Mamma e papà non ne erano molto felici. Tutti quei chilometri in macchina da solo, era una specie di pazzia. Peraltro le strade non erano come da noi, solide, pulite, ampie e spaziose. Spesso erano a mo' di mulattiera, piene di buche, sdrucciolevoli e chissà che altro. Circolavano ancora carretti trainati dagli asini. Ma non c'era stato verso di fargli cambiare idea. L'amore si era detto allora, e si direbbe ancora oggi, se non fosse che in molti si chiedevano onestamente se fosse vero amore, e non solo, quindi, una scusa per strappare una fanciulla al suo auspicato destino, quello di tutte le sue coetanee, anch'esse lontanissime dalla filosofia italica, perché semplicemente nate altrove, in un contesto spazio-temporale differente, con una cultura diversissima dalla nostra, pizza, Rinascimento e smandolinate; strappata al suo domani per risollevare il proprio, da troppo tempo raggomitolato su se stesso in cerca di una valida soluzione amorosa che non arrivava mai. L'Ucraina nel 1986 era un paese sostanzialmente sovietico, entrato a far parte dell'URSS nel 1922. Politiche di emancipazione venivano accarezzate fin dal dopoguerra, ma i russi facevano di tutto per mantenere la nazione sotto la propria giurisdizione, senza le sue risorse non sarebbero andati molto lontano. Le questioni economiche e gli interessi in gioco erano altissimi. Ma era una nazione rigorosissima, con un'identità a sé stante, figlia di una cultura ricca e più che dignitosa. Chi la abitava si sente più mitteleuropeo che non russo, anche in virtù di tradizioni che rimandavano frequentemente a paesi come la Polonia. Era uno stato dominato dall'agricoltura, resa facile dai numerosi fiumi che solcavano il territorio, l'irrigavano e lo fertilizzavano, conferendole peraltro la tipica aria campestre e folcloristica. Non per niente l'Ucraina veniva soprannominata il granaio d'Europa, nonché il paniere della Russia. C'erano i cosiddetti kolchoz, in favore dell'economia collettiva, termine che rimandava con un pizzico di romanticismo all'epopea staliniana, che ricevevano la terra in gestione, percepivano uno stipendio, ma dovevano coltivare ciò che decideva lo Stato. Per molti andava bene così, tanto che, successivamente, col crollo del comunismo, numerosi ucraini avevano cominciato a rimpiangere i vecchi tempi. Per il resto non è che si sapesse molto dell'Ucraina, paradossalmente il paese più esteso d'Europa. Chi erano i suoi scrittori? E i suoi cantanti? Chi era il filosofo più importante? Buio.
Ma in Ucraina abitava la bella di Domenico Ciccarelli, trentaduenne omatese, mogio e rassegnato centralinista presso una ditta di tessuti non lontano dalla Bovisa. Si erano conosciuti per via di un cugino di Domenico, Andrea, sposatosi cinque anni prima con Svitlana Tolchinsky, giovane affascinante, originaria dello stesso paese, incontrata per caso in seguito a un viaggio di affari; affari per modo di dire. In realtà il cugino di Domenico gestiva strani rapporti con altrettanto eccentrici individui provenienti dall'est, con la fedina penale piuttosto malconcia; un giorno s'era perfino beccato un proiettile nella schiena, che per poco non lo aveva mandato al creatore. Lo aveva salvato il provvidenziale istinto di gettarsi a terra, subito dopo l'innesco della sparatoria. Faceva avanti e indietro da Kiev, visitando di tanto in tanto anche i piccoli centri della steppa ucraina, distese infinite di praterie erbose, così familiari a Svitlana. Un giorno s'erano ritrovati tutti al secondo piano, appartamento B della famiglia Ciccarelli, dove avevano brindato all'acquisto di una licenza per gestire un'edicola in una piazza di Cambiago. Non si sapeva ancora bene chi l'avrebbe coordinata, ma intanto la licenza c'era, era viva e vegeta, e questo bastava a rendere euforici i Ciccarelli al gran completo, sempre ottimisti innanzi a un nuovo progetto. Era per via del loro sangue partenopeo, notoriamente legato a caratteri gioiosi e brillanti.
Con il cugino e Svitlana c'era anche una ragazzetta mora, con i capelli lisci come spaghetti, gli occhi bui e profondi, le guanciotte rosee, e un'espressione vagamente malinconica. Si vedeva lontano miglia che veniva da un paese perduto e che non aveva mai avuto a che fare con una nazione prospera e civilizzata come l'Italia. Guardava tutto come se fosse la prima volta, comprese le cabine del telefono, che nel suo paesello non erano mai arrivate. Guardava con suadente passione le automobili in circolazione, le pubblicità dei cartelloni, le pareti ben pitturate delle case… Era l'amica del cuore di Svitlana: così diceva lei, in realtà pare che fossero in qualche modo imparentate fra loro. Ci doveva, infatti, essere una specie di antenato che le riconduceva entrambe al medesimo albero genealogico, fruttificante in un'area ben precisa dell'ampia radura ucraina. Si diceva anche che questo ramo genealogico fosse in qualche modo figlio di una potente famiglia riconducibile a un misterioso paese georgiano. Con essa Domenico s'era appartato per qualche minuto in cucina, con la scusa di offrirle qualcosa da bere, aveva bofonchiato due o tre parole in inglese, sperando in un dialogo forbito. In realtà la ragazza non parlava altro che ucraino, benché cominciasse a intuire, più dai gesti che altro, qualche lemma in italiano; dal canto suo era arrivata addirittura a supporre che i due idiomi fossero per qualche assurdo retroscena lessicologico assimilabili fra loro. Chiaramente era una fesseria. Poi erano partite le presentazioni ufficiali.
“Elisabetta?”.
“Elizaveta”.
“Elisaveta?”.
“Elizaveta”.
“Ah, ora ho capito e...”.
“Blavatsky”.
“Questo è troppo difficile”.
“Come?”.
“Ah, il mio cognome? Ciccarelli, Cic-ca-rel-li”.
“Cigamelli?”.
“Eh, più o meno!”.
Erano andati avanti a ridere come sciocchini, pur capendosi ben poco. Ma da lì la loro storia aveva preso il largo. S'erano scambiati i rispettivi indirizzi e numeri di telefono: così avevano proseguito per sei mesi prima di rivedersi di nuovo in quel di Omate, dove Domenico era stato assai lieto di poter ospitare quella che sarebbe diventata la sua sposa. Nel frattempo Elizaveta aveva compiuto il diciottesimo anno di età, evitando dispiaceri al partner che, alle prese con una minorenne, sarebbe potuto finire in un mare di guai. Già qualcuno aveva ironizzato con malignità sulla condotta del compaesano, benché fosse obiettivamente lontano da qualunque condotta illegale: sessualmente parlando i due si sarebbero concessi l'uno all'altro solo con la ragazza entrata ormai ufficialmente nella maggiore età; prima di allora ci sarebbe stato solo qualche sporadico e innocente bacetto. Il debutto era stato piuttosto precipitoso e imbarazzante. I genitori di Domenico erano in giro per Milano, amavano passeggiare per il capoluogo lombardo, rivendicando un affetto sincero che, nonostante gli anni, non era ancora appassito, ed Elizaveta era rimasta da sola in casa con Domenico concentrato su una partita di pallone in tv. La ragazza l'aveva raggiunto in sala completamente nuda e l'aveva affrontato con un sorriso imbronciato, dimostrando che, verosimilmente, non sarebbe voluta essere lì in quelle condizioni, se non per ringraziare a modo suo un uomo che, comunque si voglia vedere, l'aveva strappata dalla miseria. Domenico per poco non veniva meno. Più che dalle sue sinuose forme, però, era stato colpito dal candore della sua pelle, un candore che non aveva mai riscontrato sul corpo di una ragazza. Evidentemente era una prerogativa delle abitanti del nord est europeo. Ma si era ripreso velocemente, offrendo le sue braccia alla piccola, stringendola a sé prima di coricarsi con dolcezza sul divano; con l'acquolina. Elizaveta tremava. Per il freddo? Mah. Sennò cosa? Poi però era diventato tutto più chiaro, quando all'atto della penetrazione la ragazza aveva lanciato una specie di urlo, rivelando al cielo la sua illibatezza. Dopo aver fatto l'amore, Domenico non aveva saputo se ridere o piangere. Forse era stato troppo irruento. Forse avrebbe dovuto rimandare a un altro momento. Forse mille altre cose… Non l'avrebbe mai capito: Elizaveta era corsa in camera a rivestirsi, lasciando come un pesce fuor d'acqua l'amato. Ma ormai i giochi erano fatti. A tal punto era bastato davvero un niente per stabilire il convolo. Una parolina al posto giusto, al momento giusto e il matrimonio sarebbe divenuto realtà. Lui, d'altronde, non stava più nella pelle, desiderava sposarla con tutte le sue forze, da così tanto tempo digiuno di una ragazza che potesse sorridergli compiaciuta: dopo i fasti adolescenziali se l'era vista sempre piuttosto male e sembrava che i rapporti con l'altro sesso non fossero più una sua prerogativa. Peraltro quasi tutti i suoi coetanei erano ormai più o meno felicemente ammogliati e qualcuno aveva anche già messo al mondo un figlio. Lei gli aveva detto sì, ma da un'altra prospettiva, senza pensarci troppo, senza prendere troppo sul serio la faccenda, quasi fosse la triviale richiesta di un amico, concernente una serata da trascorrere al cinema o al luna-park. Ma un presupposto, per fortuna, c'era: era quello inerente Svitlana, che sembrava essere davvero felice dopo essersi accasata con un italiano. E c'era il fatto che amava a dismisura la moda del Belpaese, convincendosi che d'ora in poi si sarebbe vestita come Dio comanda, seguendo i diktat degli stilisti italiani, all'occidentale, dimenticando i fioroni vecchiardi delle sue parti, con cui venivano imbastiti foulard e gonnoni.
Sicché era stato tutto deciso, ma con un piccolo particolare: per via di complicatissime operazioni burocratiche sarebbe stato necessario che i due si sposassero in Ucraina e non in Italia, dove sarebbe stato più difficile sistemarsi. Poi sarebbero tornati insieme nel Belpaese per vivere la loro vita. Era una condizione legata anche alle rispettive religioni. Domenico era cattolico, Elizaveta ortodossa. Domenico, però, era quasi del tutto indifferente alle pratiche religiose del suo paese, era fondamentalmente un agnostico non-pensante, mentre per Elizaveta era necessario affidarsi a modo suo al Signore, per godere di certe grazie. Nello specifico si rifaceva alla chiesa ortodossa autocefala ucraiana, con riti non condivisi dalle altre liturgie. Le condizioni economiche di Domenico, però, non erano così floride da permettere la prenotazione di un aereo per due, così aveva pensato di raggiungere il granaio d'Europa con la sua macchinetta, una Fiat Ritmo dell'Ottanta, solo parzialmente conscio dell'enorme distanza che lo separava dalle pendici dell'amato Resegone. Era partito con un giorno di anticipo per avere la possibilità di visitare Budapest, che non aveva mai visto in vita sua, sì e no a metà strada del percorso prestabilito: Ternopil era la città che doveva raggiungere, una metropoli di cui non aveva mai sentito parlare prima di conoscere Elizaveta Blavatsky, non lontanissima dal confine ungherese, fondata nel 1540 e abitata perlopiù da polacchi ed ebrei. Peraltro gli avrebbe consentito di ricaricare le pile, sgranchire gambe e braccia, ridare fiato ai polmoni, dopo più di dodici ore di guida. Aveva pernottato per una sola notte in un ostello in via Rakoczi, uno stradone trafficato che tagliava in due Pest, la parte più moderna della metropoli. A riceverlo, una conturbante signora over quaranta, con un seno che protendeva senza inibizioni dalla camicetta mezzo sbottonata, sulla quale non aveva potuto non soffermarsi con piacere. Lei parlava fluidamente inglese, Domenico molto meno, ma in qualche modo era riuscito a farsi capire.
“Only one night, only one night. I'm from Italy, I'm from Italy…”, continuava a ripetere meccanicamente.
L'indomani, dopo una notte incredibilmente serena e riposante, aveva trascorso la giornata a spasso per le arterie e arteriole della capitale ungherese. La prima parte del dì l'aveva dedicata a Pest, la seconda a Buda. A Pest aveva percorso avanti e indietro via Rakoczi, raggiungendo il grande parco a nord della città, nei pressi della più antica linea europea della metropolitana, ancora abbellita coi gusti tipici dell'Ottocento austro-ungarico. C'era un vasto lago e diversi monumenti dei quali, però, non conosceva minimamente la storia e il significato. Non che gli importasse granché. Uno di essi, però, l'aveva rimandato all'iconografia del castello di Dracula, pagina dell'immaginario collettivo a lui tanto cara, dopo averla fatta sua in seguito a una lettura su Stoker. Era una specie di chiesa, caratterizzata da due mini-campanili appuntiti, che terminavano contrassegnati dalle riproduzioni marmoree di animali fantastici: era vagamente possibile discernere una specie di drago e un personaggio alquanto ambiguo, facilmente assimilabile a qualche malvagia creatura degli inferi. Da qui era scivolato in via Andrassy, fra le più nobili della capitale, circondata da eleganti case di fine diciannovesimo secolo, fronteggiate da giardinetti curatissimi e da alberi maestosi. Un signore malmesso gli aveva chiesto l'elemosina: se l'era trovato all'improvviso fra le braccia e per un breve istante aveva provato un senso di smarrimento. Poi gli aveva sganciato i pochi spiccioli che erano rimasti in tasca dopo aver consumato una sbrigativa colazione con una brioche farcita di wurstel.
La sponda destra del Danubio pullulava di vita. La strada che costeggiava il fiume era trafficata all'inverosimile. I negozi continuamente presi d'assalto da turisti in cerca di souvenir. Ormai la primavera aveva fatto capolino e il clima era dolce. Domenico se ne compiaceva provando un'atavica soddisfazione, aprendo senza imbarazzo la cerniera del giubbotto che lo proteggeva, e osservando con gusto infantile il sorvolare degli uccelli. Nei pressi di una breve rientranza dell'alveo aveva osservato due chiatte salpare colme di merci sigillate all'interno di misteriosi scatoloni di legno. Si era sforzato di capire cosa potessero contenere, ma senza giungere ad alcun risultato soddisfacente. Aveva pensato anche al traffico illegale di armi. Attraversato il famoso Ponte delle catene aveva conquistato i colori e le atmosfere fiammeggianti di Buda, un vero e proprio tuffo nel passato. Nel cuore antico della città aveva indagato dall'alto l'insediamento magiaro, rimirandone le guglie e il placido trascorrere del Danubio. Aveva pensato che non gli sarebbe dispiaciuto abitare a Budapest, sicuramente meglio di Omate; ci sarebbe potuto abitare, perché no, proprio con Elizaveta: non sarebbe stata una cattiva idea proporglielo al suo arrivo…
“Che ne diresti di trasferirci a Budapest?”, era una domanda che gli suonava già familiare come rispondere alle chiamate dei fornitori, che ogni tre per due lo tartassavano al suo posto di comando.
In fondo, dovevano costruirsi da zero, e un posto valeva l'altro. Di certo, però, sapeva che non gli sarebbe piaciuto abitare in una casa come quella dove viveva coi suoi, l'appartamento B del secondo piano dell'imponente palazzo omatese, prima del curvone per Caponago. Era un appartamento anonimo, le cui finestre davano su una strada grigia e insignificante. Al suo interno stava stretto, non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello spirituale. Benché non ne avesse mai avuto l'opportunità, avrebbe, infatti, da sempre voluto vivere in una casa con un po' di verde davanti, una dimora magari più brutta di quella che l'ospitava da parecchi anni, ma con almeno un piccolo giardino che potesse dargli respiro, coraggio, vincere l'ansia del dover ogni giorno recarsi a Milano, vinto da un pressante grigiore esistenziale. Amava i cani e non gli sarebbe dispiaciuto curarne uno, da lasciar libero di muoversi all'interno di una macchia verde personale. Era stato assalito da una vaga malinconia, in concomitanza con un colpo di vento più acceso degli altri; trovandosi a ragionare sulla sua vita, sui suoi traguardi, e sul fatto che, in effetti, si sarebbe aspettato qualcosa di più dai suoi sogni adolescenziali. Da piccolo, dopo la breve e affascinante parentesi dedicata all'idea di diventare un esperto benzinaio, s'era, infatti, immaginato un personaggio importante, pieno di soldi e, perché no, di donne adoranti pronte a soddisfare ogni suo desiderio. Ma le cose, evidentemente, erano andate in tutt'altro modo. L'esperienza liceale era naufragata pochi mesi dopo il debutto all'omni-comprensivo di Vimercate: non capiva la necessità di dedicare così tante ore allo studio, quando c'erano modi che parevano ben più immediati di portare a casa la pagnotta. Il primo impiego l'aveva assolto come garzone presso un meccanico di Vignate. Ma non era durato più di due settimane. La sua tragicomica abdicazione, però, non era sopraggiunta per la fatica fisica inerente il trasporto di pneumatici e radiatori, e l'avvitamento di bulloni induriti dalla ruggine inutilmente impiastrati di grasso, ma per lo stress di dover percorrere ogni giorno quindici chilometri per raggiungere l'officina, che diventavano trenta, considerato il rientro a casa. Da lì era iniziato un calvario professionale che l'avrebbe accompagnato fino all'alba dei trent'anni, con la conquista del posto di centralinista alla Bovisa, dove, perlomeno, non c'era da spezzarsi la schiena. Inoltre non era più felice dei suoi rapporti interpersonali, rapporti che, francamente, non esistevano da anni. Aveva un amico intimo fino al 1983, col quale passava le serate in un bar di Vimercate a bere birra e a fumare, ma poi il tipo era scomparso dall'oggi al domani senza dargli alcuna spiegazione. Non aveva più amici e tantomeno donne a portata di mano, e questa situazione lo faceva stare male. Aveva un desiderio ben preciso: mettere su famiglia. Ma con chi? Poi era partito con una serie di domande auto-accusatorie. Dove sbagliava? Forse era perché raccontava troppe balle, come qualcuno sosteneva? Balle che servivano, o almeno uno psicologo avrebbe creduto potessero servire, per darsi un po' di tono? Mistero. Tuttavia con l'arrivo di Elizaveta tutto era cambiato, aveva ritrovato il sorriso e la fiducia in sé: finalmente c'era qualcuno disposto ad amarlo e di cui prendersi cura.
Verso sera, ormai stanco di sgattaiolare fra un vicolo e l'altro di Buda, s'era rifugiato in un pub nei pressi del Parlamento. Era un locale minuto, con un arredamento che richiamava più design irlandesi o scozzesi, che non magiari. Al suo interno le pareti erano addobbate di immagini di musicisti heavy metal, completamente sconosciuti a Domenico, che, in ogni caso, non provava alcun interesse per l'universo delle sette note. Sul genere, però, non si poteva proprio sbagliare: che altro avrebbero potuto suonare individui con i capelli lunghi fino al sedere, la cicca in bocca, il giubbotto di pelle nero, catene e catenelle con croci e crocette? Gli erano venuti in mente i Kiss, di cui gli piaceva una canzone, che riusciva ancora a canticchiare come un beota sotto la doccia: Beth. Una foto, in particolare, era riuscita a catturare più delle altre la sua attenzione: era quella raffigurante il proprietario del bar - che aveva intuito chi fosse, per l'aria da bullo che lo contraddistingueva aggirandosi per i tavoli del locale, regalando a destra e a manca pacche sulle spalle - che rideva come un quacchero unto dallo spirito santo, davanti a una donna con due mastodontiche tette al vento. Accomodatosi su un tavolino tondo, proprio sotto la foto osé, aveva preso a sfogliare il menù, deciso a ordinare qualcosa da mangiare: lo stomaco già da qualche ora brontolava ed era, peraltro, necessario rifocillarsi come si deve per intraprendere, l'indomani, la parte finale del viaggio, forse quella più dura, lungo le strade meno agevoli. A mezzogiorno era stato un po' leggero, un sandwich al volo, e via.
Zuppa di fagioli alla Jókai, pollo alla paprica con cavoli ripieni e latte di uccello, era stato il felice esito della nuova ricerca, benché non avesse ben chiaro in mente ciò che aveva letto e quindi il tipo di piatti che gli sarebbero spettati. Dalla posizione scelta poteva vedere la tv, appesa con due sbarre metalliche al soffitto: non gli importava granché, ma così, magari, avrebbe passato meglio il tempo fra un morso e l'altro. Sicché era da poco arrivata la zuppa, quando la sala, all'improvviso, aveva smesso di fiatare e tutti, compreso il ridanciano boss, s'erano messi a fissare il tubo catodico, come se avessero davanti un extraterrestre. Domenico lì per lì non ci aveva dato troppo peso, poi, però, verificando un'attenzione dei presenti alle news a dir poco maniacale, s'era domandato se per caso non fosse accaduto qualcosa di eccezionale in qualche parte del mondo. Non capendo un'acca di ungherese e non avendo amici a cui chiedere, poteva solo affidarsi alle immagini: vedeva uno speaker che con grande enfasi raccontava un qualcosa di impossibile da comprendere, con lo sfondo la silhouette malconcia di una specie di grossa industria. Domenico non capiva proprio di cosa potesse trattarsi: osservava un torrione bislungo, colorato a strisce bianche e rosse, orizzontali, circondato da parallelepipedi in cemento dall'aria spettrale, con minuscole finestrelle. Poi era comparsa l'immagine di un trifoglio nero su fondo giallo, simile a quello che sapeva riferirsi ai rifugi antinucleari della Difesa Civile statunitense, dopo aver visto un documentario di Quark che parlava dell'ipotesi di un terzo conflitto mondiale. Così s'era reso conto che il problema potesse concernere un evento di natura nucleare. Una guerra? Un bombardamento? Un attacco alieno? Niente di tutto ciò… All'improvviso il tipo che stava seduto di fianco al suo tavolo s'era alzato di scatto, riguadagnando l'uscita a gran velocità, presto imitato da un paio di altri commensali. A Domenico era parsa una situazione assurda e surreale. Poi l'inserviente gli si era fatto vicino con le guance paonazze, rincarando la dose:
Domenico era in seria defaillance. Sembrava che fossero tutti impazziti. Poi, foturnatamente, era comparsa sullo schermo una cartina geografica che per qualche secondo aveva preso il posto della foto-immagine del fantomatico impianto energetico, al centro del clamore suscitato: la cartina raffigurava chiaramente la distanza che separava Budapest da una cittadina sul confine fra Bielorussia e Ucraina, a uno sputo dalla sua destinazione, dove Elizaveta lo stava attendendo a braccia spalancate. Ternopil era a occhio e croce a cinquecento chilometri dal luogo menzionato dallo speaker televisivo, una distanza assai esigua se considerata in merito a sostanze che si propagano nell'aria seguendo i capricci atmosferici. Sostanze come i veleni radioattivi.
“There was a nuclear accident a few miles from here! Should immediately run for cover!”.
L'allarme, in questo caso, era stato sollevato da un tale con la testa pelata, che cercava di spiegare a qualcuno al telefono quel che stava accadendo. Domenico era riuscito solo a comprendere “nuclear accident”, ma probabilmente gli era bastato. All'improvviso la fame se n'era andata: la zuppa di fagioli alla Jókai non era male, ma adesso aveva una specie di groppo alla gola che gli rendeva difficoltosa qualunque deglutizione, compresa quella di un sorso d'acqua, che fino a pochi secondi prima rincorreva come un beduino del Sahara. L'inglese aveva riattaccato, così gli era venuto in mente che, anche lui, avrebbe potuto chiamare casa per avere qualche delucidazione in più, magari s'erano fatti tutti un mega film, e non c'era nulla di cui preoccuparsi. Magari era in corso il finimondo e lui non era al corrente. Tutto era possibile, non restava che indagare. Anche per capire cosa avrebbe dovuto fare. Cosa avrebbe dovuto pensare legittimamente… Al primo tentativo di mettersi in contatto con l'Italia il telefono era risultato occupato. Poi aveva risposto la madre, incollata alla tv col marito e la madre di Giulio Sangalli del primo piano, che aveva fatto un salto fin lì per risolvere una piccola questione sui turni legati allo smaltimento della spazzatura condominiale: qualcuno aveva saltato il servizio e l'immondizia cominciava a rilasciare effluvi nauseabondi che inondavano i piani bassi.
“Ciao mamma...”.
Ma la signora non aveva fatto finire la frase al proprio figliolo, che l'aveva immediatamente subissato di domande.
“Domenico! Cosa fai? Dove sei?”.
E immediatamente dopo d'ordini e raccomandazioni.
“Vieni subito a casa! C'è stato un grave incidente nucleare a pochi chilometri dalla casa di Elizaveta e ora le onde radioattive si stanno propagando per tutta l'Europa! Non hai idea di quello che stanno raccontando al telegiornale. La situazione è terribilmente seria: io e papà siamo molto preoccupati. Devi assolutamente scappare, se non vuoi che...”.
Poi era caduta la linea. Definitivamente. Domenico aveva cercato di rimettersi in contatto con i familiari, per avere qualche informazione più dettagliata, e non meno per cercare in qualche modo di sedare l'ansia della madre, ma senza esito: il telefono sembrava essere andato in tilt e il padrone del pub lo guardava in cagnesco, sollecitandolo a darsi una mossa, che ora toccava a lui. Tuttavia erano bastate quelle poche parole di colei che l'aveva messo al mondo a offrirgli un quadro quantomeno approssimativo della faccenda: era saltato all'aria qualcosa di grosso (forse una centrale nucleare? Ma cos'era una centrale nucleare?) e ora il mondo intero rischiava di finire contaminato da micidiali onde radioattive.
“Le spore radioattive? No, queste non credo che c'entrino”, mugugnava fra sé, masticando con rabbia il pollice della mano destra, e riflettendo su un lemma che gli si era imposto apparentemente senza motivo nella sua mente febbricitante.
Doveva, in ogni caso, essere accaduto qualcosa di veramente importante; solo così, infatti, riusciva a razionalizzare l'atteggiamento di tutti coloro che s'erano trovati con lui in quel budello di Budapest, con il naso all'aria in attesa di mettere qualcosa sotto i denti. Il loro panico, la loro incredulità, non erano quelli che scaturivano per qualcosa di banale e risaputo. Al di là della teatralità della madre, una certa idea di finimondo doveva e poteva essere dietro l'angolo. Eppure, in strada, questa sensazione di sgomento non pareva sussistere, tanto che, dopo aver percorso pochi passi, gli era tornata la fame. In strada sembrava tutto normale, come se nessuno sapesse nulla, o come se, in realtà, non stesse accadendo alcunché di ciò che pareva profilarsi. La scenografia urbana non era diversa da tutti gli altri giorni, che Domenico non conosceva, ma poteva benissimo sospettare. C'era il solito traffico, le solite luci delle insegne commerciali, dei semafori, il via vai trafelato delle persone, qualche bicicletta, qualche cagnolino affamato che si aggirava nei pressi di un cestino che strabordava di immondizia. A questo punto, però, gli era sorta una giustificatissima domanda. Cosa doveva fare? Proseguire o tornarsene sui suoi passi? A cosa sarebbe andato incontro proseguendo? E rinunciando al proposito di vincere i confini dell'Ungheria per tuffarsi nel calderone ucraino? Se le sue intuizioni erano giuste - e di margini di errore, a onor del vero, a questo punto, ce n'erano ben pochi – osservando il percorso prestabilito, ossia dirigendosi verso i confini incriminati, verso l'amore della sua vita, sarebbe finito diritto nelle fauci del leone: il veleno radioattivo proveniva da est, proprio verso la direzione che intendeva intraprendere. Per sfuggire alle “spore nucleari” c'era, dunque, un solo modo: dirigersi dalla parte opposta, verso ovest, in pratica verso le arterie stradali appena percorse, in subliminale collegamento con Omate, l'amata e odiata terra natia. Ma era questo ciò che voleva? Più no, che sì…
Muovendosi a piedi verso l'ostello di via Rakoczi, presso il quale doveva passare la notte, rimuginava su ciò, in attesa di una definitiva rivelazione. C'era un lieve venticello che gli accarezzava le gote regalandogli un piacevole sollievo, le luci degli appartamenti che si affacciavano sulla via, ben più forti del luccichio di una luna piena appollaiata poco sopra l'orizzonte… E se il pallore del satellite fosse dovuto alle radiazioni? Al trifoglio giallo?
“Oddio”.
All'incrocio con via Klauzal aveva, in ogni caso, già trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Sul muro scrostato di un portico c'era un cartellone raffigurante una giovane coppia a spasso con due piccole creature, una bimba biondissima, coi boccoloni, e un bimbo altrettanto biondo, ma liscio, con un ciuffo che gli ricopriva l'occhio destro, rimandandolo a certi eroi dei cartoni animati giapponesi. Fermatosi a osservarlo, mosso da un entusiasmo abbacinante, aveva pensato potesse essere un segno del destino. E s'era rimproverato di aver anche solo ipotizzato per un attimo di fare retrofront. Retrofront per dove? Per una vita indegna di essere vissuta? Per una vita vuota come quella che aveva vissuto fino a quel momento? Senza amore, senza passione, senza... Ora, per fortuna, era tutto più chiaro, lampante. Il suo domani, la sua Elizaveta era a est, nel cuore dell'inferno radioattivo. E dunque era lì che sarebbe andato, anche a costo di... di rimetterci le penne. In tal caso ce le avrebbe rimesse con il suo futuro, con la sua speranza, con la sua gioia di vivere, con colei con la quale aveva deciso di trascorrere il domani: ne sarebbe sicuramente valsa la pena.
Il vento s'era ulteriormente alzato, sospinto da un'energia misteriosa, forse “nucleare”, ma Domenico era già altrove, colto da una crescente euforia. Erano bastati pochi passi all'aria aperta per fargli tornare tutto, contro ogni sana e consapevole prospettiva esistenziale, e le preoccupazioni lontane dei genitori, le uniche due persone al mondo, comunque, ad amarlo veramente.
"Ma la vita è così che va vissuta", aveva blaterato a voce alta, convincendosi definitivamente della sciagurata scelta fatta. "Guardando avanti e non indietro, guardando al coraggio di credere in qualcosa di vero e importante, e di voler giocare anche le poche carte che si hanno a disposizione pur di ottenere il risultato sperato. La nostalgia, il passato, l'amore per chi ci ha messo al mondo, sono tutte cose belle, ma da prendere con le pinze; sono aspetti che possono ingannare, rendendoci pusillanimi, rinunciatari, debolmente inutili…". È a questo che era arrivato Domenico Ciccarelli con la notte di Budapest ormai spuntata, un monito che non lasciava dubbi: all'alba del giorno dopo sarebbe, infatti, partito per correre dal suo domani.
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