di un disco contenente vari brani tradizionali, ed io
accettai di buon grado. Alla fine me ne andai con un borsone di 33 giri, metà
dei quali scritti e composti dal genio del New Jersey. Comunque si voglia
mettere, da quel momento ebbi un amico in più. Laila lo potrebbe confermare.
Vita da bar
Ormai lo chiamo il circolino, anche se
non ho ancora capito bene di cosa si tratti. Non ci andavo da un paio di
settimane, che ho dedicato all'ozio più puro. Lo insegnavano anche i greci del
resto: oziare rende liberi e aiuta il pensiero. L'ozio, padre dei vizi, giunge
molto più tardi quando anche la filosofia assume sfaccettature diverse. E si
comprende che non porti a granché se non… allo psicanalista. Anche la
religione, in particolare, il cattolicesimo non è mai andato molto d'accordo
con l'ozio; s'è sempre predicato ora et labora, relegando il suo culto a una bizzarria
per sfaccendati. Evidentemente la chiesa è stata brava a fare solo una cosa:
convincere l'uomo del suo antropocentrismo malato e creando un mucchio di
presupposti per costruire un'umanità dedita all'aggressività e alla
competizione. Insomma ho dormito, mangiato, scritto pochissimo, ascoltato
parecchia musica, classica naturalmente, ma anche "The River", disco
del Boss del 1980, un doppio album davvero intrigante; (ormai sono tutti
intriganti i dischi del Boss).
A destinazione ho incontrato le persone viste
la volta precedente, come un film già raccomandato, ma felicemente ritrovato, perse
nel loro agonizzante presente, intuendo che non abbiano molti altri posti dove
andare e dove trovarsi a loro agio. Il loro guscio di tartaruga. Uscendo imbacuccato
per il freddo, che da un po’ di giorni comincio anch'io a patire come un comune
mortale, sono inciampato nel mio vicino, dimentico delle tante creature delle
pozzanghere felici di rivedermi dopo giorni di oblio. Ci siamo salutati
cordialmente, ma entrambi desiderosi di risolverci nel minor tempo possibile:
«Buonasera a lei».
«Sempre di fretta?».
«Non proprio».
«Il tempo non ne vuol sapere di
aggiustarsi».
«Mi piace la pioggia».
«Serve la pioggia».
«Eccome».
«Ok, arrivederci».
«Arrivederci».
Era dall'episodio della torta che non
scambiavano due chiacchiere; ma non mi ero dimenticato dei vicini. Avevo in più
occasioni squadrato la loro macchina in attesa di nuovi arrivi e partenze, un
modo come un altro di assistere a una specie di telenovela in diretta, per chi
proprio non ne vuole sapere di mettere piede fuori di casa, ancorato alle
proprie paturnie. Credo che molte casalinghe amino assistere a spettacoli di
questo genere, un po’ come accade ai pensionati che si fermano per ore davanti
al becco d'acciaio di una ruspa intenta a deflagrare nuove superfici argillose.
Un giorno è stato più interessante del solito. Nel compiere l'inane operazione ho,
infatti, notato che le cose non stavano andando come avrebbero dovuto. Forze
estranee stavano intrappolando la quotidianità dietro alle tende del salotto che
presero a muoversi con intensità, come se fossero state colpite da una forte
raffica di vento. M'incuriosii, cercando di indagarne la natura, alla Cary
Grant ne La finestra sul cortile. Intravidi la sagoma della moglie finire
contro la finestra. Qualcuno, forse, l'aveva spinta. Cosa stava succedendo?
L'adrenalina percorse rapidamente i miei distretti anatomici riportandomi a
fantasie che avevo sopito. Non mi piacque per nulla l'idea che qualcosa stesse
facendo del male a quella signora, antipatica quanto si vuole, ma pur sempre
una signora. Era suo marito che gliele stava dando? Elucubrai per vari minuti,
preso da una passione che non avevo ancora vissuto da quando ero giunto a
Concorezzo, ma per fortuna il calvario della mia mente non proseguì per molto.
Alla fine mi calmai quando vidi che, contrariamente alle mie funeree
previsioni, la vicina stava uscendo tranquilla dalla propria casa: salutava dalla
strada il marito ancora in pigiama, con un sorriso gaudente. Lui le mandava dei
bacini al volo. Non avevo capito nulla? Forse. Forse era stata tutta
suggestione…
Al circolino Orso mi guardò con fare
circospetto, con l'aria stralunata e un diavolo per capello; ma mi sentii ben
disposto nei suoi confronti, e lieto di assecondare le sue subliminali
richieste. Mi stava chiedendo qualcosa sul mio passato e sul mio futuro.
«Niente di che, la mia vita non è così
interessante».
Capì che non ci sarebbe stata trippa per
gatti, come dicono da queste parti, ma fondamentalmente non gliene importò
granché. Desiderava solo scambiare due parole con qualcuno che non fossero i
soliti due noiosi amici con cui si trovava a gestire l'esistenza. Fui io,
quindi, a farmi avanti tentando di accomodarmi al suo tavolo. Mi disse che era
a casa in ferie, dopodiché gli chiesi della sua professione. Mi rispose che
faceva lo stesso lavoro da decenni:
«Sono in una pescheria, pulisco il pesce
prima di venderlo».
Mi stupì il fatto che si lavorasse il
pesce anche in Brianza. Per un attimo andai con la mente al mio paese natale,
dove la gente da millenni vive di pesca. Provai un vago senso di nostalgia per
qualcosa che, in fondo, non avevo mai amato con particolare romanticismo. Non
ho mai rivissuto con contentezza la mia infanzia. L'idea del pesce, però, che
metteva in moto animi e futuri, mi aveva sempre suggestionato, come la lettura
di un vecchio libro di Verne, fra le mie prime avventure letterarie. I tramonti
e le reti da pesca, l'odore dell'alba e il rumore del mare… Ma la passione di
Orso era ben altra, l'architettura d'interni.
«L'architettura d'interni?».
Lo trovai decisamente disallineato con le
interiora della fauna ittica, la salsedine e i disegni rocamboleschi delle
conchiglie.
«Mi sono diplomato alle serali di Monza,
sono un geometra».
Lo disse come se stesse parlando di un traguardo
che in pochi sono in grado di raggiungere, appannaggio di chi è evidentemente più
dotato degli altri, aperto e meritevole di occupare alti livelli nella società.
In realtà non era mai riuscito a fare il geometra, e tantomeno l'architetto di
interni, perché aveva preso il diploma troppo tardi, e perché probabilmente nessuno
si sarebbe fidato di mollargli il destino del proprio salotto. Ma in casa aveva
comunque un tavolo da disegno con cui si esercitava, inseguendo un sogno che non
si sarebbe mai realizzato, ma che in qualche modo continuava a tenerlo in vita,
rendendolo un po’ meno sciatto di chi frequentava abitualmente.
«Cosa disegni?».
Gli diedi definitivamente del tu.
«In questo momento sto progettando la casa
per un mio amico. Dovrei finire per il prossimo mese. Sto perdendo un sacco di
tempo con la cucina che il mio cliente vorrebbe trasformare in una specie di
acquario».
Avevo sentito bene: aveva detto
acquario.
«In che senso?».
«Vuole circondare le pareti con delle
vasche pieni di pesci».
Rimasi basito, ma feci finta di nulla e
continuai a indagare sulla natura dei suoi interessi, convincendomi di non
avere mai conosciuto un tipo così eccentrico. Ma la nostra conversazione fu
bruscamente interrotta da Giorgio che sopraggiunse trafelato, dandomi
l'impressione di essere piuttosto brillo. Aveva le guance rosse come quelle di
un bimbo che ha appena finito di giocare una partita di pallone. Mostrandosi
fin da subito logorroico e su di giri, prese a vorticare intorno ai tavoli come
una trottola, cercando qualcuno che potesse dargli retta o ridere delle sue
battute.
«Ciao a tutti, belli e brutti», si mise
a urlare, prima di prendersela direttamente con la capetta del bar, abituata
alle sue scaramucce e come al solito poco propensa a dargli spago.
«Ciao Ginevra, sai che ho fatto oggi?».
Ginevra lo guardò con l'aria stanca.
«Sentiamo».
Giorgio rise abbandonandosi a
un'espressione beota.
«Ho portato la mia bella a comprarsi un
paio di scarpe».
«Bravo».
«Se ti va, un giorno, accompagno anche
te».
La ragazza lo liquidò senza tanti giri
di parole, persa in pensieri tutti suoi.
«Vediamo, magari l'anno prossimo».
Giorgio non comprese l'insofferenza
della giovane e completamente rimbambito dall'euforia andò avanti imperterrito
con la sua pantomima.
«Ti porto in un posto che conoscono in
pochi, a Milano, è una piccola traversa di corso Vittorio Emanuele. Sai…».
«So dov'è corso Vittorio Emanuele».
Giorgio non si arrese.
«E' un negozietto carino, dove vanno
anche Trussardi e sua moglie».
L'Orso lo squadrò come si compatisce un
venditore ambulante di chincaglierie, anche lui ormai stanco del suo sermone, e
lo liquidò in men che non si dica:
«Hai finito di romperle i coglioni?».
Giorgio sorrise come un ebete, ma dopo
l'uscita di Orso smise di accanirsi su Ginevra.
Trascorremmo in compagnia mezz'oretta,
in cui riuscii a rilassarmi e a non pensare a niente, chiacchierando
soprattutto di sport e politica. Orso ce l'aveva con Amintore Fanfani. Diceva
che era troppo vecchio per comandare il paese. La verità è che non sopportava
gli esponenti della Democrazia Cristiana, che riteneva più mafiosi di tutti gli
altri. Gli dissi che Dario Fo aveva scritto una commedia su di lui, ma non mi
diede soddisfazione: dall'espressione del volto capii che forse non sapeva
nemmeno chi fosse Dario Fo.
In seguito si unirono alla nostra
combriccola Delfino - così si chiamava l'ultimo del brillante trio che avevo
avuto modo di conoscere una quindicina di giorni prima - e un bellimbusto a me
sconosciuto, con una sottile cresta bionda e gli occhi azzurrissimi: Ivo. La
sua passione era il modellismo. Ultimamente s'era messo a trafficare coi
fiammiferi per riprodurre fedelmente alcuni fra i più importanti monumenti del
mondo. Disse che nessuno sarebbe stato in grado come lui di rappresentare così
bene la cattedrale di Notre Dame e il Buckingam Palace. Non aveva tutti i
torti, io stesso, probabilmente, non avrei saputo da che parte iniziare.
Tuttavia non mi diede l'impressione di una persona particolarmente equilibrata.
Oltre il suo sguardo febbricitante si celava il desiderio bramoso di combinare
qualcosa nella vita, senza però avere i mezzi concreti per realizzarlo. Vedendo il mio luccichio perplesso, Orso mi
si avvicinò all'orecchio dicendomi che da giovane ci aveva dato dentro
pesantemente con l'lsd, e che un pomeriggio d'estate dei primi anni Settanta aveva
esagerato compiendo una sorta di viaggio senza ritorno, popolato di mostri e
streghe. Per sei mesi non fu più nemmeno in grado di riconoscere il proprio
nome e il volto della madre. Ivo estrasse dal soprabito la foto del suo ultimo
capolavoro: la sfinge. Orso lo guardò con sufficienza, abituato alle sue rocambolesche
proposte artistiche.
«Bella», disse Giorgio, benché non fosse
stato interpellato, «dovresti venderla al mercato di Imbersago».
Ivo non gli diede retta, cercando
soprattutto l'approvazione di Ginevra, che da tutt'altra parte riordinava un
po’ di giornali vecchi.
«Vuole qualcosa?», mi chiese pochi istanti
dopo, vedendomi abbandonare il tavolo dei miei improvvisati amici, voglioso di
sgranchirmi le gambe.
La trovai graziosa e suadente, e con
qualche anno in più di quel che avevo supposto di primo acchito. Doveva avere
trenta, trentacinque anni. Notai che non portava la fede al dito e ne rimasi
colpito. Mi chiesi come potesse non essere sposata, una figura così attraente. Pensai
che potesse essere fidanzata. E immaginai il tipo che l'avrebbe potuta
affiancare; un tipino elegante e fascinoso, o un ragazzotto come gli ospiti del
circolino coi quali cominciavo a fare amicizia? Non ci misi molto a
rispondermi. Doveva essere per forza vera la seconda ipotesi. Bastava il suo
nome: una che si chiamava Ginevra non poteva di certo stare con un Ivo o un
Delfino.
«Prendo un caffè, grazie».
Mi sorrise avviandosi al balcone. La
seguii con garbo. Notai lo svolazzare della gonna e la robustezza dei suoi
capelli, difficili da organizzare in una capigliatura prestabilita. Mi piacque
quel suo stile vagamente anticonformista. Per un attimo mi venne in mente
Laila, e la prima volta che la incontrai. Aveva la sua stessa grazia e il suo
stesso modo di muoversi e atteggiarsi. Anche se non aveva certo la profondità dei
suoi occhi e quel suo modo di essere al di sopra di tutto e tutti, lontana da
qualunque concetto di spazio e tempo. Non era Laila, ma a modo suo le assomigliava.
«Lei è di qui?», mi chiese.
Era la terza volta in poco tempo che mi veniva
posta la stessa domanda, ma con lei fui molto più disponibile:
«No, sono qui per espiare una colpa».
Lo dissi senza pensare, con un ghigno
sul volto, malcelando la volontà di esprimermi con una boutade, e mostrando
quindi fin da subito la veridicità della mia storia, e l'intensità della mia
pena. Mi sorpresi scoprendo che per la prima volta stavo parlando di Laila a un
perfetto sconosciuto; a una sconosciuta. Ginevra capì al volo che non stavo
scherzando:
«Dice davvero?».
Mi feci scuro in volto, intuendo che
forse avevo esagerato a espormi tanto. Ero scappato dalla Vian e dal mio
vecchio mondo per eclissarmi, sparire, e ora mi trovavo dopo neanche un mese a
giustificare me stesso a una ragazza di cui a malapena sapevo il nome.
«Purtroppo sì».
La mia interlocutrice mi servì il caffè
con delicatezza, appoggiando la tazzina al balcone, dando per scontato che
l'avrei consumato lì. Mi fissò stranita come si inquadra un personaggio
interessante, ma anche vagamente morboso. Da tempo, forse, non veniva
solleticata da un argomento altrettanto affascinante. Toccava a lei ribattere,
ma fu chiaro a entrambi che qualunque nuovo quesito, avrebbe innescato i
presupposti per una lunga e personale conversazione, che evidentemente non si
sarebbe potuta svolgere nel luogo in cui ci trovavamo. Ginevra giocò d'astuzia
e tacque, obbligando me alla contromossa: se avessi insistito sull'argomento, avrei
anche dovuto tenere conto del fatto di trovarmi a offrirle tutti i buoni motivi
per poter continuare a indagare sulla mia anima. Alla fine, dunque, preferii muovermi
su un terreno più sicuro, deviando altrove le mie argomentazioni. Trascorsi un
paio di minuti buoni di silenzio, feci finta di niente e mi misi a parlare a
vanvera.
«Lavora qui da tanto?».
«Se le va possiamo darci del tu».
Ne fui felice. Non aveva preso male il
mio mezzo passo falso.
«D'accordo».
«Da quando sono nata», mi disse con una
punta d'insoddisfazione. «Questo posto l'ha fondato mio padre con altri soci.
Da quando mio padre non c'è più, porto avanti io la baracca».
Puliva il lavandino tenendo gli occhi
bassi. L'odore di detersivo inondò piacevolmente le mie narici.
«La mattina lavora mia madre, il
pomeriggio e la sera toccano a me».
«E' un bel posto».
«Lo penso anch'io, ma c'è sempre un
sacco di lavoro da fare. Fuori abbiamo anche le bocce, hai visto?».
Annuii, ma non potei proseguire nella
conversazione; Giorgio mi richiamò perentoriamente all'ordine:
«Vieni a farti con noi l'ultimo
bicchiere?».
Non era certo l'ora del vino, ma non
potei non accettare. La semplicità e la schiettezza di quegli uomini, andava
premiata.
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