Basso, grassoccio, pelato, con le sopracciglia foltissime e una tipica andatura, assimilabile a quella di un militare durante la marcia. Lo caratterizzavano, inoltre, degli ingombranti occhiali contro l'astigmatismo, un orologio d'oro, elegante, benché esageratamente voluminoso, una collanina d'argento riportante la Santa Vergine, una brevissima prece e la sua data di nascita: 5 marzo 1940, il giorno del massacro di Katyn, operato da Stalin nei confronti di oltre ventimila polacchi. Era il biglietto da visita di Andrea Canali, per tutti il Cana, omatese d'adozione, figlio del fu Mario proveniente da Legnano e della bergamasca Lisetta Cornolti. Non era certo quel che si può dire un bell'uomo, ma aveva un suo fascino, dovuto verosimilmente alla sua imprenditorialità, al suo modo di fare deciso e convincente, per nulla intimorito dalle avversità della vita. Era cresciuto con un padre burbero e severo, che gli aveva conferito le armi giuste per farsi strada nel mondo e vincere qualunque pusillanime tendenza. Era riuscito a mettere in piedi una piccola azienda che produceva oggetti in metallo destinati ai negozi vinicoli di mezza Italia, perlopiù portabottiglie o accessori per anonimi mobiletti da cucina. Quando il telegiornale aveva dato la notizia dell'esplosione del reattore di Chernobyl, e del rischio di contaminazione per l'intera Europa, aveva appena finito di sistemare la seconda valigia. Era un bagaglio rigido e robusto, grigiastro, senza particolari caratteristiche concernenti le mode del momento, ricevuto a Natale da un collega col quale era solito giocare a tennis, uno degli ultimi doni avuti in vita sua.
Con la moglie, ormai, le cose erano precipitate. E si rendeva conto che gli rimaneva un solo modo per non correre il rischio di peggiorare ulteriormente la situazione: andarsene. L'alternativa non la voleva nemmeno ponderare. L'alternativa era solo vagamente metaforica: accoltellare la donna che aveva sposato quasi vent'anni prima. Eliminarla dal suo background esistenziale. Era un'idea assolutamente irrazionale, indefinita, sfocata, che però, da troppi giorni si insinuava con rinnovato vigore nella sua testa e cominciava a preoccuparlo. È vero, non era il tipo, lui non avrebbe fatto del male a una mosca, ma gli accoltellamenti lo affascinavano da sempre, forse per via dei numerosi gialli letti; e in ogni caso non è detto che le persone più pacifiche fossero anche quelle meno disposte a scatenarsi su anime indifese. Peraltro percepiva che i presupposti comuni a molti fatti di cronaca aventi come protagonisti serramanici e affini, scagliati senza pietà su antichi amori e rancori, e romantiche idee di proficue convivenze, cominciavano a contraddistinguere sempre più da vicino la sua umile esistenza.
“Si inizia sempre così, con una moglie che prende a dare i numeri. E il marito che, esasperato, la elimina senza tanti fronzoli”, si raccontava sconsolato.
Era, dunque, il pensiero di un raptus a scombussolarlo, non tanto la consapevole volontà di accanirsi con ferocia sulla moglie; benché non fosse la rabbia a scaturire dal suo animo innanzi a certi ragionamenti, bensì un misto fra angoscia e noia. Noia soprattutto, una morbosa e vigliacca noia.
Calzini, mutande, canottiere, cinture; compresa la cinghia più conciata che aveva, deflagrata da anni di strappi dovuti al su e giù periodico della pancia, ma dalla quale non riusciva proprio a staccarsi, come afflitto da una perversione feticista. L'intimo, insomma, più qualche accessorio fra cui spazzolino, rasoio e dopobarba... I vestiti importanti li aveva già sistemati nell'altra valigia, la più capiente, benché meno elegante. Da giorni aveva programmato ogni cosa. Ormai non ce la faceva davvero più. Era scaduta ogni speranza. Prima di fare i bagagli, però, aveva contattato un amico per chiedergli di affittargli per un tempo indefinito la sua roulotte, parcheggiata in uno squallido camping di Monza, nei pressi della ferrovia, coronato da sterpaglie e da un bugigattolo che sfornava ottimi panini al catrame, conditi dal piombo rilasciato da una fabbrica vicina. Silvio Canosa, l'amico in questione, non usava più la sua casa ambulante da quando era rimasto vittima di un incidente in montagna e aveva deciso che non sarebbe mai più andato in vacanza, per passare il resto dei suoi giorni fra le insignificanti quattro mura di Monza che lo ospitavano da più di trent'anni. La roulotte non era il massimo, ma era comunque l'ideale per passare un certo periodo di tempo in totale libertà, in attesa di trovare una sistemazione un po' più accattivante.
Andrea aveva inaugurato la roulotte nel corso di una notte infima, calda e umida, in compagnia di una bellezza cubana, conosciuta dopo una sera bagorda in un losco ristorante milanese, dalle parti di piazzale Loreto. Era una specie di ritrovo per uomini in cerca di amori facili e per donne ansiose di incontrare bassi, grassocci e pelati da spennare. Avevano fatto l'amore senza badare alle romanticherie e gli ansimi di lei s'erano uditi anche per strada, attirando l'attenzione di vari passanti, tentati di rivolgersi alle forze dell'ordine per schiamazzi notturni e atti osceni in luogo pubblico. Lui le aveva tirato un pizzicotto dalle parti dell'ombelico, un ombelico stranamente accartocciato su se stesso, ridendo come una iena, e la cosa era finita lì. Ma non era la prima volta che faceva le corna alla moglie. Prima della suadente ragazza del centro America, infatti, c'era stata un'ecuadoregna che parlava come Paperino e ancor prima di lei una brianzola alcolizzata, con un figlio a carico avuto da chissà chi. Ma non era da biasimare. Da anni la moglie aveva optato per una castità forzata, indipendente da tutto e da tutti, e soprattutto completamente incondizionata dalle onestissime esigenze fisiologiche del marito. Lui aveva anche provato a buttargliela lì.
“Se continui per questa strada andrò a puttane. Giuro, andrò a puttane”.
Ma la moglie non si era nemmeno presa la briga di rispondergli. La decadenza sentimentale che da tempo colonizzava impavida le meningi dei due coniugi, aveva già raggiunto livelli tali che anche mandarsi barbaramente a quel paese non suscitava più alcuna soddisfazione. Non era mica come all'inizio, con i primi litigi, in un certo senso quasi commoventi, se rapportati allo squallore attuale, quando sfogarsi in modo turpe e incivile, con tutta l'energia che avevano in corpo, aveva davvero il potere di creare un subliminale piacere psichico: il buon sapore derivante dalla consapevolezza di aver giocato l'ultima parola, quella decisiva, in grado di annichilire definitivamente l'avversario, umiliandolo per l'eternità. A che punto erano arrivati... Al punto che, ormai, restava solo il peggio del peggio: vomitarsi addosso o, appunto, accoltellarsi senza pietà.
Il Cana aveva le lacrime agli occhi e gli si contorceva lo stomaco, per un motivo ben preciso: i figli. Era desolato per Cristina e Raul, che lasciava per sempre. Cristina, la maggiore, frequentava la seconda superiore e nonostante la feroce miopia che la contraddistingueva, si ostinava a voler fare a meno degli occhiali. Era una quindicenne piena di lentiggini, i capelli sani e forti, la bocca carnosa e un seno che, negli ultimi mesi, era strabordato, creandole qualche complesso. Da poco s'era messa con un ragazzo, Alberto Bosetti, un compagno di classe spilungone con un ciuffo alla Elvis Presley, col quale aveva perso la verginità, col quale aveva voluto forzatamente perdere la verginità: ormai era ora. In realtà non le era piaciuto più di tanto, lui spingeva troppo nel suo antro immacolato, ansimando come un pastore tedesco dopo una corsa estiva. Ma il gioco, almeno, era valso la candela. Così, infatti poteva finalmente dirsi donna a tutti gli effetti, al pari delle sue coetanee - specialmente Marina Tresoldi - a sentir loro, sessualmente super esperte, con un lungo corredo di performance sessuali alle spalle, degne del migliore film porno in circolazione. Raul era il fratello più piccolo, l'ultimo dei Canali, bassetto con gli occhi scuri e un'aria indolente. Frequentava la seconda media, senza nemmeno un po' di voglia di studiare. Ma almeno un interesse ce l'aveva: i videogame. Passava ore e ore davanti al monitor televisivo, solo, o con qualche amico di scuola, a massacrare senza pietà nemici alieni, fantasmini con gli occhi romboidali, scimmiette con la faccia ridanciana. Erano i primissimi videogame in commercio, attesi da tempo come una manna dal cielo, dopo l'egemonia massmediatica dei robot e dei cartoni giapponesi.
Con i figli, del resto, aveva sempre avuto un ottimo rapporto. Dedicava loro con gioia tutto il tempo libero che aveva a disposizione. Spesso andavano insieme in giro in bicicletta; qualche volta, col camioncino dell'azienda, li portava a visitare una città vicina, mostrandogli le bellezze artistiche che la contraddistinguevano, benché di arte non ci capisse granché. Una volta a Pavia s'erano soffermati più di un'ora intorno alla chiesa principale e al rossore dei suoi mattoni, prima di dirigersi verso un'area campestre, dove avevano pranzato sotto le fronde di una lussureggiante farnia. Non gli faceva mancare niente, né faceva pesare loro i suoi turbamenti. Si chiedeva, pertanto, come avrebbe fatto a vivere senza le sue due creature. Come avrebbe fatto a dormire sereno la notte. Erano la sua aria. Senza retorica. Ma non c'erano alternative. Il matrimonio era inesorabilmente naufragato e ora non riusciva a far altro che chiedersi laconicamente di chi fosse la colpa. Ma non riusciva ad assumersi tutte le responsabilità del naufragio. Anzi. A ben vedere percepiva di essere stato l'unico dei due a tentare di salvaguardare il rapporto. Di tenere a galla la piroga. Era lei, col suo maledetto carattere ansiogeno, impossibile da soddisfare, ad aver mandato tutto all'aria. Era lei che non sapeva mai che diamine di pesci pigliare, cosa volesse o cosa non volesse dalla vita, da lui e dal mondo intero. Un sospetto, però, ce l'aveva. Per Andrea la moglie era semplicemente depressa, patologicamente depressa, mica una crisi passeggera, c'era qualcosa che non funzionava per il verso giusto nei suoi neuroni; a livello organico, endogeno. Aveva probabilmente bisogno di uno psicologo, di un sostegno, di un aiuto, insomma di un qualcuno che riuscisse a far luce nei meandri della sua testa ripiegata su se stessa, immalinconita di disillusioni dall'alba al tramonto, cosa che lui, francamente, non avrebbe mai saputo, potuto fare. Ma come dirglielo? Dirle che aveva bisogno dello strizzacervelli sarebbe stato come comunicarle che non aveva un minimo di sale in zucca e che praticamente era una paraplegica mentale. Non l'avrebbe presa tanto bene. Aveva, dunque, provato con le rose, con i viaggi a sorpresa, con i regali improvvisati, cene, braccialetti, foulard di lino. Ma niente. Buio totale.
Pochi mesi prima il patatrac finale. Era rientrato stanco e provato dal lavoro, dopo un battibecco avuto con il socio, Firmino Pandolfi, anonimo personaggio da poco guarito da una tignosa influenza: s'erano fatti scappare un appalto che avrebbe garantito all'azienda ritorni eccellenti, proiettandoli nel gotha degli imprenditori lombardi. Imperizia del collega che non aveva saputo chiudere l'affare al momento opportuno, in seguito a un incontro informale avuto un pomeriggio uggioso a Como, con dei pezzi grossi della Comedini Spa. S'era seduto a tavola in attesa che la moglie gli servisse qualcosa. Anche se le cose andavano già male, almeno una coscia di pollo, pur fredda e gelata o insipida, la trovava sempre ad aspettarlo. In fin dei conti era lui e soltanto lui a tirare avanti la baracca. La moglie con la scusa dell'imprenditorialità del marito non s'era mai presa la briga di lavorare. E forse anche per questo pativa quella sorta di male oscuro che la faceva sentire inutile, brutta e irrealizzata. Era dunque il minimo che potesse aspettarsi, rincasare e godere della cena pronta. Ma la tavola, quella sera, era sparecchiata, se si esclude il solito striminzito vassoio pieno di caramelle ammuffite, provenienti dai più misteriosi lidi. In casa, in compenso, c'era la moglie devastata da una delle sue paturnie esistenziali: accovacciata sul divano piangeva a dirotto, libera di esprimersi al meglio, sapendo che i figli sarebbero restati fuori casa per un po', per via della festa di compleanno di un amico di quartiere.
“Amore, non si mangia stasera?”.
Nessuna risposta.
“Tesoro non c'è nulla da mangiare?”.
“Arrangiati”.
Il Cana non ci aveva visto più. Ne aveva mandate giù troppe. Se anche le carinerie non servivano più a niente, voleva proprio dire che era arrivato il momento di darci un taglio: definitivo. Lì, infatti, aveva preso la decisione di andarsene; sparire per sempre dallo sguardo vuoto di una donna ormai priva di ogni volontà di conseguire un sogno, un avvenire, concretizzare una banale carezza su un volto amico: era l'ultima chance. Il problema era come comunicarlo ai figli. Cosa avrebbe detto ai figli? Nel 1986, peraltro, le separazioni e i divorzi erano tutt'altro che frequenti, mogli e mariti, piuttosto che dirsi addio, tiravano avanti a campare anche a costo di sacrifici inauditi. Si era disposti a tutto pur di non dare scandalo. Così era scritto nelle sacre scritture, così si erano giurati durante il corso fidanzati presso la parrocchia San Zenone, sotto la supervisione del sempiterno don Felice Matassa. Chi si separava era un disadattato, un povero Cristo, qualcuno da bollare come un depravato fino alla fine dei suoi giorni. E chi andava a vivere in una roulotte, figuriamoci, un autentico fuori di testa, un barbone. Ma tant'è.
Andrea aveva comunicato ai figli la sua decisione un paio di sere prima del disastro di Chernobyl, con una luce strana che filtrava dalle finestre, come quando sta per scoppiare un violento temporale. Un paio di sere prima di ritrovarsi come un ebete con le lacrime agli occhi a riempire di vestiti due valigie delle quali fino a quel momento s'era servito esclusivamente per andare al mare, in montagna, qualche volta al lago. Cristina e Raul stavano guardando la tv: un episodio de “Il mio amico Ricky”, sitcom statunitense andata in onda in Italia dal 1982, comparsa per la prima volta nel 1984 su canale Cinque. Andrea s'era seduto in mezzo a loro. Cristina lo aveva squadrato con aria stupita.
“Papà, stai bene?”.
Andrea aveva riso amaramente.
“Potrei star meglio. E voi?”.
“Noi stiamo bene”.
Anche Raul s'era accorto che c'era qualcosa che non andava.
“Dov'è la mamma?”, aveva domandato, mandando ulteriormente in crisi il genitore.
“Non so, ma è proprio della mamma che vorrei parlarvi”.
“Che c'è? Che è successo a mamma?”, aveva chiesto il più piccolo della famiglia.
“Nulla. Non è successo nulla a mamma, solo che, io e mamma abbiamo deciso di vivere per un po' separati”.
“Cosa vuol dire?”, aveva chiesto Raul. “Mamme e papà possono vivere separati?”.
Andrea aveva deglutito con forza, cercando di neutralizzare il magone, senza aggiungere altro. Ma Cristina aveva già capito tutto. S'era, infatti, alzata dal divano con il viso imbronciato ed era corsa in camera. Niente lacrime, ma solo la conferma di ciò che aveva sempre sospettato: i suoi genitori avrebbero fatto la fine di quelli della sua amica Gigliola Cozzi, cresciuta solo con il padre, dopo l'addio della madre, innamoratosi di un tipo facinoroso, con l'abitudine di depilarsi i pettorali. Aveva avuto questo presentimento dopo quella volta che, per un paio di giorni, i genitori non si erano rivolti la parola solo perché la vicina di casa non s'era preoccupata di sbattere la tovaglia curandosi di non far finire le briciole sul loro balcone. Il padre aveva fatto spallucce, la madre s'era imbestialita al punto di scarnificarsi con un morso mezzo dito dalla rabbia, poi il silenzio. Cristina non aveva alcuna intenzione di buttare dell'altro tempo per ascoltare papà. Ma in camera aveva indagato un po' di più su se stessa, scoprendosi stranamente indifferente alla cosa. Mettendo meglio a fuoco il problema, poteva tranquillamente dire che non gliene fregasse nulla. Anzi. Quasi ne era contenta. Adesso in casa avrebbe avuto molto più spazio e un genitore in meno nei dintorni da sopportare con le sue prediche. Ma forse era solo una reazione inconscia al problema, i casini esistenziali sarebbero sorti più avanti, in concomitanza con qualche avversità della vita. Anche a questo era arrivata.
Per Raul era diverso. Non credeva, infatti, possibile che due grandi, una mamma e un papà, potessero decidere di non stare più insieme, non riusciva a concettualizzare la cosa, perciò non aveva dato grande importanza all'uscita del genitore, continuando a guardare la tv, come se niente fosse accaduto.
Il Cana s'era alzato per andare in bagno a bere un bicchiere d'acqua. Aveva la gola riarsa. S'era guardato con pena allo specchio sopra al lavandino, scoprendosi decisamente invecchiato, brutto e acciaccato. Erano comparse delle rughe intorno agli occhi; anche la fronte era rugosa e bucherellata e l'espressione del viso, quella di una persona in seria combutta con se stessa. I capelli intorno alle tempie s'erano incredibilmente ingrigiti. La moglie, in cucina, era sprofondata nel suo solito torpore mezzo catatonico. Ci passava le ore a sfogliare il manuale di cucina comprato con la sorella in una libreria di Milano, dopo una specie di gita improvvisata dai rispettivi mariti: chissà cosa lo leggeva a fare, pensava Andrea, se poi non gli preparava mai nulla di buono da mangiare. Il Cana l'aveva guardata con amarezza dall'uscio semiaperto, prima di infilarsi le scarpe e uscire a prendere una boccata d'aria, conscio del fatto che quella sarebbe stata una delle ultime sere trascorse in casa con la propria famiglia.
Per strada aveva bighellonato senza meta per un paio d'ore, nella solitudine più assoluta. Erano le sue strade, i suoi sentieri, le sue storie da ragazzo, ma in quel frangente non provava alcunché per essi. Erano diventati mondi estranei. Era una strana paura ad avere il sopravvento, a gelargli le emozioni, a fargli sembrare tutto così diverso da ciò che era ed era stato. Gli mancava perfino la forza di elucubrare, di compiere su se stesso del sano terrorismo psicologico. Ma in questa assenza di tempo era comunque quasi arrivato a Cavenago, avvolto da una sera tiepida e serena. Un contadino seduto su una panca disastrata, dalle parti di cascina Trivulzina, l'aveva coinvolto nei suoi pensieri, sottolineando l'irrispettosità delle nuove generazioni che tutto vogliono senza dare nulla in cambio. Gli aveva raccontato, come se lui fosse lì unicamente per ascoltare le sue paranoie, che la notte precedente degli zingari avevano fatto irruzione nel suo cascinotto, facendo piazza pulita di tutto ciò che avevano incontrato, compreso un bellissimo rastrello appena comprato e pagato una fortuna.
“Maledetti strolig”, aveva blaterato, in un accesso d'ira.
Le cose, in effetti, erano cambiate dal dopoguerra. Erano arrivati a Omate e in tutto il circondario un mucchio di “forestieri”, con filosofie di vita troppo diverse dai brianzoli, tutti casa, chiesa e lavoro. Anche i cani, compresi quelli più assatanati, e i cancelli spinati, non servivano più a niente. Il deterrente era un concetto da riqualificare negli anni Ottanta. Non c'era più l'amabilità di un tempo, in cui – almeno apparentemente – ci si sentiva un po' tutti fratelli, abbarbicati allo stesso focolare, in attesa di un nuovo santo da festeggiare. I cani venivano avvelenati senza tanti convenevoli e i cancelli superati sfondando le serrature o fracassando i lucchetti con martellate selvagge. C'era un grosso accampamento gitano al di là dello sterrato principale che porta a Cavenago, dal quale partivano vere e proprie retate punitive ai danni degli ignari contadini che con fare puntiglioso proteggevano i loro raccolti e il loro sparuto bestiame. Ma nessuno aveva il coraggio di avventurarsi fin là per dettare legge.
“Ma se ne trovo uno nella mia proprietà, lo uccido con le mie mani”, aveva continuato il contadino.
Il Cana aveva riso per non piangere, tornando a pensare all'ipotesi dell'accoltellamento, che avrebbe fatto comodo, in questo caso, al suo interlocutore, inorridito dalla mancanza di rispetto degli zingari. Adesso stava davvero male. Il senso di estraniamento se n'era andato, ma aveva lasciato il posto all'angoscia pura. Ancora peggio. Il punto è che dopo aver peregrinato per un po', e aver dato retta a uno sconosciuto alle prese con la sua quotidianità malata, le cose s'erano brutalmente e improvvisamente fatte chiare e lampanti. Non si poteva più fuggire. L'ennesimo orizzonte l'avrebbe solo e banalmente condotto a un nuovo orizzonte, e così via, senza possibilità di replica: tutte le strade, insomma, l'avrebbero riportato a un edificio a sei piani nel cuore di Omate, covo di amore e odio. Riconosceva razionalmente che se ne sarebbe dovuto andare, come un mentecatto, e questa presa di coscienza gli procurava un dolore sordo, acuto, pungente, senza respiro. Per un istante avrebbe preferito essere morto stecchito, fulminato da una saetta, sbriciolato da un meteorite, catapultato in un altro mondo da un'esplosione nucleare, tipo quella della quale avrebbe sentito parlare due giorni dopo al telegiornale, piuttosto che essere alle prese con gli ultimi bagagli per il definitivo congedo. A una cabina del telefono aveva chiamato casa. Un gesto inconsulto, per nulla premeditato. Non sapeva neanche lui perché l'avesse fatto. Aveva risposto Cristina.
“Pronto”.
“...”.
“Pronto”.
“...”.
“Chi parla?”.
“...”.
“Ma vaffanculo”.
Era rimasto per altri due minuti con la cornetta in mano, immaginando tutte le altre volte che, da quel momento in poi, per ironia del destino, avrebbe dovuto chiamare casa per potere parlare con il sangue del suo sangue, su appuntamento, su programmazione, su tutto ciò che in una famiglia normale non aveva senso di esistere. Era rimasto con la cornetta in mano, assimilandola a un mitra, pronto a far fuoco per stendere tutti quelli che gli passavano davanti, un buon modo per scaricare le proprie farneticazioni, indeciso se telefonare o meno a sua madre. Gli rimaneva soltanto lei. Colei che l'aveva messo al mondo: la piacevole idea del placido e inattaccabile ventre materno. Il padre se ne era andato poco dopo le sue nozze, nel 1969. Se l'era portato via una misteriosa malattia, come un missile. C'era qualcosa che non andava al cuore, i trigliceridi troppo alti, le piastrine troppo basse. Si era parlato di istoplasmosi, patologia veicolata da microrganismi particolari che va a lenire inesorabilmente le valvole cardiache, compromettendo la salute vascolare e predisponendo al cosiddetto scompenso cardiaco. In ogni caso non gli era mai mancato, e forse anche per questo si sentiva un po' in colpa. Come avrebbe reagito il padre alla notizia che se ne sarebbe andato di casa? Era un uomo all'antica. Senza mezze misure.
La mamma stava a Vimercate, in un bilocale striminzito, ma curato, pieno di gingilli kitsch un po' in tutti i locali; proseguendo sulla strada per Burago, costeggiando la cinta del parco Trivulzio, avrebbe potuto raggiungerla a piedi. Ma alla fine aveva desistito. Sentire mamma, in fondo, avrebbe solo peggiorato ulteriormente le cose. Si sarebbe sentito dare, come al solito, del coglione: la donna non aveva peli sulla lingua e aveva sempre remato contro il suo matrimonio, giudicando fin dal primo momento la sua donna una squilibrata, frustrata e inconcludente.
“Te l'avevo detto io”, avrebbe detto la madre.
Anche di continuare a girovagare senza meta non gli era sembrata una saggia idea. Alla fine, perciò, aveva optato per la scelta più logica e scontata: rincasare e tirar mattina sul solito divano che da un numero indescrivibile di mesi lo accoglieva fra le sue braccia, raggomitolato su se stesso come un onisco.
Sentendo dell'esplosione di Chernobyl s'era ridestato come da un lungo sonno. Lo speaker televisivo blaterava in una lingua incomprensibile. Parlava di uranio, di fusione nucleare, di stoccaggio, e un discreto, ma assolutamente impreciso, numero di morti e feriti. I pompieri accorsi sul luogo dell'incidente non erano tornati a casa felicemente; molti erano finiti in ospedale senza conoscere le conseguenze dei quintali di radioattività assorbiti. Nessuno, ancora, sapeva quali sarebbero state le reali conseguenze. Non esistevano studi approfonditi sugli effetti delle fughe radioattive, se non quelli elaborati dai coniugi Courie. Si parlava inoltre della necessità di evacuare i paesi vicini alla centrale, centri che Andrea non aveva mai sentito; a parte Kiev, che però distava più di cento chilometri dal luogo dell'apocalisse. Le valigie erano pronte. Ma questa notizia gli aveva provocato un sussulto dell'anima, rimettendolo temerariamente in gioco. L'evento gli aveva restituito un coraggio che sembrava smarrito. Il suo ragionamento era schietto e preciso: se c'era gente che era morta per l'esplosione di un reattore nucleare significava che il suo dramma, in fondo, non era che un piccolo dramma, del tutto insignificante rispetto alla tragedia che stava compiendosi in Ucraina. Aveva fatto un salto, un saltino, chiudendo anche la seconda valigia e posizionandola vicino all'altra, già sulla soglia di casa.
“Ci credo, ci devo credere”.
E infatti ci credeva. Adesso però rimaneva il passaggio più drastico: salutare per l'ultima volta il suo mondo e andare a rintanarsi nella roulotte di Canosa. La sua prima notte fuori casa, dopo così tanti anni. Se si escludono le vacanze estive...
La casa non aveva molto da dirgli. Era la solita casa mogia del primo piano, appartamento a sinistra dell'ascensore, quello che precedeva di un paio di metri la rampa di scale. C'era un mobiletto sulla destra, subito dopo l'entrata, con il telefono e il camino in fondo alla sala. Il divano contro la parete est e un tavolo in mezzo al locale per i pranzi e le cene importanti. Gli altri pasti si consumavano in cucina, una cucina tipicamente anni Ottanta, acquistata fortunosamente poco dopo le nozze: tavolo, quattro sedie, ante e antine, frigo, forno. Qua e là le pareti ospitavano quadri da poche lire, recuperati al supermercato, raffiguranti tristi e anonimi paesaggi. Sul muro per entrare in cucina c'era una fotografia del Papa, preso di profilo, su uno sfondo verdognolo. Di là, bagno e camere. La camera dei ragazzi rappresentava il quartiere più vibrante dell'appartamento. Un numero considerevole di poster abbellivano le spoglie pareti. Manifesti di cantanti per teenager: Bon Jovi, Wham!, Zucchero, Eros Ramazzotti. I rispettivi comodini e l'unica scrivania della casa erano coperti di libri, quaderni e tagli di giornale. C'era un portamatite colmo di biro, pastelli e pennarelli.
Il Cana aveva fatto un ultimo giro per casa. Cristina era alla scrivania e stava disegnando, Raul era sdraiato sul letto con in mano un fumetto di Topolino.
“Ciao ragazzi”.
Nessuna reazione.
“Ciao ragazzi”.
“Dove vai papà?”, aveva domandato Raul.
“Stai zitto e non rompere”, era intervenuta Cristina.
Al Cana era tornato il magone.
“Vado via per un pò”.
“Ma poi torni?”.
Andrea non aveva risposto. Aveva dato un bacio sulla testa a Cristina e regalato un abbraccio a Raul. E dopo aver tirato un respiro lungo come una vita, s'era alzato e se ne era andato con la testa piegata da un macigno pesantissimo. La moglie era chiusa in bagno da un'ora, non voleva né vederlo, né sentirlo, nemmeno per il saluto estremo. Ma al Cana, in fondo, andava bene così. Lui stesso non avrebbe saputo che dirle. Non aveva nulla da dirle e non voleva dirle niente. Adesso, però, sentiva di odiarla con tutte le sue forze; calibrando per la prima volta con lucidità cosa dovevano provare gli assassini che stanno per compiere un delitto a sfondo sentimentale. Capiva, insomma, quelli che arrivavano a tanto, era comprensibile, in certi casi: in casi come il suo. Non si può vivere con una persona che non si sopporta nel misero spazio offerto da un comunissimo appartamento, negli anni Ottanta... all'indomani di una esplosione atomica.
Tuttavia, nel varcare la soglia di casa per tuffarsi verso un domani inimmaginabile, aveva ripensato all'amore che li aveva arricchiti all'inizio del cammino, quando erano molto più giovani e speranzosi; quando la vita non sembrava altro che un'infinita corsa fra le spighe di grano, sotto montagne di nuvole di panna montata; quando l'unica preoccupazione era quella di tirar sera giocando e divertendosi, respirando l'aria grassa della notte, zeppa di micromolecole misteriose in grado di effondere sensazioni magiche; quando c'era solo da andare al cinema, affogarsi di popcorn, fumare, bere, baciarsi con ardore, inventarsi il domani più sensazionale. Si era, dunque, domandato come potessero aver vissuto certe cose assieme, adesso che non desideravano altro che violentarsi e non vedersi mai più. Come lui avesse potuto leccarle i piedi e le sue parti intime, indifferente a ogni leziosità comportamentale.
“Ho voglia di fare cose sconce”, le aveva detto in più occasioni.
“Del tipo?”.
“Vieni che te lo sussurro nelle orecchie”.
“Ma sei matto? Certe cose preferirei non farle, sai com'è...”.
“Non lo so, dimmelo”.
Finché lei non cedeva alle sue lusinghe perverse, concedendogli tutto ciò che voleva e scoprendosi immensamente felice di assecondarlo; devastati da voglie animalesche, nel pieno del fervore giovanile, ancora tutto da assaporare, prima di sposarsi e richiamare più o meno consapevolmente cicogne al loro nido: sarebbero stati giorni irripetibili. Si sbizzarrivano ovunque capitasse, ovunque la chimica dei loro corpi cercasse uno spunto per dar vita a nuove fiammanti reazioni. Si erano abbandonati a una performance lussuriosa perfino nel parcheggio dell'Esselunga di Vimercate, quello sopraelevato, semicoperti da un camioncino abbandonato. Per anni il sesso era andato meravigliosamente, non avevano nemmeno bisogno di proporsi l'un l'altro, veniva automaticamente, sembravano vivere il desiderio in simbiosi, con un'empatia rara. Fino alla nascita di Raul. Poi era saltato tutto. La moglie del Cana aveva perso all'improvviso la voglia di lasciarsi andare, di godere di un rapporto fisico che fino a quel momento aveva caratterizzato e cementato la coppia come raramente si vedeva in giro. Il Cana era sceso dal pero. Aveva sempre apprezzato la carica erotica della moglie e perfino adesso che stava abbandonando per sempre il nido domestico e che una recondita parte di lui avrebbe voluto addirittura eliminarla fisicamente, non avrebbe disdegnato l'idea di poterla possedere come aveva fatto tante volte in passato. Ma ormai la frittata era fatta. La moglie non s'era spenta solo sessualmente, ma anche cerebralmente. Non aveva più voglia di fare nulla, di divertirsi, di dedicarsi con gioia ai figli. Era diventata un fantasma. Il fantasma di se stessa.