13.
Al
cospetto di Alphonse Daudet
L'uscita con Ginevra
mi ha rimesso in sesto. Il senso di leggerezza provato stando con lei un giorno
intero, continua a sostenermi anche in questi dì, offrendomi l'idea di un
avvenire più roseo e vivo. Avrei voglia di rivederla per svuotare
definitivamente il sacco. Ho capito. Ho capito di essermi aperto con lei,
semplicemente perché volevo aprirmi con qualcuno che potesse comprendere la mia
pena, la mia colpa da espiare… certo, sono stato molto vago, non sono sceso nei
particolari, e Ginevra non può di sicuro dire di avere compreso il motivo per
cui ho deciso di sparire dal mondo… ma può probabilmente ammettere di avere
intuito qualcosa. Quando c'è di mezzo una donna, un uomo, una storia d'amore
finita non si sa bene come, non ci vuole molto a inquadrare la scena, confrontando
ipotesi e congetture.
Da un po’ di
giorni evito di uscire, ma al contrario dei primi mesi trascorsi a Concorezzo, landa
di appestati ed eretici, quando l'auto isolamento era sostanzialmente l'unico
modo di cui disponevo per poter agonizzare in santa pace, provo un senso di piacere,
sollievo, soddisfazione. Un senso di attesa benigno. Come se il mio subconscio
tentasse di dirmi qualcosa. Di dirmi che qualcosa sta veramente cambiando e
l'orizzonte potrà essere meno nebuloso di quello prospettato all'inizio. La
solitudine non mi pesa e riesco a tenere perfettamente a bada la noia o
qualunque altro mal incanto. Nel mio eremo sto ritrovando me stesso,
cimentandomi con foga in letture e ascolti musicali. Dopo gli irraggiungibili Mann
e Hesse, sono arrivato a una raccolta di racconti francesi. Oggi ho perso quasi
tutto il giorno per leggerne il più possibile. E' un libro che porto dietro da
una vita e che non ero mai riuscito a sfogliare. Ci sono riuscito ora,
comprensibilmente, col tempo dalla mia parte, con voragini di tempo dalla mia
parte. Mi è rimasto in mente "Le due locande" di Alphonse Daudet.
Autore forse minore, ma verista, realista, fresco, ideale per qualunque anonimo
pomeriggio. Parla di due locande, una di fronte all'altra. Una triste, lugubre
e solitaria, priva di clienti; l'altra ricolma di gente, schiamazzi, allegra e
casinara. Il protagonista sceglie la meno attraente, forse perché, dotato di
animo poetico, la trova più in linea con la sua capacità di saper leggere dove
nessuno vede. Raggiunge la parodia quando l'ostessa gli fa presente che perfino
suo marito frequenta la locanda di fronte, felice di poter incontrare una bella
e suadente signora. Amaro esistenzialismo.
Musica,
Springsteen a parte, mi sono messo in cerca di realtà musicali un po’ più
sofisticate, conscio del fatto che l'arte vera sta nascosta, e abbisogna,
dunque, di qualche sacrificio per essere captata e ammirata. Ho spulciato un
vecchio vinile regalatomi da un conoscente che girava il mondo per lavoro, di
un trio polacco, contrabbasso, viola e fisarmonica. Suonano brani moderni,
originali, parafrasando l'epopea klezmer, sono di una bravura impressionante.
Ecco quel che significa sapere suonare, mi dico, se ci fosse qui Francesco
gliene direi quattro; lui e i suoi gruppi da baraonda… quello non era suonare,
era frastuono, diavoli per capello, rivoluzioni, sfacelo. Per suonare bisogna
sapere suonare e per sapere suonare occorre andare al conservatorio, o scuole
simili, non ce ne sono di balle. Certo, il rock del mio ex collega è un'altra
cosa. Paragoni del genere, in fondo, non andrebbero perseguiti. I Ramones sono
i Ramones; la cultura ebraica secoli di invettiva, soprusi, innamoramenti,
viaggi infiniti.
La Vian, in ogni
caso, è lontanissima, distante anni luce, un'altra dimensione, e così gli
appuntamenti di lavoro, le scadenze, le vicissitudini della vita quotidiana. Potrei
dedicare tutta la vita alla lettura e alla musica, se volessi. E in parte l'idea
non mi dispiace. Ma non mi basterebbe. C'è qualcosa che s'è messo a brulicare
nel mio animo, suggerendomi impellenze vitali che credevo perdute per sempre.
Inutile negare che il presente sia divenuto più leggero, che le nubi
all'orizzonte si siano dileguate, si stiano dileguando, come spruzzi di
deodorante in un cielo di tramontana; peraltro è già da un po’ che non incontro
le creature delle pozzanghere. Un significato ci sarà. Le creature delle
pozzanghere affollavano le mie meningi perché non c'era nessun altro a farlo al
loro posto. Perché io e gli uomini eravamo diventati realtà contrastanti. S'erano
impossessate di me, cercando di rendere meno drammatica la mia eclissi.
Il mio
comportamento è lo stesso di prima, dei primi giorni di permanenza in questa
landa desolata (ma potrò ancora definirla tale?), ma è l'umore a essere decisamente
cambiato. Non l'avrei mai detto, ma so bene chi potrebbe nascondersi dietro
tutto ciò. Chi se non gli amici del circolino? Banda di borderline, calati in
una società primitiva, tagliata apposta per loro, dove l'orizzonte termina in
corrispondenza con l'ultimo sorso di vino. Ginevra è un caso a parte, ma è
soprattutto lei a ridarmi il desiderio di guardare al domani con fervore.
Spesso mi accorgo, leggendo o ascoltando la musica, di essere distratto e di
pensare ad altro; di sfogliare pagine e pagine senza sapere di cosa mi stia occupando.
Il mio pensiero vola via, al suo sorriso, al sorriso della ragazza del
circolino. Che mi stia innamorando di nuovo? Come mai la squallida frase
"chiodo scaccia chiodo" continua a risuonarmi nella testa? Potrà mai
Ginevra scalzare l'immagine di Laila che impera nella mia mente come un
macigno? Non lo so, ma so che avrei già voglia di rivederla, per passare del
tempo con lei, più lungo di una semplice virata solare, raccontandole sempre
più cose di me, lasciandomi cullare dal suo candore e dal suo conforto. Dopo la
gita alle piramidi di Montevecchia non ci siamo accordati per rivederci, forse
per paura di scoprirci troppo felici (anche a questo bisogna essere allenati!),
ma adesso credo sia davvero giunto il momento di affrontare con polso la
situazione. Il mio cuore sussulta. E se mi stessi di nuovo innamorando?
Al di là di
tutto è comunque opportuno ch'io mi rimetta in pista, al più presto, e vada a
fare due passi. Gli ultimi giorni di isolamento hanno prosciugato le mie scorte
alimentari: non ho più nulla da mangiare, né da bere. E' ora di correre ai
ripari se non voglio finire a raccattare le briciole rimaste sul pavimento come
un mentecatto. Mi sono crogiolato abbastanza nel dolce far niente. In bagno
trovo un uomo di mezza età felice di scoprirsi nel bel mezzo del cammin di nostra
vita, e di avere ancora delle cartucce da sparare. Mai radermi è stato così
piacevole e sciacquarmi la fronte con un bel getto di acqua gelata. Mi spingo
oltre spruzzandomi anche un po’ di profumo. Non mancherà molto al giorno in cui
rivedrò Ginevra e non vorrei farmi trovare impreparato. Vorrei dare il meglio
di me stesso. Sto addirittura pensando di andare a comprare qualche vestito, ne
ho visto qualcuno nelle vetrine di negozi di abbigliamento di Concorezzo. Oggi
stesso magari farò man bassa, ridando spessore al mio divenire, con abiti che
possano realmente addirsi alla mia resurrezione. Sto correndo troppo? Tutto
questo entusiasmo, in effetti, non è da me, tuttavia non posso nascondere che i
miei sensi si siano rimessi in carreggiata. I profumi, i colori, i suoni, sono
cambiati, esistono, sono tornati palpabili, veri.
Mi accorgo che
qualcosa è cambiato anche a livello atmosferico mentre chiudo la porta di casa.
Nella maniglia laccata brilla un luccichio diverso dal solito: è quello di un
sole pallido e mesto che cerca di farsi strada fra le nubi. Sì, lo so, non
sembra vero, ma sto parlando proprio del sole: è rispuntato dopo mesi, non
sapevo più nemmeno che faccia avesse. Il sole. Mi giro e prima di muovere mezzo
passo ne ammiro la sempiterna sagoma, tondeggiante, una palla di fuoco che da
troppo tempo s'era dimenticata di venirmi a trovare. La strada per raggiungere
il centro è molto più bella del solito. L'aria leggera, frizzante, strapiena di
aromi vegetali. Non è stagione, è evidente, ma è come se lo fosse. Come se ci
fossero stati fino a oggi solo inverni, nonostante l'alternanza conclamata di
equinozi e solstizi. Per me a Concorezzo sono esistiti solo gelo e intemperie.
E, invece, ora, eccola qui la primavera, e l'estate, a braccetto; come vecchie
amiche al capezzale di un amico convalescente. L'epurazione, la discolpa…
stanno mietendo nuovi allori. E' ufficialmente tempo di mietitura.
Tentativi
di recupero
Poi le cose
momentaneamente si acquietarono. Fu necessario fermarsi a riflettere, senza
farsi travolgere dalle emozioni, dal senso di tragedia. Mi resi conto di avere
reagito in modo abnorme, dovevo riconoscere che anche nei casi più critici
bisogna sempre sperare in una soluzione. Una sera, dopo il lavoro, uscimmo a
mangiare qualcosa in un ristorantino non lontano dalla dimora di Laila.
Mangiammo pesce, ridendo spensierati. Apparentemente era così, ma io già dalla
partenza serbavo per il mio amore un discorso ben preciso; la chiave per potere
ridare lustro alla nostra storia, cercando innanzitutto di evidenziare una
strategia per strappare la mia Laila dal demone che l'aveva circuita. Stavamo
parlando della droga più terribile che ci fosse, ereditata dagli usi e costumi
di una madre dissennata o forse, molto più banalmente, disperata. Ma qui
dovevamo venirne a capo. Laila era troppo bella e intelligente per venire
fagocitata da certe vicissitudini. Laila era una delle poche persone al mondo
capaci di volare ovunque, senza ali e senza, dunque, il bisogno di dover ricorrere
a metabolismi chimici. Percorremmo in lungo e in largo un viale romantico e
antico, protetto da alti palazzoni medievali con finestre eleganti, piene di
fiori e riparate da discreti tendaggi vinti da una luce sottile e delicata.
«Sei
tranquilla?».
«Certo».
«Volevo trovare
un modo per superare insieme a te il problema».
«Anch'io lo
vorrei».
Laila per poco
non si mise a piangere. Il suo sguardo era cambiato completamente e ora le
occhiaie erano tornate a dominare il suo volto, rendendolo scuro, profondo,
lontano.
«Dobbiamo
innanzitutto crederci. Crederci insieme».
Ci credemmo e di
lì a poco riuscii, infatti, a convincerla a farsi vedere da uno specialista. Dopo
pochi giorni dalla cenetta a lume di candela, incontrammo un professore di
Lucca, da trent'anni al fianco dei ragazzi che cadono nella trappola
dell'eroina. Fu estremamente chiaro, per certi versi addirittura spietato. Gran
parte del lavoro sarebbe dovuto dipendere da lei e, in parte, dal sottoscritto.
Era intuibile, ma sentirselo dire in modo così diretto, ci mise una certa
apprensione.
«Possiamo fare
di tutto per venirvi incontro», ci raccontò il professore, con l'aria consumata
di chi sa già perfettamente come vanno a finire certe cose, «ma è Laila che
deve fare lo sforzo maggiore. E' lei che deve capire perché conviene rendersi
conto dell'inutilità di una medicina che non esiste, che ha solo il potere di
rendere schiave le persone, annichilendo qualunque volontà, il desiderio, rendendole
vittime di un mondo inesistente, trasformandole in larve umane».
Ce ne andammo carichi
e fiduciosi. C'era speranza anche negli occhi di Laila che mi guardava come si
guarda un padre, un buon samaritano, non un amante. Tentò di baciarmi più
volte, ma io fui meno preso dalla situazione e mi divincolai lasciandole un po’
di amarezza. Ero vivamente preoccupato, non mi ero mai trovato in contesti
simili, non sapevo se mi stavo comportando sfruttando le migliori opportunità
che ci erano date dal sistema sanitario. Non sapevo se, magari, stavo
lasciandomi alle spalle figure che avrebbero potuto fare molto di più per il
sogno della mia vita. Tuttavia, nei giorni successivi, le cose si
raddrizzarono, dettero quest'impressione, suggerendoci che, probabilmente,
eravamo sulla buona strada. All'inizio fu difficilissimo tenerla lontana dalla
dose quotidiana, ma dopo numerose notti insonni, sudate a non finire, fiale di
morfina e compagnia bella, riuscimmo ancora a guardarci negli occhi come due
persone normali, auspicando un futuro di coppia come quello di chiunque altro,
felice di scivolare sui più consolidati binari dell'esistenza. I suoi occhi non
erano esattamente gli stessi di un tempo, pervasi da un lucore bieco che non se
ne andava, ma non nascondevano la possibilità di una redenzione, di un lieto
fine. Anch'io non ero più lo stesso, in pochi mesi ero invecchiato di anni, ma
una parte di me era sempre più convinta che ce l'avremmo potuta fare. Doveva
essere così.
Trascorremmo
nuovi giorni e settimane annodandoci l'uno all'altro, come forse non era
capitato nemmeno nei primi tempi, amandoci con grande passione e desiderio,
sempre più sicuri della nostra forza e del nostro sentimento. Le gote di Laila tornarono
rosee e il suo sorriso a splendere come una notte di luna piena. Ai miei occhi
pareva ancora più bella di quando l'avevo conosciuta, abbarbicata alla macchina
del caffè, come un piccolo koala al marsupio della madre. La sua leggiadria era
un'opera universale. Spesso mi assentavo dal lavoro per starle vicino, per
darle una mano al botteghino e assicurarmi che non compisse qualche passo
falso. Frequentemente, con un pizzico di perversa ironia, pensavo ai miei colleghi,
e all'idea malsana che si sarebbero potuti fare scoprendomi in questa nuova
veste, con un grembiule legato alla vita, intento a servire colazioni e
sandwich. C'erano giorni che trascorrevo con lei tutto il tempo che avevo a
disposizione, indifferente al fatto che altre persone, in primis Filomena,
stessero continuamente soffrendo per il mio allontanamento. Nostalgicamente
ripercorremmo alcuni dei luoghi che avevano visto sbocciare la nostra storia,
quasi a volere sottolineare che si stava per aprire una nuova fase. A
intervalli regolari vedevamo il luminare di Lucca che ci dava ragguagli in
merito alle reazioni che avrebbe avuto Laila proseguendo nella cura
disintossicante. Non ne sbagliò una. Tornammo a splendere come un tempo, e sul
nostro apocalittico nido d'amore, sparso in una radura senza tempo e senza
nome, fu di nuovo estate.
Le
luci (sospette) del vicino
E no, adesso non
ho visto male, il vicino sta davvero dando i numeri. Non è possibile che si sia
messo ad ascoltare la musica a questo volume in piena notte. L'orologio parla
chiaro: sono le 00.30. Non possono mettersi a fare tutto questo baccano due
coniugi come quelli che, appena arrivato, si sono presentati al mio cospetto
con una torta che non ho mai dimenticato; ingrigiti signori di mezza età con
troppi dubbi e incertezze stampati sul volto, sottoforma di pittoreschi punti
interrogativi; c'era qualcosa di strano nei loro sguardi, una luce sospetta,
non mi sbagliai all'epoca ed evidentemente non mi sbaglio ora. Mi stavano
curando, scrutando, volevano capire qualcosa del vicino, come se avessero
qualcosa da tenere in serbo, e volessero tranquillizzarsi di avere fra i piedi
un tipo innocuo. Poveri ingenui. D'ogni modo qui c'è del marcio. Come l'altra
volta hanno ancora tutte le luci accese, come se ci fosse una festa in corso,
mentre da copione non c'è nemmeno l'ombra di un party.
Con la scusa di
fumarmi una sigaretta mi porto in giardino, nascondendomi alle spalle
dell'agrifoglio che, nonostante il freddo terribile degli ultimi tempi,
continua a sprizzare vigoria. Per un attimo ripenso all'amico gatto incontrato
quella sera cupa, che si muoveva da una parte all'altra della strada, calato
nella sua perfetta felicità; ma è un pensiero rapido come una scheggia, perché
all'improvviso sono catturato da un suono lancinante. Sembra un urlo. Un urlo
tanto forte da coprire la musica. Simile a quello dell'episodio precedente in
cui mi misi a origliare le bizzarrie dei vicini per vincere i patemi di una
notte insonne. Un urlo di donna. Poi il silenzio.
Si smorza il
rumore delle casse dell'altoparlante e precipita la notte in un baratro di orrore.
Si alza il vento che scote violentemente i miei capelli, regalandomi un'energia
che non sapevo di avere. La sigaretta brucia con violenza, una combustione che
sa di altri mondi quasi riduce in cenere le mie stesse dita. Ma non ho tempo di
soffermarmi sull'agonia del mio epidermide, perché la rocambolesca notte pare
abbia ancora molto da dire. Si apre la porta principale di casa e il
capofamiglia, affaccendato come un profugo libanese, la varca con un'aria
terribilmente trafelata: sembra fuori di sé. Ha i capelli scompigliati ed è
vestito in modo trasandato. Lontano dall'idea che si era guadagnato quel giorno
in cui venne a suonare alla mia porta. Del tutto indifferente all'ipotesi che
qualcuno possa osservarlo, mette in moto l'auto e sgomma chissà dove. Di nuovo il
silenzio incombe, ma è una lama di acciaio che si scaglia su innocenti
creature.
Sono pervaso da
un terribile presentimento, che lentamente diviene certezza. Un'energia
misteriosa mi spinge a uscire allo scoperto e a dirigermi come una macchina
telecomandata verso la casa del vicino. Le luci sono ancora tutte accese, ma
nei dintorni regna il nulla. Il capofamiglia andandosene non ha badato alla sua
furia e ha lasciato aperti tutti gli usci. So che non dovrei farlo, introdurmi
in casa d'altri in piena notte, può sollevare parecchi dubbi; tuttavia è più
forte di me: devo entrare nella dimora. Avanzo silenzioso come il gatto nero
della notte trascorsa e mi infilo nella breve anticamera dell'abitazione, dove
regna la confusione più totale: sembra sia appena passato un uragano. Il soggiorno,
che dà sulla mia dependance, è ancora peggio. Mi guardo in giro incredulo,
scoprendo un mondo sottosopra, il rivestimento di un abatjour non so come
finito in cima a una credenza del dopoguerra, quadri a terra, vetri rotti,
portacenere saltati per aria; e la lucina dello stereo ancora pulsante; finché
il mio sguardo non cade su qualcosa che non avrei mai voluto vedere, ma che in
fondo sospettavo fin dall'inizio: sono i piedi immobili, scalzi, di una donna,
ultima appendice di un corpo celato dal rovere di una grossa scrivania. Con il
cuore in subbuglio compio due passi e scopro che la figura straziata è proprio la
mia vicina di casa. Non mi ci vuole molto a verificare che è priva di sensi, ha
un vistoso ematoma alla testa e parecchie escoriazioni lungo le braccia: il
marito deve avergliele suonate di santa ragione e poi, devastato dall'ira, se
n'è andato chissà dove a rinfrescarsi le idee. Che diamine faccio?
Se chiamo la
polizia, poi come gli spiego che mi sono permesso di violare la proprietà
privata per obbedire a una misteriosa energia? Ma non ho alternative… O forse
sì, potrei prima chiamare un'ambulanza. Il numero dell'ambulanza? Il telefono
del vicino? Perfetto, eccolo lì, chiamo l'ambulanza e poi… al poi ci penso
dopo: in fondo non c'è nessun motivo perché io debba essere incriminato, ho sentito
delle urla disumane e ho semplicemente seguito l'istinto di intervenire pensando
di dover aiutare un mio simile in difficoltà, non fa una piega. E se la donna
muore? Chi rivela alle forze dell'ordine il vero responsabile dell'accaduto?
Maledizione. Non so proprio che pesci pigliare. La donna, intanto, rantola, è
ancora viva, non c'è dubbio, ma non so per quanto tempo riuscirà a esserlo se
non interviene immediatamente qualche medico. Via…
«Buonasera,
sono… e abito a Concorezzo… la mia vicina di casa sta malissimo, è stata selvaggiamente
picchiata da qualcuno e… c'è assoluto bisogno di un'ambulanza».
La fanno più
lunga di quanto dovrebbero, chiedendomi cose che in questo momento mi sembrano
assurdità, ma non posso certo riattaccare. Do loro tutte le spiegazioni e
finalmente, un quarto d'ora dopo il mio fischio, li sento giungere come una
truppa di combattenti che ha appena lasciato una trincea lurida e maleodorante.
La scoprono
riversa su se stessa, con una macchia di sangue raggrumato che impiastra il
pavimento ai piedi della scrivania. Non dà segni di sé, ma il capo dei
soccorritori mi indica che è ancora in vita.
«L'ha toccata?».
«No».
Il suo respiro è
pressoché impercettibile, ma c'è. Il cuore pulsa flebile e rallentato. Con gli
occhi sgranati seguo una scena che mi pare impossibile. Mi chiedo che cosa
diamine stia facendo, in casa di estranei con una donna alla quale hanno appena
fracassato mezzo cranio. Sono sopraffatto dall'ansia, uno spaventoso formicolio
m'immobilizza gli arti, trasformandomi in un impacciato robot. Non è solo dover
forzatamente assistere all'agonia di una donna, ma anche tutto quello che ci
sta dietro e la memoria che scalpita, il fantasma di Laila che torna impetuoso
ad affacciarsi alla mia mente. Sembra un trabocchetto del destino. Una farsa. Un
medico si accorge della mia difficoltà e si fa avanti per pormi un bicchiere
d'acqua. Lo svuoto come se non bevessi da un secolo.
«Grazie».
«Mi vuole dire
qualcosa?».
Lo guardo
attonito. Le parole non mi escono, ma dopo un paio di singhiozzi riesco ad
accennare qualcosa.
«Abito di
fronte, ho sentito gridare e sono intervenuto. Poco prima avevo notato il
compagno della signora uscire esagitato, completamente fuori di sé. Ha preso la
macchina ed è fuggito non so dove».
I medici si
mettono a confabulare e nel giro di pochi minuti invitano una volante della
polizia a conquistare la via per venire a vedere cosa sta succedendo. Il
comandante, uomo burbero e prestante, dice a tutti di non toccare niente, per
non contaminare eventuali prove. Ma contro ogni mia previsione sembra che
sappiano benissimo che io non c'entro niente e che se mi trovo protagonista di
questa rocambolesca sceneggiatura è solo perché sono stato mosso da un sincero
e puro impeto altruista: senza di me le cose sarebbero potute andare
diversamente, rallentando le indagini e soprattutto il ricovero della paziente.
Mi spiega tutto qualche minuto più tardi il vice comandante: l'uomo che ha
pestato la donna è il marito, un tipo che ha già parecchi problemi con la
giustizia e non nuovo a pernottamenti in gattabuia. Da giovane ha subito un
paio di condanne per aggressioni e pestaggi. La donna - che ora stanno
caricando sull'autoambulanza immobilizzata come un pacco postale - si è rivolta
più volte alle forze dell'ordine per fare presente il problema familiare,
compreso il timore, un giorno, di fare una brutta fine; ma, evidentemente, a
poco è servito.
L'ambulanza se
ne va a sirene spiegate. La notte squarciata dal suono lancinante
dell'autolettiga; i poliziotti rimangono per interrogarmi, con l'aria assonnata
di chi sa che non c'è molto da scoprire.
«Dice, dunque, di
non avere mai sospettato nulla».
«Non ho mai avuto
a che fare con i miei vicini».
Il comandante
annuisce, comprendendo perfettamente ciò che vado sussurrando.
«Sono qui da
poco e solo una volta sono venuti per portarmi una torta. Li ho ringraziati e
da quel momento le nostre strade non si sono più incrociate».
Ancora scombussolato
mi accomodo sul cordolo del divano, mentre i poliziotti mettono sottosopra la
casa in cerca di chissà quale utile elemento. Razionalizzo l'accaduto cercando
risposte che non arrivano. Mi rincuora solo il fatto che fra poco potrò
andarmene a dormire. Anche se difficilmente riuscirò a chiudere occhio. Il
fantasma di Laila è vigile, impensierisce i miei sogni, ora più che mai. Mi
sforzo di tenerlo lontano, ma dopo questa sera sa di paradosso. Laila, ancora
tu.
«La donna, prima
di questa sera, ci aveva riferito di altri maltrattamenti subiti nel tempo, ma
non l'ha mai denunciato. Era un rapporto atipico; più volte avevano dato l'impressione
di essere complici delle loro malefatte. Lei non si è mai accorto di nulla? Non
ha mai percepito qualche movimento…».
Aggrotto le
sopracciglia, potendo solo avanzare ipotesi sconclusionate, pur consapevole di
vivere al fianco di due squilibrati; per poco non mi torna in bocca il sapore
della torta mangiata mesi fa, regalatemi dalla coppia. Soffoco il conato di
vomito, provando a dare qualche informazione.
«Un paio di sere
ho notato qualcosa di strano, ma non, certo, al punto di poter sospettare che
lui la stesse picchiando. Vidi delle ombre accavallarsi alla finestra che dà
sulla strada, dei movimenti convulsi e le luci che si accedevano e spegnevano
in continuazione, come accade in discoteca. Era chiaramente una situazione anomala,
giustificabile solo con una baruffa in corso o la concitazione dovuta a
qualcuno che sta male. Mi capitava di vederli uscire ed entrare in casa,
muoversi con fare circospetto, senza orario, non capivo che lavoro facessero,
come tirassero a campare…».
Dopo più di
un'ora dalla partenza dell'ambulanza, mi dicono che posso andare, torno a
essere un uomo libero. Ma lo sarò veramente ora che Laila mi è ripiombata
addosso come una tempesta di neve? Mi ringraziano e salutano cordialmente,
mentre dondolano il capo malinconici.
«Il suo intervento
è stato provvidenziale», mi dice il comandante. «Senza di lei le cose sarebbero
potute finire peggio. Le faremo sapere se dovrà venire a deporre per qualche
testimonianza».
Mi tende la mano
come un vecchio amico e con lui i suoi comprimari. All'esterno c'è il gatto
nero della famosa sera nauseabonda, che mi sta aspettando per accompagnarmi
alla porta di casa. E poco più in là, qualche creatura delle pozzanghere
tornata a saltellare con imprevedibile ardore.