9.
Radio
Varsavia
Oggi sono
completamente rimbambito: ho la testa pesante, sento degli strani brividi che
mi percorrono l'intero corpo e ho la gola secca. E ho un incommensurabile dolorino
a livello scapolare, sulla sinistra… Volevo tornare al circolino, rivedere Orso
e gli altri, godere della loro spontaneità così refrigerante per il mio
spirito, ma è successa una cosa alquanto strana… inopportuna, che nemmeno se mi
sforzassi riuscirei a ritrovare il me stesso degli ultimi giorni, pronto a
rituffarmi nell'universo civile; non dico arrivare a pensare di riprendere il
lavoro alla Vian - cosa che non accadrà mai - ma almeno ritrovare quella minima
volontà, serenità, di voler fare parte in modo coerente e deciso del mondo.
Tornare a vivere… ci stavo riuscendo, sennonché…
Stamattina
accendo la radio, si chiama Radio Varsavia, m'è bastato il nome, uno spot
pubblicitario dell'emittente a decidere di non cambiare più sintonizzazione,
sapendo che altrove avrei trovato solo sciocchezze commerciali che vogliono
dire tutto e niente. Parte una raffica di brani di nomi sconosciuti, rimandi all'amato
Bruce Springsteen, rock di chiara fede americana. Mi dico che da un momento
all'altro potrebbe spuntare qualche pezzo del Boss, ci starebbe benissimo, è il
suo campo di battaglia. Al rock si alternano il blues e il country; in Italia -
attualmente bombardata da "Vacanze romane" dei Matia Bazar e
"Bravi ragazzi" di Miguel Bosè - non interessano a nessuno, ma Radio
Varsavia, evidentemente, nutre un target più selezionato e appassionato. Se
Francesco vedesse, udisse, si renderebbe conto di come, alla fine, le sue
lunghissime lezioni, digressioni di storia musicale moderna, abbiano avuto successo
anche su uno sprovveduto accademico come il sottoscritto. Mi dico che se
dovessi sentire "The River" - estemporanea come solo una radio può
promettere - esco per strada e mi metto a ballare nudo intorno alla casa dei
vicini, come una cinciallegra in calore; non ci crederebbe nessuno, d'accordo, tuttavia…
mi regala un po’ di folclore … amo il folclore, le radici dei popoli, le storie
di civiltà morte e sepolte. In fondo dovrei lasciarmi andare di più a pazzie
del genere per ridare pepe al mio presunto avvenire.
Non arriva il
Boss ma una canzone che parte con un ottimo riff chitarristico (che chissà se
Francesco avrà mai sentito, ma immagino di sì), per poi aprirsi su un
ritornello di quelli che ti si stampano in testa come adesivi di cartoni
animati appiccicati al frigorifero di una casa abitata da file di mocciosi. Ma
è un inciso che, paradossalmente, non avrei mai voluto sentire: una picconata
che mi apre in due lo stomaco. Mi sconvolge il catatonico ripetersi del nome di
quella che, suppongo, sia la protagonista della canzone: Laila, Laila, Laila. Odo
il ritornello, momento topico del brano, concentrarsi sulla mia infinita e mai
rimpiazzata dolce metà e inevitabilmente subisco uno sconquassamento dell'animo,
così feroce da sopportare. Zampillano le lacrime dalle mie palpebre arrossate.
Pare incredibile, eppure bastano poche note a mandarmi in tilt, a farmi
risentire il male che mi attanagliava prima di lasciare la Vian, subito dopo il
macello di una storia naufragata, per colpa di un destino beffardo, crudele e
beffardo.
Ma sarai mai
possibile?, mi chiedo. Come fa a esistere perfino una canzone dedicata -
volontariamente o involontariamente - all'unica donna che abbia mai amato in
vita mia? Cosa diamine è successo? E se fosse veramente la mia Laila? Impossibile.
Il nome non è così frequente, ma ce ne saranno a centinaia, almeno, spero,
suppongo, nel mondo ce ne saranno un'infinità, o no? Mah. Rimango come un ebete
drogato di ansiolitici a fissare il muro che ho di fronte; la parte più spoglia
della casa, null'altro che l'intonaco bianco con cui sono state verniciate le
pareti prima che arrivassi. All'improvviso un incubo mi prende alle spalle e
cambia completamente i connotati della mia grigia esistenza. Degli insetti
orripilanti percorrono avanti e indietro la parete, hanno le zampe lunghissime
e sembrano in grado di divorarmi in un sol boccone. Li osservo meglio e scopro
che non sono insetti, ma… centopiedi, qualcosa del genere, mi viene in mente un
film visto di recente, con protagonisti esseri mostruosi, di immani
proporzioni, riconducibili a specie vissute trecento milioni di anni fa;
possono arrivare a due metri di lunghezza e muoversi veloci come saette.
Uno di essi
sporge la sua testona oltre i confini del quadro magico in cui si specchiano e
pare volermi dire qualcosa. Parla una lingua sconosciuta, emette frasette che
mi incantano senza darmi modo di comprendere la finalità della sua azione.
Cerco di esprimere le mie perplessità, ma la mia bocca riesce solo a ricamare
fili stonati di note. C'è qualcosa che non va come dovrebbe, i sogni non sono
così reali. Sono tormentato da un formicolio sempre più pressante, che mi
intorpidisce mezzo corpo. Scompare il testone del centopiedi, e si profilano
nuove maschere d'orrore. Una possiede una lunga proboscide che si incunea fra
il mio sedere e il cuscino che mi ospita. Paiono l'alter ego delle creature
delle pozzanghere. Non mostrano, infatti, un'area amichevole. Benché non mi
stiano facendo del male, scorgo nei loro sguardi il tentativo di controllare
ogni mia mossa, per poter sferrare quanto prima un colpo basso. E' un delirio
che dura pochi secondi o un'intera vita, non saprei davvero quantificarlo. Ma
so bene che quando torno in me ho gli occhi chiusi e sono madido di sudore. Mi
spaventa l'idea di avere perso, seppure per un attimo, i lumi della ragione.
Non mi è mai capitata una cosa del genere, nemmeno dopo i casini insorti con
Laila. Era tutto così vivido… Cosa sarà mai? Tento invano di dare un senso
all'apocalisse che mi ha attanagliato, ma i risultati sono alquanto
sconfortanti. Agito la testa per sincerarmi che sia ancora attaccata, che sia
tutto a posto, così sembra… Sarà forse il caso che mi faccia vedere da
qualcuno… da uno strizzacervelli? Da quando in qua penso a migliorare le mie
condizioni fisiche e mentali? Forse, nonostante l'ultimo delirio, qualcosa sta
davvero cambiando, in meglio. Il divano di Freud, torno a disquisire a
proposito del divano di Freud che vorrei possedere come un feticista… Il suo divano
avrebbe senz'altro il potere di rimettermi in sesto e darmi la forza di
combattere gli esseri misteriosi che affollano la mia mente.
Mi tranquillizzo
respirando profondamente. Piano piano i muri tornano del loro usuale pallore, e
ogni mostruosità si dilegua, nebulizza. Tutto torna come prima, sennonché la spina
del mio cuore ricomincia a sanguinare in modo evidente, riprendendosi la
rivincita sulle mie recenti conquiste in campo sociale. Si susseguono nuove
canzoni che ridanno vita alla mia giornata; e alla fine ciò che rimane impresso
nella mia memoria, più ancora del ritornello incriminato, è l'autore della
canzone misteriosa: Eric Clapton.
While
My Guitar Gently Weeps
Salto il pranzo
sollecitato dal desiderio di rituffarmi in paese per fare un giro in
biblioteca. Non ho idea di dove si trovi, ma è indubbio che un paese come
questo ne possegga una. Esco e chiedo. Mi dà le indicazioni una signora sulla
sessantina, tipica di queste lande, con una folta chioma grigia e due occhiali
vistosi che le occupano mezza faccia. Sembra la moglie del tipo che avevo
incontrato alla cappelletta degli appestati, che non ho più rivisto da quel
giorno. Insieme starebbero meravigliosamente. Lo intuirebbe anche un bimbo, si
incastrano alla perfezione. La loro genetica, penso non sia molto differente.
Da queste parti sono tutti mezzi parenti, è anche per questo motivo che fino a
qualche decennio fa nascevano spesso piccoli con qualche problema. E' la voce
che mi è giunta da una creatura delle pozzanghere.
La biblioteca si
trova nel centro del paese, nei pressi della chiesa principale, lungo una lunga
via trafficata e avara di parcheggi. E' elegante, piccola ma elegante e
apparentemente ben fornita. Al suo interno sono stato squadrato da quattro
utenti che parlottavano fra loro. Solo uno mi ha salutato.
«Buongiorno», ho
contraccambiato.
Mi sono guardato
intorno un po’ a disagio, sentendomi addosso gli occhi dei presenti, come
fucili a canne mozze piantati nella schiena. Sono stato pervaso dall'idea di
tirare urlo, per dare almeno un motivo valido ai quattro per guardarmi come se
stessero vedendo un extraterrestre. Toccandomi, però, il mento per scaricare
l'ansia mi sono accorto della lunghezza della barba e del fatto che, verosimilmente,
non sono molto presentabile. Quando sono in casa, di fatto, non mi guardo quasi
mai allo specchio per vedere come sto e tantomeno quando devo uscire mi
preoccupo di come possa apparire. Chissà se anche Ginevra lo avrà notato.
Ginevra? Perché sto pensando a lei?
Dovrei rientrare
nei gangheri e magari comprare qualche vestito nuovo. Alcuni sono davvero
impresentabili. Non era così quando stavo alla Vian. Toelettatura e vestiario
erano due aspetti che osservavo con rigore. Scrutandomi con maggiore
attenzione, noto che, peraltro, indosso un paio di scarpe inadatte alla
stagione, che si combinano malissimo con i pantaloni. Ora capisco lo
sbigottimento dei presenti. Devono avermi scambiato per una specie di clochard.
«Sapete dirmi
dove posso trovare qualche rivista o libro musicale?».
La
bibliotecaria, una signora sgraziata e tonda, mi indica l'ultimo scaffale in
fondo alla stanza che si apre davanti ai miei occhi. La ringrazio con un cenno
del capo, muovendomi barcollando. Le riviste sono in cima al mobile, dove si
intuisce che più persone vanno a mettere le mani. Comincio a sfogliare a
casaccio, incredulo di fronte all'eccezionale numero di magazine di settore.
Recupero l'indice di una raccolta di fascicoli musicali pubblicati da Curcio
Editore, allegati a una rivista chiamata Rock & Blues. Cerco Eric Clapton.
Mi manda a pagina 96 del quarto volume. Il servizio si apre con una bella
immagine del musicista inglese, che suona con altri comprimari in una specie di
teatro. Le luci falsano la realtà, facendolo sembrare una specie di robot con
la chitarra in mano. Leggo cose interessanti sulla sua biografia: abbiamo quasi
la stessa età, ma lui è nato a Ripley, piccolo villaggio a una quarantina di
chilometri da Londra. E' soprannominato "slowhand", manolenta,
curioso epiteto che non riesco a ricondurre a un'origine precisa. Risulta
tutt'oggi essere uno dei più importanti musicisti blues. Leggo e leggo, finché
non arrivo alla fatidica sentenza. Eric Clapton ha dato alle stampe nel 1970 a
una delle sue canzoni di maggiore successo: Layla. Ho un fremito. Layla e non
Laila. Dunque, ho la certezza matematica che la mia Laila non possa essere
quella della canzone… Ridicolo che abbia ancora dei dubbi in questo senso, ma
ora che posso appurare con certezza la sua estraneità nei riguardi del
capolavoro claptiano provo un senso di sollievo. Layla non è Laila. Ma poco
cambia. Quella canzone mi rimanderà per sempre al mio vecchio e indimenticato
amore.
Proseguo nella
mia ricerca, incuriosito dal fatto di scoprire chi si cela dietro alla
protagonista del pezzo. Emerge che Clapton non è l'unico autore della canzone.
Al suo fianco c'è Duane Allman, chitarrista e cantante statunitense, scomparso
giovanissimo, l'anno dopo la pubblicazione di Layla, per via di un incidente
stradale. Layla? Scopro che, in realtà, non è Layla, ma Pattie Boyd, moglie di
un altro grande amico di Eric Clapton: George Harrison, nientemeno che uno dei
quattro beatle. E che c'entra? Piccolo retroscena. Clapton e Harrison si
stimano molto e non perdono occasione per suonare insieme. Il primo
contribuisce alle registrazioni di "While My Guitar Gently Weeps",
brano composto da Harrison per "White Album" dei Beatles; il secondo
contraccambia in "Badge", dall'album "Goodbye" dei Cream,
dove suonava Clapton. Risultato: Clapton vede sempre Harrison, ma anche la
moglie di quest'ultimo, della quale alla fine si innamora, contraccambiato.
L'amore, si sa, mette pepe all'ispirazione e così Clapton decide di dedicare un
pezzo alla consorte dell'amico. Trova il pretesto per non utilizzare un nome
fin troppo esplicito rifacendosi a un poeta azero, Nezami, autore di una storia
dedicata a una principessa costretta a sposare per volontà del padre un uomo
diverso da quello di cui era innamorata. Sembra proprio la sua storia. E visto
che la protagonista della saga azera è Leylà… giungere a Layla pare
inevitabile. Giochi chiusi? Non ancora.
La canzone, dopo
qualche tentennamento iniziale, dovuto al fatto che vari opinion leader
credevano che provenisse da un semisconosciuto gruppo della periferia
londinese, ottiene un successo strepitoso, spendendo nel gotha dei più grandi
musicisti di sempre il mitico slowhand, e consentendogli di soffiare definitivamente
la moglie all'amico. Pattie Boyd divorzierà, infatti, da Harrison nel 1977 per
sposare Clapton due anni dopo. Matrimonio che, a quanto pare, sta andando
ancora oggi a gonfie vele.
Parametri
esistenziali
Dopocena mi sono
sdraiato sul divano e mi sono messo a fissare il soffitto, accantonando per un
attimo Layla e Calpton, e ripescando un argomento affrontato qualche giorno fa:
l'antropocentrismo. Ma da un nuovo punto di vista, o meglio, da un punto di
vista basato sul fatto che probabilmente anche concetti tabù come la morte
hanno valore solo se analizzati e valutati dalla nostra posizione. Non è
escluso che anche il trapasso sia un immenso granchio e che, di fatto, non
esista. Non sappiamo nulla del mondo che ci circonda, inutile negarlo, e diamo
consistenza a parametri esistenziali sui quali probabilmente non abbiamo i
mezzi per indagare. Non sappiamo quale sia l'energia che tiene in piedi
l'universo, non sappiamo cosa succede a livello subatomico, c'è discrepanza fra
le teorie di Einstein e l'immensamente piccolo, brancoliamo nel buio per ciò
che riguarda l'ipotesi di un pre-big bang.
Si dovrebbe
iniziare a parlare di biocentrismo, dove "il mondo", l'universo, è il
centro, e noi solo una minuscola e infinitesimale appendice (che se anche non
ci fosse non cambierebbe nulla). La morte, dunque, se si osservasse il processo
da questo punto di vista, non dovrebbe sussistere, essendo una prerogativa
della nostra mente, della nostra società. Siamo stati educati a credere nella
morte e, paradossalmente, a evitar di discorrerne il più possibile. Ma, in
realtà, non si muore mai, così come non si nasce mai, si esiste da sempre e per
sempre sotto forme diverse, sotto materializzazioni differenti dell'energia.
Ricordo di avere avuto questa sensazione anche quando mi capitò di vedere delle
mummie mezze imbalsamate in un sotterraneo di Praga, in seguito a un'uscita
improvvisa per la Vian. Guardavo quelle facce stranite e scheletriche e intanto
avevo l'impressione che non fossero morte, ma che fossero altrove. Era come se
a un certo punto l'energia in esse contenuta avesse smesso di irraggiare potere
per volare chissà dove. Le cose credo che funzionino così, e anche i nostri sbagli,
le nostre paure, dipendono verosimilmente dall'errata consapevolezza che
abbiamo del genere umano. Lo stesso Einstein credeva che la morte fosse una
sciocchezza. Quando gli diagnosticarono un aneurisma, rifiutò di farsi operare,
sapendo che è tutto relativo, compreso il trapasso.
Il nostro
principale errore è quello di vedere le cose sempre dallo stesso punto di
vista. Dovremmo imparare, invece, a staccarci dalla nostra apparente solidità
cosmica. Siamo in una stanza e vediamo di fronte a noi un tavolo, delle sedie,
alcuni quadri appesi alle pareti. Ma non è quello che c'è veramente, è quello
che crediamo ci possa essere: praticamente nulla rispetto a ciò che c'è
davvero. I nostri occhi, certo, sono un limite sacrosanto alla conoscenza.
Diamo giudizi in base a ciò che vediamo, ma gran parte di ciò che c'è non può
essere visto con gli occhi, ma con la mente. Dunque, nella stessa stanza dove
ci trovavamo poc'anzi, con l'intelletto arriveremmo a ben altro e vedremmo
nuvole di atomi che si aggrovigliano fra loro, misteriose particelle che
guizzano nell'aria, fantascientifiche creature che nemmeno il miglior
microbiologo della Terra saprebbe diagnosticare ed energie che ci attraversano
senza sapere cosa siano e da dove arrivino. E' grazie al potere della mente che
possiamo vedere ciò che non c'è; se invece, come facciamo, ci affidiamo agli
occhi e all'educazione che abbiamo ricevuto, non portiamo a casa nulla d'interessante.
Continuiamo a sprofondare nella nostra boria, inconsapevoli di tutto e tutti.
L'antropocentrismo
è in gran parte figlio della religione, temo; di quella cristiana soprattutto.
Le cose sono state confuse dalle sacre scritture. Qual è il senso della resurrezione
di Cristo se, in pratica, siamo già tutti i risorti e ogni giorno risorgiamo? Chiunque,
infatti, se ragionasse con la mente e non con gli occhi, vedrebbe che la reincarnazione
di Gesù - magistralmente ideata per alleviare le nostre pene convincendoci di
un immenso potere sovrannaturale in grado di regalare l'immortalità - non è che
un concetto arbitrario, obsoleto, mitologico. Non c'è nulla di vero in essa,
per il semplice fatto che racconta una verità che si verifica tutti i giorni, e
che, pertanto, non ha nulla di trascendentale. La superficialità del
cristianesimo è stucchevole, e stucchevole è il fatto che ci siano ancora preti
che non si siano accorti delle immense fregnacce che raccontano. Dovrebbero
auto infliggersi delle punizioni, non per redimere il peccato universale (altra
cosa stupida), ma per i continui lavaggi di cervello che operano nei confronti
di seguaci ignari, incapaci di fare un po’ di autocritica. Senza contare la
presunzione legata al fatto di ritenere santo Gesù, ma non Maometto e Buddha. Che
differenza ci sarebbe fra queste persone?
Semmai è il
mistero della carità cristiana che andrebbe approfondito e perseguito. Quella
magica e indescrivibile spinta che porta a vincere le leggi darwiniane,
antiponendo all'io, l'altro, questo sì che può avere un vero valore
trascendentale, il resto sono sciocchezze. Ma il cristiano medio fa troppo
spesso orecchie da mercante, facendo e predicando tutto, senza donare un bel
niente e, quindi, rinunciando clamorosamente all'unico vero paradigma della
comunione con Gesù. Al cristiano andrebbe, dunque, suggerito di evitare di
parlare di cose che non ci sono e di santificare feste che non servono, ma di
vivere come insegnava Cristo, all'insegna della rinuncia per l'altro. Mi viene
in mente Kolbe, il sacerdote che durante la guerra si fece avanti per essere
giustiziato al posto di un condannato a morte con moglie e figli. Questo è un bell'esempio
di vero cristiano, uno fra i pochissimi, gli altri scimmiottano il
cristianesimo con un'incoerenza spaventosa, abbeverandosi alla fonte
dell'ipocrisia. Anche se poi si finisce per aprire una nuova questione: il donarsi
agli altri è un puro e spontaneo regalarsi o è la modalità estrema per far
stare bene noi stessi? In altre parole, per esempio i missionari, fanno del
bene ai terzomondisti o al proprio spirito che altrimenti soccomberebbe?
Sono tornato a
parlare di questo argomento anche perché l'altro giorno ho visto un documentario
dedicato all'ipotesi di forme di vita aliene, su cui mi sono trovato a meditare
subliminalmente fino a oggi. Quasi l'intera durata della trasmissione ha avuto
come tema clou l'ipotesi che gli extraterrestri ci possano attaccare. Mi sono
scaldato. Se ci sentissero gli alieni si farebbero della grosse, grasse risate…
Ma possibile che a nessuno di noi venga in mente che per creature più o meno
sviluppate delle nostre il concetto di guerra possa non avere alcun senso? Perché
riconduciamo tutto all'uomo? Perché non s'impara a vedere le cose da un punto
di vista universale? Il fatto che ci facciamo guerra dagli albori della civiltà
non può e non deve significare che anche in altri punti del cosmo tutto ciò
abbia un significato… Ancora una volta valutiamo il discorso come se fossimo al
centro di tutto… mentre non siamo altro che minuscoli esseri terribilmente
arretrati.
Un
gatto nero a passeggio
E' notte e non
riesco a chiudere occhio. Ripenso ancora alla canzone di Clapton, mi giro e
rigiro nel letto come un drogato in crisi di astinenza; come i primi giorni di
soggiorno a Concorezzo, con una colpa troppo grande da espirare con successo,
senza un aiuto, un appoggio dall'esterno. Andare a fare una passeggiata nel
cuore della notte, con il freddo che c'è, mi pare un'assurdità… Quindi? Quindi,
come in un copione già visto, mi alzo e vagabondo per casa fino a trovarmi di
fronte alla finestra che dà sulla casa del vicino. Nonostante l'ora tarda ha
ancora le luci accese. Mi pare strano. La macchina al solito posto, i bagliori
del soggiorno, la fine del mondo verosimilmente ancora lontana; ma qualcosa mi
lascia di perplesso. Sono le due di notte e, domani, suppongo che, come tutti i
mortali (a parte il privilegiato sottoscritto) debbano andare a lavorare: cosa
ci fanno ancora in piedi? Noto delle ombre al di là delle tende che si
sovrappongono freneticamente. C'è qualcuno che va e che viene; sembrerebbero
persone diverse, affaccendate per qualcosa, ma è pressoché sicuro che siano solo
i due proprietari della casa, che si avvicendano l'uno con l'altro come se si
fossero messi in testa di traslocare col buio o fuggire per via di un'imminente
esplosione. Perché sicuro? Non so, è un'idea, una certezza che mi sovviene, non
ha senso che alle due di notte due tipi come loro stiano facendo festa con
qualche amico particolare. Peraltro non vedo parcheggiate auto lungo la via, né
ci sono altri mezzi motorizzati. Potrebbero esserci amici del paese,
sopraggiunti a piedi… ma insisto: nei giorni feriali i brianzoli non fanno festa
fino alle ore piccole. E allora… che diamine staranno facendo i miei vicini?
La luce si
spegne e si riaccende, come se qualche imbecille si divertisse a pigiare
sull'interruttore per fare passare il tempo. Lo facevo anch'io da bambino con
qualche mio cuginetto, fingendo di trovarci in un casinò di Las Vegas.
Continuano i loro assurdi avanti e indietro. Le tende subiscono uno
sconquassamento, un movimento anomalo, sussultorio. Non ci sono, però, correnti
d'aria, presumo non ce ne siano, non soffia un alito di vento e le finestre
sono ben serrate; evidentemente uno dei due è finito addosso alla finestra: la
schiena di una persona ricama un confine fin troppo netto nel drappo di tessuto,
a mo' di uno spettacolo di ombre cinesi. Per poco non si riconoscono anche le
vertebre dell'individuo sospinto da una forza a dir poco tracotante. Un brivido
mi scombussola lo stomaco, facendomi andare su e giù quel poco che ho mangiato.
Mi pare di sentire un urlo. E' un urlo. Mantengo la calma e mi avvicino alla
porta di casa che disserro lentamente.
Ora domina il
silenzio. Saluto con un cenno sbrigativo qualche creatura delle pozzanghere che
tergiversa nei pressi di un minuscolo alveare lacustre condannato
all'estinzione. Torno alla casa dei vicini. La luce del soggiorno sembrerebbe
essere stata definitivamente smorzata. Vengo, di nuovo, sopraffatto
dall'ipotesi che mi stia sfuggendo qualcosa, nel bene o nel male. Sono solo
immagini distorte della mia mente? Cosa sta accadendo in quella casa?
Prendo le
sigarette e mi metto a fumare sull'uscio di casa, seminascosto da un grosso
vaso spoglio. Dalla mia posizione posso
vedere tutto senza essere visto da nessuno. Fa un freddo della miseria ma è
come se fossi anestetizzato; benché in pigiama resisto come un eschimese alle ferite
del gelo, soffiando in mezzo alla strada nuvole di fumo e vapore. Mi guardo
intorno scoprendo una via totalmente deserta: perfino delle creature delle
pozzanghere non c'è più traccia. C'è un rumore di fondo, che non riesco a decifrare, un rumore sordo e costante.
Forse è l'eco dell'autostrada, dei mezzi ancora in circolazione. A quest'ora
della notte? Mah. In ogni caso non devono esserci tantissimi metri fra il mio
quartiere e la tangenziale e lì convergono molte altre strade.
Alla mia
sinistra odo un miagolio che mi restituisce per un attimo il buonumore. E' un
gatto nero che attraversa la strada. Gli dedico la mia attenzione, come se
fosse la più bella cosa che abbia mai visto da un bel po’ di mesi a questa
parte. Sembra l'animale più tranquillo e pacifico del creato, del tutto
disinteressato alle vicissitudini degli umani che lo circondano. Con assoluta
nonchalance filtra nel giardino dei vicini, attraversando l'ampia feritoia del
cancello, perdendosi dietro un'araucaria mezza rinsecchita. Mi rimanda ai
pensieri di oggi pomeriggio. Anche il senso di questa notte bizzarra dipende da
un punto di vista: in questo caso, il mio e quello di un gatto teso a traguardi
che non mi competono minimamente. L'antropocentrismo abiura lo spirito critico,
ma è sufficiente il semplice galoppo di un felino domestico a far quadrare
nuovamente le cose. Basta un piccolo sforzo, un misero e mistico ragionamento. Basterebbe
poco, per tutto.