Si era fermato in chiesa per almeno un’ora a riflettere, per rendersi effettivamente conto che non s’era dimenticato di nulla. La campagna di Russia era ancora viva e presente nella sua mente, qualcosa che – sapeva bene - si sarebbe portato nel cuore fino alla tomba, benché risalisse a quaranta anni prima. Certe cose non si dimenticano, non possono essere dimenticate. Certe cose finiscono per fare parte del dna di una persona, anche se non c’è nulla di genetico in esse, come se il pensiero più struggente avesse in qualche modo il potere di sindacare le geometrie infinitesimali degli acidi nucleici, interferendo con il loro progredire. Nelle due piccole cassettine di legno, coperte dalla bandiera italiana, riposavano due suoi vecchi amici, con cui aveva combattuto nel corso della seconda guerra mondiale. Dopo i trattati di Parigi del '47 erano finiti in un misero cimitero di guerra, insieme a parecchi altri scheletri, molti privi della provvidenziale targhetta nominale; gli sfortunati militi ignoti, perduti per sempre nell'oblio, erano la maggior parte, non solo di origine italiana. Nei due scrigni non c’era granché: resti ossei anneriti dalle muffe, qualche brandello di vestito, un paio di medaglie ossidate. Non era stato facile farli tornare in Italia. La burocrazia aveva impedito di risolvere la cosa in breve tempo, e tra un procrastinare e l'altro, erano passati quasi quattro decenni.
Avevano poco più di vent’anni. A lui era andata bene, a loro no. Loro non ce l’avevano fatta, non avevano avuto una moglie, né figli, i loro sogni non avevano visto la luce, nessuna delle primavere assegnategli alla nascita. Troppo freddo, troppa fame, troppo niente. Troppi alberi congelati, intirizziti, troppe distese erbose senza un briciolo di selvaggina, senza un briciolo di accondiscendenza, con un vento gelido e devastante che avrebbe immobilizzato e ucciso anche l’animale più vigoroso e potente. In quelle cassettine riposavano Giuliano Pozzi e Mario Gaviraghi, due leoni di un tempo tramontato.
Se le ricordava ancora molto bene le loro facce: quella lunga e triste di Giuliano e quella tonda e sorniona di Mario. Entrambe sghembe, emaciate, sofferenti. Poi c’era la sua, più simile a quella di Mario che non a quella di Giuliano, ma con lo sguardo decisamente più arrabbiato. Doveva ringraziarla questa prerogativa del suo carattere, che aveva senz'altro contribuito a tenerlo in vita, a stringere i denti più degli altri, inseguendo un’idea di rivincita che non ci sarebbe mai stata, ma che nella sua immaginazione ci sarebbe potuta essere, conferendogli un’animosità rara, il coraggio per andare avanti a testa alta, nonostante le terribili avversità. Così, d'altronde, bisognava essere per la campagna di Russia, sennò non c’era alcun verso di cavarsela. In pochissimi, infatti, erano riusciti a far ritorno a casa. Un numero mostruosamente esiguo di relitti umani senza più un barlume di speranza. Giuliano era nato nella corte attigua alla chiesa, una delle più antiche del paese, con ancora il disegno lastricato del percorso seguito, fino a qualche decennio prima, dalle carrozze nobiliari. La sua famiglia viveva lì da generazioni e generazioni. Lavoravano i campi. E parlavano poco. Anche Giuliano era così. Parlava poco. Ma parlavano per lui e i suoi pensieri i suoi occhi, vividi, e malinconici. Luigi Vismara li rammentava benone. Aveva anche provato a prenderlo in giro, per le sue iridi luccicanti, bollandolo come “quello con gli occhi da donnetta”. Ma si volevano bene, dovevano volersi bene, per non finire uccisi prima del tempo. Per non finire divorati dall'angoscia di un vivere a dir poco terrificante che nessuno di essi aveva chiesto in regalo. Mario veniva da Agrate, abitava in una corte decentrata rispetto al cuore del villaggio, sulla strada per Concorezzo. Una cascina risalente al 1830, circondata da alti pioppi. C’erano maiali, mucche, capre, oche, anatre, fagiani, galline… L’allevamento di questi animali consentiva alla famiglia del militare di vivere più che dignitosamente. Avevano anche dei terreni destinati alla coltivazione dei principali prodotti cerealicoli: non erano di loro proprietà, ma gli offrivano tutto ciò che cui avevano bisogno per tirare a campare. Mario suonava la fisarmonica. L’aveva imparata a suonare da uno zio. In guerra diceva che gli mancava più della ragazza, per questo non si prendeva mai la briga di lanciare le bombe a mano: temeva che potessero saltargli gli arti, compromettendogli per sempre il suo talento. Amava la musica più di ogni altra cosa. I suoi occhi, quando parlava di qualche melodia popolare, si illuminavano come quelli di un bambino la notte di Natale. Qualche volta tentava di intonare un canto, ma senza andare oltre la prima strofa. Non era quello il clima ideale per abbandonarsi a una felice cantata collettiva. Ogni momento era buono per dire addio a qualunque idea di futuro.
Una delle ultime notti passate insieme erano rimasti in quattro, prima di raggiungere un avamposto a pochi chilometri di distanza da un minuscolo borgo sulle rive del Dnepr, teatro di uno degli scontri più sanguinosi e sfortunati. Il freddo gli attanagliava le ossa e una fame immonda aveva cominciato a provocargli assurdi crampi allo stomaco. Avanzare in mezzo alla neve presupponeva un buon pasto caldo, dal quale ricavare un po’ di energia, ma di pasti caldi non ce ne sarebbero stati per almeno quarantotto ore. Lungo il tragitto avevano, però, notato un paio di capanne di legno, apparentemente disabitate, circondate da campi assiderati e un bugigattolo nel quale agonizzava un asino scheletrico con la bava alla bocca. Non avevano nemmeno avuto il tempo di confrontarsi: quello sarebbe stato il pasto più succulento da vari mesi a quella parte. Non era stato difficile uccidere l’animale, era praticamente già morto, di stenti e forse di qualche malattia, un colpetto alla testa col calcio di una pistola ed era crollato come un sacco di patate. Ma anche se fosse stato malato, anche se avesse avuto la lebbra, l’avrebbero comunque divorato. La fame li aveva completamente rimbambiti, al punto che la morte non era più vista come una condanna, ma una benedizione.
Ricavato un fuocherello con della paglia conservatesi all’interno delle baracche, avevano cominciato a strappare a morsi tutto ciò che si poteva, il poco di carne presente e qualche osso croccante. Quindi s’erano rimessi in marcia per la salvezza.
Strada facendo avevano incontrato altri sbandati diretti verso sud, con le divise lacere e gli occhi pieni di sangue, in cerca di un clima più favorevole e confini amici. Si erano guardati in cagnesco per qualche minuto, prima di proseguire ognuno per la sua strada. Ma Giuliano non ce la faceva proprio più. Anche l’asino mangiato avidamente non aveva migliorato le cose: in poche ore la sua temperatura corporea era cresciuta a dismisura. Era stato lo stesso Luigi a misurargliela ponendo la sua mano sulla fronte del compagno: era bollente. Evidentemente s'era beccato un'infezione da qualche parte, da un po' di giorni lamentava un pulsante dolore retrosternale. Dopo un paio d’ore dalla prima misurazione aveva cominciato ad avere le allucinazioni: diceva di vedere la Madonna, circondata da fate vestite d’azzurro. Per tutti era stato chiaro che se ne sarebbe andato in pochissimo tempo. L’avevano trasportato fino al primo distaccamento alleato, allestendo una barella improvvisata, con un paio di assi di legno e delle cinghie ricavate da brandelli di stoffa raccattati qua e là. Dopo due giorni di semi incoscienza s’era spento con un sorriso immacolato. Il quarto della comitiva, un soldato di cui Luigi non ricorda più il nome, aveva proseguito con altri compagni, convinto di poter arrivare prima a casa degli altri seguendo un percorso alternativo, lasciando soli i due con i quali era giunto fin lì.
Luigi e Mario erano così andati avanti in tandem, sfidando ancora una volta uno di fianco all’altro il gelo paradossale e il vento ghiacciato della steppa russa. Ripensando al freddo patito in Italia, durante gli inverni più infingardi, capivano che non ci fosse davvero nulla di simile a quello che stavano provando in quel momento:
“In Italia non fa freddo, semmai potrà esserci un po' di umidità”, aveva azzardato Luigi. “Chi si lamenta di un po' di gelo in Italia, non ha la più pallida idea di cosa significhi patire il vero freddo”.
Non avevano più accennato a Giuliano, ormai appannaggio di un altro mondo, se non il mondo delle tenebre, un paradiso lontano e impercettibile. Una bufera gli aveva fatto perdere la strada nei pressi di una fitta boscaglia, non lontana da un centro chiamato Bucha. All’improvviso s’erano sentiti degli spari: provenivano da un bassopiano, quasi completamente avvolto dalla nebbia. Mario s’era afflosciato in un secondo, pietrificando Luigi, che aveva cominciato a chiamarlo a squarciagola, implorando Dio di lasciargli almeno lui. Ma Mario non rispondeva più, e un fiotto di sangue gli sgorgava copioso da un buco nello stomaco: anche per lui non c’era più nulla da fare. Poi la beffa. La risposta dei cecchini: italiani come lui che avevano scambiato i due fantasmi per dei nemici da accoppare in fretta e furia. Luigi era crollato sulle sue stesse ginocchia bestemmiando Dio come non aveva mai fatto in vita sua.
“Vi rendete conto di ciò che avete fatto?”, gridava come un pazzo nella notte. “Avete ucciso Mario, un italiano come voi!”.
I soldati non avevano potuto fare granché, se non rincrescersi per l’accaduto, ma in guerra succedono anche di queste cose, di avventarsi assurdamente su giocatori della stessa squadra, senza minimamente rendersi conto. Benché in questo specifico caso il nemico da combattere non fosse una divisa malevole, ma una nebbia vigliacca e putrida, di quelle che nessun soldato vorrebbe mai incontrare sul suo cammino. Luigi, volente o nolente, si era unito a loro e con loro aveva camminato come uno spettro per altri sei giorni prima di giungere, finalmente, alle porte della Svizzera e rientrare in patria, dove avevano fatto fatica a riconoscerlo anche i parenti più stretti.
“Uno scheletro”, diceva sua madre, “me lo hanno ridotto a uno scheletro”.
Mentre la tv trasmetteva le immagini di Chernobyl, Luigi fissava lo schermo come inebetito. Non aveva mai sentito parlare di Chernobyl, ma comprendeva che era esattamente da quelle parti che aveva combattuto con una foga irrazionale durante il secondo conflitto mondiale. Più o meno da quelle parti, verso nord est, non è che ne sapesse molto di geografia. Ma Chernobyl sembrava davvero un nome russo, simile, in tutto e per tutto, a uno di quegli improbabili nomi di città dove aveva buttato via parte della sua giovinezza. S'era, quindi, stupito del fatto che il patatrac nucleare in Bielorussia fosse coinciso proprio con il richiamo dell'amministrazione. L'avviso era giunto in casa Vismara con una lettera battuta a macchina, tre mesi prima. Era il sindaco in persona a interpellarlo. Lo sollecitava a presentarsi in municipio per accettare l'importante incarico. Come avrebbe potuto rispondere no? Aveva, infatti, accettato senza tentennamenti, anzi, s'era perfino pavoneggiato subito dopo, fra parenti e amici, per l'importante compito da assolvere.
“Io, io, dovrò accogliere le salme...”, e cominciava a singhiozzare.
“Ci vorrà l'abito giusto”, aveva mugugnato qualche amico della piazzetta della chiesa.
“Ci vorrà l'abito di un presidente”, aveva detto Pasqualino Brambillasca, giovanotto con qualche venerdì in meno, sempre in apprensione ogni volta che in paese stava per accadere qualcosa di importante.
Le immagini erano fin troppo eloquenti: mostravano una centrale nucleare con un ampio squarcio in corrispondenza di un reattore, contenitore supersigillato nel quale avvenivano misteriose reazioni chimiche. All'inizio non aveva dato peso alle parole dello speaker. S'era reso conto della gravità della situazione solo a metà del servizio del telegiornale, quando dalla finestra aveva udito il frastuono di un camion che passava, contemporaneamente alla comparsa in video del volto avvilito di un bimbo con la faccia ricoperta di bolle, e di vigili del fuoco, o presunti tali, con le maschere antigas.
“Cos'è un reattore?”, aveva domandato la moglie, grattandosi una caviglia che da un po' di giorni le dava qualche problema ambulatorio.
La moglie era donna grezza e grossolana. Aveva solo la quinta elementare e solo un'idea vaga della distribuzione delle nazioni nel mondo. Anche lei come il marito, quindi, udendo la parola Chernobyl, non era stata in grado di collocarla in un punto preciso del pianeta, se non in un'imprecisata area a destra dell'Italia. Ma era già qualcosa. Era anche lei del '20, come il suo Luigi, sposatolo senza quasi avergli rivolto la parola. A quei tempi succedeva così. Si inquadrava un partner più o meno della stessa età e bastava una serata fra le rispettive famiglie a sancire l'unione coniugale. Vivevano a un passo l'uno dall'altro. Le porte dei genitori guardavano una in faccia all'altra. Le mamme erano addirittura cugine di secondo grado. Il platonico fidanzamento era proseguito fino alla guerra, s'erano sposati poco dopo la Liberazione, quando Luigi aveva già ripreso parte dei chili persi sul fronte. Una cerimonia mesta, con pochi invitati e nessun viaggio di nozze. I tempi per certi vezzi non erano ancora maturi. I primi anni erano stati piuttosto burrascosi. Luigi aveva un carattere burbero e austero, che mal s'accordava non solo con la moglie, ma anche con chiunque altro avesse a che fare con lui, compresi gli amici più cari. Molti asserivano che fosse per colpa della guerra, che la tensione accumulata durante il conflitto gli avesse drasticamente cambiato il carattere, fino a fargli provare un disagio simile a quel che oggi si potrebbe definire disturbo post-traumatico da stress. Aveva degli scatti d'ira che non riusciva a gestire, facendolo passare per un pazzo scatenato. Pretendeva dalla donna tutti i servigi del mondo: pulizia delle scarpe, sistemazione dei vestiti, preparazione del mangiare, accensione della radio tutte le mattine alla stessa ora, raccolta della verdura solo su sua indicazione... Ma lei non era certo il tipo di assoggettarsi senza remore al marito, così scoppiavano delle litigate furibonde, coinvolgenti anche il vicinato.
“C'è aria di tempesta in casa Vismara”, dicevano i Sangalli della porta accanto, temendo l'ennesima notte in bianco.
“Prima o poi verranno fuori i carabinieri”, commentavano i Meroni, del piano di sopra. “Non si può andare avanti così”.
Talvolta volavano piatti o qualunque altro oggetto potesse capitare loro fra le mani. Era la donna, soprattutto, ad avere questo particolare feeling con una disciplina sportiva quantomeno inappropriata al microcosmo condominiale. Peraltro i muscoli non le mancavano. Con gli anni, però, le cose erano migliorate. Non era vero amore, ma solo una serena rassegnazione. Non era più il caso di litigare come prima, l'avevano capito entrambi. Troppa fatica, eccessivo spreco di energie. Forse s'erano semplicemente riappacificati con loro stessi. Forse stavano solo invecchiando. Forse era per via dell'arrivo della loro unica figlia, Amanda, una ragazzona alta un metro e ottanta, con le spalle da culturista, la pelle trasparente e una folta chioma rossiccia, poco prima del trasloco nel condominio di Omate. Con i figli certe coppie scoppiano, altre, misteriosamente, si legano indissolubilmente. Così era capitato ai Vismara.
Nel 1986 Amanda aveva 36 anni. Viveva ancora con i genitori, con i ragazzi era sempre stata una frana. Non erano in molti quelli che avevano tentato un'avventura con lei. Non era solo la sua mancanza di grazia a tenerli lontani, ma anche un atteggiamento nei confronti della vita totalmente banale e sciatto. Aveva avuto una sola storia relativamente importante: quella con Francesco Scaccabarozzi. Il tipo viveva a Melzo e lavorava in un'officina meccanica. Era una specie di energumeno. Un gigante di due metri, erculeo anche senza aver mai fatto palestra, scuro di carnagione, quasi totalmente pelato, con un mucchio di tatuaggi. L'unica cosa che funzionava fra i due era il sesso. Si regalavano amplessi degni di una coppia di neandertaliani, con una foga animalesca fuori da qualunque prerogativa sentimentale. Andava avanti così da sempre, senza alternative; ma ad entrambi pareva che, davvero, non ci fosse un modo migliore per vivere onestamente la loro giovinezza, qualcosa di un po' più approfondito del solito mettersi in gioco dando sfoggio delle proprie potenzialità erotiche. Per il resto, c'era poco altro. La conversazione era un'accozzaglia di frasi senza senso e bestemmie. Le rispettive bocche, d'altronde, si trovavano molto più a loro agio con qualcosa da fumare, che non con degli aggettivi da formulare. O qualcosa da bere. A entrambi piaceva bere, vino rosso in primis. Poi birra e superalcolici. Facevano razzie nei supermercati, per scolarsene il più possibile, anche in una sola sera, abbarbicati a qualche parcheggio anonimo, ascoltando musica di scarsissimo valore, sputacchiata da insignificanti e stantie stazioni radio.
La storia era finita senza un reale perché, quando gli amplessi animaleschi avevano ormai perso l'ardore degli inizi. Le telefonate s'erano diradate e così gli incontri, finché non s'erano più sentiti. Ma nessuno dei due aveva sofferto. Vivevano l'amore e gli affetti senza il minimo trasporto, come degli esseri viventi privi di intelletto ed emozioni. Gli affetti e le smancerie erano solo una rottura di scatole, legate a sentimentalismi da romantici senza carattere. Così la pensavano, anche se nessuno dei due era mai riuscito a esprimere verbalmente il concetto. Molto meglio vivere alla giornata, senza progetti, tantomeno iniziative legate all'ipotesi di mettere su famiglia.
“I marmocchi sono solo delle dannate scocciature”, diceva Amanda, ogni volta che qualcuno le chiedeva quando si sarebbe decisa a diventare mamma. “Piuttosto che mettere al mondo un figlio mi faccio monaca”.
I marmocchi erano creature inconciliabili con il loro mondo adulto. I loro pianti uno strazio infinito. Quando poi se la facevano addosso... Non vedevano un minimo di poesia in essi, il miracolo della procreazione era pura astrazione. Una volta avevano perfino ironizzato su una mamma di Lodi che aveva abbandonato il suo bambino sulle scale della chiesa principale. Con ciò stavano benissimo anche da soli, ognuno per i fatti suoi, con i rispettivi, monotoni e allucinanti lavori.
Amanda lavorava come donna delle pulizie in un hotel a Vimercate, poco dopo il curvone dell'ospedale. Era un hotel a due stelle e mezzo, frequentato più che altro da uomini d'affari che non trovavano sistemazioni migliori o che all'ultimo momento erano costretti a pernottare fuori casa. Risaliva a una decina di anni prima, in concomitanza con la nascita dei primi quartieri popolari, sorti per accogliere i tanti immigrati provenienti dal sud. Esternamente non era granché, ma all'interno le camere erano comode e confortevoli. La moquette, la tappezzeria, i fiori sui tavoli, conferivano alle stanze un'aria molto rilassante e vacanziera. Molti lo frequentavano anche per le scappatelle con l'amante. I bordelli erano chiusi da tempo e chi desiderava affaccendarsi con qualche squillo, non aveva molte altre chance in Brianza, se non andare a tampinare sfatte donne di strada nei luoghi più imboscati della regione.
Occupata durante la mattina, aveva quasi tutti i pomeriggi liberi, che trascorreva bighellonando in bicicletta e guardando la tv nella propria camera. Le piacevano i programmi più scontati, quelli preferiti dalle casalinghe, sceneggiati di serie b, con attori improvvisati, o giochi a premi senza tante pretese. Comunque sia, amava il suo lavoro: intellettualmente alienante e per nulla impegnativo. Al massimo poteva dimenticarsi di rifornire di carta igienica una delle numerose stanze, negligenza riparabile senza grosse conseguenze. Solo un giorno il capo, tal Maurizio Bestetti, riccioluto monzese con l'aria da sbruffone, l'aveva vivacemente ripresa quella volta che s'era fermata in una camera a farsi una doccia, rischiando un tu per tu imbarazzante con un cliente assai esigente.
“Non ci vedo nulla di male”, aveva risposto al principale.
“Allora non ci vedrà nulla di male se anch'io stasera vengo a farmi la doccia a casa sua, ciondolando poi nudo per il suo soggiorno”.
I rapporti con i colleghi non potevano che essere scialbi, per non dire inesistenti, nessuno amava darle particolare confidenza, e anche lei, comunque, era poco interessata ad aprirsi agli altri. Ogni tanto scambiava due parole con la centralinista, una signorotta sui 55 anni, carente d'affetto e con un cuore che da non molto aveva cominciato a fare le bizze; ma niente di troppo personale. Si limitavano a raccontarsi quel che avevano mangiato la sera prima, del tempo eccessivamente caldo o freddo, o qualche cattiveria sui capoccia. La pochezza dei rapporti interpersonali era, però, controbilanciata dalla frequenza con cui faceva ritorno a casa con qualche vestito, oggetto personale o gadget dimenticato da uno dei tanti ospiti dell'hotel. Era una gratificazione concettualmente ben lontana da quella derivante da sani e costruttivi rapporti umani, ma in qualche modo perfetta per lei, sempre più convinta del vantaggio di starsene sulle sue. Le erano capitati anche dei gioielli, su tutti un braccialetto d'oro e una collana di brillantini, che non aveva perso tempo a vendere tramite un cugino di Barlassina, da sempre immischiato in giri loschi, figli della microcriminalità locale, già a quei tempi particolarmente florida.
La casa dei Vismara era fra le più disastrate del condominio omatese. Non c'era nulla che potesse renderla un nido caldo e confortevole. C'erano un paio di quadri alle pareti, ma di pessimo gusto: uno dei due raffigurava una natura morta con lo scalpo di un cervo con gli occhi aperti. Dirlo lugubre sarebbe stato un eufemismo. Luigi s'era battuto per inchiodarlo in mezzo al locale, considerandolo un pezzo di grande valore. C'era un qualcosa di macabro nel suo modo di percepire l'arte. Per quanto il suo buongusto potesse offrirgli l'opportunità reale di discernere correttamente un'opera artistica degna di riguardo, da una schifezza abominevole. Per il resto era una desolazione disumana. In soggiorno troneggiava un ampio divano ampio, sgualcito, sfondato, un televisore dotato di grande schermo, una mensola con un solo soprammobile in ferro battuto, rappresentante un ciclista durante una tappa del Giro: il ciclista doveva essere Fausto Coppi, ma di lui non aveva proprio nulla, se non il naso vagamente aguzzo. Era una patacca che girava per casa da tempo immemore, recuperata chissà dove.
Da una porta divelta, con alcuni fili elettrici che spuntavano dal muro, si finiva in cucina, una cucina bianca, povera e spoglia. I fornelli, in compenso, erano lindi e splendenti, la moglie ci teneva a lustrarli anche quando non era necessario, trascurando macroscopiche aree della casa, dove si circolava meno e la sporcizia signoreggiava. Comprendeva lei stessa l'anomalia di questo suo comportamento, di questa sua attitudine morbosa al particolare, tuttavia non riusciva a venirne a capo, come se negli anfratti del piano cottura potessero realmente nascondersi i bacilli di un morbo pestilenziale.
La desolazione di casa Vismara proseguiva per la minianticamera e per le camere, due sarcofagi dell'anteguerra, con letti alti e massicci, divorati dai tarli, e dei comodini con le ante fracassate e i cardini arrugginiti. La camera di Amanda oltre a essere angusta era anche disordinata e sporca. Gli infissi erano pieni di polvere, e la base degli infissi quasi sempre disegnati da matasse informi di natura organica, probabilmente i resti defecatori del passaggio di qualche animaletto. Ma il disordine più totale era soprattutto una prerogativa del bagno, nel quale non si capiva, quasi, dove finissero gli accessori, per dare aria alla spazzatura: giornali vecchi, scatole vuote degli assorbenti, trucchi rinsecchiti, fazzoletti di carta, si mischiavano con una logica malata a saponi ancora incartati, bagnoschiuma sigillati, profumi a metà...
“Una scatola con dentro l'energia”, aveva risposto Luigi alla domanda della moglie.
“Cosa ci fa l'energia in una scatola?”.
“Ma cosa vuoi saperne te?”.
In effetti, mai prima d'ora la signora Vismara aveva sentito parlare di un reattore. Semmai aveva sentito parlare di una sciagurata coi capelli ossigenati che cantava “Dammi una lametta che mi taglio le vene”, di nome Rettore. L'aveva appena vista anche a Sanremo col brano “Amore stella”. Ma evidentemente era tutto un'altro mondo, il mondo dell'industria discografica, non esattamente in linea con le potenzialità delle particelle subatomiche. Poi le cose si erano ulteriormente complicate, quando lo speaker televisivo aveva cominciato a blaterare relativamente a concetti fisici sibillini anche per una famiglia super acculturata. Atomi, fisica nucleare, fusione e fissione, attività solare, stellare, erano per i due coniugi termini ai limiti della fantascienza lessicale. Alla fine Luigi aveva spento la tv, mentre la moglie gli serviva il secondo: una coscia di pollo con il condimento che riempiva mezzo piatto.
“Perché hai spento? Lascia acceso che devo vedere il tempo…”.
Ma Luigi aveva fatto finta di niente, e s'era avventato sulla carne, lasciando alla moglie il compito di riattivare il tubo catodico, non senza uno sbuffo di risentimento.
La figlia non era ancora rientrata. Da qualche giorno faceva tardi la sera, temporeggiando in un bar di Villasanta, dove aveva conosciuto un'amica molto simile a lei, per atteggiamento e stile di vita. Si chiamava Giovanna Malaguti. Anche lei non era molto aggraziata e anche lei non nutriva più grandi interessi per il genere maschile. Troppe delusioni. Entrambe erano così state accarezzate - pur senza confessarselo reciprocamente - dall'idea di un'avventura omosessuale; ma ancora il pensiero non aveva preso la piega giusta, e nessuna delle due, di fatto, s'era fatta avanti per tentare un primo approccio carnale. Ma non era forse nemmeno quello l'orizzonte che perseguivano, essendo una sorta di indefinita disperazione a portarle a certi ragionamenti, privi di quella sessualità spiccata che dovrebbe contraddistinguere chi davvero ha intenzione di provare esperienze libidinose al di là del senso comune. Alcuni ragazzi del bar vedendole ciangottare appartate, con gonnoni volgari, le prendevano un po' in giro, ridendo sotto i baffi e additandole fin da subito come lesbiche patentate. Perfino il gestore, a scapito dei suoi interessi, si lasciava andare a battute provocatorie, muovendo il mento con disappunto.
Dopo cena Luigi era sceso in cortile per prendere una boccata d'aria. Aveva voglia di parlare con qualcuno, ma tutt'intorno regnava il silenzio più assoluto: erano tutti in casa a seguire le vicende di Chernobyl? Si era così messo a fissare il cielo, ritornando malinconicamente al pensiero degli amici morti durante la guerra. E per un attimo meditando sul fatto che i giorni della guerra, incredibilmente, gli mancavano. Erano stati giorni orribili, tristissimi, dolorosissimi, eppure in qualche modo degni di essere vissuti, più dei tanti giorni insignificanti e anonimi che si susseguivano nella sua quotidianità. Almeno al fronte c'era da salvare l'onore, dimostrare il coraggio, sfidare la morte, tutte prerogative che rendono grande e inestimabile una vita; altroché le vite come la sua nel 1986, quando nemmeno lo scoppio di una centrale nucleare era in grado di dargli un po' di pepe. Ma in fondo era giusto così, in fondo una spiegazione ce l'aveva. Chi torna dalla guerra non può più rimanere lo stesso e, soprattutto, non può più avere paura. Non ha più diritto di avere paura. Chi ha visto la morte in faccia, a pochi millimetri da sé, nelle profondità del cuore e dell'anima, chi s'è visto portare via in un soffio compagni di una vita, non potrà mai più avere timore di qualcosa. Era anche per questo che lo scoppio della centrale di Chernobyl non gli aveva procurato alcun turbamento. Che effetto avrebbero potuto fargli degli uomini morti per una sciocchezza del genere? Ma la gente lo sa cosa significa marciare a piedi nudi a trenta gradi sottozero, con i cecchini nascosti nella nebbia, pronti a fare fuoco? Lo sa cosa significa sognare per una vita, per poi vedere i propri sogni nebulizzare nel giro di un giorno, una sera, una notte? No, la gente non lo poteva sapere, sennò non avrebbero dato così importanza a una notizia del genere e forse adesso ci sarebbe stato qualcuno disposto a parlare con lui in cortile. E poi che diamine erano queste radiazioni? Non ce n'erano già state abbastanza di radiazioni con le bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki? Perché, ora, tutto questo chiasso?
C'era un gatto appollaiato su un muretto che divideva la strada principale dallo scivolo dei box. Sonnecchiava. Era uno dei tanti gatti che circondavano il palazzone omatese, dove sapevano di trovare sempre qualche scarto, e qualche cantuccio caldo dove appisolarsi senza pericolo; una gattaia di randagi ormai familiare a tutti e perfettamente calata nel grigio habitat trivulziano. Era grassoccio, bianco, con ampie macchie scure, nerognole, e sembrava godere profondamente della situazione che s'era venuta a creare: clima mite, silenzio, serenità. Ma per Luigi non era così. Per Luigi era una sera tutt'altro che mesta, l'ennesima serata da gettare alle ortiche. Il Vismara s'era quindi piegato per raccogliere un sasso ai suoi piedi e, senza pensarci due volte, con la stessa grinta con cui si avventava sui nemici durante la guerra, l'aveva lanciato contro l'animale innocente. Non credeva di avere una mira così buona: il sasso aveva centrato in pieno il muso del felino, facendogli tirare un miagolio di angoscia, e portandolo a rifugiarsi in fretta e furia su un acero lì vicino con un bernoccolo sanguinante. Così Luigi credeva di avere pareggiato i conti. Così anche il gatto avrebbe patito la sua pena. Una pena in qualche modo simile alla sua, benché non sapesse inquadrare bene di che dolore si trattasse.
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