domenica 27 novembre 2011

Affari condominiali: secondo piano, appartamento C


Beh, sì, tutto sommato non gli dispiaceva. Anzi. Si potrebbe tranquillamente dire che gli piacesse, con quel fare riservato, la corporatura minuta, i suoi silenzi meditabondi e la sua area da santerellina. Non le aveva mai parlato, però, e di lei non sapeva nulla, sennonché abitasse al primo piano, di fianco ai Sangalli, in un appartamento che pensava curato nei minimi particolari, con tanti gingilli e coloratissime scematine di donne mai cresciute veramente. Tuttavia sapeva bene il suo nome: Cinzia Gariboldi. Un nome e cognome che volente o nolente lo rimandava al grande condottiero che guidò l'unità nazionale, un'unità nella quale credeva con tutto se stesso, benché sapesse che l'argomento interessava a pochissimi, così terribilmente anacronistico e fuori moda. Si portava dentro questo piccolo grande tarlo, senza aver mai avuto il coraggio di confidarlo a chicchessia. A chi, poi? I genitori non li aveva più da una decina d'anni e l'unico fratello rimastogli, il più piccolo della famiglia, era da almeno tre anni che non lo vedeva, essendosi trasferito a Miami, al seguito di un improbabile lavoro e di una sedicente biondona che impazziva per il suo umorismo trash. L'ultima volta l'aveva sentito per via di una missiva ricevuta in occasione del Natale più recente: diceva che stava diventando ricco, dopo aver rilevato un locale nei pressi di Miami Springs. Era felicissimo della scelta fatta, di lasciare un paese dove le prospettive nel campo della ristorazione non valevano granché.
“Ciao fratellone, vieni presto a trovarmi, qua la vita è tutta un'altra cosa: si guadagna che è un piacere e ci sono donne da capogiro. Ti voglio bene fratellone”, chiudeva l'esuberante parente.
Gli amici, i colleghi... ma quali amici e colleghi? Non è che avesse tutte queste grandi amicizie; le ultime vere risalivano alle scuole medie, e ora, in ogni caso, non avrebbe saputo dove andarle a ripescare. C'era stato Massimiliano Baresi col quale si divertiva a girare la Brianza in bicicletta, avanti e indietro lungo lo stradone che unisce Vimercate a Trezzo, ma l'aveva perso di vista subito dopo gli anni del liceo. Forse s'era addirittura trasferito in un'altra regione: i suoi venivano dalla Puglia, e da sempre desideravano tornare al paese natio. Mentre i colleghi, in fondo, non erano dei veri colleghi, ma subalterni molto più giovani di lui, addestrati a obbedirgli senza fare tante storie. Lavorava con molti di essi gomito a gomito, ma non s'era mai preso la briga di rivelare qualche suo intendimento, interesse, volontà, che non riguardasse aspetti legati alla professione. C'era solo Luca Pirovano, quarantenne dall'aria sorniona, al quale, una volta, aveva confidato di soffrire da un po' di tempo di bruciore allo stomaco, probabilmente frutto dello stress. Era una mattina in cui il malessere s'era accentuato a tal punto da fargli abbandonare la postazione di lavoro per rincasare e infilarsi sotto le coperte in attesa di un miglioramento sostanziale che non sarebbe sopraggiunto prima di un paio di giorni. Avrebbe potuto inventare una balla qualsiasi, ma alla fine aveva preferito dire la verità, mostrandosi per un attimo umano come tutti. Con gli altri, al massimo, arrivava a chiacchierare di sport, specie il lunedì mattina, all'indomani dei risultati domenicali. Lui era un milanista convinto; convinto soprattutto del fatto che la propria squadra del cuore, dopo anni di oblio (nell'82 era in serie B), avrebbe presto trionfato in Italia e nel mondo. In realtà, era soprattutto una speranza, la sua speranza. Il 21 febbraio, un paio di mesi prima del patatrac di Chernobyl, un tal Silvio Berlusconi aveva acquistato il club, spendendo parole di grande entusiasmo:
“Dobbiamo diventare la squadra più forte del mondo, con un gioco spettacolare”, diceva il misterioso imprenditore.
Non si sbagliava: sarebbero, infatti, arrivati presto nuovi acquisti, grandi campioni, di nome e di fatto, tali da ridare lustro al vecchio e compassato Milan: figure come Donadoni, Van Basten, Gullit, guidati dall'allenatore più innovativo di tutti, Mr. Arrigo Sacchi. Preludio a un successo calcistico dopo l'altro, culminato con le due Coppe Campioni, vinte sul finire degli anni Ottanta e dal ritorno al trionfo in campionato. In seguito, però, non avrebbe gradito più di tanto il presidente del Milan, per via delle sue posizioni politiche e per l'amicizia che nutriva per Craxi, un socialista che non aveva mai amato, e fondamentalmente lontano dalla sua filosofia di pensiero. Lui, in buona sostanza, era un comunista vecchia maniera, fino a pochi anni prima decisamente a favore di qualunque iniziativa puramente marxista-leninista. Solo negli ultimi anni s'era un poco addolcito, simpatizzando addirittura per qualche democristiano. A Milano negli anni Settanta aveva perfino appoggiato movimenti come Avanguardia operaia. Si ritrovava in zona Città Studi, centro operativo dell'associazione, in corrispondenza delle facoltà di medicina e agraria e con altri soci spendeva parole ed energie per una lotta attiva al sistema e ben poco coscienziosa. Lui era uno dei responsabili del volantinaggio. E uno dei pochi a sapere gestire adeguatamente l'umida copisteria dove venivano prodotti i manifesti da affiggere ai muri, nello scantinato di un laboratorio di fisica, tappezzato di muffe e tubi delle acque di scarico. Tirava spesso l'alba con i suoi lavori, convinto di una rivoluzione che avrebbe cambiato le sorti del pianeta. Il 13 marzo 1975 era in casa a sorseggiare un vinello appena acquistato in un'enoteca di recente apertura nel cuore di Missaglia, in piena Brianza lecchese, ma sapeva bene chi erano coloro che avevano appena fracassato il cranio di Sergio Ramelli, studente di destra di diciotto anni: con uno di loro era andato in vacanza l'anno prima in Croazia e con un altro aveva deciso di farsi crescere la barba in onore dei grandi capi del comunismo sovietico.
La scrivania di Daniele Bettini era staccata da tutte le altre, perciò poteva comodamente isolarsi dal mondo e farsi gli affaracci suoi. Guidava una rivista di politica estera, dedicata ai paesi europei. Il suo interesse era rivolto soprattutto ai paesi dell'est Europa, soggetti all'egemonia di sinistra. All'inizio del 1986 c'erano state un bel po' di faccende che lo avevano impensierito non poco. In Jugoslavia era cominciata una grossa crisi economica che aveva portato la nazione ad avere l'inflazione più alta d'Europa; negli ultimi tre anni il potere di acquisto dei salari era calato del 18%. Gli operai erano sul lastrico, molte famiglie facevano fatica ad arrivare a fine mese. Le cose erano iniziate a cambiare sensibilmente con la morte di Tito nel 1980. Con la fine del capo supremo tutte le magagne tenute per anni nascoste erano emerse in tutto il loro splendore, mostrando un paese che in realtà non era un paese, ma l'accozzaglia di tante individualità regionali, rappresentate da etnie fra loro sconosciute e in perenne conflitto. In pratica Tito, nel bene e nel male, aveva tenuto insieme un paese che era vivo solo sulla carta geografica. Ma sotto era un tormento d'idee, tradizioni, convinzioni, che s'accordavano fra loro come l'acqua e il fuoco. L'argomento lo assillava, così come lo assillava il tema inerente il recentissimo attentato terroristico verificatosi a Berlino, costato la vita a tre persone e causa di duecento feriti. A Berlino, peraltro, c'era stato da poco, per qualche giorno di vacanza, fantasticando sull'omonimo Muro e sulla Cortina di ferro. In Italia, invece, era alle prese con la faccenda di Sindona, morto avvelenato dopo aver sorseggiato un caffè al cianuro. Chi gli aveva consegnato il veleno? E in che modo si sarebbe messo in moto il meccanismo istituzionale per consentirgli l'estradizione negli USA? Il mondo era in subbuglio, si profilava una svolta, e tutte queste vicende lo dimostravano; ne era straconvinto. Un pensiero che arrivava a tenergli testa anche la sera prima di coricarsi. I totalitarismi cominciavano a suonare anacronistici come l'unità d'Italia, ma a lui, evidentemente, erano proprio gli stessi anacronismi a conferirgli nuova linfa per proseguire felicemente nel suo lavoro.
“Presto il comunismo si estinguerà come una bolla di sapone”, aveva iniziato a dire, prevedendo la fine imminente dell'URSS, innescata da nuovi movimenti sociali dal suono quantomeno raccapricciante come glasnost; sembrava la marca di una nuova lega metallica, qualcosa che avrebbe trasformato l'acciaio in un materiale ancora più resistente.  
In parte, però, la difficoltà ad aprirsi al prossimo, l'imputava all'età. A gennaio era entrato nei cinquanta e si sentiva pressoché estraneo alla consuetudine tipicamente umana di confrontarsi con gli altri, rendendo note le proprie esperienze di vita e le proprie vicissitudini; benché riconoscesse nel dialogo e nel concetto di reciprocità, capisaldi su cui basare un corretto rapporto fra persone; fra persone civili. Nei momenti di maggiore disillusione si guardava allo specchio, stuzzicandosi il pizzetto e chiedendosi, in fondo, a cosa servisse parlare, considerato che, oggettivamente, nel novanta percento dei casi non si fa che raccontarsi frottole o baggianate. All'improvviso tutto gli era diventato superfluo, inutile e scontato. Per la prima volta in vita sua sentiva il peso degli anni; o della maturità, astrusa nozione di cui aveva sentito parlare fin dalla prima superiore. Percepiva un senso di smarrimento, legato alla consapevolezza che i sogni non esistono, né domani diversi, pieni di luce e speranze. La vita vera… era quella delle disillusioni. Era tutto un bluff. Anche la sua intramontabile fiducia nella lotta politica era completamente svanita, in favore di uno sbiadito “viversi addosso”. Le cose, insomma, andavano come dovevano andare, con o senza bombe molotov: era il destino a governare la vita degli uomini e qualunque proposta o lampo geniale, in questo o quell'altro ambito, sarebbero stati vani. Era diventato terribilmente fatalista.
Era nato nel 1936 in una cascina del novarese, una struttura risalente al Settecento, costruita a sua volta su un edificio di stampo medievale, forse utilizzato da qualche corporazione ecclesiale. Sembravano passati millenni da allora. Tutto s'era trasformato con una velocità inaudita. C'erano i servizi igienici all'esterno delle case, e d'inverno, era assai dura per le natiche. Si andava in bagno solo nei momenti di estrema necessità. L'acqua potabile veniva recuperata da un pozzo profondo una quarantina di metri, servendosi di una carrucola che anni prima aveva quasi causato la morte di un'anziana, che non era stata capace di controbilanciare il peso del secchio colmo della preziosa materia prima. Anche col mangiare non c'era da stare allegri. Se si escludono gli ortaggi dell'orto e la frutta degli alberi che crescevano spontanei nella rigogliosa tenuta, bisognava accontentarsi di quello che passava il convento. Daniele si può dire che fosse cresciuto a pane e burro, raramente poteva beneficiare della carne, che abbondava solo all'indomani di qualche macellazione. Tuttavia aveva avuto un'infanzia serena, benché governata dall'atteggiamento severo di entrambi i genitori che, sicuramente senza volerlo, avevano fatto di lui un soggetto taciturno, introverso e riflessivo. Un atteggiamento che aveva mantenuto anche durante l'età adulta, al punto che qualcuno aveva presto iniziato a dubitare della sua serenità interiore. Ma non era così. A modo suo Bettini amava la vita, ma più che viverla di petto, sembrava preferisse osservarla, partecipando un po' di nascosto agli eventi e agli scombussolamenti del quotidiano. Era un tipo silenzioso. Semplicemente un tipo al quale la cagnara non era congegnale. C'era, però, un retroscena sociale che rabbuiava le sue miti intenzioni, ed era quello relativo al fatto che, anche sforzandosi, non comprendeva l'ostentata vivacità di molti suoi simili, che credeva stupidi, come bambini infantili che si infervorano per quisquilie. Ma in fondo poteva essere perché invidiava chi era capace di gioire, appassionarsi, ardire per un progetto, pur banale che fosse. Era, dunque, soprattutto per questa attitudine seriosa, che non aveva mai trovato il coraggio di farsi avanti con Cinzia, né, del resto, con le altre donne venute prima di lei; la Gariboldi di anni ne aveva dieci in meno, avrebbero potuto formare una coppia ideale, ma lui, al solo pensiero, benché stimolante sotto vari aspetti, rabbrividiva di angoscia. Pensava che, nel caso di un incontro formale, non avrebbe saputo come comportarsi, cosa dirle, come invitarla per un appuntamento successivo. Non aveva mai dormito in vita sua con un'altra persona. Anche quando da piccino veniva spedito in una colonia sull'Adriatico, viveva come una specie di eremita, isolato dai coetanei, felici quantomai di prenderlo per i fondelli, per la sua ritrosia nei confronti del mondo. Dormire con un'altra persona? Era un concetto che gli sfuggiva. Pensava, peraltro, come pensavano nell'antichità, che a due corpi non convenisse riposare sullo stesso giaciglio, fra le stesse lenzuola, previo il rischio di beccarsi assurde malattie. Si credeva in fantomatiche spore che potessero veicolare veleni e altre scelleratezze microscopiche. Pura fantasia, ma lui, nonostante l'immensa cultura che lo contraddistingueva, seppur conscio della sua irrazionalità, credeva ancora in queste sinistre panzanate. Per fortuna l'aspetto sessuale non era mai stato per lui prioritario. Parrà strano per un uomo normale, con tutti gli attributi al loro posto, ma in questo senso non aveva particolari esigenze, poteva tranquillamente vivere senza fare l'amore, senza il bisogno di sfogare la sua carica testosteronica. S'era documentato sulla faccenda arrivando a supporre che potesse rientrare in quella rara categoria di persone definita col termine di asessuali. Ora sapeva bene che non si trattava di una brutta parola, ma semplicemente dell'originale peculiarità di chi non ambisce ad avere rapporti sessuali, per il semplice fatto che non ne sente il bisogno. Non era, dunque, una questione legata alla volontà di astenersi sessualmente per via di precise convinzioni religiose o psicologiche, tipiche per esempio dei sacerdoti e delle suore. Molto più banalmente in lui aveva il sopravvento un triviale, per quanto incomprensibile, disinteresse per tutto ciò che riguardava il dio sesso. Approfondendo la questione era poi arrivato a scoprire che anche nel regno animale esiste un fenomeno simile, tale per cui, maschi di specie diverse come pecore, topi e criceti, in una discreta percentuale di casi sono completamente indifferenti all'accoppiamento. Una tara evolutiva? Forse.
Sicché, al momento dell'esplosione del reattore di Chernobyl, Daniele Bettini era affossato nella sua poltrona preferita, sulla quale si accomodava tutte le sere, dopo aver cenato, per seguire il telegiornale con il massimo coinvolgimento. Non era la più bella poltrona della casa, ma era quella sulla quale stava più comodo, lambendo i confini metafisici del feticismo. Faceva parte del suo lavoro informarsi; tuttavia amava questa ricorrenza quotidiana soprattutto perché gli sembrava quella in cui riusciva a sentirsi più a suo agio, che lo faceva stare più tranquillo, in pace con se stesso, forse per via della mancanza di relazioni con gli altri, che gli creavano sempre un po' di ansia. Rincasando non aveva incrociato nessuno, tantomeno Cinzia. La cosa, in realtà, non l'aveva stupito più di tanto: s'incontravano di rado, e quelle rare volte che accadeva, si comportava come un burbero contadino dell'Ottocento, tenendo la testa bassa e riuscendo a salutarla a malapena. Così Cinzia non poteva che considerarlo un selvaggio zoticone, col quale non avrebbe speso nemmeno un minuto del suo tempo. Con la notizia dipanata dallo speaker, però, non s'era meravigliato granché. Nonostante il terribile susseguirsi di aggiornamenti sensazionali, non si era scomposto più di tanto. Sarebbe stato lo stesso se lo speaker fosse stato alle prese con una notizia gossippara. Era patologicamente monotematico, interessandogli solo la politica, tutto il resto, fosse anche la più grande catastrofe umanitaria, non lo stuzzicava minimamente. Era anche per via del suo cinismo. Del suo essere, una specie di non-uomo, con la puzza sotto il naso. Era scoppiato un reattore in Ucraina, e allora? Chissà quanti reattori scoppiano nel mondo senza che se ne sappia niente. La Francia è piena di reattori, e anche noi ce ne abbiamo uno vicino, nel piacentino. E, in ogni caso, l'intero mondo, domani, ne sarà pieno. Questa era la sua sentenza.
“Dobbiamo imparare a diffidare di tutte le stronzate che spara la televisione”, aveva più volte ripetuto ai suoi giornalisti; un giorno che era di luna buona e si sentiva particolarmente loquace.
Insomma, non aveva minimamente dato peso al problema (come non avrebbe dato peso al fatto che da un momento all'altro potesse saltare all'aria la vicina SGS) e durante l'intero servizio dedicato al disastro - e precedente, dunque, le consuete notizie politiche ed economiche, a cui non avrebbe mai rinunciato - s'era eclissato, ripensando a uno dei pochi giorni della sua vita trascorsi da solo con suo padre. Uno dei giorni che ricordava con più piacere e nostalgia.  
Erano gli ultimi giorni di agosto. Aveva da poco compiuto quindici anni e si trovava in vacanza con i genitori e il fratello, presso un'isolata località delle Alpi bellunesi. Le Dolomiti bellunesi non godevano di grande fama, ma erano fra le più belle delle Alpi orientali. Il padre di Daniele le aveva scoperte una ventina di anni prima, nel corso di una visita a un collega di lavoro, originario di quelle parti. Avevano trascorso la mattinata e il primo pomeriggio sdraiati fra i prati di Madonnina, radura a circa 1200 metri di altezza, una meta fra le più gettonate della zona. Mamma e papà si erano dedicati alla lettura – la madre era alle prese con un magazine femminile, il padre con un libro di Tolstoj che tentava di finire da vari mesi - lui alla costruzione di casette di legno, utilizzando rametti e schegge di ardesia; s'era da tempo impratichito in questo diletto, ereditato dal nonno paterno, da sempre affascinato dalle scienze delle costruzioni, benché fosse un umile muratore. Gli aveva dato una mano il fratello, obbligato dal capomastro a ripetute ricognizioni fra gli alberi vicini, in cerca dei rametti più idonei al completamento dell'opera architettonica. Verso le 15.00, però, aveva preferito staccare e andare a fare un giretto. C'erano un mucchio di passeggiate che potevano essere intraprese, pellegrinaggi di pochi minuti, ma anche di ore e ore; alcune delle quali non proprio alla portata di tutti: in zona si potevano, infatti, affrontare anche varie ferrate, e raggiungere cime di diversa natura, alcune decisamente solitarie e impervie. Daniele ne aveva scelta una non tanto difficile, ma piuttosto lunghetta, percorribile anche in seggiovia; in ogni caso, non era intenzionato a raggiungere la meta, ma solo instradarsi per un po' prima di tornare all'ovile, una volta sopraggiunta la stanchezza.
“Ti scoccia se vengo anch'io?", gli aveva chiesto il padre, stanco di leggere il Grande russo.
Daniele era sceso dal pero. Non era tipico di suo padre farsi avanti per accompagnarlo da qualche parte. Dacché era venuto al mondo erano state assai rare le occasioni in cui l'aveva affiancato per compiere qualche giro o commissione. Era sempre la madre a farsi carico di ciò: il primo giorno di scuola, la prima lezione di nuoto, le prime partite di pallone all'oratorio… A onor del vero, ora che era cresciuto, nemmeno lei si scomodava più di tanto. Ma al ragazzo andava bene così. Con il padre – e un poco anche con la madre - provava sempre un vago senso di soggezione. Si sentiva inibito dalla loro presenza. Quando doveva fare qualcosa con amici e compagni, pregava, addirittura, perché non ci fosse di mezzo qualche parente che lo osservasse; sennò andava in tilt, perdeva la forza d'animo, temendo il rischio di sfigurare. Poteva al massimo essere uno zio, un nonno, ma non un genitore… Era forse per la paura di sbagliare, di subire un rimprovero, di non rispondere alle aspettative di coloro che l'avevano messo al mondo. Mah. Capiva, in ogni caso, nonostante la tenera età, che ciò potesse dipendere anche da sé, da qualche sua turba interiore; dal fatto di non essere riuscito a risolvere alcuni complessi emozionali, circoscrivendoli ad amici immaginari o progetti fantastici. Amava, infatti, fantasticare a più non posso, vestendo frequentemente i panni di personaggi inesistenti, dotati di super poteri. Poteva essere anche dovuto alla sua oggettiva mancanza di empatia, tale per cui non riusciva a comprendere fino in fondo le espressioni dei genitori, arrivando, per esempio, a confondere un sorriso, con un pianto liberatorio. Un po' come accade ai bimbi sofferenti di particolari sindromi comportamentali, individui che riescono perfettamente a parlare e a farsi strada nel mondo, anche se con qualche difficoltà e qualche sofferenza in più. Intuiva, comunque, che certe incongruenze affettive poi si sarebbero dovute pagare e che anche da grande sarebbero tornate a battere cassa. Per certi veri era dunque un ragazzo molto più maturo e serioso rispetto ai coetanei, con un'attitudine alle rimuginazioni molto più spiccata. Daniele aveva, pertanto, risposto al genitore con un filo di voce, come quando si risponde a un burbero maestro, percependo l'assurdo timore di non trovarsi più a suo agio, in un'azione che avrebbe voluto affrontare in solitaria, in completa disinvoltura e serenità.
“No, vieni pure”.
Era una giornata stupenda. Di quelle che in montagna accadono come è frequente un acquazzone in pieno deserto. Dalla mattina non s'era ancora vista mezza nuvola, il sole aveva brillato intensamente per tutta la giornata, illuminando e riscaldando angoli alpestri a dir poco idilliaci: le cime dei larici, i capolini delle scabiose, i tetti aguzzi di casupole per raccogliere il fieno… La famiglia di Daniele amava questo tipo di costruzioni, riflettenti epoche passate in cui l'uomo dipendeva strettamente dalla natura, beneficiando dei suoi prodotti e relegando il proprio incedere ai capricci delle stagioni. Una vita, forse, più tranquilla e più romantica. Da simili discussioni scaturiva spesso la figura di Stalin, e delle dacie russe. Non era escluso che, un giorno, se gli fossero girati per le mani dei soldi in più, si sarebbero fatti avanti per comprarne una. Ogni tanto si alzava un leggero venticello, a rendere ancora più affascinante la giornata. Per un primo tratto nessuno dei due aveva parlato. Papà marciava un paio di metri dietro il figlio, con le mani raccolte dietro la schiena, gli occhi puntati a terra e le gote brucianti per via dei raggi ultravioletti patiti le ore precedenti; Daniele camminava spedito, con la testa alta, il passo ben disteso e sicuro. Solo dopo una ventina di minuti di marcia, il capofamiglia s'era pronunciato dicendo che forse sarebbe stato il caso di compiere una piccola sosta; o, meglio ancora, riorganizzarsi per il rientro, soffermandosi su qualche angolo più pittoresco degli altri, prima trascurato. Era una mezza scusa, ma tant'è. I raggi del sole scorrevano obliqui lungo il sentiero, disegnando fantasiose opere futuristiche, che preannunciavano l'incombere della sera.
“Comincio ad avere il fiatone...”.
“Come?”.
“Non ho mica la tua età…”.
Daniele aveva nicchiato. E facendo finta di niente aveva proseguito per la sua strada. Nella sua mente s'era a questo punto fatta larga l'ipotesi di poter raggiungere la cima del Monte Nero, a 2000 metri, 800 metri più in alto rispetto al punto di partenza; un tragitto che di solito si compie in mattinata, per consentire il rientro prima delle ombre serali. Era una gita che la famiglia aveva già intrapreso in altre occasioni, fermandosi qualche volta a pranzare in un piccolo rifugio ai piedi della cresta. Facevano delle grandi scorpacciate di panada, piatto tipico bellunese, a base di pane raffermo con aggiunta di olio di oliva, sale e salvia. E non disdegnavano altre prelibatezze come minestre con fagioli e ortiche, o gnocchi di zucca con ricotta affumicata. Ci sapevano fare i cuochi di lassù. Da leccarsi i baffi ogni volta che si puntavano gli occhi sulla cima del Monte Nero. Il padre s'era reso conto della sua voglia di proseguire e, nonostante l'affaticamento e un inaspettato senso di nausea, non se l'era sentita di contraddire l'iniziativa del figlio: avrebbe fatto un sacrificio, accompagnandolo fino a destinazione: lo avrebbe fatto più che volentieri. Quando Daniele aveva, dunque, intuito che il padre l'avrebbe assecondato, per lui una specie di miracolo, gli era montata una gioia sopraffina, come può essere solo quella che scaturisce rivedendo senza preavviso una persona cara. Daniele era al settimo cielo, ma non avrebbe fatto nulla per dimostrarlo al genitore. Dopo un ripido curvone, la vegetazione aveva cominciato a diradare per via dell'altitudine. I pini mugo, con la loro preziosa colla resinosa, s'erano fatti minuscoli come cespugli di rododendro. Non mancava molto ai duemila metri e gli alberi a queste quote rimpiccioliscono, prima di sparire completamente e lasciare spazio ai muschi, licheni, e minuscoli fiorellini capaci di sfidare anche il gelo più estremo.
“Spero che tua madre non stia in pensiero”, aveva detto il padre all'improvviso.
“Perché dovrebbe? È ancora presto”, aveva prontamente ribattuto il ragazzo, con una grinta insospettata. “In ogni caso se dovesse cominciare ad avere freddo, può rintanarsi a casa della signora Stella”.
La signora Stella era una vecchia amica di famiglia, che abitava in una casetta a una decina di minuti dal punto in cui avevano deciso di trascorrere la giornata. Era un'abitazione molto tradizionale, quasi completamente rivestita di legno, con all'interno un grosso camino e le pareti ricoperte di foto ricordo. All'esterno risaltavano file di gerani rossi e fiori di colore violetto che in Lombardia non crescono. Si incrociavano frequentemente e non c'era bisogno di mettersi d'accordo per vedersi: ogni occasione era buona per incontrarsi e scambiare due chiacchiere. Li univa un affetto consolidato da anni. Peraltro la bellunese, se si esclude il cane Dagor, un attempato ma baldanzoso pastore tedesco, viveva sola, ed era ben contenta di poter ospitare qualcuno di tanto in tanto. Erano le cinque di pomeriggio e il cielo da blu stava pian piano arrossando: ci sarebbe stato un tramonto meraviglioso. Ormai non mancava tantissimo alla meta. Superato l'ultimo stadio ricoperto di impavide pinacee, s'erano ritrovati a tu per tu con la sommità agognata. Il vento aveva preso a soffiare con maggiore intensità, sollevando la polvere del sentiero. Potevano ora distinguere la sagoma del rifugio, la seggiovia e la grossa croce di ferro che troneggiava sul cucuzzolo. Entrambi avevano provato un senso di meraviglia, ma avevano evitato di confidarselo. Stavano ottenendo quella che per loro era un'impresa; di solito raggiungevano la cima con la seggiovia e poi scendevano a piedi, era impensabile risolvere un tragitto del genere a pomeriggio inoltrato.
“Che ne dici se poi rientriamo con la seggiovia?”.
La domanda era scontata, ma il padre l'aveva posta più che altro per riavviare la conversazione.
“Sarebbe bello, non abbiamo mai preso la seggiovia a quest'ora”.
“Mi sa che riusciamo a beccare l'ultima corsa”.
Poco prima delle 18.00 padre e figlio erano così giunti in cima al Monte Nero. Per un attimo Daniele aveva cercato gli occhi di papà per regalargli un sorriso, ma il genitore sembrava troppo preso a gestire il suo affanno per dargli retta: sentiva il cuore battere come un martello pneumatico ed era preoccupato dall'ipotesi di subire un colpetto; a una certa età, soprattutto per quelli un po' sovrappeso come lui, tutto era possibile. Ma il disagio s'era presto eclissato, nel vedere la contentezza del figlio che, con lo sguardo luccicante, rimirava il bel panorama.
“Papà, sai riconoscere qualche cima?”.
“Il nonno le sapeva bene. Io meno...”.
“Quella è la Civetta?”.
“Può darsi. E quello il Monte Pizzocco”.
“Uno di quelli dovrebbe invece essere il Monte Schiara”.
“La prossima volta dovremmo salire con una mappa”.
“Ci vorrebbe anche un bel cannocchiale”.
L'ultima corsa della seggiovia era prevista per le 19.00. Non valeva, dunque, la pena temporeggiare, ma sarebbero volentieri stati lì per un tempo infinito, mai così vicini col corpo e con lo spirito. Era anche bello osservare le valli sottostanti, quasi perse nell'oscurità, ma così dolcemente invitanti. Si intravedevano i luccichii della case, e i fanali delle automobili che a velocità irregolari cavalcavano irte salite. Mai avevano vissuto uno spettacolo così intrigante, nonostante i tanti anni trascorsi in vacanza nel bellunese. Sarebbe piaciuto anche alla donna di famiglia e al piccolo del clan Bettini, avevano pensato entrambi. Il padre di Daniele s'era rivolto a un signore annoiato, prigioniero in un gabbiotto addobbato di cartine montane, con alle spalle un paio di sci arrugginiti, per ordinare due biglietti di sola andata per la seggiovia e una coperta, da srotolare sulle gambe e sul torace, durante la discesa; a quell'ora del giorno la temperatura era bruscamente calata e i due non avevano abiti pesanti, si sarebbero facilmente potuti beccare un bel raffreddore. In seggiovia padre e figlio s'erano accomodati aiutandosi a vicenda, vincendo il movimento sussultorio del mezzo di trasporto, verificando con stupore che erano proprio gli ultimi rimasti in cima; un aspetto sul quale avevano meditato con gusto, considerandolo appannaggio di un momento davvero prezioso, da ricordare per tanti anni. Nel frattempo il tramonto era esploso in tutto il suo lussureggiare, uno spettacolo che, con le gambe abbandonate al cielo, a metri e metri da terra, poteva essere rimirato nel suo massimo splendore.
“Hai freddo?”, aveva domandato il padre.
“Per nulla”, aveva risposto il ragazzo con la stessa voce flebile della partenza.
Il genitore aveva poi allungato il braccio intorno alla sua schiena, stringendolo a sé con un affetto sincero. Daniele era scoppiato di contentezza, lasciando, senza vergogna, che una minuscola lacrima sgorgasse dai suoi occhi.

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