8.
Araba
fenice
Sto meglio, o vorrei dire mi sembra di
stare meglio; ho un vago timore ad ammetterlo, non vorrei trovarmi con un pugno
di mosche in mano. Dopo quasi due mesi dal mio incontro con la landa perduta
degli appestati, posso dire di sentirmi… più in forma? Forse. Anche se non
avrei mai immaginato di poter di nuovo respirare con piacere dopo appena pochi
mesi dal cataclisma che ha sconvolto la mia pacata esistenza: Laila.
Non riesco bene a capire cosa sono, cosa
voglio, come e perché e se sto realmente meglio. Di certo sono più rilassato, il
peso che un tempo sfondava il mio torace, specialmente durante le prime ore del
giorno (ma anche nel buio della notte), s'è fatto più leggero, volatile; non so
se sto realmente meglio o se è la rassegnazione che sta avendo il sopravvento. Quale
sia il vero motivo, comunque, m'interessa solo fino a un certo punto. Di fatto
il passato mi mette meno angoscia, come se piano piano lo stessi esorcizzando.
Il passato sta scemando in virtù di una scelta azzeccatissima. L'abbandono
della Vian è stato provvidenziale. Se fossi rimasto alla Vian starei ancora
agonizzando per un dolore insopportabile, rasenterei la pazzia. Solo qui dove
regna il niente e il nulla ho l'impressione di potere recuperare me stesso,
calato in un estemporaneo quieto vivere. Respiro aria nuova, come se stessi
rinascendo dopo anni di sopimento e apatia. La spina nel cuore continua a
sanguinare, ma sanguina in silenzio, e il mondo sembra… meno ostile.
I miei vecchi amici? Direi una bugia se
affermassi che non mi mancano, tuttavia anche questa sofferenza è stata messa
in conto, fa parte del gioco; guadagnando da una parte, si è costretti a
perdere qualcosa dall'altra. Mi mancano Filomena e Francesco, spesso mi chiedo
cosa staranno facendo e pensando. Come avranno mandato giù la mia sparizione
misteriosa e improvvisa. Mi avranno cercato? In fondo credo che non l'abbiano
fatto, proprio in virtù dell'amicizia che ci univa. Credo abbiano capito che se
sono scappato senza dire niente, era perché desideravo fuggire da me stesso e
dal mondo senza dare spiegazioni a nessuno; capendolo, devono avere lasciato
correre le cose, senza troppo dannarsi l'anima. Certo, si saranno domandati
quale potesse essere il motivo della mia insofferenza, un'incongruenza di
sentimenti tale da spingermi all'auto licenziamento e a una sorta di volontaria
alienazione. Filomena potrebbe avere sospettato qualcosa… ma Francesco no, no di
certo. La mia eclissi deve averlo colpito come un terremoto nella notte,
portandolo a supporre, chissà mai, che potessi essere finito in qualche strano
giro o essere stato rapito. Filomena sapeva di Laila, ma non il mio amico. Non
ne parlavo mai, del resto.
Laila era il mio mondo che non volevo
condividere con nessuno. Anche a Filomena non ne parlavo esplicitamente, ma a
lei non serviva raccontarle qualcosa. Sapeva già tutto senza che le dicessi
nulla. Leggeva i miei occhi. E da quel primo giorno che ero uscito con Laila,
sapeva che non sarebbero stati più gli stessi. Il suo sguardo meditabondo lo
rivedo come se fosse ieri. Sicuramente si saranno confrontati per capirsi, per
capire che fine abbia fatto. Ma poi avranno mollato la presa, non avendo
scelta… Oggi mi staranno aspettando o si staranno dimenticando di me. Deve
essere assurdo vivere gomito a gomito con una persona che sparisce dall'oggi al
domani senza alcun preavviso. Si potrebbero costruire interi film.
Nuovi
amici
Anche se il tempo, intendo dire quello
atmosferico, è tutt'altro che benevolo. Da quando sono giunto a Concorezzo non
c'è ancora stata una giornata di sole. Piove sempre, e se non piove, fa un
freddo terribile. Anche i meteorologi sono perplessi. Parlano di uno degli anni
più freddi della storia. Curioso che cada proprio durante il momento più
cruciale della mia vita. C'è il risvolto della medaglia, certo. I miei amici,
le creature delle pozzanghere, sussistono proprio perché piove sempre o nevica.
Se non ci fosse questo tempo inclemente, di loro non ci sarebbe traccia. Si
nasconderebbero negli antri più bui e profondi della terra dimenticandosi di
dover servire qualche anima in pena. Le buche delle strade si riempiono dei
loro guizzi, e così finiscono per tenermi compagnia, senza assillarmi, senza il
ghigno sospetto dei vicini. Senza di loro sarebbe stato difficile tirare
avanti. Sono esseri discreti, ben lontani dalle arroganze umane. Proprio ciò
che fa per me.
E c'è da tenere conto anche dei nuovi incontri
reali, fisici, avuti in queste settimane, che non pensavo di poter vivere, che
incredibilmente hanno contribuito a darmi sollievo e speranza. Non dovevo mica
isolarmi da tutto e da tutti? Beh, non è andata così. Le carte in tavola sono
cambiate quasi subito, dopo le capatine al circolino. Orso, Giorgio, Delfino,
Ivo… e la bella ed enigmatica Ginevra, sono stati una manna dal cielo. Tra
qualche giorno tornerò a trovarli.
Se
Kant fosse un po’ più comprensibile…
Passo il tempo a cincischiare con me
stesso, come un mendicante o un eremita. Mi piace cincischiare con me stesso,
come se i "me stesso", in realtà, fossero più di uno. Talvolta mi
sdoppio ed è come se un microcosmo schizofrenico della mente interpellasse una
misteriosa mia dolce metà relegata chissà dove. Così è come essere sempre in
compagnia di qualcuno, in un mondo dove domina il silenzio e, apparentemente,
la noia. In effetti, penso molto, mi piace pensare, affidandomi spesso al
pensiero altrui, menti illuminate che ci hanno preceduto.
Sarei già su Kant se fosse un po’ più accessibile.
Ho tentato con "Critica della ragion pura", ma per ora, almeno per il
sottoscritto, è arabo. Non mi raccapezzo. E' un inferno di considerazioni esagerate,
complesse, funamboliche, voli pindarici che non riesco a cogliere, lontani
dalla mia capacità di sintesi. Non è sempre così. Ho trovato più abbordabili,
per esempio, Nietzsche e Schopenahuer. Ma è a Kant che vorrei arrivare, forse
proprio perché è molto difficile. Amo, infatti, le sfide. Confrontarmi con ciò
che mi sembra invalicabile. Kant, al momento, è per me invalicabile. Avrei
bisogno di un passepartout, qualcuno che mi indichi la via, che mi tracci il
cammino per capirlo e comprenderlo. Non sapevo che fosse anche un astronomo.
Credo che abbia contribuito all'elaborazione di qualche importante tesi, ancora
oggi appannaggio del mainstream astronomico. E' incredibile come un filosofo di
simile portata possa anche aver messo lo zampino in ambito scientifico. Che
mente sarà mai dovuta essere?
Mi sono accorto che le relazioni
metafisiche che si vengono misteriosamente a instaurare fra una persona comune
e uno scrittore o un filosofo, variano enormemente negli anni, determinando spessori
amicali differenti. Ho notato che certe letture da me giudicate improponibili
venti anni fa, ora mi sono del tutto comprensibili. Come se delle onde provenienti
da chissà dove, da realtà ultraterrene, a un certo punto di un'esistenza
entrassero in comunione con barlumi della stessa natura derivanti da coscienze
simili, vissute magari secoli fa. Così, suppongo, potrebbe accadere con Kant.
Non escludo che fra vent'anni potrei trovare il suo lavoro del tutto
accessibile. Peraltro "Critica della ragion pura" è del 1871. E'
stato scritto quando l'autore aveva quasi sessant'anni. Io sono intorno ai
quaranta, per un effetto mistico legato alla maturazione psichica di un
individuo, probabilmente, sarò pronto per Kant fra una ventina d'anni.
Può sembrare un'idiozia, visto che Kant
viene studiato anche al liceo, tuttavia sono quasi convinto che certe cose
vengono assimilate meglio se per imprescindibili meccaniche neurologiche il
nostro cervello viene a trovarsi in sintonia con paradigmi cerebrali appannaggio
di altri mondi e tempi. Lo dimostra, per esempio, l'amore che oggi provo per Manzoni.
Quando lessi i "Promessi Sposi" alle superiori mi sembrava un testo
noiosissimo, incomprensibile, verboso, assurdo. Oggi lo trovo invece
meraviglioso, leggero, con un intreccio straordinario, quanto di meglio possa
concedermi quando ho voglia di leggere qualcosa. Kant… ci vediamo fra qualche
anno.
La
prima notte con Laila
Laila abitava in un camper, isolato, da
lontano sembrava un bugigattolo sperso fra le polveri di una radura texana. Mi
vennero in mente alcuni film western visti da ragazzino, con indiani e cowboy
che si inseguono per infiniti cortei di piante rinsecchite e animali alieni.
Era davvero surreale e atemporale, appunto, come in un lungometraggio alla
Leone. Non mi parve possibile che qualcuno, ormai prossimi al Duemila, potesse
vivere in una dimora del genere. Non le feci domande per non metterla in
imbarazzo e darle l'impressione di volere indagare la sua apparente indigenza, anche
se poi, conoscendola meglio, avrei saputo che non avrebbe provato imbarazzo per
nulla.
«Ti piace?», mi domandò bruciapelo, come
se fosse normalissimo abitare in un buco del genere.
Rimasi interdetto per qualche secondo,
osservando lo strano silenzio che ci circondava, un paradiso in confronto al
terrore che si respirava dove Laila vendeva hamburger e hot dog. Di primo
acchito mi chiesi dove e come potesse procurarsi l'energia per far funzionare
la casa, gli elettrodomestici, la luce, i termosifoni. Sembrava un fungo
spuntato dal nulla, dopo una rocambolesca notte di pioggia. Aggrottai le
sopracciglia e le risposi di sì, ma tutt'altro che convinto.
«D'estate rimango fuori, tiro la tenda e
si sta al fresco. Capirai, al suo interno, con il solleone non è una bella
avventura…».
Aveva uno straordinario sorriso sulle
labbra, come se stesse giocando, divertendosi un mondo, dimentica degli affanni
che probabilmente la perseguitavano. La sua allegria era contagiosa e finì per
stuzzicare anche il mio umore, vagamente immalinconito dal senso di
straniamento patito innanzi a quel mezzo rudere appannaggio di una campagna con
passaporto straniero. Mi prese per mano,
indicandomi il punto in cui era solita concedersi la pennichella prima di
riprendere col lavoro al botteghino, che poteva proseguire fino alle ore
piccole. Era una specie di brandina, rialzata da terra di una ventina di
centimetri, affiancata da un improbabile comodino sormontato da una pila di
libri. C'era anche una piccola e originale abatjour: in qualche modo, quindi,
la corrente elettrica doveva arrivare, riflettei. Certo, era una sistemazione
alquanto spartana, molto più indicata per un militare in missione che non una
bella e suadente ragazza come lei.
«Non fare caso al disordine, io vivo nel
disordine. E' il mio ordine mentale».
Sembrava parlasse per ossimori. A volte
i suoi discorsi erano delicati e imprevedibili. Non capivo mai dove volesse
andare a parare e se fosse del tutto conscia di ciò che diceva. Ancora una
volta vissi un senso di atemporalità, che mi fece perdere l'orientamento e
supporre di avere a che fare con una specie di sibilla dai poteri occulti. Mi
mollò la mano rientrando nella normalità.
«Di cosa ti occupi?».
Me lo chiese senza un reale
interessamento, come se avesse bisogno di un pretesto per organizzare la sua
prossima imprevedibile mossa. Me lo dimostrò, infatti, non lasciandomi nemmeno
il tempo per rispondere, esordendo con un quesito quantomeno provocante.
«Ti va di restare qui a dormire con
me?».
Deglutii imbarazzato, non potendo
credere alle mie orecchie. Ci conoscevamo solo da qualche ora e già mi chiedeva
se volevo dormire con lei. Mai prima d'ora mi era capitato di vivere
un'avventura del genere, su due piedi, con un corpo femminile a me totalmente
estraneo. Non seppi cosa pensare. Temporeggiai, guardandomi attorno come una
falena all'imbrunire che danza intorno alle prime luci di un lampione. Da un
lato ero super eccitato, ma dall'altro… dall'altro era come se percepissi un
freno, come se quel respiro carico d'angoscia che già mi aveva attanagliato
conoscendola, stesse tornando a ordire il suo pegno. Era di nuovo quel sorriso così
elettrizzante e quelle guance da ragazzina bramosa di vita che celavano un
oscuro, imprevedibile e bieco presagio. Ma non mi feci intimorire dalle
apparenze; mi lasciai tranquillamente incantare dall'idea che una ragazza tanto
affascinante potesse invocare la mia presenza e andai oltre, riprendendo a
gloriarmi di una frenesia sentimentale senza eguali. La guardai con un sorriso
idiota, belligerante; e alla fine non potei che risponderle affermativamente:
«E dove mi sistemeresti?».
Mi regalò un'espressione così buffa che
non trovo modo di spiegarla: fu come una bambinetta che si rende conto di avere
compiuto una marachella.
«Dormirai nel mio letto… con me».
Fu una recita devastante, come se dal
suo punto di vista fosse già stato tutto scritto e neanche il padreterno
avrebbe potuto cambiare il destino. Percepii una scarica di adrenalina percorrere
tutto il mio corpo a velocità supersonica. Ci misi qualche minuto a rientrare
nei gangheri. Le cose si acquetarono quando una folata di vento finì per
sollevare degli strani fogli che giacevano sul piccolo davanzale della finestrella
del camper, alcuni ricoperti d'indecifrabili graffiti. All'improvviso divenne ombrosa
e silenziosa e la magia di pochi secondi prima scemò. Ancora una volta subii il
fascino dei suoi repentini cambi umorali. Ricordai molto bene l'episodio della
prima volta che la vidi, quando, dopo l'euforia, la malinconia ebbe su di lei
il sopravvento; come se un mantello oscuro avesse seppellito il suo cuore leggero
sotto uno spesso strato di mal intenzioni. Mi disse di accomodarmi in veranda
che lei avrebbe dovuto sbrigare un paio di faccende all'interno del camper;
faccende di cui non potei neanche vagamente supporre l'identità.
«Ciao, ciao», nicchiò, sparendo oltre
l'uscio.
Mi lasciò solo, concedendomi tutto il
tempo che volevo per guardarmi intorno come una marmotta appena nata, che
spinge per la prima volta gli occhi al di là della tana. Era davvero un caos
infernale, come se un temporale di immani proporzioni fosse appena passato. Non
mi sembrava possibile vivere in uno scompiglio del genere. Su un tavolino
traballante c'erano cartoni del latte e bottiglie di acqua mezze vuote; per
terra un cumulo di giornali, alcuni che non avevo mai visto, in lingua inglese
e francese; le pareti erano addobbate da foto di cani e gatti e disegni di
esserini simili agli elfi; su quella alle mie spalle c'era una foto che la
ritraeva con un ragazzo dalla carnagione scura e le labbra carnose, con uno
sguardo profondo e misterioso come il suo. Mi domandai con forza chi fosse,
punto da un'indecifrabile gelosia.
Non riuscii a razionalizzare e
giustificare un pandemonio del genere, per cui nuovi quesiti cominciarono a frullarmi
per la testa. Domande che mi posi per cercare di capire con chi stavo avendo a
che fare; perché mi suonava così strana questa ragazza? Il suo esotismo? Il suo
esoterismo? Dov'erano e chi erano i suoi genitori? Da dove venivano? Il Libano?
Perché viveva in modo così sciatto? Si nascondeva da qualcuno? Non seppi
rispondere a nessuna di queste domande, tuttavia mi sopravvenne il peggiore dei
pensieri; che si trattasse di una ragazza che viveva di espedienti, senza
nessuna regola sociale, morale, venuta al mondo per sbaglio, per uno scherzo
del destino, abbandonata a se stessa in tenera età. Nel nostro immaginario
tradizionale sarebbe stato possibile associarla a una zingara, benché non avesse
nulla delle fattezze rom; ma aveva la loro stessa passione, quel senso di
perenne precarietà che contraddistingue l'etnia di origine indiana, rendendola,
però, uno dei popoli più affascinanti e straordinari della terra. Non potei
altrimenti spiegarmi tutta questa smania di volere raggiungere l'intimità e
darsi l'uno all'altro in modo così spregiudicato, senza prima avere voluto
discernere le rispettive intenzioni di vita, progetti, suoni, emozioni, profumi
della pelle. Non che io fossi particolarmente devoto a qualche dogma
universale; semplicemente avevo sempre trovato perlomeno utile conoscere un po’
più a fondo una donna prima di poter raggiungere certi traguardi. Sarò anche
all'antica, ma il sesso mordi e fuggi è un concetto che mi è sempre sfuggito.
Con una donna desidero avere innanzitutto uno scambio intellettuale,
spirituale, solo così trovo che abbia senso tutto il resto. Non è una questione
morale o religiosa. Ho sempre avuto bisogno di studiare le situazioni,
confrontarmi con realtà diverse dalle mie, ma in qualche modo a me simili per
lunghezza d'onda, prima di lasciarmi andare; parametri per me essenziali per un
dialogo completo con una potenziale partner. Per altri motivi, in fondo,
c'erano, ci sono le prostitute. Si sa dove trovarle, paghi e il gioco è fatto. Perché
perdere tempo con una di cui non interessa altro che la sorca? Perché bruciare
tutto in un istante, privando le nostre intenzioni di mete ancor più gratificanti?
Mi dissi, precipitando nello sconforto, che si era forse comportata allo stesso
modo con moltissime altre persone e che io ero solo uno dei tanti; e come se
non bastasse iniziai a pensare che potesse non essere così lontana dal suo
mondo l'ipotesi di poter guadagnare qualcosa vendendo se stessa. Mi vennero i
brividi. Ma subito dopo mi acquietai, quando mi sovvennero le sue vecchie parole,
che, in qualche modo, mi rendevano unico:
«La verità è che ti stavo aspettando».
Tornò da me dopo un quarto d'ora,
vestita di rosso, un completino elegante, ma allo stesso tempo casual, mi
sorrise e mi diede un bacio sulla guancia; aveva le labbra calde e morbide. Avrei
voluto farle mille domande - il perché di tutto quel disordine, le sue origini,
i suoi rapporti affettivi - ma come al solito fu lei per prima a mettermi alle
corde.
«Ti piaccio?», me lo chiese girando su
se stessa come una trottola, facendo volare la gonna oltre il senso del pudore.
Vinsi l'imbarazzo e le risposi che la
trovavo incantevole; a ben vedere penso che i miei occhi parlassero da soli. Mi
fissò sopraffatta dalla gioia, con un luccichio che sfiorava le lacrime. Mi prese
le mani e m'invitò ad alzarmi, trastullandomi un po’, smuovendo le mie membra
irrigidite: era ora di decidere cosa fare insieme.
«E ora dove mi porti di bello?».
Era da poco passata l'ora di cena, ma
nessuno dei due aveva ancora messo qualcosa sotto i denti: la fame ci stava
attanagliando e la prospettiva di poter mangiare allo stesso tavolo venne di
conseguenza.
«Dove vuoi», le risposi.
«Portami a mangiare in un posto dove si
possono vedere le stelle».
Qualunque altra donna avrebbe potuto
avanzare mille richieste, riflettei, partendo da un ristorante specializzato in
piatti sfiziosi, magari col sottofondo di un po’ di musica. Solo Laila poteva pensare
a una cosa del genere: all'idea di cenare illuminati dal chiarore degli astri,
come se da essi potesse scaturire una polverina magica in grado di renderci
tutti immortali o almeno invincibili ed eroici come i grandi protagonisti della
Magna Grecia. Lo trovai romantico e disperato allo stesso tempo.
«Dovrei pensarci. Così su due piedi…».
Mi liquidò in un istante, dimostrando la
sua insofferenza di fronte a un uomo incapace di prendere una decisione
immediata e palesando un'intenzione che forse andava già covando da un po’.
«Ok, allora lascia fare a me».
Mi guidò per strade che non avevo mai
percorso, circondate da quelli che parevano fitti boschi, benché non fossi al
corrente che in zona esistessero spazi verdi tanto rigogliosi. Il camminamento
era buio e pareva appannaggio del mondo selvaggio, ostile all'uomo comune,
lontano dalle nostre giurisdizioni. Non mi sarei stupito di vedere spuntare dal
nulla, dal ciglio della strada, un lupo, un cinghiale… o un vampiro. All'improvviso
cominciò una salita impervia, contrassegnata da spigolosi tornanti, simili a
quelli che avevo percorso pochi mesi prima con Filomena durante una gita nel
parco d'Abruzzo. Mi chiesi dove stessimo andando, ma senza interpellarla, non
volendo passare per un pusillanime accompagnatore. In realtà mi stava piacendo
tantissimo questa corsa verso l'ignoto.
«Eccoci», mi disse euforica.
Le ombre della sera erano ormai calate e
per aria volavano alcuni misteriosi uccelli dal canto stonato. Smontammo dalla
macchina in un parcheggio molto approssimativo, ricoperto di ghiaia,
ritrovandoci avvolti dal metallico fischio dei grilli e delle cicale; una
consuetudine che avevo sempre amato e che mi portava inevitabilmente con
piacere alla stagione più calda e desiderata dell'anno.
«Dove diamine mi hai portato?», domandai
ridacchiando.
L'oscurità non permetteva di indagare
adeguatamente i dintorni e non vedendo praticamente nulla di simile a un posto
dove poter andare a mangiare, pensai che Laila volesse digiunare al chiarore
delle stelle. Ma non fu così. Mi accorsi quasi subito, dopo avere percorso
pochi passi verso una collinetta asimmetrica, le luci di un edificio piccolo e
dimesso, affiancato da una radura ammantata di tavolini illuminati dai ceri.
«Ti piace?».
Rimasi titubante.
«Credo di sì».
«Lo sai che questo è il più bel posto
del mondo?».
«Non ci sono mai stato. Non potrei
saperlo…».
«Tu credi alle fate?».
Risi di gusto. Le sue domande incalzanti
erano assolutamente divertenti, ma anche difficili da gestire. Ogni volta che
apriva bocca era come un fulmine a ciel sereno.
«Alle fate?».
Stava parlando di fate?
«Vuoi dire che non conosci le fate?».
«Non dico questo».
«Solo gli uomini cattivi non conoscono
le fate».
Fui sul punto di parlarle delle creature
delle pozzanghere, a modo loro anch'esse ascrivibili al fantomatico mondo
fatato. Ma evitai per non cadere nel banale, apparire ridicolo, se non altro a
me stesso.
«Allora?».
«Beh, non posso dire di conoscerle…». Riflettei
un attimo. «Ma non significa che non esistano».
Mi compatii. Come poteva un mezzo
scienziato arrivare a proferire simili scemenze? Mi discolpai pensando che
fosse doveroso assecondare la sua insistenza o dirle quello che supponevo
volesse sentirsi dire. Non volevo rovinare un momento così idilliaco. In fondo
mi costava ben poco, ed ero stuzzicato dall'idea di avere a che fare con una
persona adulta che credeva nelle fate. Avevo sempre amato le persone un po’
fuori della norma, che non si fermavano alle apparenze, ma andavano oltre,
interrogando realtà dissacranti. Anche se il rischio era quello di scivolare
lentamente nell'idiozia.
«Eppure mi dai l'aria di uno che se ne
intende…».
«Di cosa?».
«Di queste cose».
Ancora una volta colpì nel segno, dandomi
idea di conoscermi più di quanto chiunque avrebbe potuto mostrare dopo così
poco tempo dal primo incontro, obbligandomi a lasciarmi andare.
«Io credo nelle creature delle
pozzanghere».
Mi sorrise, come se avesse saputo fin
dapprincipio quel che le tenevo in serbo.
«Mi dici qualcosa di loro?».
«Non so se ne vale la pena».
«Ne vale sempre la pena».
«Forse sono solo creazioni della mia
mente».
«Non c'è differenza fra ciò che vediamo
con i nostri occhi e quello che celano le nostre menti».
«Sarebbe bello se fosse così, però non
ne sarei tanto sicuro».
Rise.
«Dovresti credermi. E' questa reticenza
a rendere molti uomini tristi, inconcludenti, spesso amareggiati, lamentosi...
Solo chi crede anche in ciò che non si vede conosce la verità».
«La verità…», bofonchiai pensieroso, «cosa
sarà mai la verità?».
«La verità siamo noi, io e te, e miriadi
di esserini di altri mondi che ci circondano e che qualche persona, come per
magia, ha l'onore di poter incontrare e intrattenere».
Arrivammo al ristorantino, molto frugale;
da una specie di balaustra si poteva rimirare un ottimo panorama, e sopra alle
nostre teste brillavano le stelle. Proprio come desiderava Laila.
«Ci sediamo qui?».
Era il tavolino più esterno di tutti,
oltre il quale le tenebre toglievano il respiro. Si intravedevano i limiti di
alcuni monti che con le loro creste aguzze sembravano messi lì per la
scenografia di un film. Ci accomodammo sereni come due innamorati di compassato
menage e subito ordinammo da bere e mangiare. Mi stupii notando che Laila non
prese quasi nulla. Si limitò a un misero secondo piatto a base di verdure e
formaggini locali. Osservai di riflesso la sua magrezza; se mangiava sempre
porzioni così risicate… capivo perché non metteva su chili. Ma a me andava bene
comunque, aveva un fascino irresistibile, era oltre il concetto di corporatura
e fisicità, era… spirito. Per stare al suo passo e non mostrarmi troppo venale,
un famelico abitante delle caverne, nonostante l'appetito, ordinai un tradizionalissimo
e mestissimo piatto di spaghetti. Laila chiuse gli occhi e mi dette
l'impressione di volare in un altro mondo. La lasciai fare. Quando li riaprì, mi
regalò un sorriso stupefacente, dopodiché cercò la mia gamba con un piede,
tirandomi una specie di calcio negli stinchi. Mi fissò mettendomi in
agitazione. Non riuscivo a prevedere le sue mosse. Appena ne giocava una, ce
n'era subito un'altra da decifrare pronta a mandarmi definitivamente in crisi.
Era un sortilegio. Che, però, cominciava a piacermi tantissimo.
Alle pietanze ci accompagnammo con una
bottiglia di vino rosso che bevemmo con grande disinvoltura. Era un vino della
casa, non buonissimo, piuttosto acido, ma perfettamente in linea con gli atomi
di ossigeno e azoto che andavano inebriando le nostre narici. Al termine della
cena ci prendemmo per mano, guadagnando un sentiero impervio che Laila mi dette
l'impressione di conoscere molto bene.
«Hai intenzione di farmi scalare una
montagna?».
Non rispose, ma era evidente che aveva
in programma un bel po’ di strada. Da una sporgenza dell'altura che stavamo
circumnavigando, potemmo vedere le luci del ristoro far risplendere il buio
sottostante, che si era definitivamente nutrito della nostra automobile, ormai
indecifrabile.
Alla fine, con il fiatone, raggiungemmo
una specie di terrazzamento, dove coltivavano la vite e anticamente, forse,
conducevano riti propiziatori: lo supposi dalla presenza di un grosso monolite
che indirizzava la sua punta verso la costellazione di Orione.
«Ti piace?».
«Moltissimo».
«Hai mai visto un posto migliore per
vedere le stelle?».
La guardai conturbato dalla sua
leggiadria.
«Non credo», bofonchiai, rimbambito da
una pericolosa beatitudine.
«Io vengo dalle stelle».
Francesco al mio posto avrebbe
prontamente ribattuto "e io da Marte", ma l'incantevole momento mi suggerì
di non ironizzare. C'era qualcosa di vero nelle sue assurde parole.
«Ecco perché mi piace venire quassù».
Sorrisi.
«Ti capisco».
Ci sedemmo e in pochi secondi ci
ritrovammo sdraiati l'uno di fianco all'altro, per mano, l'erba umida sotto le
nostre schiene che emanava un respiro atavico e ancestrale. Poi ci incontrammo
davvero per la prima volta nel calderone dell'estate.