«Amavo la letteratura fuori moda, il latino di chiesa, libri
erotici senza ortografia, i romanzi dei nostri avi, racconti di fate...».
Arthur Rimbaud
giovedì 29 agosto 2013
martedì 20 agosto 2013
Bandoneon
BANDONEON
Sono un
artista tardo barocco
Ma non sono
sciocco, meglio di me
Non ce ne
sono, son io il migliore
Con tutto il
tempo che ancora c’è
Vita di
strada, di malaffare
Questa
plebaglia non fa per me
Sono il
pittore più prestigioso
Per quanto
assurdo non c’è un perché
Dipingo il
cielo, coloro il mare
Bevendo birra se
non caffé
Raggio di
sole, raggio di luna
Principi e
dame, regine e re
Sono un
artista, un tipo strano
Vivo lontano
dalla realtà
Son la
leggenda del mio paese
Pardon volevo
dir la mia città
RIT. Me
gustaria salir contigo
Acompagnado da
esta cancion
Cuando la
noche se recorierda
El canto suave
di un bandoneon
Y la esperanza
para el manana
Y el
contrapunto de la emocion
Sono un poeta,
un commediante
E ho tutti i
dischi di Charles Trenet
Occhio non
vede, cuore non duole
Sempre dipingo
pensando a te
Pensieri figli
delle parole
Di
quest’autunno che arriverà
Saran le
foglie che ingialliranno
O il tuo
sorriso che sbiadirà
RIT. Me
gustaria salir contigo
Acompagnado da
esta cancion
Cuando la
noche se recorierda
El canto suave
di un bandoneon
Y la esperanza
para el manana
Y el
contrapunto de la emocion
2013
(La seconda
canzone – dopo “l’uomo con l’aquilone” – dedicata ai personaggi di Vimercate)
martedì 6 agosto 2013
domenica 4 agosto 2013
Laila # 11
11.
A
spasso per Milano
Avevo voglia di staccare
e così ho staccato e adesso sono pieno di vesciche ai piedi e sono stanco
morto. Ho fatto visita a Milano, finalmente. Per la prima volta mi sono girato
in lungo e in largo la metropoli. Giunto a Sesto San Giovanni, un borgo alle
porte del capoluogo lombardo, dicono assai famoso, ma che io non avevo mai
sentito nominare, ho preso il metrò e prenotato la fermata Duomo. Ho viaggiato
tranquillo e sereno, di fronte a una donna di origine sudamericana con la bocca
larga e la carnagione scura. L’ho osservata a lungo, cercando di capire
qualcosa della sua vita. Mi chiedevo quanti anni avesse, se avesse figli, un
marito. Non aveva età. Avrei potuto darle venticinque anni, come
quarantacinque. Le poche rughe che solcavano il suo volto erano evidentemente
figlie delle vicissitudini e non degli anni. Indossava un vestito sgualcito, un
paio di scarpe demodè e una sciarpa sgargiante che le copriva metà corpo.
A destinazione, una
folata di vento gelido proveniente dalla superficie, mi ha ridestato dal
torpore del viaggio. Trovandomi di fronte all’imponenza marmorea del Duomo,
sono rimasto per qualche minuto a guardare per aria come un ebete. Mi ha
colpito come tempo fa mi affascinò la Tour Eiffel, in gita con la scuola,
l’ultimo anno del liceo: travi di acciaio inossidabile, ferro e chissà cos’altro,
puntate come spilli giganteschi verso il cielo, pronti a punzecchiare il sedere
di angeli e demoni; sciocchezze di chi blatera con se stesso per rivendicare
gioie sbiadite sotto quintali di progetti esistenziali naufragati nel nulla.
Solo più tardi avrei saputo che il suo ideatore era lo stesso della Statua
della Libertà, di cui potei godere durante il viaggio a New York, anche se non
con lo stesso entusiasmo. C’era – e penso ci sia ancora oggi - del campanilismo
nelle mie scelte, nei miei gusti. Tutto, ai miei occhi, di fatto, derivava
(doveva derivare) dall’Europa. L’America, mi dicevo, in fondo, non era che una
replica in larga scala dell’Europa. Non era solo l’architettura, la Tour
Eiffel, la Statua della Libertà... era, per esempio, gli ingegneri
tedeschi che dopo la guerra vennero reclutati – per non dire catturati -
per la conquista dello spazio. Erano Von Braun. I tedeschi portarono alle
missioni Apollo, non gli statunitensi. Gli americani sono stati bravi a fare
solo una cosa: far fruttare al meglio gli esiti del secondo conflitto mondiale,
spargendo per ogni dove la propria filosofia di vita, e il proprio narcisismo.
Rimiro il Duomo pensando
ai numerosi anni che ha sulle spalle, come se fosse un vecchio parente da
omaggiare e riverire; risale al Trecento; e, dunque, da settecento anni
illumina il cammino dei milanesi e dei tanti turisti che si avvicendano
idolatranti alle sue pendici. Riflette la luce del sole come un gigantesco
specchio; se ci fosse il sole... Ma il sole come potevasi immaginare (anche
oggi) non c'è. Per fortuna non piove. E' già qualcosa. Se piovesse sarebbe una
piccola grande tragedia, il mio viaggio milanese si trasformerebbe in
un’inutile odissea. E’ da troppo che aspetto questo giorno di svago per poter
sopportare l’idea della pioggia, del tormento che mi perseguita da quando la
mia storia con Laila è capitolata. Alla fine non è più contato nulla e mi sono
concentrato su un libro letto di recente che raccoglieva i pareri di alcuni
scrittori di passaggio da Milano. Percy Shelley, Henry James e Oscar Wilde sono
quelli che ricordo con certezza.
Shelley parla di una
città molto gradevole. Si sofferma sul Duomo definendolo "una sorprendente
opera d'arte". Descrive le guglie, le sculture, le vetrate, con dovizia di
particolari e grande passione romantica e letteraria. Confida di essersi
fermato in un angolo perduto del divino monumento alle spalle dell'altare, e di
essersi messo a leggere Dante. Che meraviglia pensare a qualcuno che va in
chiesa per trovare l'atmosfera giusta per mettersi a leggere qualche passo del
più grande poeta italiano. Dante, oggi, si legge solo a scuola, magari qualche
studente lo sfoglia in metrò… e invece Shelley lo lesse proprio nel cuore della
più importante cattedrale di Milano. Un francese a Milano che legge Dante è una
scintilla di eternità. Chissà se, da dopo la sua capatina, qualcun altro si
sarà mai cimentato nello stesso diletto... ma penso proprio di no. Di Shelley,
in verità, non ho mai letto nulla, ma so qualcosa della sua rocambolesca esistenza:
sono sempre stato appassionato delle biografie di chi ha saputo più degli altri
marcare la storia con le proprie opere artistiche. Alla fine se ne va ad appena
trenta anni, perdendosi nelle acque del mar Tirreno, ingannato da un turbine o
da una sirena.
Henry James visita la
città nella seconda metà dell'Ottocento, una Milano di sicuro diversa da quella
fotografata da Shelley. Racconta di una germanizzazione della sua fisionomia,
dovuta al lungo periodo di dominio austriaco. Potrebbe avere avuto ragione,
benché io non trovi nulla di mitteleuropeo nella Milano attuale, se non nel
luogo comune che vuole tutti i milanesi doc caratterizzati più da uno spirito
centro europeo, che non tipicamente italico, come può essere quello di chiunque
abiti a sud del Po, sottoscritto compreso. Anch'egli ammira il Duomo, raggiunge
la sua cima cavalcando una lunga scalinata, da cui rimira la pianura lombarda,
che assimila a un vasto mare punteggiato di navi. Come gli sia venuta in mente
un’idea del genere lo sa solo lui; ma è un altro aspetto dell’arte milanese a
far breccia nel suo cuore con particolare vigore: il Cenacolo di Leonardo da
Vinci. Dice che ogni pittore dovrebbe avere il dovere di rimirarlo, adorarlo,
implorarlo come si implora Dio, indagandone la moralità, l’essenza più intima,
le ombre e i misteri che si celano dietro le figure in primo piano.
Anche Oscar Wilde
raggiunge Milano verso la fine dell’Ottocento, ma è tutt'altro che sorpreso
dall'imponenza e dalla sacralità del Duomo. Lo giudica, infatti, un "terribile
fiasco", circostanza che mi porta a sorridere di tanta spavalderia e
audacia. Chi può permettersi di dire che il Duomo sia un’idiozia, un capriccio
di trecenteschi signori annoiati? Ma Oscar Wilde non può smentirsi, è Oscar
Wilde, e va avanti imperterrito per la sua strada, sovvertendo ogni logica,
sostenendo che il Duomo sia davvero una costruzione volgare, scarsamente
artistica, troppo elaborata. Ma non ha la stessa opinione dell’intera città. Ci
sono angoli che lo galvanizzano, che gli fanno gridare al capolavoro. Si
riferisce, per esempio, ai numerosi porticati della città, che gli ricordano
aspetti dell’urbanistica parigina, assai cara al suo immaginario. Abbandona
Milano per Losanna, diciotto ore di diligenza, attraverso il passo del
Sempione, altri tempi, altre... Laile.
Lasciatomi alle spalle
il Duomo, mi tuffo come uno scolaro pieno di brufoli e speranze in corso
Vittorio Emanuele, punteggiata dai famosi porticati decantati da Wilde, fino a
giungere in piazza San Babila, uno spazio non molto ampio, caratterizzato al
centro da un’anonima fontana. Mi trovo di fronte a una vecchia chiesetta,
coperta di mattoni rossi e circondata da pusillanimi palazzi senza grandi
pretese artistiche. Varco la sua soglia principale, venendo inondato dal
profumo pungente dell’incenso, forse appena utilizzato per qualche celebrazione
religiosa; benché la chiesa sia sostanzialmente vuota. In fondo, sulla
sinistra, una breve rientranza mette in evidenza un grosso crocefisso, più
sofferente degli altri, contornato da ori e cimeli donati al luogo di culto per
commemorare una grazia ricevuta. Gli oggetti più vecchi sono affiancati da
quadretti dipinti grossolanamente.
Proseguendo a ritroso
vado a sbattere contro la fonte battesimale. Una targa ricorda che qui avvenne
il battesimo di Alessandro Manzoni. Mi fa un certo effetto immaginare Manzoni
in fasce che viene benedetto con l'acqua santa, da chissà quale dimenticato
sacerdote. Chi fra i presenti alla cerimonia avrà mai immaginato di trovarsi di
fronte a uno dei più grandi letterati della storia italiana? Magari qualche
indovina… Quand’ero piccolo gli adulti del mio paese sostenevano, infatti, che
alcune donne vedendo un nascituro erano in grado di prevedere se avrebbe avuto
o meno un futuro raggiante. Si riferivano a sensitive, streghe, megere,
appassionate di esoterismo, capaci di indovinare la data della prossima eclissi
di luna o di sole o qualunque altro fenomeno astronomico di rilevanza. Io ci
credo poco. Dove sta scritto che un bimbo appena nato diventerà un presidente,
un grande musicista, un famosissimo scienziato?
All’esterno inciampo in
una mendicante che appena giunto non avevo notato, forse perché non ancora
arrivata. Le regalo un sorriso mogio, quasi indifferente. Mi guarda con aria
triste, pregandomi di darle qualche soldo. Ha le mani terribilmente lerce, la
faccia piena di tagli, le labbra devastate dal gelo e una strana verruca
intorno agli occhi. Apro il portafogli e le dono la prima banconota che mi
capita fra le mani: centomila lire. Ha un sussulto, come se non avesse mai
visto tanti soldi insieme in una sola volta. Ancora con gli occhi strabuzzanti,
s'inginocchia ai miei piedi per ringraziarmi. Rimango di sasso.
«La prego non faccia
così», le dico.
«Io dire grazie così».
«Mi ha già ringraziato,
non serve… la prego si alzi».
La abbandono imbarazzato
e intirizzito, con un nuovo sorriso inutile, muovendomi a casaccio,
scontrandomi con un'edicola, sotto un lungo portico che conduce oltre i confini
di piazza San Babila. E’ stracolma di giornali che implorano acquirenti con
copertine vagamente osé. Mi cade l’occhio su una copertina dedicata a “Il tempo
delle mele”, film francese del 1980, interpretato dalla giovanissima Sophie
Marceau. All’istante mi viene in mente Filomena, avendolo visto con lei una
sera d'autunno, poco dopo aver iniziato a frequentarci, senza sapere come
sarebbero potute andare le cose. Il film non mi fece grande impressione,
pensando che fosse destinato a un pubblico di ragazzini: lo trovai mieloso e
superfluo. A Filomena, invece, come immaginai dovesse accadere a gran parte
delle donne in crisi sentimentale, le piacque parecchio, al punto che andò
avanti a parlarne tutta la sera, in un baretto dove ci fermammo a bere una
birra e tirare tardi. Rividi, però, con piacere Parigi, dove era ambientato il
lungometraggio, le sue strade, i suoi vicoli e bistrò. Una città che avrei
voluto presto tornare a visitare, magari proprio con la mia nuova collega con
cui, ogni giorno che passava, mi trovavo sempre meglio.
«Sei mai stata a
Parigi?», le chiesi.
«Sì, certo».
«E allora dimmi, cosa ne
pensi?».
«E’una città
bellissima», mi rispose serafica, arrossendo un poco.
«Anch’io la penso così.
Se potessi, ci tornerei domani».
«E’ una delle città più
romantiche».
«Trovi?».
«Hai dei dubbi?».
Dimentico della mendicante
e del film francese, mi riaffaccio all’epopea manzoniana - forse per via
del battistero appena visitato – e ricostruisco uno dei passaggi del suo libro
più famoso, sul quale da sempre amo soffermarmi più di quanto non accada con
molti altri tipicamente osannati da generazioni sempreverdi di studenti e
professori rigidi e severi: la fuga di Renzo da Milano, verso Bergamo. Mi piace
immedesimarmi in un comune viandante che in pieno Seicento si mette a
girovagare per le campagne lombarde, rievocando perdute sensazioni, appannaggio
di esseri che mi hanno preceduto, dando vita a una specie di romanzo
autobiografico, frutto esclusivo della mia fervente fantasia; e mi piace anche
pensare che possa essere passato proprio da Concorezzo, il paese degli appestati,
ormai la mia definitiva dimora. Del resto Manzoni non è chiarissimo sul
tragitto intrapreso dal fuggiasco. Sappiamo che dal Duomo si dirige verso Porta
Orientale, niente meno che Porta Venezia, e che in seguito si ritrova, non si
capisce bene come e perché, dalle parti di Liscate, a est della città. Eppure
se avesse proseguito lungo Porta Venezia sarebbe dovuto arrivare proprio dalle
parti di Concorezzo, via Sesto San Giovanni. Sto farneticando? Forse. Però c'è
qualche studioso che può escluderlo con certezza? Da qui, del resto, avrebbe
potuto benissimo puntare verso sud est per raggiungere Liscate e Gorgonzola,
dove è noto si ferma in un'osteria per rifocillarsi. Potrebbe tornare... Tutto
torna. Prima o poi tutto deve tornare... Mi immagino il cammino di Renzo che,
per paura di essere scovato dalla polizia, diserta le strade maestre,
buttandosi sulle secondarie, saltando di borgo in borgo come un disperato,
mimetizzandosi fra boscaglie e sentieri poco battuti. Ragionando sul paesaggio
di ieri, valuto anche il fatto che la vegetazione dovesse essere molto diversa
da quella odierna. Le numerose specie importate dall'America probabilmente non
erano ancora diffuse. I campi di mais che caratterizzano con tanta disinvoltura
queste terre, dovevano essere una rarità. Lo stesso vale per le patate, la
robinia e chissà quante altre varietà vegetali che solo un botanico potrebbe
elencare e analizzare con precisione.
Il clacson di un
camioncino che sfreccia a grande velocità lungo una via che non conosco, mi
riporta alla realtà, facendomi stupire della mia insana capacità di passare da
un argomento all'altro in così poco tempo. A volte ho davvero l'impressione di
ragionare troppo velocemente, al punto che i pensieri finiscono per
accavallarsi, impedendo al mio cervello di ricaricarsi. È questo il motivo per
cui spesso mi ritrovo esaurito e incapace di risolvere anche il più banale
calcolo. La testa mi si riempie di ragnatele, le idee scorrono piano e ogni
input dall'esterno si trasforma in un micidiale contraccolpo psichico. Ma ormai
sono abituato. Benché non mi capitasse con Laila, anche quando non riposavo mai
ed ero tirato come le corde di un violino. Ma si sa, durante le fasi di
innamoramento, le sofferenze dell'anima se ne stanno quiete in qualche angolino
sperduto della mente, e lì rimangono finché il sentimento non svanisce o non
succede qualcosa di straordinario come è successo nel corso della mia storia…
malata.
Proseguo per la mia
strada, senza più darmi noie, accantonando Laila, Manzoni e la mendicante…
Raggiungo un’elegante costruzione, ad angolo, che attira la mia attenzione. Mi
avvicino, scoprendo meravigliato il via vai incessante di persone che impiega
frettolosamente l'uscio principale, come accade in posta o dal benzinaio: è una
biblioteca, la più importante biblioteca di Milano. C'è un cartello a fianco
dell'ingresso, pensato soprattutto per i turisti, con indicazioni storico
architettoniche. Si tratta del Palazzo Sormani, sorto sulle ceneri di una
preesistente costruzione risalente al Sedicesimo secolo. Negli anni è stato
ridimensionato, ma conserva ancora la sua affascinante aurea. Non avendo nulla
da fare, se non girare a zonzo come un clochard, scelgo di varcarne la soglia,
incuriosito da alcuni ragazzi, immagino studenti universitari, che cincischiano
fra loro.
Faccio tappa in una
grossa sala piena di giornali, quotidiani e riviste. Prendo un volume a
caso, più una fanzine che un giornale a tutti gli effetti. L'intestazione è
talmente piena di ghirigori grafici che non riesco nemmeno a interpretare il
significato della scritta. Ma dopo una rapida sfogliata scorgo un interessante
articolo dedicato all'assassinio di Germana Stefanini, avvenuto il 25 gennaio a
opera del gruppo terroristico Potere proletario. Sono notizie che scuotono,
almeno scuotono me. C'è un impercettibile filo conduttore che lega i miei
interessi generali alla lotta armata. Non ne comprendo il motivo, ma so che è
così, ché ogni volta che ho a che fare con i brigatisti mi si rizzano le
orecchie ed è come per un farmacista sentire parlare di un principio attivo
dotato di incredibili poteri. Forse perché non ho ancora capito cosa vogliono i
brigatisti e in che modo credono di poter ambire a un mondo migliore uccidendo
altre persone. Non è una questione morale, non ne faccio una questione morale,
non critico chi pensa di fare politica con la pistola; piuttosto sono
affascinato dal cervello, dalla mente di queste persone distanti anni luce da
me, dal meccanismo neuronale che mette in moto il desiderio di freddare senza
pietà un altro essere umano in virtù della cosiddetta "lotta di
classe". A momenti pare tutto logico, comprensibile e giustificabile, ma
subito dopo l’orrore fagocita ogni cosa. Quando penso a un’azione terrorista e
la metto in relazione con l'immensità dell'universo e le leggi che lo
governano, mi sembra tutto così assurdo. Qual è il senso di un omicidio
intenzionale? Che significato ha nella nostra società? Quando è il caso di
tollerare un omicidio? Se fanno del male a una delle persone che abbiamo più
care, ogni pazzia può essere, in qualche modo, tollerabile… ma in questo caso,
quando si ha a che fare con una persona che non si sa neanche chi è?
La morte di Germana
Stefanini avviene il 28 dicembre 1982, a Roma. Germana è la
vigilatrice penitenziaria del carcere di Rebibbia. La rapiscono per sottoporla
alla sintesi del tribunale rivoluzionario. Finisce nel modo più tragico,
parafrasando le ultime ore di Aldo Moro: Germana viene freddata con un colpo
alla nuca e abbandonata nel bagagliaio di una Fiat 131 che sarà rinvenuta in una
strada del Tiburtino. Stop. Ora sono in corso le indagini, ci sono già dei
nomi, ma immagino che ci vorranno anni prima di riuscire a metabolizzare, per
non dire esorcizzare, l'accaduto. Qualunque persona mediamente intelligente,
dotata di buon senso, dovrebbe ragionare su questi fatti, per capire chi è
l'uomo veramente, cosa vuole e dove sta andando. Altrimenti cosa ci
distinguerebbe da un animale?
Quando esco dalla
Sormani il cielo è un po’ più indulgente rispetto a quello del mattino, ma il
sole come sempre latita. Però non piove, e sembra non averne l'intenzione.
Meglio così. Proseguo lasciandomi alle spalle l'antica costruzione e
abbracciando una via larga e luminosa, contrassegnata dal passaggio di autobus
e tram, che sfrecciano a intermittenza, fra formicai di pedoni e macchine di
grossa cilindrata. Mi soffermo sull'anatomia di un tram, che raramente nella
vita ho avuto modo di rimirare, provenendo da una città dove non ne esistono.
Ha una linea perfetta, sinuosa, elegante, demodè, fra tutti i mezzi in
circolazione è quello che prediligo di più. Chissà perché mi è tornato in mente
la roulotte di Laila, e l'idea che se avesse avuto a disposizione un tram tutto
suo, sarebbe stata molto più comoda. Lei ed io.
Un brontolio allo
stomaco più bruciante degli altri mi suggerisce che forse è ora di mettere
qualcosa sotto i denti. C'è un baretto che fa proprio al caso mio sulla mia
destra, evidenziato da un’insegna pacchiana. Ordino un panino e una birra a un
cameriere segaligno che, per caso, mi ritrovo fra i piedi. Mi invita ad
accomodarmi, ma gli dico che ho una certa fretta e preferisco mangiare
camminando.
«Come desidera».
Pago pochi spiccioli e
di nuovo in strada proseguo nel mio vagabondaggio, dirigendomi verso un'ampia
area verde che scorgo da lontano. All'arrivo il panino è già un ricordo
lontano. E' un ampio parco, verde e splendente, cosparso di specie arboree
senz'altro centenarie, con rami che coprono gran parte della radura cittadina.
Riconosco la magnolia perché è uno dei pochi sempreverdi diverso dai pini,
tutti uguali fra loro. Al centro risalta una bella vasca, chiaramente antica,
con uno stile architettonico che rimanda al barocco, ricoperta da numerosi
licheni. A destra e a sinistra si intravedono due strutture cementizie, forse
cappelle religiose; magari più tardi andrò a visitarle da vicino. Ma l'edificio
che cattura di più la mia attenzione è quello che sorge al centro del parco,
rimandando all'idea di un collegio ottocentesco o a una scuola privata, un
seminario, nella peggiore delle ipotesi a un manicomio. Ci vedo benissimo tante
donzelle che entrano ed escono dalla scuola con la cartella in spalla, la
divisa, le calzette sotto al ginocchio, l’aria maliziosa.
C'è una panchina che fa
proprio al caso mio, semicoperta dalle fronde di un albero rigoglioso; mi siedo
e stappo la bottiglia di birra. Bevo. Fa freddo, ma ormai ho una certa
confidenza con le basse temperature, resisto senza problemi, potrei vivere al
polo Nord e trovarmi perfettamente a mio agio, come un eschimese. Dopo il caos
con Laila, sembra proprio che il mio corpo abbia perso certe sensibilità. Le
altre panchine sono deserte, tranne quella che mi sta davanti, piuttosto
lontana da me, occupata da un tipo che legge il giornale, con le gambe mezze
aperte. Ci sono, in compenso, un po’ di persone che si avvicendano,
trotterellando compiaciute, spesso in gruppo. Credo siano soprattutto colleghi
di lavoro. Parlottano fra loro con scarsa convinzione, costretti a farlo per
educazione, etichetta, ma si vede che molti di loro vorrebbero essere da
tutt’altra parte. Anche per me era così alla Vian, finché non ho familiarizzato
con Filomena e Francesco. Certo, deve essere un supplizio dover stare tutto il
giorno gomito a gomito con persone che non si sopportano; se poi anche il
lavoro lascia a desiderare…
Io, in ogni caso, se
anche non avessi avuto la fortuna di avere a che fare con i miei due amici, so
che non avrei patito più di tanto, dovendo assolvere un lavoro piuttosto
individualistico, e potendo peraltro guardare gli altri dall'alto della mia
posizione. Se la gerarchia è palese, i rapporti resistono di più, i problemi
insorgono fra i colleghi dello stesso livello, disposti ad accoltellarsi l'un
l'altro pur di ottenere qualcosina in più. Che tristezza. La favola umana
mostra tutta la sua pochezza proprio in queste cose, le cose di tutti i giorni,
nel falso ritratto di una convivenza civile, celante affilatissime lame pronte
a maciullare senza pietà l'ennesimo capro espiatorio.
Rapito dai miei
pensieri, quasi non mi accorgo che il tipo che ho davanti ha abbassato il
giornale e mi sta guardando con aria indagatrice. Contraccambio la sua
curiosità... e vacillo: ho la netta impressione che sia lo stesso uomo che mi
stava fissando l'altro dì mentre mi recavo dal panettiere. Potrei sbagliarmi,
eppure… qualcosa non torna. Faccio finta di niente e mi volto dall'altra parte,
ma – guadandolo di sbieco, con la coda dell’occhio – mi accorgo che continua a
puntare i suoi fari accecandomi. Ce l’ha proprio con me. Decido allora di
metterlo alla prova; tiro un respiro profondo e passo all’attacco, alzandomi e
provando a raggiungerlo con passo spedito. L’uomo si muove di scatto, colto da
un panico improvviso, e si mette a camminare con passo sostenuto verso
l'uscita. E' agile e svelto, molto più di me. Allorché incremento la mia
falcata, obbligandolo ad accelerare ulteriormente e ad ammettere, quindi, che è
lì per il sottoscritto; altrimenti non vedrei il motivo di tutta questa sua
foga... Dunque, che vuole da me? Alla fine si dà letteralmente alla fuga, sbriciolando
qualunque mio dubbio: è lo stesso uomo dell'altra volta e, verosimilmente,
chissà da quanto tempo mi sta pedinando. Scendo dal pero, non capacitandomi del
fatto che qualcuno si sia davvero messo sulle mie tracce. Per quale motivo? Chi
è quell'uomo?
Torno alla mia panchina,
con l'umore decisamente compromesso. Vengo sopraffatto dall'angoscia e dal
timore che sia trapelato qualcosa. In fondo, la faccenda di Laila non è mai
stata chiarita. Anche i media non sono mai riusciti a esprimere un'opinione a riguardo,
benché ne abbiano parlato a lungo. Ne hanno discusso per settimane fino a
perdersi nei meandri del mistero. Se ne sentono tante di storie analoghe.
D'estate soprattutto… d'estate. Persone che spariscono, cronache nere, rosa,
indefinibili storie senza età. Ne sento fin da quando ero piccolo e spulciavo
il giornale di mio nonno, accomodato alla poltrona sgualcita e putrida sulla
quale riposava il nostro cane. Mi ricordo ancora di quel tale che… meglio
lasciare perdere. Ma se così non fosse, allora perché qualcuno mi sta alle
calcagna?
O forse mi sto
preoccupando per niente. Quell'uomo se l'è filata semplicemente perché devo
avergli fatto paura… in fondo mi sono messo a galoppare all’improvviso verso di
lui, come un selvaggio, un assassino, con una faccia, presumo, tutt'altro che
pacifica e amichevole. Chiunque si sarebbe comportato nello stesso modo. Io
stesso, penso. Peraltro, a ben pensarci, anche durante il mio raid nella
biblioteca di Concorezzo, l'altro giorno, per cercare informazioni su Layla, la
risposta espressiva dei presenti non è stata così idilliaca. Evidentemente c'è
qualcosa di me che turba, i lineamenti stanchi e rassegnati del mio volto, i
miei vestiti trasandati... e così si spiegherebbe tutto, il motivo per cui…
tuttavia, permangono troppe perplessità, tenendo soprattutto conto del fatto
che Ginevra, Orso e gli altri del circolino sembrerebbero non pensarla così,
dandomi sempre retta e avendomi quasi accettato come un amico di sempre. Come
mai? Dove sta la soluzione? So solo che il tipo che se n’è appena andato era
incredibilmente simile... all’uomo della cappelletta.
Temo che la mia
escursione fuori porta stia per andare a farsi benedire, ma alla fine –
stupefatto da un grigiore ancora più sostenuto del solito - trovo la forza e il
coraggio per rimettermi in pista, e portare a compimento una giornata assurda,
strana, ma a modo suo bellissima. Per cena mi fermerò in piazza Duomo e fino a
notte fonda resterò a rimirare le guglie della cattedrale pensando a
Shelley.
mercoledì 24 luglio 2013
Colori
COLORI
Giallo come un girasole
Rosso come una ciliegia
Verde come la campagna
E chissà il cielo che colore avrà
Viola come la vendemmia
Nero come una mattanza
Freddo come la paura
E chissà il cielo che colore avrà
RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io
che fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si
Giallo come la polenta
Rosso come un peperone
Fresco come la rugiada
E chissà il cielo che colore avrà
Grande come una montagna
Comodo come un divano
Gelido come la neve
E chissà il cielo che colore avrà
RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io
che fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si
Bella come una farfalla
Bianca come l'innocenza
Rosa come una mattina
E chissà il cielo che colore avrà
Bianco come una cicogna
Grigio come un'incombenza
Strana come l'incertezza
E chissà il cielo che colore avrà
RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io che
fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si
2013
L'uomo con l'aquilone
L'UOMO CON
L'AQUILONE
Camminava per la strada con un aquilone
stretto fra le mani
Rincorreva sogni che nemmeno i sogni
sanno bene cosa fare
Brividi d'amore e batticuore al ritmo
della turpe fantasia
Comico, ridicolmente uomo con
quell'unico vestito blu
Molto prima che arrivasse lei l'aveva
immaginato il cataclisma
Certe donne lo si vede dalla gonna
nascon solo per far male
Lei veniva dalla steppa con
quell'espressione forse un po’ volgare
Cincischiava con le amiche l'ho trovato
un altro pollo adatto a me
RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi
tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un
altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie
labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto
benissimo anche senza te
Come passa il tempo, scivolano gli anni,
scivolano le stagioni
Perfido colui che chiede senza dare
perfida malinconia
Ma il coltello dalla parte
dell'impugnatura ce l'ha solo Dio
Non ce l'ha di certo chi è convinto che
fortuna basti solo a sé
Così andarono le cose e un giorno peggio
del diluvio universale
Se la ritrovò piangente con le mani
assorte al suo capezzale
Solo per mostrarle cos'è vita e cos'è
invece nulla e preconcetto
Solo perché niente c'è di meglio di un
germoglio in mezzo alla città
RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi
tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un
altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie
labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto
benissimo anche senza te
Oggi tutto è ormai cambiato dove se n'è
andata non lo sa nessuno
L'altro giorno raccontavano però di un
uomo senza l'aquilone
Ridere non serve, piangere non basta,
allora tutto è un'illusione
L'illusione è spesso ridere che tanto
piangere viene da sé
RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi
tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un
altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie
labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto
benissimo anche senza te
2013
Lady D
LADY D
Da quando ci vediamo, è tutto così
strano
Da quando ci vediamo il sole non
tramonta più
Da quanto siamo stati, vicini e poi
spaiati
Qualunque cosa basta a scioglierci nel
cielo
Da quando l'orizzonte, non sembra più lo
stesso
Da quando l'aria non è l'aria che dicevi
tu
Fantasmi del passato, briciole di
memoria
Ecco l'ennesimo ripetersi di un sogno
RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa
storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà
Da quando ci crediamo è tutto più speciale
Da quando ogni momento è buono per un
dejàvu
Le frasi dette a caso, storielle da
imparare
Biciclettate insieme in riva al fiume o
al mare
Da quando l'algoritmo dei nostri
intendimenti
Ha indovinato il tiro del piacevole che
fu
Da quando è tutto nuovo, compreso il
Medioevo
Compresa la tua vecchia giacca con i
fiori gialli
RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa
storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà
Da quando il mondo intero non ha più
pregiudizi
Da quando l'imbrunire non impensierisce
più
Da quando sei arrivata, la vita è
risbocciata
Non è più solo la carriera di un
templare
Da quando il mondo ride, è tutto così
bello
Chiamarla non è un eufemismo eterna
gioventù
Da quando alle domande, non servono più
riposte
Tu la miglior risposta che si possa dare
RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa
storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà
2013
giovedì 11 luglio 2013
Dolce Stil Novo
Mi ha detto Dante, mi chiamo Dante
Non son distante, dalla politica del libero pensante
E' edificante, entusiasmante e al tempo stesso sconvolgente
Mi ha detto Dante, per un istante
Mi ha detto Dante, come un'amante
Il preveggente, ma quale libero pensiero ricorrente
Probabilmente, l'uomo è la pecora migliore fra le tante
Mi ha detto Dante, liberamente
RIT. Mi ha detto Dante Dante dimmi dammi anche del tu
Mi ha detto Dante un giorno tutti avremo la tv
Mi ha detto Dante presto scriveremo cartoline da Parigi
Mi ha detto Dante che fra un po’ sapremo tutto dei crossopterigi
Mi ha detto Dante, l'intransigente
Mi ha detto Dante che il salvagente
Non serve a niente, se chi lo indossa è una persona intelligente
Amaramente, oggi che vince è soprattutto l'arrogante
Mi ha detto Dante, terrificante
Mi ha detto Dante, febbricitante
Non valgo niente, se non c'è modo di convincere la gente
Quando presente, che anche un gorilla può svegliarsi presidente
Mi ha detto Dante, semplicemente
RIT. …
Mi ha detto Dante, sono un mutante
Un commediante, l'imprevedibile percorso di un aliante
Emozionante, come un tramonto che sbiadisce all'orizzonte
Mi ha detto Dante, perdutamente
Mi ha detto Dante, il comandante
Coscientemente, fin troppe volte l'uomo è peggio di un serpente
Ma non è niente, non è soltanto una questione di quoziente
Mi ha detto Dante, inutilmente
RIT. …
Mi ha detto Dante, letteralmente
L'inferno è niente, ma il paradiso è molto meno stravagante
Seduta stante, ci puoi giurare con o senza una scusante
Mi ha detto Dante, rapidamente
Mi ha detto Dante, pubblicamente
Non serve a niente, cercare un modo per redimere la mente
Stupidamente, il pregiudizio è solamente un'attenuante
Mi ha detto Dante, saputamente
RIT. …
2013
martedì 9 luglio 2013
Laila # 9
9.
Radio
Varsavia
Oggi sono
completamente rimbambito: ho la testa pesante, sento degli strani brividi che
mi percorrono l'intero corpo e ho la gola secca. E ho un incommensurabile dolorino
a livello scapolare, sulla sinistra… Volevo tornare al circolino, rivedere Orso
e gli altri, godere della loro spontaneità così refrigerante per il mio
spirito, ma è successa una cosa alquanto strana… inopportuna, che nemmeno se mi
sforzassi riuscirei a ritrovare il me stesso degli ultimi giorni, pronto a
rituffarmi nell'universo civile; non dico arrivare a pensare di riprendere il
lavoro alla Vian - cosa che non accadrà mai - ma almeno ritrovare quella minima
volontà, serenità, di voler fare parte in modo coerente e deciso del mondo.
Tornare a vivere… ci stavo riuscendo, sennonché…
Stamattina
accendo la radio, si chiama Radio Varsavia, m'è bastato il nome, uno spot
pubblicitario dell'emittente a decidere di non cambiare più sintonizzazione,
sapendo che altrove avrei trovato solo sciocchezze commerciali che vogliono
dire tutto e niente. Parte una raffica di brani di nomi sconosciuti, rimandi all'amato
Bruce Springsteen, rock di chiara fede americana. Mi dico che da un momento
all'altro potrebbe spuntare qualche pezzo del Boss, ci starebbe benissimo, è il
suo campo di battaglia. Al rock si alternano il blues e il country; in Italia -
attualmente bombardata da "Vacanze romane" dei Matia Bazar e
"Bravi ragazzi" di Miguel Bosè - non interessano a nessuno, ma Radio
Varsavia, evidentemente, nutre un target più selezionato e appassionato. Se
Francesco vedesse, udisse, si renderebbe conto di come, alla fine, le sue
lunghissime lezioni, digressioni di storia musicale moderna, abbiano avuto successo
anche su uno sprovveduto accademico come il sottoscritto. Mi dico che se
dovessi sentire "The River" - estemporanea come solo una radio può
promettere - esco per strada e mi metto a ballare nudo intorno alla casa dei
vicini, come una cinciallegra in calore; non ci crederebbe nessuno, d'accordo, tuttavia…
mi regala un po’ di folclore … amo il folclore, le radici dei popoli, le storie
di civiltà morte e sepolte. In fondo dovrei lasciarmi andare di più a pazzie
del genere per ridare pepe al mio presunto avvenire.
Non arriva il
Boss ma una canzone che parte con un ottimo riff chitarristico (che chissà se
Francesco avrà mai sentito, ma immagino di sì), per poi aprirsi su un
ritornello di quelli che ti si stampano in testa come adesivi di cartoni
animati appiccicati al frigorifero di una casa abitata da file di mocciosi. Ma
è un inciso che, paradossalmente, non avrei mai voluto sentire: una picconata
che mi apre in due lo stomaco. Mi sconvolge il catatonico ripetersi del nome di
quella che, suppongo, sia la protagonista della canzone: Laila, Laila, Laila. Odo
il ritornello, momento topico del brano, concentrarsi sulla mia infinita e mai
rimpiazzata dolce metà e inevitabilmente subisco uno sconquassamento dell'animo,
così feroce da sopportare. Zampillano le lacrime dalle mie palpebre arrossate.
Pare incredibile, eppure bastano poche note a mandarmi in tilt, a farmi
risentire il male che mi attanagliava prima di lasciare la Vian, subito dopo il
macello di una storia naufragata, per colpa di un destino beffardo, crudele e
beffardo.
Ma sarai mai
possibile?, mi chiedo. Come fa a esistere perfino una canzone dedicata -
volontariamente o involontariamente - all'unica donna che abbia mai amato in
vita mia? Cosa diamine è successo? E se fosse veramente la mia Laila? Impossibile.
Il nome non è così frequente, ma ce ne saranno a centinaia, almeno, spero,
suppongo, nel mondo ce ne saranno un'infinità, o no? Mah. Rimango come un ebete
drogato di ansiolitici a fissare il muro che ho di fronte; la parte più spoglia
della casa, null'altro che l'intonaco bianco con cui sono state verniciate le
pareti prima che arrivassi. All'improvviso un incubo mi prende alle spalle e
cambia completamente i connotati della mia grigia esistenza. Degli insetti
orripilanti percorrono avanti e indietro la parete, hanno le zampe lunghissime
e sembrano in grado di divorarmi in un sol boccone. Li osservo meglio e scopro
che non sono insetti, ma… centopiedi, qualcosa del genere, mi viene in mente un
film visto di recente, con protagonisti esseri mostruosi, di immani
proporzioni, riconducibili a specie vissute trecento milioni di anni fa;
possono arrivare a due metri di lunghezza e muoversi veloci come saette.
Uno di essi
sporge la sua testona oltre i confini del quadro magico in cui si specchiano e
pare volermi dire qualcosa. Parla una lingua sconosciuta, emette frasette che
mi incantano senza darmi modo di comprendere la finalità della sua azione.
Cerco di esprimere le mie perplessità, ma la mia bocca riesce solo a ricamare
fili stonati di note. C'è qualcosa che non va come dovrebbe, i sogni non sono
così reali. Sono tormentato da un formicolio sempre più pressante, che mi
intorpidisce mezzo corpo. Scompare il testone del centopiedi, e si profilano
nuove maschere d'orrore. Una possiede una lunga proboscide che si incunea fra
il mio sedere e il cuscino che mi ospita. Paiono l'alter ego delle creature
delle pozzanghere. Non mostrano, infatti, un'area amichevole. Benché non mi
stiano facendo del male, scorgo nei loro sguardi il tentativo di controllare
ogni mia mossa, per poter sferrare quanto prima un colpo basso. E' un delirio
che dura pochi secondi o un'intera vita, non saprei davvero quantificarlo. Ma
so bene che quando torno in me ho gli occhi chiusi e sono madido di sudore. Mi
spaventa l'idea di avere perso, seppure per un attimo, i lumi della ragione.
Non mi è mai capitata una cosa del genere, nemmeno dopo i casini insorti con
Laila. Era tutto così vivido… Cosa sarà mai? Tento invano di dare un senso
all'apocalisse che mi ha attanagliato, ma i risultati sono alquanto
sconfortanti. Agito la testa per sincerarmi che sia ancora attaccata, che sia
tutto a posto, così sembra… Sarà forse il caso che mi faccia vedere da
qualcuno… da uno strizzacervelli? Da quando in qua penso a migliorare le mie
condizioni fisiche e mentali? Forse, nonostante l'ultimo delirio, qualcosa sta
davvero cambiando, in meglio. Il divano di Freud, torno a disquisire a
proposito del divano di Freud che vorrei possedere come un feticista… Il suo divano
avrebbe senz'altro il potere di rimettermi in sesto e darmi la forza di
combattere gli esseri misteriosi che affollano la mia mente.
Mi tranquillizzo
respirando profondamente. Piano piano i muri tornano del loro usuale pallore, e
ogni mostruosità si dilegua, nebulizza. Tutto torna come prima, sennonché la spina
del mio cuore ricomincia a sanguinare in modo evidente, riprendendosi la
rivincita sulle mie recenti conquiste in campo sociale. Si susseguono nuove
canzoni che ridanno vita alla mia giornata; e alla fine ciò che rimane impresso
nella mia memoria, più ancora del ritornello incriminato, è l'autore della
canzone misteriosa: Eric Clapton.
While
My Guitar Gently Weeps
Salto il pranzo
sollecitato dal desiderio di rituffarmi in paese per fare un giro in
biblioteca. Non ho idea di dove si trovi, ma è indubbio che un paese come
questo ne possegga una. Esco e chiedo. Mi dà le indicazioni una signora sulla
sessantina, tipica di queste lande, con una folta chioma grigia e due occhiali
vistosi che le occupano mezza faccia. Sembra la moglie del tipo che avevo
incontrato alla cappelletta degli appestati, che non ho più rivisto da quel
giorno. Insieme starebbero meravigliosamente. Lo intuirebbe anche un bimbo, si
incastrano alla perfezione. La loro genetica, penso non sia molto differente.
Da queste parti sono tutti mezzi parenti, è anche per questo motivo che fino a
qualche decennio fa nascevano spesso piccoli con qualche problema. E' la voce
che mi è giunta da una creatura delle pozzanghere.
La biblioteca si
trova nel centro del paese, nei pressi della chiesa principale, lungo una lunga
via trafficata e avara di parcheggi. E' elegante, piccola ma elegante e
apparentemente ben fornita. Al suo interno sono stato squadrato da quattro
utenti che parlottavano fra loro. Solo uno mi ha salutato.
«Buongiorno», ho
contraccambiato.
Mi sono guardato
intorno un po’ a disagio, sentendomi addosso gli occhi dei presenti, come
fucili a canne mozze piantati nella schiena. Sono stato pervaso dall'idea di
tirare urlo, per dare almeno un motivo valido ai quattro per guardarmi come se
stessero vedendo un extraterrestre. Toccandomi, però, il mento per scaricare
l'ansia mi sono accorto della lunghezza della barba e del fatto che, verosimilmente,
non sono molto presentabile. Quando sono in casa, di fatto, non mi guardo quasi
mai allo specchio per vedere come sto e tantomeno quando devo uscire mi
preoccupo di come possa apparire. Chissà se anche Ginevra lo avrà notato.
Ginevra? Perché sto pensando a lei?
Dovrei rientrare
nei gangheri e magari comprare qualche vestito nuovo. Alcuni sono davvero
impresentabili. Non era così quando stavo alla Vian. Toelettatura e vestiario
erano due aspetti che osservavo con rigore. Scrutandomi con maggiore
attenzione, noto che, peraltro, indosso un paio di scarpe inadatte alla
stagione, che si combinano malissimo con i pantaloni. Ora capisco lo
sbigottimento dei presenti. Devono avermi scambiato per una specie di clochard.
«Sapete dirmi
dove posso trovare qualche rivista o libro musicale?».
La
bibliotecaria, una signora sgraziata e tonda, mi indica l'ultimo scaffale in
fondo alla stanza che si apre davanti ai miei occhi. La ringrazio con un cenno
del capo, muovendomi barcollando. Le riviste sono in cima al mobile, dove si
intuisce che più persone vanno a mettere le mani. Comincio a sfogliare a
casaccio, incredulo di fronte all'eccezionale numero di magazine di settore.
Recupero l'indice di una raccolta di fascicoli musicali pubblicati da Curcio
Editore, allegati a una rivista chiamata Rock & Blues. Cerco Eric Clapton.
Mi manda a pagina 96 del quarto volume. Il servizio si apre con una bella
immagine del musicista inglese, che suona con altri comprimari in una specie di
teatro. Le luci falsano la realtà, facendolo sembrare una specie di robot con
la chitarra in mano. Leggo cose interessanti sulla sua biografia: abbiamo quasi
la stessa età, ma lui è nato a Ripley, piccolo villaggio a una quarantina di
chilometri da Londra. E' soprannominato "slowhand", manolenta,
curioso epiteto che non riesco a ricondurre a un'origine precisa. Risulta
tutt'oggi essere uno dei più importanti musicisti blues. Leggo e leggo, finché
non arrivo alla fatidica sentenza. Eric Clapton ha dato alle stampe nel 1970 a
una delle sue canzoni di maggiore successo: Layla. Ho un fremito. Layla e non
Laila. Dunque, ho la certezza matematica che la mia Laila non possa essere
quella della canzone… Ridicolo che abbia ancora dei dubbi in questo senso, ma
ora che posso appurare con certezza la sua estraneità nei riguardi del
capolavoro claptiano provo un senso di sollievo. Layla non è Laila. Ma poco
cambia. Quella canzone mi rimanderà per sempre al mio vecchio e indimenticato
amore.
Proseguo nella
mia ricerca, incuriosito dal fatto di scoprire chi si cela dietro alla
protagonista del pezzo. Emerge che Clapton non è l'unico autore della canzone.
Al suo fianco c'è Duane Allman, chitarrista e cantante statunitense, scomparso
giovanissimo, l'anno dopo la pubblicazione di Layla, per via di un incidente
stradale. Layla? Scopro che, in realtà, non è Layla, ma Pattie Boyd, moglie di
un altro grande amico di Eric Clapton: George Harrison, nientemeno che uno dei
quattro beatle. E che c'entra? Piccolo retroscena. Clapton e Harrison si
stimano molto e non perdono occasione per suonare insieme. Il primo
contribuisce alle registrazioni di "While My Guitar Gently Weeps",
brano composto da Harrison per "White Album" dei Beatles; il secondo
contraccambia in "Badge", dall'album "Goodbye" dei Cream,
dove suonava Clapton. Risultato: Clapton vede sempre Harrison, ma anche la
moglie di quest'ultimo, della quale alla fine si innamora, contraccambiato.
L'amore, si sa, mette pepe all'ispirazione e così Clapton decide di dedicare un
pezzo alla consorte dell'amico. Trova il pretesto per non utilizzare un nome
fin troppo esplicito rifacendosi a un poeta azero, Nezami, autore di una storia
dedicata a una principessa costretta a sposare per volontà del padre un uomo
diverso da quello di cui era innamorata. Sembra proprio la sua storia. E visto
che la protagonista della saga azera è Leylà… giungere a Layla pare
inevitabile. Giochi chiusi? Non ancora.
La canzone, dopo
qualche tentennamento iniziale, dovuto al fatto che vari opinion leader
credevano che provenisse da un semisconosciuto gruppo della periferia
londinese, ottiene un successo strepitoso, spendendo nel gotha dei più grandi
musicisti di sempre il mitico slowhand, e consentendogli di soffiare definitivamente
la moglie all'amico. Pattie Boyd divorzierà, infatti, da Harrison nel 1977 per
sposare Clapton due anni dopo. Matrimonio che, a quanto pare, sta andando
ancora oggi a gonfie vele.
Parametri
esistenziali
Dopocena mi sono
sdraiato sul divano e mi sono messo a fissare il soffitto, accantonando per un
attimo Layla e Calpton, e ripescando un argomento affrontato qualche giorno fa:
l'antropocentrismo. Ma da un nuovo punto di vista, o meglio, da un punto di
vista basato sul fatto che probabilmente anche concetti tabù come la morte
hanno valore solo se analizzati e valutati dalla nostra posizione. Non è
escluso che anche il trapasso sia un immenso granchio e che, di fatto, non
esista. Non sappiamo nulla del mondo che ci circonda, inutile negarlo, e diamo
consistenza a parametri esistenziali sui quali probabilmente non abbiamo i
mezzi per indagare. Non sappiamo quale sia l'energia che tiene in piedi
l'universo, non sappiamo cosa succede a livello subatomico, c'è discrepanza fra
le teorie di Einstein e l'immensamente piccolo, brancoliamo nel buio per ciò
che riguarda l'ipotesi di un pre-big bang.
Si dovrebbe
iniziare a parlare di biocentrismo, dove "il mondo", l'universo, è il
centro, e noi solo una minuscola e infinitesimale appendice (che se anche non
ci fosse non cambierebbe nulla). La morte, dunque, se si osservasse il processo
da questo punto di vista, non dovrebbe sussistere, essendo una prerogativa
della nostra mente, della nostra società. Siamo stati educati a credere nella
morte e, paradossalmente, a evitar di discorrerne il più possibile. Ma, in
realtà, non si muore mai, così come non si nasce mai, si esiste da sempre e per
sempre sotto forme diverse, sotto materializzazioni differenti dell'energia.
Ricordo di avere avuto questa sensazione anche quando mi capitò di vedere delle
mummie mezze imbalsamate in un sotterraneo di Praga, in seguito a un'uscita
improvvisa per la Vian. Guardavo quelle facce stranite e scheletriche e intanto
avevo l'impressione che non fossero morte, ma che fossero altrove. Era come se
a un certo punto l'energia in esse contenuta avesse smesso di irraggiare potere
per volare chissà dove. Le cose credo che funzionino così, e anche i nostri sbagli,
le nostre paure, dipendono verosimilmente dall'errata consapevolezza che
abbiamo del genere umano. Lo stesso Einstein credeva che la morte fosse una
sciocchezza. Quando gli diagnosticarono un aneurisma, rifiutò di farsi operare,
sapendo che è tutto relativo, compreso il trapasso.
Il nostro
principale errore è quello di vedere le cose sempre dallo stesso punto di
vista. Dovremmo imparare, invece, a staccarci dalla nostra apparente solidità
cosmica. Siamo in una stanza e vediamo di fronte a noi un tavolo, delle sedie,
alcuni quadri appesi alle pareti. Ma non è quello che c'è veramente, è quello
che crediamo ci possa essere: praticamente nulla rispetto a ciò che c'è
davvero. I nostri occhi, certo, sono un limite sacrosanto alla conoscenza.
Diamo giudizi in base a ciò che vediamo, ma gran parte di ciò che c'è non può
essere visto con gli occhi, ma con la mente. Dunque, nella stessa stanza dove
ci trovavamo poc'anzi, con l'intelletto arriveremmo a ben altro e vedremmo
nuvole di atomi che si aggrovigliano fra loro, misteriose particelle che
guizzano nell'aria, fantascientifiche creature che nemmeno il miglior
microbiologo della Terra saprebbe diagnosticare ed energie che ci attraversano
senza sapere cosa siano e da dove arrivino. E' grazie al potere della mente che
possiamo vedere ciò che non c'è; se invece, come facciamo, ci affidiamo agli
occhi e all'educazione che abbiamo ricevuto, non portiamo a casa nulla d'interessante.
Continuiamo a sprofondare nella nostra boria, inconsapevoli di tutto e tutti.
L'antropocentrismo
è in gran parte figlio della religione, temo; di quella cristiana soprattutto.
Le cose sono state confuse dalle sacre scritture. Qual è il senso della resurrezione
di Cristo se, in pratica, siamo già tutti i risorti e ogni giorno risorgiamo? Chiunque,
infatti, se ragionasse con la mente e non con gli occhi, vedrebbe che la reincarnazione
di Gesù - magistralmente ideata per alleviare le nostre pene convincendoci di
un immenso potere sovrannaturale in grado di regalare l'immortalità - non è che
un concetto arbitrario, obsoleto, mitologico. Non c'è nulla di vero in essa,
per il semplice fatto che racconta una verità che si verifica tutti i giorni, e
che, pertanto, non ha nulla di trascendentale. La superficialità del
cristianesimo è stucchevole, e stucchevole è il fatto che ci siano ancora preti
che non si siano accorti delle immense fregnacce che raccontano. Dovrebbero
auto infliggersi delle punizioni, non per redimere il peccato universale (altra
cosa stupida), ma per i continui lavaggi di cervello che operano nei confronti
di seguaci ignari, incapaci di fare un po’ di autocritica. Senza contare la
presunzione legata al fatto di ritenere santo Gesù, ma non Maometto e Buddha. Che
differenza ci sarebbe fra queste persone?
Semmai è il
mistero della carità cristiana che andrebbe approfondito e perseguito. Quella
magica e indescrivibile spinta che porta a vincere le leggi darwiniane,
antiponendo all'io, l'altro, questo sì che può avere un vero valore
trascendentale, il resto sono sciocchezze. Ma il cristiano medio fa troppo
spesso orecchie da mercante, facendo e predicando tutto, senza donare un bel
niente e, quindi, rinunciando clamorosamente all'unico vero paradigma della
comunione con Gesù. Al cristiano andrebbe, dunque, suggerito di evitare di
parlare di cose che non ci sono e di santificare feste che non servono, ma di
vivere come insegnava Cristo, all'insegna della rinuncia per l'altro. Mi viene
in mente Kolbe, il sacerdote che durante la guerra si fece avanti per essere
giustiziato al posto di un condannato a morte con moglie e figli. Questo è un bell'esempio
di vero cristiano, uno fra i pochissimi, gli altri scimmiottano il
cristianesimo con un'incoerenza spaventosa, abbeverandosi alla fonte
dell'ipocrisia. Anche se poi si finisce per aprire una nuova questione: il donarsi
agli altri è un puro e spontaneo regalarsi o è la modalità estrema per far
stare bene noi stessi? In altre parole, per esempio i missionari, fanno del
bene ai terzomondisti o al proprio spirito che altrimenti soccomberebbe?
Sono tornato a
parlare di questo argomento anche perché l'altro giorno ho visto un documentario
dedicato all'ipotesi di forme di vita aliene, su cui mi sono trovato a meditare
subliminalmente fino a oggi. Quasi l'intera durata della trasmissione ha avuto
come tema clou l'ipotesi che gli extraterrestri ci possano attaccare. Mi sono
scaldato. Se ci sentissero gli alieni si farebbero della grosse, grasse risate…
Ma possibile che a nessuno di noi venga in mente che per creature più o meno
sviluppate delle nostre il concetto di guerra possa non avere alcun senso? Perché
riconduciamo tutto all'uomo? Perché non s'impara a vedere le cose da un punto
di vista universale? Il fatto che ci facciamo guerra dagli albori della civiltà
non può e non deve significare che anche in altri punti del cosmo tutto ciò
abbia un significato… Ancora una volta valutiamo il discorso come se fossimo al
centro di tutto… mentre non siamo altro che minuscoli esseri terribilmente
arretrati.
Un
gatto nero a passeggio
E' notte e non
riesco a chiudere occhio. Ripenso ancora alla canzone di Clapton, mi giro e
rigiro nel letto come un drogato in crisi di astinenza; come i primi giorni di
soggiorno a Concorezzo, con una colpa troppo grande da espirare con successo,
senza un aiuto, un appoggio dall'esterno. Andare a fare una passeggiata nel
cuore della notte, con il freddo che c'è, mi pare un'assurdità… Quindi? Quindi,
come in un copione già visto, mi alzo e vagabondo per casa fino a trovarmi di
fronte alla finestra che dà sulla casa del vicino. Nonostante l'ora tarda ha
ancora le luci accese. Mi pare strano. La macchina al solito posto, i bagliori
del soggiorno, la fine del mondo verosimilmente ancora lontana; ma qualcosa mi
lascia di perplesso. Sono le due di notte e, domani, suppongo che, come tutti i
mortali (a parte il privilegiato sottoscritto) debbano andare a lavorare: cosa
ci fanno ancora in piedi? Noto delle ombre al di là delle tende che si
sovrappongono freneticamente. C'è qualcuno che va e che viene; sembrerebbero
persone diverse, affaccendate per qualcosa, ma è pressoché sicuro che siano solo
i due proprietari della casa, che si avvicendano l'uno con l'altro come se si
fossero messi in testa di traslocare col buio o fuggire per via di un'imminente
esplosione. Perché sicuro? Non so, è un'idea, una certezza che mi sovviene, non
ha senso che alle due di notte due tipi come loro stiano facendo festa con
qualche amico particolare. Peraltro non vedo parcheggiate auto lungo la via, né
ci sono altri mezzi motorizzati. Potrebbero esserci amici del paese,
sopraggiunti a piedi… ma insisto: nei giorni feriali i brianzoli non fanno festa
fino alle ore piccole. E allora… che diamine staranno facendo i miei vicini?
La luce si
spegne e si riaccende, come se qualche imbecille si divertisse a pigiare
sull'interruttore per fare passare il tempo. Lo facevo anch'io da bambino con
qualche mio cuginetto, fingendo di trovarci in un casinò di Las Vegas.
Continuano i loro assurdi avanti e indietro. Le tende subiscono uno
sconquassamento, un movimento anomalo, sussultorio. Non ci sono, però, correnti
d'aria, presumo non ce ne siano, non soffia un alito di vento e le finestre
sono ben serrate; evidentemente uno dei due è finito addosso alla finestra: la
schiena di una persona ricama un confine fin troppo netto nel drappo di tessuto,
a mo' di uno spettacolo di ombre cinesi. Per poco non si riconoscono anche le
vertebre dell'individuo sospinto da una forza a dir poco tracotante. Un brivido
mi scombussola lo stomaco, facendomi andare su e giù quel poco che ho mangiato.
Mi pare di sentire un urlo. E' un urlo. Mantengo la calma e mi avvicino alla
porta di casa che disserro lentamente.
Ora domina il
silenzio. Saluto con un cenno sbrigativo qualche creatura delle pozzanghere che
tergiversa nei pressi di un minuscolo alveare lacustre condannato
all'estinzione. Torno alla casa dei vicini. La luce del soggiorno sembrerebbe
essere stata definitivamente smorzata. Vengo, di nuovo, sopraffatto
dall'ipotesi che mi stia sfuggendo qualcosa, nel bene o nel male. Sono solo
immagini distorte della mia mente? Cosa sta accadendo in quella casa?
Prendo le
sigarette e mi metto a fumare sull'uscio di casa, seminascosto da un grosso
vaso spoglio. Dalla mia posizione posso
vedere tutto senza essere visto da nessuno. Fa un freddo della miseria ma è
come se fossi anestetizzato; benché in pigiama resisto come un eschimese alle ferite
del gelo, soffiando in mezzo alla strada nuvole di fumo e vapore. Mi guardo
intorno scoprendo una via totalmente deserta: perfino delle creature delle
pozzanghere non c'è più traccia. C'è un rumore di fondo, che non riesco a decifrare, un rumore sordo e costante.
Forse è l'eco dell'autostrada, dei mezzi ancora in circolazione. A quest'ora
della notte? Mah. In ogni caso non devono esserci tantissimi metri fra il mio
quartiere e la tangenziale e lì convergono molte altre strade.
Alla mia
sinistra odo un miagolio che mi restituisce per un attimo il buonumore. E' un
gatto nero che attraversa la strada. Gli dedico la mia attenzione, come se
fosse la più bella cosa che abbia mai visto da un bel po’ di mesi a questa
parte. Sembra l'animale più tranquillo e pacifico del creato, del tutto
disinteressato alle vicissitudini degli umani che lo circondano. Con assoluta
nonchalance filtra nel giardino dei vicini, attraversando l'ampia feritoia del
cancello, perdendosi dietro un'araucaria mezza rinsecchita. Mi rimanda ai
pensieri di oggi pomeriggio. Anche il senso di questa notte bizzarra dipende da
un punto di vista: in questo caso, il mio e quello di un gatto teso a traguardi
che non mi competono minimamente. L'antropocentrismo abiura lo spirito critico,
ma è sufficiente il semplice galoppo di un felino domestico a far quadrare
nuovamente le cose. Basta un piccolo sforzo, un misero e mistico ragionamento. Basterebbe
poco, per tutto.
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