martedì 1 novembre 2011

Affari condominiali: secondo piano, appartamento B



Mamma e papà non ne erano molto felici. Tutti quei chilometri in macchina da solo, era una specie di pazzia. Peraltro le strade non erano come da noi, solide, pulite, ampie e spaziose. Spesso erano a mo' di mulattiera, piene di buche, sdrucciolevoli e chissà che altro. Circolavano ancora carretti trainati dagli asini. Ma non c'era stato verso di fargli cambiare idea. L'amore si era detto allora, e si direbbe ancora oggi, se non fosse che in molti si chiedevano onestamente se fosse vero amore, e non solo, quindi, una scusa per strappare una fanciulla al suo auspicato destino, quello di tutte le sue coetanee, anch'esse lontanissime dalla filosofia italica, perché semplicemente nate altrove, in un contesto spazio-temporale differente, con una cultura diversissima dalla nostra, pizza, Rinascimento e smandolinate; strappata al suo domani per risollevare il proprio, da troppo tempo raggomitolato su se stesso in cerca di una valida soluzione amorosa che non arrivava mai. L'Ucraina nel 1986 era un paese sostanzialmente sovietico, entrato a far parte dell'URSS nel 1922. Politiche di emancipazione venivano accarezzate fin dal dopoguerra, ma i russi facevano di tutto per mantenere la nazione sotto la propria giurisdizione, senza le sue risorse non sarebbero andati molto lontano. Le questioni economiche e gli interessi in gioco erano altissimi. Ma era una nazione rigorosissima, con un'identità a sé stante, figlia di una cultura ricca e più che dignitosa. Chi la abitava si sente più mitteleuropeo che non russo, anche in virtù di tradizioni che rimandavano frequentemente a paesi come la Polonia. Era uno stato dominato dall'agricoltura, resa facile dai numerosi fiumi che solcavano il territorio, l'irrigavano e lo fertilizzavano, conferendole peraltro la tipica aria campestre e folcloristica. Non per niente l'Ucraina veniva soprannominata il granaio d'Europa, nonché il paniere della Russia. C'erano i cosiddetti kolchoz, in favore dell'economia collettiva, termine che rimandava con un pizzico di romanticismo all'epopea staliniana, che ricevevano la terra in gestione, percepivano uno stipendio, ma dovevano coltivare ciò che decideva lo Stato. Per molti andava bene così, tanto che, successivamente, col crollo del comunismo, numerosi ucraini avevano cominciato a rimpiangere i vecchi tempi. Per il resto non è che si sapesse molto dell'Ucraina, paradossalmente il paese più esteso d'Europa. Chi erano i suoi scrittori? E i suoi cantanti? Chi era il filosofo più importante? Buio.
Ma in Ucraina abitava la bella di Domenico Ciccarelli, trentaduenne omatese, mogio e rassegnato centralinista presso una ditta di tessuti non lontano dalla Bovisa. Si erano conosciuti per via di un cugino di Domenico, Andrea, sposatosi cinque anni prima con Svitlana Tolchinsky, giovane affascinante, originaria dello stesso paese, incontrata per caso in seguito a un viaggio di affari; affari per modo di dire. In realtà il cugino di Domenico gestiva strani rapporti con altrettanto eccentrici individui provenienti dall'est, con la fedina penale piuttosto malconcia; un giorno s'era perfino beccato un proiettile nella schiena, che per poco non lo aveva mandato al creatore. Lo aveva salvato il provvidenziale istinto di gettarsi a terra, subito dopo l'innesco della sparatoria. Faceva avanti e indietro da Kiev, visitando di tanto in tanto anche i piccoli centri della steppa ucraina, distese infinite di praterie erbose, così familiari a Svitlana. Un giorno s'erano ritrovati tutti al secondo piano, appartamento B della famiglia Ciccarelli, dove avevano brindato all'acquisto di una licenza per gestire un'edicola in una piazza di Cambiago. Non si sapeva ancora bene chi l'avrebbe coordinata, ma intanto la licenza c'era, era viva e vegeta, e questo bastava a rendere euforici i Ciccarelli al gran completo, sempre ottimisti innanzi a un nuovo progetto. Era per via del loro sangue partenopeo, notoriamente legato a caratteri gioiosi e brillanti.
Con il cugino e Svitlana c'era anche una ragazzetta mora, con i capelli lisci come spaghetti, gli occhi bui e profondi, le guanciotte rosee, e un'espressione vagamente malinconica. Si vedeva lontano miglia che veniva da un paese perduto e che non aveva mai avuto a che fare con una nazione prospera e civilizzata come l'Italia. Guardava tutto come se fosse la prima volta, comprese le cabine del telefono, che nel suo paesello non erano mai arrivate. Guardava con suadente passione le automobili in circolazione, le pubblicità dei cartelloni, le pareti ben pitturate delle case… Era l'amica del cuore di Svitlana: così diceva lei, in realtà pare che fossero in qualche modo imparentate fra loro. Ci doveva, infatti, essere una specie di antenato che le riconduceva entrambe al medesimo albero genealogico, fruttificante in un'area ben precisa dell'ampia radura ucraina. Si diceva anche che questo ramo genealogico fosse in qualche modo figlio di una potente famiglia riconducibile a un misterioso paese georgiano. Con essa Domenico s'era appartato per qualche minuto in cucina, con la scusa di offrirle qualcosa da bere, aveva bofonchiato due o tre parole in inglese, sperando in un dialogo forbito. In realtà la ragazza non parlava altro che ucraino, benché cominciasse a intuire, più dai gesti che altro, qualche lemma in italiano; dal canto suo era arrivata addirittura a supporre che i due idiomi fossero per qualche assurdo retroscena lessicologico assimilabili fra loro. Chiaramente era una fesseria. Poi erano partite le presentazioni ufficiali.
Elisabetta?”.
Elizaveta”.
Elisaveta?”.
Elizaveta”.
Ah, ora ho capito e...”.
Blavatsky”.
Questo è troppo difficile”.
Ви?”.
Come?”.
Ви?”.
Ah, il mio cognome? Ciccarelli, Cic-ca-rel-li”.
Cigamelli?”.
Eh, più o meno!”.
Erano andati avanti a ridere come sciocchini, pur capendosi ben poco. Ma da lì la loro storia aveva preso il largo. S'erano scambiati i rispettivi indirizzi e numeri di telefono: così avevano proseguito per sei mesi prima di rivedersi di nuovo in quel di Omate, dove Domenico era stato assai lieto di poter ospitare quella che sarebbe diventata la sua sposa. Nel frattempo Elizaveta aveva compiuto il diciottesimo anno di età, evitando dispiaceri al partner che, alle prese con una minorenne, sarebbe potuto finire in un mare di guai. Già qualcuno aveva ironizzato con malignità sulla condotta del compaesano, benché fosse obiettivamente lontano da qualunque condotta illegale: sessualmente parlando i due si sarebbero concessi l'uno all'altro solo con la ragazza entrata ormai ufficialmente nella maggiore età; prima di allora ci sarebbe stato solo qualche sporadico e innocente bacetto. Il debutto era stato piuttosto precipitoso e imbarazzante. I genitori di Domenico erano in giro per Milano, amavano passeggiare per il capoluogo lombardo, rivendicando un affetto sincero che, nonostante gli anni, non era ancora appassito, ed Elizaveta era rimasta da sola in casa con Domenico concentrato su una partita di pallone in tv. La ragazza l'aveva raggiunto in sala completamente nuda e l'aveva affrontato con un sorriso imbronciato, dimostrando che, verosimilmente, non sarebbe voluta essere lì in quelle condizioni, se non per ringraziare a modo suo un uomo che, comunque si voglia vedere, l'aveva strappata dalla miseria. Domenico per poco non veniva meno. Più che dalle sue sinuose forme, però, era stato colpito dal candore della sua pelle, un candore che non aveva mai riscontrato sul corpo di una ragazza. Evidentemente era una prerogativa delle abitanti del nord est europeo. Ma si era ripreso velocemente, offrendo le sue braccia alla piccola, stringendola a sé prima di coricarsi con dolcezza sul divano; con l'acquolina. Elizaveta tremava. Per il freddo? Mah. Sennò cosa? Poi però era diventato tutto più chiaro, quando all'atto della penetrazione la ragazza aveva lanciato una specie di urlo, rivelando al cielo la sua illibatezza. Dopo aver fatto l'amore, Domenico non aveva saputo se ridere o piangere. Forse era stato troppo irruento. Forse avrebbe dovuto rimandare a un altro momento. Forse mille altre cose… Non l'avrebbe mai capito: Elizaveta era corsa in camera a rivestirsi, lasciando come un pesce fuor d'acqua l'amato. Ma ormai i giochi erano fatti. A tal punto era bastato davvero un niente per stabilire il convolo. Una parolina al posto giusto, al momento giusto e il matrimonio sarebbe divenuto realtà. Lui, d'altronde, non stava più nella pelle, desiderava sposarla con tutte le sue forze, da così tanto tempo digiuno di una ragazza che potesse sorridergli compiaciuta: dopo i fasti adolescenziali se l'era vista sempre piuttosto male e sembrava che i rapporti con l'altro sesso non fossero più una sua prerogativa. Peraltro quasi tutti i suoi coetanei erano ormai più o meno felicemente ammogliati e qualcuno aveva anche già messo al mondo un figlio. Lei gli aveva detto sì, ma da un'altra prospettiva, senza pensarci troppo, senza prendere troppo sul serio la faccenda, quasi fosse la triviale richiesta di un amico, concernente una serata da trascorrere al cinema o al luna-park. Ma un presupposto, per fortuna, c'era: era quello inerente Svitlana, che sembrava essere davvero felice dopo essersi accasata con un italiano. E c'era il fatto che amava a dismisura la moda del Belpaese, convincendosi che d'ora in poi si sarebbe vestita come Dio comanda, seguendo i diktat degli stilisti italiani, all'occidentale, dimenticando i fioroni vecchiardi delle sue parti, con cui venivano imbastiti foulard e gonnoni.
Sicché era stato tutto deciso, ma con un piccolo particolare: per via di complicatissime operazioni burocratiche sarebbe stato necessario che i due si sposassero in Ucraina e non in Italia, dove sarebbe stato più difficile sistemarsi. Poi sarebbero tornati insieme nel Belpaese per vivere la loro vita. Era una condizione legata anche alle rispettive religioni. Domenico era cattolico, Elizaveta ortodossa. Domenico, però, era quasi del tutto indifferente alle pratiche religiose del suo paese, era fondamentalmente un agnostico non-pensante, mentre per Elizaveta era necessario affidarsi a modo suo al Signore, per godere di certe grazie. Nello specifico si rifaceva alla chiesa ortodossa autocefala ucraiana, con riti non condivisi dalle altre liturgie. Le condizioni economiche di Domenico, però, non erano così floride da permettere la prenotazione di un aereo per due, così aveva pensato di raggiungere il granaio d'Europa con la sua macchinetta, una Fiat Ritmo dell'Ottanta, solo parzialmente conscio dell'enorme distanza che lo separava dalle pendici dell'amato Resegone. Era partito con un giorno di anticipo per avere la possibilità di visitare Budapest, che non aveva mai visto in vita sua, sì e no a metà strada del percorso prestabilito: Ternopil era la città che doveva raggiungere, una metropoli di cui non aveva mai sentito parlare prima di conoscere Elizaveta Blavatsky, non lontanissima dal confine ungherese, fondata nel 1540 e abitata perlopiù da polacchi ed ebrei. Peraltro gli avrebbe consentito di ricaricare le pile, sgranchire gambe e braccia, ridare fiato ai polmoni, dopo più di dodici ore di guida. Aveva pernottato per una sola notte in un ostello in via Rakoczi, uno stradone trafficato che tagliava in due Pest, la parte più moderna della metropoli. A riceverlo, una conturbante signora over quaranta, con un seno che protendeva senza inibizioni dalla camicetta mezzo sbottonata, sulla quale non aveva potuto non soffermarsi con piacere. Lei parlava fluidamente inglese, Domenico molto meno, ma in qualche modo era riuscito a farsi capire.
Only one night, only one night. I'm from Italy, I'm from Italy…”, continuava a ripetere meccanicamente.
L'indomani, dopo una notte incredibilmente serena e riposante, aveva trascorso la giornata a spasso per le arterie e arteriole della capitale ungherese. La prima parte del dì l'aveva dedicata a Pest, la seconda a Buda. A Pest aveva percorso avanti e indietro via Rakoczi, raggiungendo il grande parco a nord della città, nei pressi della più antica linea europea della metropolitana, ancora abbellita coi gusti tipici dell'Ottocento austro-ungarico. C'era un vasto lago e diversi monumenti dei quali, però, non conosceva minimamente la storia e il significato. Non che gli importasse granché. Uno di essi, però, l'aveva rimandato all'iconografia del castello di Dracula, pagina dell'immaginario collettivo a lui tanto cara, dopo averla fatta sua in seguito a una lettura su Stoker. Era una specie di chiesa, caratterizzata da due mini-campanili appuntiti, che terminavano contrassegnati dalle riproduzioni marmoree di animali fantastici: era vagamente possibile discernere una specie di drago e un personaggio alquanto ambiguo, facilmente assimilabile a qualche malvagia creatura degli inferi. Da qui era scivolato in via Andrassy, fra le più nobili della capitale, circondata da eleganti case di fine diciannovesimo secolo, fronteggiate da giardinetti curatissimi e da alberi maestosi. Un signore malmesso gli aveva chiesto l'elemosina: se l'era trovato all'improvviso fra le braccia e per un breve istante aveva provato un senso di smarrimento. Poi gli aveva sganciato i pochi spiccioli che erano rimasti in tasca dopo aver consumato una sbrigativa colazione con una brioche farcita di wurstel.
La sponda destra del Danubio pullulava di vita. La strada che costeggiava il fiume era trafficata all'inverosimile. I negozi continuamente presi d'assalto da turisti in cerca di souvenir. Ormai la primavera aveva fatto capolino e il clima era dolce. Domenico se ne compiaceva provando un'atavica soddisfazione, aprendo senza imbarazzo la cerniera del giubbotto che lo proteggeva, e osservando con gusto infantile il sorvolare degli uccelli. Nei pressi di una breve rientranza dell'alveo aveva osservato due chiatte salpare colme di merci sigillate all'interno di misteriosi scatoloni di legno. Si era sforzato di capire cosa potessero contenere, ma senza giungere ad alcun risultato soddisfacente. Aveva pensato anche al traffico illegale di armi. Attraversato il famoso Ponte delle catene aveva conquistato i colori e le atmosfere fiammeggianti di Buda, un vero e proprio tuffo nel passato. Nel cuore antico della città aveva indagato dall'alto l'insediamento magiaro, rimirandone le guglie e il placido trascorrere del Danubio. Aveva pensato che non gli sarebbe dispiaciuto abitare a Budapest, sicuramente meglio di Omate; ci sarebbe potuto abitare, perché no, proprio con Elizaveta: non sarebbe stata una cattiva idea proporglielo al suo arrivo…
Che ne diresti di trasferirci a Budapest?”, era una domanda che gli suonava già familiare come rispondere alle chiamate dei fornitori, che ogni tre per due lo tartassavano al suo posto di comando.
In fondo, dovevano costruirsi da zero, e un posto valeva l'altro. Di certo, però, sapeva che non gli sarebbe piaciuto abitare in una casa come quella dove viveva coi suoi, l'appartamento B del secondo piano dell'imponente palazzo omatese, prima del curvone per Caponago. Era un appartamento anonimo, le cui finestre davano su una strada grigia e insignificante. Al suo interno stava stretto, non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello spirituale. Benché non ne avesse mai avuto l'opportunità, avrebbe, infatti, da sempre voluto vivere in una casa con un po' di verde davanti, una dimora magari più brutta di quella che l'ospitava da parecchi anni, ma con almeno un piccolo giardino che potesse dargli respiro, coraggio, vincere l'ansia del dover ogni giorno recarsi a Milano, vinto da un pressante grigiore esistenziale. Amava i cani e non gli sarebbe dispiaciuto curarne uno, da lasciar libero di muoversi all'interno di una macchia verde personale. Era stato assalito da una vaga malinconia, in concomitanza con un colpo di vento più acceso degli altri; trovandosi a ragionare sulla sua vita, sui suoi traguardi, e sul fatto che, in effetti, si sarebbe aspettato qualcosa di più dai suoi sogni adolescenziali. Da piccolo, dopo la breve e affascinante parentesi dedicata all'idea di diventare un esperto benzinaio, s'era, infatti, immaginato un personaggio importante, pieno di soldi e, perché no, di donne adoranti pronte a soddisfare ogni suo desiderio. Ma le cose, evidentemente, erano andate in tutt'altro modo. L'esperienza liceale era naufragata pochi mesi dopo il debutto all'omni-comprensivo di Vimercate: non capiva la necessità di dedicare così tante ore allo studio, quando c'erano modi che parevano ben più immediati di portare a casa la pagnotta. Il primo impiego l'aveva assolto come garzone presso un meccanico di Vignate. Ma non era durato più di due settimane. La sua tragicomica abdicazione, però, non era sopraggiunta per la fatica fisica inerente il trasporto di pneumatici e radiatori, e l'avvitamento di bulloni induriti dalla ruggine inutilmente impiastrati di grasso, ma per lo stress di dover percorrere ogni giorno quindici chilometri per raggiungere l'officina, che diventavano trenta, considerato il rientro a casa. Da lì era iniziato un calvario professionale che l'avrebbe accompagnato fino all'alba dei trent'anni, con la conquista del posto di centralinista alla Bovisa, dove, perlomeno, non c'era da spezzarsi la schiena. Inoltre non era più felice dei suoi rapporti interpersonali, rapporti che, francamente, non esistevano da anni. Aveva un amico intimo fino al 1983, col quale passava le serate in un bar di Vimercate a bere birra e a fumare, ma poi il tipo era scomparso dall'oggi al domani senza dargli alcuna spiegazione. Non aveva più amici e tantomeno donne a portata di mano, e questa situazione lo faceva stare male. Aveva un desiderio ben preciso: mettere su famiglia. Ma con chi? Poi era partito con una serie di domande auto-accusatorie. Dove sbagliava? Forse era perché raccontava troppe balle, come qualcuno sosteneva? Balle che servivano, o almeno uno psicologo avrebbe creduto potessero servire, per darsi un po' di tono? Mistero. Tuttavia con l'arrivo di Elizaveta tutto era cambiato, aveva ritrovato il sorriso e la fiducia in sé: finalmente c'era qualcuno disposto ad amarlo e di cui prendersi cura.
Verso sera, ormai stanco di sgattaiolare fra un vicolo e l'altro di Buda, s'era rifugiato in un pub nei pressi del Parlamento. Era un locale minuto, con un arredamento che richiamava più design irlandesi o scozzesi, che non magiari. Al suo interno le pareti erano addobbate di immagini di musicisti heavy metal, completamente sconosciuti a Domenico, che, in ogni caso, non provava alcun interesse per l'universo delle sette note. Sul genere, però, non si poteva proprio sbagliare: che altro avrebbero potuto suonare individui con i capelli lunghi fino al sedere, la cicca in bocca, il giubbotto di pelle nero, catene e catenelle con croci e crocette? Gli erano venuti in mente i Kiss, di cui gli piaceva una canzone, che riusciva ancora a canticchiare come un beota sotto la doccia: Beth. Una foto, in particolare, era riuscita a catturare più delle altre la sua attenzione: era quella raffigurante il proprietario del bar - che aveva intuito chi fosse, per l'aria da bullo che lo contraddistingueva aggirandosi per i tavoli del locale, regalando a destra e a manca pacche sulle spalle - che rideva come un quacchero unto dallo spirito santo, davanti a una donna con due mastodontiche tette al vento. Accomodatosi su un tavolino tondo, proprio sotto la foto osé, aveva preso a sfogliare il menù, deciso a ordinare qualcosa da mangiare: lo stomaco già da qualche ora brontolava ed era, peraltro, necessario rifocillarsi come si deve per intraprendere, l'indomani, la parte finale del viaggio, forse quella più dura, lungo le strade meno agevoli. A mezzogiorno era stato un po' leggero, un sandwich al volo, e via.
Zuppa di fagioli alla Jókai, pollo alla paprica con cavoli ripieni e latte di uccello, era stato il felice esito della nuova ricerca, benché non avesse ben chiaro in mente ciò che aveva letto e quindi il tipo di piatti che gli sarebbero spettati. Dalla posizione scelta poteva vedere la tv, appesa con due sbarre metalliche al soffitto: non gli importava granché, ma così, magari, avrebbe passato meglio il tempo fra un morso e l'altro. Sicché era da poco arrivata la zuppa, quando la sala, all'improvviso, aveva smesso di fiatare e tutti, compreso il ridanciano boss, s'erano messi a fissare il tubo catodico, come se avessero davanti un extraterrestre. Domenico lì per lì non ci aveva dato troppo peso, poi, però, verificando un'attenzione dei presenti alle news a dir poco maniacale, s'era domandato se per caso non fosse accaduto qualcosa di eccezionale in qualche parte del mondo. Non capendo un'acca di ungherese e non avendo amici a cui chiedere, poteva solo affidarsi alle immagini: vedeva uno speaker che con grande enfasi raccontava un qualcosa di impossibile da comprendere, con lo sfondo la silhouette malconcia di una specie di grossa industria. Domenico non capiva proprio di cosa potesse trattarsi: osservava un torrione bislungo, colorato a strisce bianche e rosse, orizzontali, circondato da parallelepipedi in cemento dall'aria spettrale, con minuscole finestrelle. Poi era comparsa l'immagine di un trifoglio nero su fondo giallo, simile a quello che sapeva riferirsi ai rifugi antinucleari della Difesa Civile statunitense, dopo aver visto un documentario di Quark che parlava dell'ipotesi di un terzo conflitto mondiale. Così s'era reso conto che il problema potesse concernere un evento di natura nucleare. Una guerra? Un bombardamento? Un attacco alieno? Niente di tutto ciò… All'improvviso il tipo che stava seduto di fianco al suo tavolo s'era alzato di scatto, riguadagnando l'uscita a gran velocità, presto imitato da un paio di altri commensali. A Domenico era parsa una situazione assurda e surreale. Poi l'inserviente gli si era fatto vicino con le guance paonazze, rincarando la dose:
ядерної аварії!! ядерної аварії!!”, aveva gridato.  
Domenico era in seria defaillance. Sembrava che fossero tutti impazziti. Poi, foturnatamente, era comparsa sullo schermo una cartina geografica che per qualche secondo aveva preso il posto della foto-immagine del fantomatico impianto energetico, al centro del clamore suscitato: la cartina raffigurava chiaramente la distanza che separava Budapest da una cittadina sul confine fra Bielorussia e Ucraina, a uno sputo dalla sua destinazione, dove Elizaveta lo stava attendendo a braccia spalancate. Ternopil era a occhio e croce a cinquecento chilometri dal luogo menzionato dallo speaker televisivo, una distanza assai esigua se considerata in merito a sostanze che si propagano nell'aria seguendo i capricci atmosferici. Sostanze come i veleni radioattivi.
There was a nuclear accident a few miles from here! Should immediately run for cover!”.
L'allarme, in questo caso, era stato sollevato da un tale con la testa pelata, che cercava di spiegare a qualcuno al telefono quel che stava accadendo. Domenico era riuscito solo a comprendere “nuclear accident”, ma probabilmente gli era bastato. All'improvviso la fame se n'era andata: la zuppa di fagioli alla Jókai non era male, ma adesso aveva una specie di groppo alla gola che gli rendeva difficoltosa qualunque deglutizione, compresa quella di un sorso d'acqua, che fino a pochi secondi prima rincorreva come un beduino del Sahara. L'inglese aveva riattaccato, così gli era venuto in mente che, anche lui, avrebbe potuto chiamare casa per avere qualche delucidazione in più, magari s'erano fatti tutti un mega film, e non c'era nulla di cui preoccuparsi. Magari era in corso il finimondo e lui non era al corrente. Tutto era possibile, non restava che indagare. Anche per capire cosa avrebbe dovuto fare. Cosa avrebbe dovuto pensare legittimamente… Al primo tentativo di mettersi in contatto con l'Italia il telefono era risultato occupato. Poi aveva risposto la madre, incollata alla tv col marito e la madre di Giulio Sangalli del primo piano, che aveva fatto un salto fin lì per risolvere una piccola questione sui turni legati allo smaltimento della spazzatura condominiale: qualcuno aveva saltato il servizio e l'immondizia cominciava a rilasciare effluvi nauseabondi che inondavano i piani bassi.
Ciao mamma...”.
Ma la signora non aveva fatto finire la frase al proprio figliolo, che l'aveva immediatamente subissato di domande.
Domenico! Cosa fai? Dove sei?”.
E immediatamente dopo d'ordini e raccomandazioni.
Vieni subito a casa! C'è stato un grave incidente nucleare a pochi chilometri dalla casa di Elizaveta e ora le onde radioattive si stanno propagando per tutta l'Europa! Non hai idea di quello che stanno raccontando al telegiornale. La situazione è terribilmente seria: io e papà siamo molto preoccupati. Devi assolutamente scappare, se non vuoi che...”.
Poi era caduta la linea. Definitivamente. Domenico aveva cercato di rimettersi in contatto con i familiari, per avere qualche informazione più dettagliata, e non meno per cercare in qualche modo di sedare l'ansia della madre, ma senza esito: il telefono sembrava essere andato in tilt e il padrone del pub lo guardava in cagnesco, sollecitandolo a darsi una mossa, che ora toccava a lui. Tuttavia erano bastate quelle poche parole di colei che l'aveva messo al mondo a offrirgli un quadro quantomeno approssimativo della faccenda: era saltato all'aria qualcosa di grosso (forse una centrale nucleare? Ma cos'era una centrale nucleare?) e ora il mondo intero rischiava di finire contaminato da micidiali onde radioattive.
Le spore radioattive? No, queste non credo che c'entrino”, mugugnava fra sé, masticando con rabbia il pollice della mano destra, e riflettendo su un lemma che gli si era imposto apparentemente senza motivo nella sua mente febbricitante.
Doveva, in ogni caso, essere accaduto qualcosa di veramente importante; solo così, infatti, riusciva a razionalizzare l'atteggiamento di tutti coloro che s'erano trovati con lui in quel budello di Budapest, con il naso all'aria in attesa di mettere qualcosa sotto i denti. Il loro panico, la loro incredulità, non erano quelli che scaturivano per qualcosa di banale e risaputo. Al di là della teatralità della madre, una certa idea di finimondo doveva e poteva essere dietro l'angolo. Eppure, in strada, questa sensazione di sgomento non pareva sussistere, tanto che, dopo aver percorso pochi passi, gli era tornata la fame. In strada sembrava tutto normale, come se nessuno sapesse nulla, o come se, in realtà, non stesse accadendo alcunché di ciò che pareva profilarsi. La scenografia urbana non era diversa da tutti gli altri giorni, che Domenico non conosceva, ma poteva benissimo sospettare. C'era il solito traffico, le solite luci delle insegne commerciali, dei semafori, il via vai trafelato delle persone, qualche bicicletta, qualche cagnolino affamato che si aggirava nei pressi di un cestino che strabordava di immondizia. A questo punto, però, gli era sorta una giustificatissima domanda. Cosa doveva fare? Proseguire o tornarsene sui suoi passi? A cosa sarebbe andato incontro proseguendo? E rinunciando al proposito di vincere i confini dell'Ungheria per tuffarsi nel calderone ucraino? Se le sue intuizioni erano giuste - e di margini di errore, a onor del vero, a questo punto, ce n'erano ben pochi – osservando il percorso prestabilito, ossia dirigendosi verso i confini incriminati, verso l'amore della sua vita, sarebbe finito diritto nelle fauci del leone: il veleno radioattivo proveniva da est, proprio verso la direzione che intendeva intraprendere. Per sfuggire alle “spore nucleari” c'era, dunque, un solo modo: dirigersi dalla parte opposta, verso ovest, in pratica verso le arterie stradali appena percorse, in subliminale collegamento con Omate, l'amata e odiata terra natia. Ma era questo ciò che voleva? Più no, che sì…
Muovendosi a piedi verso l'ostello di via Rakoczi, presso il quale doveva passare la notte, rimuginava su ciò, in attesa di una definitiva rivelazione. C'era un lieve venticello che gli accarezzava le gote regalandogli un piacevole sollievo, le luci degli appartamenti che si affacciavano sulla via, ben più forti del luccichio di una luna piena appollaiata poco sopra l'orizzonte… E se il pallore del satellite fosse dovuto alle radiazioni? Al trifoglio giallo?
Oddio”.
All'incrocio con via Klauzal aveva, in ogni caso, già trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Sul muro scrostato di un portico c'era un cartellone raffigurante una giovane coppia a spasso con due piccole creature, una bimba biondissima, coi boccoloni, e un bimbo altrettanto biondo, ma liscio, con un ciuffo che gli ricopriva l'occhio destro, rimandandolo a certi eroi dei cartoni animati giapponesi. Fermatosi a osservarlo, mosso da un entusiasmo abbacinante, aveva pensato potesse essere un segno del destino. E s'era rimproverato di aver anche solo ipotizzato per un attimo di fare retrofront. Retrofront per dove? Per una vita indegna di essere vissuta? Per una vita vuota come quella che aveva vissuto fino a quel momento? Senza amore, senza passione, senza... Ora, per fortuna, era tutto più chiaro, lampante. Il suo domani, la sua Elizaveta era a est, nel cuore dell'inferno radioattivo. E dunque era lì che sarebbe andato, anche a costo di... di rimetterci le penne. In tal caso ce le avrebbe rimesse con il suo futuro, con la sua speranza, con la sua gioia di vivere, con colei con la quale aveva deciso di trascorrere il domani: ne sarebbe sicuramente valsa la pena.
Il vento s'era ulteriormente alzato, sospinto da un'energia misteriosa, forse “nucleare”, ma Domenico era già altrove, colto da una crescente euforia. Erano bastati pochi passi all'aria aperta per fargli tornare tutto, contro ogni sana e consapevole prospettiva esistenziale, e le preoccupazioni lontane dei genitori, le uniche due persone al mondo, comunque, ad amarlo veramente.
"Ma la vita è così che va vissuta", aveva blaterato a voce alta, convincendosi definitivamente della sciagurata scelta fatta. "Guardando avanti e non indietro, guardando al coraggio di credere in qualcosa di vero e importante, e di voler giocare anche le poche carte che si hanno a disposizione pur di ottenere il risultato sperato. La nostalgia, il passato, l'amore per chi ci ha messo al mondo, sono tutte cose belle, ma da prendere con le pinze; sono aspetti che possono ingannare, rendendoci pusillanimi, rinunciatari, debolmente inutili…". È a questo che era arrivato Domenico Ciccarelli con la notte di Budapest ormai spuntata, un monito che non lasciava dubbi: all'alba del giorno dopo sarebbe, infatti, partito per correre dal suo domani.

lunedì 31 ottobre 2011

Senza retorica: "Pippo"


PIPPO

Pippo cosa fa tutto il giorno
Com'è che si costruisce un avvenire
Lì tutto il santo giorno ad impazzire
Compreso il sabato e la domenica
Pippo

Pippo cosa inventa e com'è che fa
Fa a convivere con la malinconia
Se suona il pianoforte
Nessuno che l'ascolta
E arrivederci primavera
Pippo

Pippo come no, la donna sì ce l'ha
Si chiama così, si chiama cosà
Ma lui la chiama vento
E solo qualche volta nostalgia, bella mia
Pippo

Pippo e il suo profumo
La sua carneficina
La vita che cammina
La vita che si ostina
E il tempo come un amante
Come una nevicata di novembre
Pippo

Pippo un saltimbanco
Qualunque cosa sia
La mamma andata via
Partita per l'America
Con una borsa piena di gioielli
Belli, belli

RIT. Pippo spera
E quante cose sa, che c'è la notte intera
Che non lo tradirà
E Pippo cosa sogna, che sogni mai farà
È già passato un anno
È già passata un'eternità
È già passato un anno
È già passata un'eternità

Pippo dove va, con chi sta
Quante cose che lui vorrebbe imparare
Una parabola esistenziale
E le onde del mare

Pippo
Non si stupisce
Che cosa dice
Non si capisce
È anche un po’ dislessico
Pazienza il lessico
E le galline pronte da sgozzare

Il temporale
Che non fa male
Che non fa niente
È semmai la gente
Che si fa condizionare
Dalla paura e dall'ipocrisia

Ma non è Pippo
Il più cretino
Il più imbecille
Il più bambino
Il più sfrontato di questa scuola
Elementare, da cancellare

RIT. Pippo spera
E quante cose sa, che c'è la notte intera
Che non lo tradirà
E Pippo cosa sogna, che sogni mai farà
È già passato un anno
È già passata un'eternità
È già passato un anno
È già passata un'eternità

2011

giovedì 20 ottobre 2011

Affari condominiali: secondo piano, appartamento A


Era il solito caos: la mamma che urlava, la zia che urlava, la nonna che urlava… Era la casa in cui viveva Maurizio, diciottenne gaio e spensierato, ormai abituato a convivere con un gineceo infinito, dacché il nonno era passato a miglior vita nel 1978, per severi problemi legati a un enfisema scoperto troppo tardi dopo una banale visita di routine. Il papà, invece, non l'aveva mai visto, mai conosciuto. Se n'era andato quando lui era appena nato. Andato? C'è chi pensa che sia, in realtà, stato cacciato, dalla moglie, la mamma di Maurizio. Nessuno ha ancora saputo ricostruire con esattezza ciò che è accaduto alla famiglia Meroni sul finire degli anni Sessanta, in concomitanza con la nascita del piccolo Maurizio. Correva il 1968 e subito dopo la venuta alla luce dell'angioletto del casato era scoppiato il finimondo. Il padre, a quanto pare, non era il vero padre del bimbo, ma semplicemente il marito della mamma di Maurizio, tal Carla Meroni. Maurizio – siamo sempre nell'ambito delle ipotesi – doveva averlo avuto da un altro, un forestiero: voci mai sopite parlavano di Cesare Capomastro, un borioso e avvenente ragazzone che girava per Omate a bordo di fuoriserie che nessuno sapeva dove potesse andare a raccattare; peraltro era sempre in giro, non si capiva che lavoro facesse, e come potesse guadagnare così tanto da tener testa a un tenore di vita così elevato. Ma tant'è. Il bellimbusto frequentava spesso casa Meroni, una parca e lugubre costruzione di fine Ottocento, sulla strada per Burago, essendo abitata dal nonno di Maurizio, che gestiva affari un po' in tutto il paese, affari che, a onor del vero, non portavano mai a niente di veramente importante, se non a qualche debito in più col quale convivere; non era la sua disonestà a fregarlo, ma la sua eccessiva accondiscendenza; era troppo buono per fiutare col tiro giusto gli affari, alla fine si faceva sempre beccare per qualche magagna, tramata da altri molto più furbi e lungimiranti di lui. Col nonno c'erano la nonna, una donna severa e apprensiva, con un'infinità di acciacchi dovuti all'età; la mamma di Maurizio, marescialla dal carattere burbero e mascolino; e il marito di quest'ultima, Vincenzo Cordisco, col quale Capomastro non aveva il minimo rapporto; se si incrociavano, accennavano a un superficiale saluto con un cenno del mento, ma niente confidenze. Era una realtà provvisoria, visto che i due sposini, presto, se ne sarebbero andati in un appartamento in via di realizzazione a Cavenago, lasciando il posto alla sorella di Carla, Giuditta, di ritorno da un'esperienza di lavoro a Bologna, poco proficua. Con questa serie di visite Carla e Cesare avevano cominciato a scambiarsi battute sempre più feroci e maliziose, fino a organizzare per vedersi clandestinamente.
Ti va di bere un caffè?”, le aveva domandato lui, un dì che per qualche minuto erano rimasti in casa da soli, in attesa del rientro del capofamiglia.
Si può fare, ma meglio che mio marito non lo sappia”.
Scusa se te lo dico, ma tuo marito non mi sembra un tipo così sveglio...”.
Trovi?”.
Trovo, tu no?”.
Beh, sì, in effetti... ma è meglio non sottovalutare la situazione”.
Da lì il passo era stato breve. Dal caffè erano arrivati al panino, dal panino al cinema, dal cinema... al sedile recrinabile del bolide di Capomastro. Una sera s'erano imboscati in una stradina di campagna parallela al provinciale che collega Vimercate a Trezzo, verso gli orizzonti di Bernareggio. La luna brillava nel cielo come raramente capitava durante l'anno, e l'atmosfera per appartarsi ad amoreggiare era a dir poco idilliaca. In questa cornice romantica s'erano concessi per la prima volta l'uno all'altro, consuetudine che avrebbero mantenuto per vari mesi, senza dare il minimo sospetto. Vincenzo notava la moglie sempre meno disposta a concedersi a lui sessualmente, tuttavia non aveva assolutamente pensato che potesse esserci qualcun altro a soddisfarla; un po' per ingenuità, un po' perché il contesto educativo nel quale si era trovato a crescere fino a quel momento, non contemplava in nessun caso la possibilità che una moglie potesse essere così miserevole da tradire un uomo appena sposato. Sicché, un giorno, dopo una doccia sbrigativa, colta da un anomalo conato di vomito, tale da farla sbandare per qualche minuto, Carla s'era posta il serio dubbio che potesse essere incinta. Non aveva detto niente per un po', ma aveva preso a comportarsi col marito in modo sempre più disdicevole, dicendogli che col suo lavoro da quattro soldi e il suo carattere troppo docile, non avrebbe saputo mantenere degnamente una famiglia. Il marito era sceso dal pero. Non lo sapeva anche prima di sposarsi il lavoro che faceva? Lavorava come falegname in una piccola bottega ricavata da un sottoscala della Corte del Forno, un tempo adibito all'allevamento dei conigli. Non aveva molti clienti, lavorava da solo, e la sua produzione, in effetti, era piuttosto scarsa. Aveva oltretutto perso mezzo dito quand'era ancora garzone, per via del malfunzionamento di una macchina, circostanza che gli impediva di lavorare alacremente a progetti che normalmente venivano chiusi in un battibaleno, rinfoltendo tasche e portafogli. La moglie aveva iniziato a recriminargli il fatto di non sapersi mettere in degna competizione con gli altri falegnami della zona, finendo con l'essere dimenticato e non preso in seria considerazione. Una buona nomea era, infatti, fondamentale per poter gestire abilmente la propria condotta professionale, creare nuovi contatti e sviluppare un'attitudine capitalistica, sempre più in voga sul finire dei Sessanta. Ma non era solo per il carattere bonario e pusillanime del marito che il suo matrimonio vacillava. Percepiva, infatti, che il problema potesse dipendere anche da lei e dalla sua onesta incapacità di rapportarsi adeguatamente alle consuetudini familiari, che dovrebbero contraddistinguere una moglie normale, sufficientemente ragionevole: preparare da mangiare al marito, fargli trovare puliti e stirati gli abiti, erano aspetti che assolveva con grande difficoltà, benché non lavorasse e avesse, quindi, tutto il tempo per farlo. Forse non si sarebbe dovuta sposare, forse non era abbastanza matura, si diceva quando un pizzico di saggezza s'impossessava dei suoi lenti processi neuronali. Al povero presunto papà di Maurizio era crollato il mondo addosso:
Che razza di serpe ho mai sposato?”, rivelava agli amici più intimi. “E ora che aspetto un bambino... come farò a promettergli un futuro come si deve?”.
Le litigate avevano preso susseguirsi con sempre maggiore clangore, di fronte ai genitori ignari della ragazza, e allo sbigottimento del circondario, spesso indirettamente coinvolto nelle scene di ordinaria follia di Carla in levitazione.
Sei un buono a nulla”.
Non sai quello che dici”.
Lo so benissimo”.
C'è qualcuno che ti sta rovinando la testa”.
Non c'è nessuno che mi sta rovinando la testa. C'è solo uno scansafatiche che non saprebbe cavarsela senza l'aiuto di qualcuno”.
Finché un giorno lui non ce l'aveva fatta più ed era scappato di casa, finendo in un bar di Pessano a ubriacarsi senza ritegno, abitudine che avrebbe mantenuto fino alla fine dei suoi giorni, ormai divorato dalla cirrosi epatica: da quella parentesi furiosa non avrebbe più messo piede in casa Meroni e il suo nome sarebbe lentamente caduto nell'oblio. Con la nascita del piccolo, Carla aveva cercato di avvicinarsi ulteriormente a Cesare, ma l'uomo, verosimilmente, non era dello stesso avviso: nel giro di pochi mesi era scomparso completamente dalla circolazione, facendo perdere ogni traccia di sé. Non erano tardate a giungere voci che si fosse trasferito in Brasile, a godersi la vita, con un nugolo di concubine e le solite macchine super sportive, con le quali sfrecciava per le vie e le viuzze di Rio. Ancora, però, non si comprendeva dove potesse recuperare tanti soldi, anche se si era cominciato a pensare che fosse coinvolto in qualche giro losco, legato al mondo della droga. Della sua etica moribonda si era saputo anche quando era emerso che, probabilmente, aveva già sparso per il mondo un paio di pargoli che aveva rinnegato senza pudore. Uno di essi doveva essere già grandicello; pare abitasse a Merate con una donna che, nel frattempo, s'era già divisa da altri tre fidanzati. L'altro, presumibilmente, viveva fuori dall'Italia. Carla, a questo punto, aveva risolto che la miglior cosa per lei e il bimbo fosse quella di rimanere in casa coi genitori e la sorella di ritorno dall'Emilia, molto più imbronciata di quand'era partita piena di speranze e con la convinzione di sfondare, come non sarebbe capitato alle sue conoscenti malate croniche di provincialismo; mentre non avrebbe dato alcuna chance a Vincenzo che negli anni, più volte, si sarebbe fatto trovare per ore solo e sconsolato come un mentecatto, davanti al portone dei Meroni, in attesa di vedere spuntare colui che credeva essere il suo figliolo, strappatogli dalle mani senza pietà; molti dicevano di averlo visto piangere, vestito di stracci, con gli occhi devastati dalla sofferenza e dalla nostalgia; ma si viveva in paese una sorta di omertà che impediva di puntare esplicitamente il dito sulla cattiveria di Carla, che, addirittura, a volte finiva per vestire i panni della vittima. Col passare degli anni la casa sul limitare di Burago non era stata più consona a ospitare un ragazzo con sempre maggiori esigenze, tre donne e un nonno malaticcio, sicché all'unanimità, i Meroni avevano deciso di trasferirsi nel palazzone omatese in via di ultimazione. Era un palazzone moderno, che guardava al futuro con un appeal di tutto riguardo, ben sei piani a disposizione, e un tetto dal quale era possibile rimirare mezza Brianza e nei giorni più sereni addirittura le cime degli Appennini. Più avanti lo avrebbero considerato un mostro di cemento e calcestruzzo, ma a cavallo dei Settanta lasciava seriamente intendere che fosse quella la strada giusta da seguire per stare al passo coi tempi e credere in un futuro migliore, pieno di comfort e diavolerie hitech.
L'appartamento dei Meroni ricalcava quello dei Canali del piano sottostante. Si apriva con un salone spazioso, con la finestra rivolta a sud, e due porte, quella per la cucina e l'altra per l'anticamera; era possibile raggiungere un balcone oblungo, sul quale non mancava mai una lunga fila di gerani rossi che, affacciandosi sul lato più trafficato del circondario, con il suo lussureggiare, era come se reclamasse ai passanti un segnale di gratitudine. Era, nel complesso, un appartamento dignitoso, niente di speciale, ma era ordinato e pulito, con mobili da battaglia funzionali e a loro modo eleganti. Quello più grande conteneva perlopiù piatti, bicchieri e tovaglie, alcune ricamate con grande puntiglio. Un solo pezzo di lusso rappresentava la famiglia: era un maggiolino ottocentesco, finemente decorato, proveniente dal ramo materno dei Meroni, con al suo interno una grande coperta prodotta a mano dalla più anziana del clan. Finché il nonno era in vita, Maurizio aveva dormito nella camera della mamma e della zia, poi, con la scomparsa del patriarca, s'era trasferito nella stanza dei nonni: il letto matrimoniale era stato eliminato per far spazio a due nuovi e comodi lettini, protetti da altrettanti comodini slanciati e dotati di un minuscolo cassetto ideale per riporvi gingilli e monetine. Su quello della nonna campeggiava un imponente crocefisso, che col gioco di certe ombre suscitava nel ragazzo ancestrali paure. Il dover dormire nella stessa stanza della nonna suonava inusuale per lui e i suoi amici, tuttavia era meglio che coricarsi nei pressi delle altre due donne di casa. La nonna, è vero, russava come un cannone di artiglieria, ma almeno non c'era il problema di dover rendere conto di ogni cosa al momento di sprofondare fra le braccia di Morfeo. Peraltro così poteva star sveglio la notte a leggere, accendendo senza remore il paralume, le varie volte che gli capitava di non riuscire a prendere sonno. Amava i fumetti, Zagor su tutti, e altri bonelliani alla Mister No, ma anche vecchi numeri di Topolino. La serie di Walt Disney, non era più idonea alla sua età, ma ce l'aveva nel sangue e non riusciva a distaccarsi: era cresciuto con i vari Topolino, Paperone e Qui, Quo, Qua, che aveva conosciuto grazie a uno zio alla lontana che conservava in cantina parecchi numeri, ben disposto a regalarli ai piccoli che lo andavano a trovare. Per fortuna disponevano di due bagni; altrimenti la convivenza sarebbe stata davvero complicata. In pratica un bagno era utilizzato quasi esclusivamente da Maurizio, gli altri due dalle tre donne, che in ogni caso non passavano mai troppo tempo a farsi belle: una nettata del viso mattutina, i bisogni corporali e via verso nuove occupazioni quotidiane.
In questa casa, fra queste promettenti mura omatesi, e in questa anomala situazione familiare, Maurizio era cresciuto abbastanza tranquillo, né più né meno come i suoi coetanei; senza però aver mai saputo la verità sui suoi due misteriosi padri. Solo una volta aveva provato a domandare alla madre chi l'avesse davvero messo al mondo, ma la risposta era bastata a dissuaderlo da ogni altro quesito analogo:
Tuo padre non esiste e non è mai esistito”, gli aveva detto la madre senza tanti peli sulla lingua. “Ci sono cose che quando si è piccoli non si possono comprendere, in ogni caso non ci hai perso molto. Tuo padre era anche un truffatore”.
Un truffatore?”.
Lascia stare, lascia stare che ti conviene”.
Mamma... come un truffatore?”.
Tuo padre è sparito, toglietelo dalla testa. Lo dico per il tuo bene”.
Con le tre donne Maurizio, ormai adulto, aveva maturato un rapporto conflittuale. Se si esclude la nonna, dalla quale qualche volta si sentiva compreso e con la quale più volte si confidava, per il resto era una situazione di baruffa continua. Mamma e zia sembravano complici e non c'era verso di contrastare una loro idea. Vivevano in simbiosi. Ragionavano per sentito dire, senza alcuna capacità di autocritica, pur tuttavia ogni loro pensiero si tramutava in legge incommensurabile, circostanza che il giovane di casa non poteva proprio mandare giù. Qualcuno avrebbe potuto pensare male, visto che non è comune riflettere su due donne che, nonostante le consuete interrelazioni umane instaurate con chicchessia, decidevano di rimanere così appiccicate. Ma questo morboso presentimento non era fortunatamente accarezzato dalla giovialità del ragazzo che, da diretto interessato, sapeva bene essere del tutto inverosimile. Maurizio aveva letto qualche libro in più dei familiari ed era convinto di vivere in un covo di ignoranti mezzo analfabeti, del tutto indifferenti a percepire le ragioni altrui. Per questo più volte aveva minacciato di andarsene: ormai aveva una certa età e sapeva che se la sarebbe potuta cavare tranquillamente da solo. Al suono di simili parole Giuditta aveva ripensato al marito di Carla, il povero Vincenzo, e ai suoi moniti di fuga, nutrendo frequentemente il sospetto che, nonostante il parere della sorella, potesse essere lui il vero padre di Maurizio; del resto non c'era nessuna prova del DNA a sostegno di questa o quell'altra teoria. Aveva peraltro le stesse sopracciglia folte di Vincenzo, e quello sguardo particolare che si riempiva di sangue quando qualcuno lo faceva arrabbiare. Maurizio odiava le urla delle tre donne, e la dimostrazione che davano di non aver altro modo di comunicare se non come figure per lui riconducibili all'età della pietra. Anche lui ogni tanto urlava, ma non in modo così plateale. E in ogni caso lo faceva solo se strettamente necessario. Mentre gli altri stretti consanguinei davano fiato al corpo senza misura, fosse anche solo per chiedere qualcosa, come il barattolo dello zucchero.
Maurizio, lo zucchero!”.
Mamma, non c'è bisogno di urlare, non sono sordo”.
Lo zucchero, mi senti?”.
Si viveva calati in una sorta di isteria collettiva, che avrebbe fatto innervosire anche il più placido e indolente essere vivente; non esisteva la calma, il silenzio, la tranquillità, ogni giorno era un delirio perfetto. Maurizio, a volte, si tappava le orecchie, altre volte filava in camera disgustato, intontito dal baccano. O faceva partire a tutto volume una cassetta dei Pink Floyd, una delle sue band preferite. “The Wall” era del 1979 e “The Final Cut” del 1983, li viveva sulla propria pelle da mesi e ogni volta era come compiere un viaggio meraviglioso nello spazio, pur senza la necessità di assumere sostanze stupefacenti, quasi sempre assimilate all'ascolto di un certo tipo di musica. Ma amava anche la discografia più lontana nel tempo della band londinese, a partire dai primissimi paradossali lavori in compagnia della scheggia impazzita, Mr. Syd Barrett: da “The Piper at the Gates of Dawn” a "Ummagumma”.
Il giorno dell'esplosione di Chernobyl non c'era Giuditta, via con un'amica di lavoro, conosciuta da poco e con i suoi stessi gusti modaioli: Camilla Ortolina, avvenente trentenne dalla lingua fin troppo sciolta, aveva una mezza tresca col direttore dell'azienda che le ospitava e dunque di argomenti per affrontare degnamente la serata ce n'erano in abbondanza. Giuditta provava segretamente un po' di invidia per la collega, così disinvolta e spregiudicata cogli uomini, il contrario di lei, sempre impacciata e, di fatto, perennemente senza accompagnatore. Ma, naturalmente, non aveva mai avuto il coraggio di confidarglielo. Non era, del resto, il caso di farlo, stava volentieri con lei, più che con altre compari noiose e petulanti, prive di qualunque slancio vitale. Al tavolo erano assiepati Maurizio, mamma e nonna. In mezzo, a portata di braccio, quattro panini, uno dei quali, quello al sesamo, finito per caso nel sacchetto della spesa, mangiucchiato in punta, in seguito a un precedente raid del giovane, come sempre affamato nei momenti più inopportuni della giornata; una bottiglia di acqua frizzante, mezza bottiglia di vino rosso, il contenitore semiaperto del formaggio, con gli angoli inverditi dalla presenza di un po' di muffa; il sale e l'olio, per condire la verdura. A Maurizio non piaceva l'aceto e desiderava arrangiarsi da sé, la mamma esagerava sempre e la nonna, con la scusa della cataratta, non era quasi mai in grado di calibrare opportunamente il liquido che fuoriusciva dalla bottiglia e spesso finiva per impiastrare anche la tovaglia. All'ascolto della notizia il ragazzo aveva avuto un sussulto, per nulla condiviso dagli altri commensali: la mamma chissà a cosa stava pensando, mentre la nonna, probabilmente, non aveva nemmeno sentito; a esse, peraltro, interessavano solo le notizie di cronaca nera, gli incidenti stradali o al limite qualche pettegolezzo.
Cazzo”, aveva mugugnato Maurizio.
Cos'hai da imprecare?”, gli aveva domandato la madre con scarso spirito indagatorio.
Deve essere scoppiato il finimondo in Ucraina. È esplosa una centrale nucleare”.
Le donne avevano fatto finta di niente ed erano andate avanti a farsi gli affari loro. Già la parola Ucraina era bastata a provocargli strani borbottii intestinali. La mamma si era alzata per abbrustolire dei peperoni passi, mentre la nonna tentava di aggiustarsi la dentiera prima di addentare una cotoletta dura come l'acciaio. Maurizio crucciava la fronte innanzi ai dettagli dello speaker; dacché era nato non gli era mai capitato di vivere simili esperienze. Che disastri di tale portata poteva ricordare nella sua breve esistenza? Ci aveva pensato un po', ricordando, al limite, quella volta che aveva visto traballare il lampadario della cameretta, già coricato per la notte: erano le 21.06 del 6 maggio 1976, in occasione del devastante terremoto del Friuli che aveva ucciso quasi mille persone. Ricordava, in particolare, la nonna in apprensione, che era corsa al suo capezzale per sincerarsi che non gli fosse accaduto nulla di male. Ma, al contrario dell'ipotesi di un evento sismico che potesse fargli crollare in testa il mondo intero, l'idea di essere sconvolti da una nube nucleare non gli dispiaceva minimamente, anzi; da sempre si trovava in perduta sintonia con vaticini a dir poco apocalittici. Bastava la parola 'vaticinio' a galvanizzarlo. Amava altresì la letteratura del genere, dai vari Nostradamus, alla Monaca di Dresda, passando per Gustavo Rol, Malachia, Newton e sensitivi di ogni paese e nazione. Libri che aveva acquistato lui stesso in qualche mercatino di anticaglie, o trafugato nella biblioteca di via don Minzoni ad Agrate, caratterizzata da un seminterrato lontano dagli occhi belligeranti del custode. Aveva un certo feeling addirittura con i Testimoni di Geova che predicavano la fine del mondo a cadenze più o meno regolari ed erano per questo presi per i fondelli dall'immaginario collettivo brianzolo, quantomai aggressivo e disprezzante verso tutto ciò che era diverso. Quando si presentavano alla porta di casa, non disdegnava scambiare con essi qualche parola, suscitando soprattutto le ire della nonna, devota cristiana, in costante lotta con i “genovesi” spediti sulla Terra da qualche spiritello infernale. Ecco un dialogo tipo fra Maurizio e qualche rappresentante del movimento di Russell.
La fine del mondo è vicina”.
Per quando è prevista?”.
Per il 2050”.
Manca ancora un sacco di tempo”.
Ma potrebbe non essere sufficiente il tempo per ravvedersi. Legga La Torre della Guardia e cominci il suo cammino spirituale di salvezza”.
Lo farò, grazie”.
Grazie a lei. Se vuole...”.
C'era poi Rasputin che, probabilmente, in una sua profezia si riferiva proprio al disastro di Chernobyl, alludendo al “pianto del sole” (l'esplosione nucleare) e a un fantasma che “vagherà per l'Europa” (la nube tossica). Di Rasputin sapeva tutto, della sua rocambolesca vita, del suo charme, del suo misticismo, della sua capacità di tessere trame coinvolgenti le più alte cariche dell'intellighenzia russa. Amava la barba di Rasputin, il suo vestito nero e il suo sguardo penetrante. Era anche per la passione che provava per l'intera epopea russa pre e post rivoluzionaria. Perseguendo le teorie del monaco russo, in sostanza, s'era convinto che non sarebbe mancato molto alla fine del mondo e questa notizia, dunque, non aveva fatto altro che rimpolpare le sue funeree congetture. C'era poi da fare i conti con un interessante testo letto di recente nel quale si osservava il contesto umano da un punto di vista assolutamente originale, imperniato sul fatto che l'antropocentrismo aveva verosimilmente sopravvalutato il nostro ruolo, in sfavore di coloro che si sarebbero dovuti ritenere gli esseri più vitali e “intelligenti” in assoluto: gli scarafaggi. Secondo la tesi di vari filosofi dell'evoluzione, infatti, l'uomo era solo un piccolo esperimento di madre natura, mostruosamente meno significativo del successo evolutivo ottenuto da specie in vita da milioni di anni e con una variabilità genetica pazzesca se confrontata a quella umana. Maurizio condivideva in tutto e per tutto questa concezione sottilmente esistenzialista. Venendo a patti con il presente, se c'era davvero il rischio di finire contaminati, lui non l'avrebbe, di fatto, temuto; l'ammonimento a evitare i prati e i campi della zona, soprattutto per i più giovani, l'aveva metabolizzato al contrario, sentendosi pertanto giustificato a trasgredire il diktat del ministero della Sanità. D'altra parte non riusciva a comprendere che qualcosa d'invisibile potesse davvero fare del male a una persona; come si fa a perire per via di banali radiazioni? E, poi, le radiazioni cosa sono? Raggi? Lampi di luce? Onde? A lui non avrebbero, in ogni caso, arrecato alcun danno, lui era nato per convivere con le radiazioni o forse ne era miracolosamente immune; lo pensava seriamente, anche perché nel 1986 era appannaggio di pochi la reale percezione della pericolosità nucleare, con tutto ciò che comporta un guasto a una centrale energetica, compresi chi, come Maurizio, vivevano con tenace enfasi l'approccio ai misteri della fisica subatomica. Il presupposto di poter presto pascolare fra steli e alberi ingialliti dal veleno radioattivo gli regalava un'inaspettata e diabolica carica, da fargli addirittura sospettare la possibilità di sopportare anche il grido più devastante di mamma o zia (il che era tutto un dire) o qualunque altro fastidio con cui era costretto a convivere e che proprio non gli riusciva di razionalizzare. Già s'immaginava, con discutibile godimento, volpi, ricci e lepri del parco Molgora aggirarsi per i cigli delle strade con la bava alla bocca e le ferite sanguinolenti di chi è ormai divenuto più radioattivo dell'aria. E i funghi trasformarsi in cappelli giganti, in grado di sfruttare gli effluvi atomici sottoforma di proteine e ricostituenti. I fiumi colorarsi di rosso, i cieli di viola, le nubi di brividi incandescenti. Ecco l'apocalisse benedetta che i suoi beniamini avevano predetto da lustri.
Eppure non ne avrebbe parlato con nessuno di questi suoi intimi piaceri, tantomeno con le tre befane di casa, pressoché indifferenti a tutto ciò che accadeva al di là dei confini brianzoli. Non desiderava essere scambiato per un pazzo dinamitardo o per un cosiddetto ragazzo problematico. Ma avrebbe potuto accennare qualcosa a Guido, del primo piano, il figlio dei Sangalli, con cui qualche volta si soffermava in cortile a discorrere di temi ai limiti della fantascienza; (ma non con Fabio Valenti del sesto piano, col quale aveva rotto da tempo dopo una pseudo relazione omosessuale). Con le prime news dipanate da Rai Uno ci stava già pensando: un ragazzo così era l'unico in grado di comprendere certe cose, di ragionare su particolari fenomeni e sulla futurologia. Sapeva molto di lui, della sua eccentricità, e dei suoi hobby curiosi, dalla tassonomia vegetale agli anelli di benzene della chimica organica. Lui non la vedeva proprio così, non erano queste le sue paradossali voglie giovanili, tuttavia condivideva col quasi coetaneo la passione per tutto ciò che è strano, inspiegabile e irraggiungibile. Inoltre provava per lui una sincera e umana simpatia. Insieme si divertivano a leggere storielle a metà strada fra l'horror e il paranormale e ad augurarsi la scoperta di qualcosa di importante negli anni a venire. Questa consapevolezza aveva preso forma all'indomani di un'esperienza vissuta pochi mesi prima del disastro di Chernobyl negli scantinati di villa Mirabello, nel Parco di Monza, che si diceva abitata da un fantasma. Ma anche di altre fantasiose entità fra cui elfi, gnomi e folletti. Era il periodo in cui chiunque poteva travalicare i confini della dimora secentesca e addentrarvisi, tenuto conto del fatto che alcuni appartamenti destinati alla servitù erano ancora occupati e quindi in qualche modo predisposti a lasciar liberi gli ingressi principali, che davano direttamente sui larghi viali della distesa bucolica. Sorgeva sulle fondamenta di un antico castello dove alcuni esperti erano pronti a scommettere fosse nata la monaca di Monza ed era contraddistinta da un mastodontico scalone di ingresso, tipico delle case signorili dell'epoca, e da un grande salone alto due piani coperto di affreschi. Esternamente troneggiava in tutto il suo splendore, con un portico elegante sormontato da un balcone in ferro battuto e una lunga serie di finestre, perlopiù chiuse da tempo. Maurizio e Guido avevano sbrigativamente fatto visita alle sale principali, affascinati dall'aria antica che vi si respirava: ogni angolo rimandava a epoche ancestrali di cui ormai nessun vivente poteva conservare ricordo. In seguito, girovagando a casaccio, erano finiti alle spalle della villa, dove una breve rampa di scale accompagnava a una porticina dimessa, facilmente superabile muovendo un chiavistello traballante. Oltre la porticina si celavano buie e umide cantine intatte da più di trecento anni. Fiotti di luce penetravano da minuscole aperture in superficie, alla base dell'edificio principale, e solo tramite esse i due ragazzi erano riusciti a muoversi in qualche modo nel cuore tenebroso di quelle secrete monzesi. Avanzando tentoni erano finiti in un minuscolo vano, impregnato dall'odore delle muffe, con tante goccioline che colavano dal muro formando disegni surrealisti; c'era qualcosa di particolare in esso, come se fosse stato creato appositamente per conservare un piccolo grande tesoro. E infatti qualcosa c'era. D'un tratto Guido, nell'angolo in basso della ministanza, aveva notato un leggero luccichio. Brillava, per quel tanto che fosse possibile concepire il verbo 'brillare' in quel buio spettrale, qualcosa che pareva metallo, ma era quasi completamente nascosto dalla polvere del pavimento per capire di cosa si trattasse. I due avevano tergiversato per qualche minuto, fantasticando sulle faccende che potevano essersi consumate in quell'angusta area del caseggiato. Avevano anche accarezzato con vivido fervore e orrore l'ipotesi che potessero essere stati commessi degli omicidi, o comunque brutte vicende da tenere lontane dalla luce del sole. Questi discorsi avevano ricordato a Guido di un cugino di Busnago, che gli aveva raccontato di aver trovato in una grotta di Mezzago, dei teschi risalenti alla seconda guerra mondiale: certo l'immaginazione non doveva essere mancata al parente, se era stato così audace da ipotizzare la presenza di anfratti rocciosi nel cuore di un territorio pressoché pianeggiante, con una geologia assolutamente innocua. Finché Maurizio non s'era fatto avanti con piglio autoritario, strappando l'oggetto dei sogni dall'humus degli anni e verificando il mistero del suo scintillio: l'ultimo lembo di una lama, l'appendice di un affilatissimo coltello. La meraviglia dei due ragazzi era stata incontenibile. Erano convinti di aver scoperto qualcosa di veramente prezioso che gli avrebbe conferito ricchezze e onori negli anni a venire e li avrebbe resi famosi come Howard Carter, lo scopritore della tomba di Tutankamon, di cui erano sfegatati fan.
Potrebbe appartenere a un membro degli Sforza”, aveva detto Maurizio.
Forse, ma potrebbe anche essere un cimelio visconteo”, aveva ribattuto con aria saccente Guido.
In ogni caso dobbiamo levarci da qui. Se ci scoprono potrebbero metterci in gattabuia”.
Alla fine se n'erano andati con il reperto nascosto sotto la maglietta di Maurizio, poi nascosto in un tombino omatese, in attesa di essere venduto al miglior offerente.

mercoledì 12 ottobre 2011

Quando sopravviene la noia


Le riunioni di redazione
Sono come le riunioni condominiali
Un gran casino
E non si conclude mai un bel niente
E allora per qualcuno
(Tipo il tipo qui segnalato)
Sopravviene la noia
L'indolenzimento
Il desiderio di trasferirsi in un sol colpo
Dal macellaio di sotto
Al quale trafugare un machete
Col quale fare a pezzi il Mac
Che abbiamo davanti
Visto che ce ne sono tanti