Era il solito caos: la mamma che urlava, la zia che urlava, la nonna che urlava… Era la casa in cui viveva Maurizio, diciottenne gaio e spensierato, ormai abituato a convivere con un gineceo infinito, dacché il nonno era passato a miglior vita nel 1978, per severi problemi legati a un enfisema scoperto troppo tardi dopo una banale visita di routine. Il papà, invece, non l'aveva mai visto, mai conosciuto. Se n'era andato quando lui era appena nato. Andato? C'è chi pensa che sia, in realtà, stato cacciato, dalla moglie, la mamma di Maurizio. Nessuno ha ancora saputo ricostruire con esattezza ciò che è accaduto alla famiglia Meroni sul finire degli anni Sessanta, in concomitanza con la nascita del piccolo Maurizio. Correva il 1968 e subito dopo la venuta alla luce dell'angioletto del casato era scoppiato il finimondo. Il padre, a quanto pare, non era il vero padre del bimbo, ma semplicemente il marito della mamma di Maurizio, tal Carla Meroni. Maurizio – siamo sempre nell'ambito delle ipotesi – doveva averlo avuto da un altro, un forestiero: voci mai sopite parlavano di Cesare Capomastro, un borioso e avvenente ragazzone che girava per Omate a bordo di fuoriserie che nessuno sapeva dove potesse andare a raccattare; peraltro era sempre in giro, non si capiva che lavoro facesse, e come potesse guadagnare così tanto da tener testa a un tenore di vita così elevato. Ma tant'è. Il bellimbusto frequentava spesso casa Meroni, una parca e lugubre costruzione di fine Ottocento, sulla strada per Burago, essendo abitata dal nonno di Maurizio, che gestiva affari un po' in tutto il paese, affari che, a onor del vero, non portavano mai a niente di veramente importante, se non a qualche debito in più col quale convivere; non era la sua disonestà a fregarlo, ma la sua eccessiva accondiscendenza; era troppo buono per fiutare col tiro giusto gli affari, alla fine si faceva sempre beccare per qualche magagna, tramata da altri molto più furbi e lungimiranti di lui. Col nonno c'erano la nonna, una donna severa e apprensiva, con un'infinità di acciacchi dovuti all'età; la mamma di Maurizio, marescialla dal carattere burbero e mascolino; e il marito di quest'ultima, Vincenzo Cordisco, col quale Capomastro non aveva il minimo rapporto; se si incrociavano, accennavano a un superficiale saluto con un cenno del mento, ma niente confidenze. Era una realtà provvisoria, visto che i due sposini, presto, se ne sarebbero andati in un appartamento in via di realizzazione a Cavenago, lasciando il posto alla sorella di Carla, Giuditta, di ritorno da un'esperienza di lavoro a Bologna, poco proficua. Con questa serie di visite Carla e Cesare avevano cominciato a scambiarsi battute sempre più feroci e maliziose, fino a organizzare per vedersi clandestinamente.
“Ti va di bere un caffè?”, le aveva domandato lui, un dì che per qualche minuto erano rimasti in casa da soli, in attesa del rientro del capofamiglia.
“Si può fare, ma meglio che mio marito non lo sappia”.
“Scusa se te lo dico, ma tuo marito non mi sembra un tipo così sveglio...”.
“Trovi?”.
“Trovo, tu no?”.
“Beh, sì, in effetti... ma è meglio non sottovalutare la situazione”.
Da lì il passo era stato breve. Dal caffè erano arrivati al panino, dal panino al cinema, dal cinema... al sedile recrinabile del bolide di Capomastro. Una sera s'erano imboscati in una stradina di campagna parallela al provinciale che collega Vimercate a Trezzo, verso gli orizzonti di Bernareggio. La luna brillava nel cielo come raramente capitava durante l'anno, e l'atmosfera per appartarsi ad amoreggiare era a dir poco idilliaca. In questa cornice romantica s'erano concessi per la prima volta l'uno all'altro, consuetudine che avrebbero mantenuto per vari mesi, senza dare il minimo sospetto. Vincenzo notava la moglie sempre meno disposta a concedersi a lui sessualmente, tuttavia non aveva assolutamente pensato che potesse esserci qualcun altro a soddisfarla; un po' per ingenuità, un po' perché il contesto educativo nel quale si era trovato a crescere fino a quel momento, non contemplava in nessun caso la possibilità che una moglie potesse essere così miserevole da tradire un uomo appena sposato. Sicché, un giorno, dopo una doccia sbrigativa, colta da un anomalo conato di vomito, tale da farla sbandare per qualche minuto, Carla s'era posta il serio dubbio che potesse essere incinta. Non aveva detto niente per un po', ma aveva preso a comportarsi col marito in modo sempre più disdicevole, dicendogli che col suo lavoro da quattro soldi e il suo carattere troppo docile, non avrebbe saputo mantenere degnamente una famiglia. Il marito era sceso dal pero. Non lo sapeva anche prima di sposarsi il lavoro che faceva? Lavorava come falegname in una piccola bottega ricavata da un sottoscala della Corte del Forno, un tempo adibito all'allevamento dei conigli. Non aveva molti clienti, lavorava da solo, e la sua produzione, in effetti, era piuttosto scarsa. Aveva oltretutto perso mezzo dito quand'era ancora garzone, per via del malfunzionamento di una macchina, circostanza che gli impediva di lavorare alacremente a progetti che normalmente venivano chiusi in un battibaleno, rinfoltendo tasche e portafogli. La moglie aveva iniziato a recriminargli il fatto di non sapersi mettere in degna competizione con gli altri falegnami della zona, finendo con l'essere dimenticato e non preso in seria considerazione. Una buona nomea era, infatti, fondamentale per poter gestire abilmente la propria condotta professionale, creare nuovi contatti e sviluppare un'attitudine capitalistica, sempre più in voga sul finire dei Sessanta. Ma non era solo per il carattere bonario e pusillanime del marito che il suo matrimonio vacillava. Percepiva, infatti, che il problema potesse dipendere anche da lei e dalla sua onesta incapacità di rapportarsi adeguatamente alle consuetudini familiari, che dovrebbero contraddistinguere una moglie normale, sufficientemente ragionevole: preparare da mangiare al marito, fargli trovare puliti e stirati gli abiti, erano aspetti che assolveva con grande difficoltà, benché non lavorasse e avesse, quindi, tutto il tempo per farlo. Forse non si sarebbe dovuta sposare, forse non era abbastanza matura, si diceva quando un pizzico di saggezza s'impossessava dei suoi lenti processi neuronali. Al povero presunto papà di Maurizio era crollato il mondo addosso:
“Che razza di serpe ho mai sposato?”, rivelava agli amici più intimi. “E ora che aspetto un bambino... come farò a promettergli un futuro come si deve?”.
Le litigate avevano preso susseguirsi con sempre maggiore clangore, di fronte ai genitori ignari della ragazza, e allo sbigottimento del circondario, spesso indirettamente coinvolto nelle scene di ordinaria follia di Carla in levitazione.
“Sei un buono a nulla”.
“Non sai quello che dici”.
“Lo so benissimo”.
“C'è qualcuno che ti sta rovinando la testa”.
“Non c'è nessuno che mi sta rovinando la testa. C'è solo uno scansafatiche che non saprebbe cavarsela senza l'aiuto di qualcuno”.
Finché un giorno lui non ce l'aveva fatta più ed era scappato di casa, finendo in un bar di Pessano a ubriacarsi senza ritegno, abitudine che avrebbe mantenuto fino alla fine dei suoi giorni, ormai divorato dalla cirrosi epatica: da quella parentesi furiosa non avrebbe più messo piede in casa Meroni e il suo nome sarebbe lentamente caduto nell'oblio. Con la nascita del piccolo, Carla aveva cercato di avvicinarsi ulteriormente a Cesare, ma l'uomo, verosimilmente, non era dello stesso avviso: nel giro di pochi mesi era scomparso completamente dalla circolazione, facendo perdere ogni traccia di sé. Non erano tardate a giungere voci che si fosse trasferito in Brasile, a godersi la vita, con un nugolo di concubine e le solite macchine super sportive, con le quali sfrecciava per le vie e le viuzze di Rio. Ancora, però, non si comprendeva dove potesse recuperare tanti soldi, anche se si era cominciato a pensare che fosse coinvolto in qualche giro losco, legato al mondo della droga. Della sua etica moribonda si era saputo anche quando era emerso che, probabilmente, aveva già sparso per il mondo un paio di pargoli che aveva rinnegato senza pudore. Uno di essi doveva essere già grandicello; pare abitasse a Merate con una donna che, nel frattempo, s'era già divisa da altri tre fidanzati. L'altro, presumibilmente, viveva fuori dall'Italia. Carla, a questo punto, aveva risolto che la miglior cosa per lei e il bimbo fosse quella di rimanere in casa coi genitori e la sorella di ritorno dall'Emilia, molto più imbronciata di quand'era partita piena di speranze e con la convinzione di sfondare, come non sarebbe capitato alle sue conoscenti malate croniche di provincialismo; mentre non avrebbe dato alcuna chance a Vincenzo che negli anni, più volte, si sarebbe fatto trovare per ore solo e sconsolato come un mentecatto, davanti al portone dei Meroni, in attesa di vedere spuntare colui che credeva essere il suo figliolo, strappatogli dalle mani senza pietà; molti dicevano di averlo visto piangere, vestito di stracci, con gli occhi devastati dalla sofferenza e dalla nostalgia; ma si viveva in paese una sorta di omertà che impediva di puntare esplicitamente il dito sulla cattiveria di Carla, che, addirittura, a volte finiva per vestire i panni della vittima. Col passare degli anni la casa sul limitare di Burago non era stata più consona a ospitare un ragazzo con sempre maggiori esigenze, tre donne e un nonno malaticcio, sicché all'unanimità, i Meroni avevano deciso di trasferirsi nel palazzone omatese in via di ultimazione. Era un palazzone moderno, che guardava al futuro con un appeal di tutto riguardo, ben sei piani a disposizione, e un tetto dal quale era possibile rimirare mezza Brianza e nei giorni più sereni addirittura le cime degli Appennini. Più avanti lo avrebbero considerato un mostro di cemento e calcestruzzo, ma a cavallo dei Settanta lasciava seriamente intendere che fosse quella la strada giusta da seguire per stare al passo coi tempi e credere in un futuro migliore, pieno di comfort e diavolerie hitech.
L'appartamento dei Meroni ricalcava quello dei Canali del piano sottostante. Si apriva con un salone spazioso, con la finestra rivolta a sud, e due porte, quella per la cucina e l'altra per l'anticamera; era possibile raggiungere un balcone oblungo, sul quale non mancava mai una lunga fila di gerani rossi che, affacciandosi sul lato più trafficato del circondario, con il suo lussureggiare, era come se reclamasse ai passanti un segnale di gratitudine. Era, nel complesso, un appartamento dignitoso, niente di speciale, ma era ordinato e pulito, con mobili da battaglia funzionali e a loro modo eleganti. Quello più grande conteneva perlopiù piatti, bicchieri e tovaglie, alcune ricamate con grande puntiglio. Un solo pezzo di lusso rappresentava la famiglia: era un maggiolino ottocentesco, finemente decorato, proveniente dal ramo materno dei Meroni, con al suo interno una grande coperta prodotta a mano dalla più anziana del clan. Finché il nonno era in vita, Maurizio aveva dormito nella camera della mamma e della zia, poi, con la scomparsa del patriarca, s'era trasferito nella stanza dei nonni: il letto matrimoniale era stato eliminato per far spazio a due nuovi e comodi lettini, protetti da altrettanti comodini slanciati e dotati di un minuscolo cassetto ideale per riporvi gingilli e monetine. Su quello della nonna campeggiava un imponente crocefisso, che col gioco di certe ombre suscitava nel ragazzo ancestrali paure. Il dover dormire nella stessa stanza della nonna suonava inusuale per lui e i suoi amici, tuttavia era meglio che coricarsi nei pressi delle altre due donne di casa. La nonna, è vero, russava come un cannone di artiglieria, ma almeno non c'era il problema di dover rendere conto di ogni cosa al momento di sprofondare fra le braccia di Morfeo. Peraltro così poteva star sveglio la notte a leggere, accendendo senza remore il paralume, le varie volte che gli capitava di non riuscire a prendere sonno. Amava i fumetti, Zagor su tutti, e altri bonelliani alla Mister No, ma anche vecchi numeri di Topolino. La serie di Walt Disney, non era più idonea alla sua età, ma ce l'aveva nel sangue e non riusciva a distaccarsi: era cresciuto con i vari Topolino, Paperone e Qui, Quo, Qua, che aveva conosciuto grazie a uno zio alla lontana che conservava in cantina parecchi numeri, ben disposto a regalarli ai piccoli che lo andavano a trovare. Per fortuna disponevano di due bagni; altrimenti la convivenza sarebbe stata davvero complicata. In pratica un bagno era utilizzato quasi esclusivamente da Maurizio, gli altri due dalle tre donne, che in ogni caso non passavano mai troppo tempo a farsi belle: una nettata del viso mattutina, i bisogni corporali e via verso nuove occupazioni quotidiane.
In questa casa, fra queste promettenti mura omatesi, e in questa anomala situazione familiare, Maurizio era cresciuto abbastanza tranquillo, né più né meno come i suoi coetanei; senza però aver mai saputo la verità sui suoi due misteriosi padri. Solo una volta aveva provato a domandare alla madre chi l'avesse davvero messo al mondo, ma la risposta era bastata a dissuaderlo da ogni altro quesito analogo:
“Tuo padre non esiste e non è mai esistito”, gli aveva detto la madre senza tanti peli sulla lingua. “Ci sono cose che quando si è piccoli non si possono comprendere, in ogni caso non ci hai perso molto. Tuo padre era anche un truffatore”.
“Un truffatore?”.
“Lascia stare, lascia stare che ti conviene”.
“Mamma... come un truffatore?”.
“Tuo padre è sparito, toglietelo dalla testa. Lo dico per il tuo bene”.
Con le tre donne Maurizio, ormai adulto, aveva maturato un rapporto conflittuale. Se si esclude la nonna, dalla quale qualche volta si sentiva compreso e con la quale più volte si confidava, per il resto era una situazione di baruffa continua. Mamma e zia sembravano complici e non c'era verso di contrastare una loro idea. Vivevano in simbiosi. Ragionavano per sentito dire, senza alcuna capacità di autocritica, pur tuttavia ogni loro pensiero si tramutava in legge incommensurabile, circostanza che il giovane di casa non poteva proprio mandare giù. Qualcuno avrebbe potuto pensare male, visto che non è comune riflettere su due donne che, nonostante le consuete interrelazioni umane instaurate con chicchessia, decidevano di rimanere così appiccicate. Ma questo morboso presentimento non era fortunatamente accarezzato dalla giovialità del ragazzo che, da diretto interessato, sapeva bene essere del tutto inverosimile. Maurizio aveva letto qualche libro in più dei familiari ed era convinto di vivere in un covo di ignoranti mezzo analfabeti, del tutto indifferenti a percepire le ragioni altrui. Per questo più volte aveva minacciato di andarsene: ormai aveva una certa età e sapeva che se la sarebbe potuta cavare tranquillamente da solo. Al suono di simili parole Giuditta aveva ripensato al marito di Carla, il povero Vincenzo, e ai suoi moniti di fuga, nutrendo frequentemente il sospetto che, nonostante il parere della sorella, potesse essere lui il vero padre di Maurizio; del resto non c'era nessuna prova del DNA a sostegno di questa o quell'altra teoria. Aveva peraltro le stesse sopracciglia folte di Vincenzo, e quello sguardo particolare che si riempiva di sangue quando qualcuno lo faceva arrabbiare. Maurizio odiava le urla delle tre donne, e la dimostrazione che davano di non aver altro modo di comunicare se non come figure per lui riconducibili all'età della pietra. Anche lui ogni tanto urlava, ma non in modo così plateale. E in ogni caso lo faceva solo se strettamente necessario. Mentre gli altri stretti consanguinei davano fiato al corpo senza misura, fosse anche solo per chiedere qualcosa, come il barattolo dello zucchero.
“Maurizio, lo zucchero!”.
“Mamma, non c'è bisogno di urlare, non sono sordo”.
“Lo zucchero, mi senti?”.
Si viveva calati in una sorta di isteria collettiva, che avrebbe fatto innervosire anche il più placido e indolente essere vivente; non esisteva la calma, il silenzio, la tranquillità, ogni giorno era un delirio perfetto. Maurizio, a volte, si tappava le orecchie, altre volte filava in camera disgustato, intontito dal baccano. O faceva partire a tutto volume una cassetta dei Pink Floyd, una delle sue band preferite. “The Wall” era del 1979 e “The Final Cut” del 1983, li viveva sulla propria pelle da mesi e ogni volta era come compiere un viaggio meraviglioso nello spazio, pur senza la necessità di assumere sostanze stupefacenti, quasi sempre assimilate all'ascolto di un certo tipo di musica. Ma amava anche la discografia più lontana nel tempo della band londinese, a partire dai primissimi paradossali lavori in compagnia della scheggia impazzita, Mr. Syd Barrett: da “The Piper at the Gates of Dawn” a "Ummagumma”.
Il giorno dell'esplosione di Chernobyl non c'era Giuditta, via con un'amica di lavoro, conosciuta da poco e con i suoi stessi gusti modaioli: Camilla Ortolina, avvenente trentenne dalla lingua fin troppo sciolta, aveva una mezza tresca col direttore dell'azienda che le ospitava e dunque di argomenti per affrontare degnamente la serata ce n'erano in abbondanza. Giuditta provava segretamente un po' di invidia per la collega, così disinvolta e spregiudicata cogli uomini, il contrario di lei, sempre impacciata e, di fatto, perennemente senza accompagnatore. Ma, naturalmente, non aveva mai avuto il coraggio di confidarglielo. Non era, del resto, il caso di farlo, stava volentieri con lei, più che con altre compari noiose e petulanti, prive di qualunque slancio vitale. Al tavolo erano assiepati Maurizio, mamma e nonna. In mezzo, a portata di braccio, quattro panini, uno dei quali, quello al sesamo, finito per caso nel sacchetto della spesa, mangiucchiato in punta, in seguito a un precedente raid del giovane, come sempre affamato nei momenti più inopportuni della giornata; una bottiglia di acqua frizzante, mezza bottiglia di vino rosso, il contenitore semiaperto del formaggio, con gli angoli inverditi dalla presenza di un po' di muffa; il sale e l'olio, per condire la verdura. A Maurizio non piaceva l'aceto e desiderava arrangiarsi da sé, la mamma esagerava sempre e la nonna, con la scusa della cataratta, non era quasi mai in grado di calibrare opportunamente il liquido che fuoriusciva dalla bottiglia e spesso finiva per impiastrare anche la tovaglia. All'ascolto della notizia il ragazzo aveva avuto un sussulto, per nulla condiviso dagli altri commensali: la mamma chissà a cosa stava pensando, mentre la nonna, probabilmente, non aveva nemmeno sentito; a esse, peraltro, interessavano solo le notizie di cronaca nera, gli incidenti stradali o al limite qualche pettegolezzo.
“Cazzo”, aveva mugugnato Maurizio.
“Cos'hai da imprecare?”, gli aveva domandato la madre con scarso spirito indagatorio.
“Deve essere scoppiato il finimondo in Ucraina. È esplosa una centrale nucleare”.
Le donne avevano fatto finta di niente ed erano andate avanti a farsi gli affari loro. Già la parola Ucraina era bastata a provocargli strani borbottii intestinali. La mamma si era alzata per abbrustolire dei peperoni passi, mentre la nonna tentava di aggiustarsi la dentiera prima di addentare una cotoletta dura come l'acciaio. Maurizio crucciava la fronte innanzi ai dettagli dello speaker; dacché era nato non gli era mai capitato di vivere simili esperienze. Che disastri di tale portata poteva ricordare nella sua breve esistenza? Ci aveva pensato un po', ricordando, al limite, quella volta che aveva visto traballare il lampadario della cameretta, già coricato per la notte: erano le 21.06 del 6 maggio 1976, in occasione del devastante terremoto del Friuli che aveva ucciso quasi mille persone. Ricordava, in particolare, la nonna in apprensione, che era corsa al suo capezzale per sincerarsi che non gli fosse accaduto nulla di male. Ma, al contrario dell'ipotesi di un evento sismico che potesse fargli crollare in testa il mondo intero, l'idea di essere sconvolti da una nube nucleare non gli dispiaceva minimamente, anzi; da sempre si trovava in perduta sintonia con vaticini a dir poco apocalittici. Bastava la parola 'vaticinio' a galvanizzarlo. Amava altresì la letteratura del genere, dai vari Nostradamus, alla Monaca di Dresda, passando per Gustavo Rol, Malachia, Newton e sensitivi di ogni paese e nazione. Libri che aveva acquistato lui stesso in qualche mercatino di anticaglie, o trafugato nella biblioteca di via don Minzoni ad Agrate, caratterizzata da un seminterrato lontano dagli occhi belligeranti del custode. Aveva un certo feeling addirittura con i Testimoni di Geova che predicavano la fine del mondo a cadenze più o meno regolari ed erano per questo presi per i fondelli dall'immaginario collettivo brianzolo, quantomai aggressivo e disprezzante verso tutto ciò che era diverso. Quando si presentavano alla porta di casa, non disdegnava scambiare con essi qualche parola, suscitando soprattutto le ire della nonna, devota cristiana, in costante lotta con i “genovesi” spediti sulla Terra da qualche spiritello infernale. Ecco un dialogo tipo fra Maurizio e qualche rappresentante del movimento di Russell.
“La fine del mondo è vicina”.
“Per quando è prevista?”.
“Per il 2050”.
“Manca ancora un sacco di tempo”.
“Ma potrebbe non essere sufficiente il tempo per ravvedersi. Legga La Torre della Guardia e cominci il suo cammino spirituale di salvezza”.
“Lo farò, grazie”.
“Grazie a lei. Se vuole...”.
C'era poi Rasputin che, probabilmente, in una sua profezia si riferiva proprio al disastro di Chernobyl, alludendo al “pianto del sole” (l'esplosione nucleare) e a un fantasma che “vagherà per l'Europa” (la nube tossica). Di Rasputin sapeva tutto, della sua rocambolesca vita, del suo charme, del suo misticismo, della sua capacità di tessere trame coinvolgenti le più alte cariche dell'intellighenzia russa. Amava la barba di Rasputin, il suo vestito nero e il suo sguardo penetrante. Era anche per la passione che provava per l'intera epopea russa pre e post rivoluzionaria. Perseguendo le teorie del monaco russo, in sostanza, s'era convinto che non sarebbe mancato molto alla fine del mondo e questa notizia, dunque, non aveva fatto altro che rimpolpare le sue funeree congetture. C'era poi da fare i conti con un interessante testo letto di recente nel quale si osservava il contesto umano da un punto di vista assolutamente originale, imperniato sul fatto che l'antropocentrismo aveva verosimilmente sopravvalutato il nostro ruolo, in sfavore di coloro che si sarebbero dovuti ritenere gli esseri più vitali e “intelligenti” in assoluto: gli scarafaggi. Secondo la tesi di vari filosofi dell'evoluzione, infatti, l'uomo era solo un piccolo esperimento di madre natura, mostruosamente meno significativo del successo evolutivo ottenuto da specie in vita da milioni di anni e con una variabilità genetica pazzesca se confrontata a quella umana. Maurizio condivideva in tutto e per tutto questa concezione sottilmente esistenzialista. Venendo a patti con il presente, se c'era davvero il rischio di finire contaminati, lui non l'avrebbe, di fatto, temuto; l'ammonimento a evitare i prati e i campi della zona, soprattutto per i più giovani, l'aveva metabolizzato al contrario, sentendosi pertanto giustificato a trasgredire il diktat del ministero della Sanità. D'altra parte non riusciva a comprendere che qualcosa d'invisibile potesse davvero fare del male a una persona; come si fa a perire per via di banali radiazioni? E, poi, le radiazioni cosa sono? Raggi? Lampi di luce? Onde? A lui non avrebbero, in ogni caso, arrecato alcun danno, lui era nato per convivere con le radiazioni o forse ne era miracolosamente immune; lo pensava seriamente, anche perché nel 1986 era appannaggio di pochi la reale percezione della pericolosità nucleare, con tutto ciò che comporta un guasto a una centrale energetica, compresi chi, come Maurizio, vivevano con tenace enfasi l'approccio ai misteri della fisica subatomica. Il presupposto di poter presto pascolare fra steli e alberi ingialliti dal veleno radioattivo gli regalava un'inaspettata e diabolica carica, da fargli addirittura sospettare la possibilità di sopportare anche il grido più devastante di mamma o zia (il che era tutto un dire) o qualunque altro fastidio con cui era costretto a convivere e che proprio non gli riusciva di razionalizzare. Già s'immaginava, con discutibile godimento, volpi, ricci e lepri del parco Molgora aggirarsi per i cigli delle strade con la bava alla bocca e le ferite sanguinolenti di chi è ormai divenuto più radioattivo dell'aria. E i funghi trasformarsi in cappelli giganti, in grado di sfruttare gli effluvi atomici sottoforma di proteine e ricostituenti. I fiumi colorarsi di rosso, i cieli di viola, le nubi di brividi incandescenti. Ecco l'apocalisse benedetta che i suoi beniamini avevano predetto da lustri.
Eppure non ne avrebbe parlato con nessuno di questi suoi intimi piaceri, tantomeno con le tre befane di casa, pressoché indifferenti a tutto ciò che accadeva al di là dei confini brianzoli. Non desiderava essere scambiato per un pazzo dinamitardo o per un cosiddetto ragazzo problematico. Ma avrebbe potuto accennare qualcosa a Guido, del primo piano, il figlio dei Sangalli, con cui qualche volta si soffermava in cortile a discorrere di temi ai limiti della fantascienza; (ma non con Fabio Valenti del sesto piano, col quale aveva rotto da tempo dopo una pseudo relazione omosessuale). Con le prime news dipanate da Rai Uno ci stava già pensando: un ragazzo così era l'unico in grado di comprendere certe cose, di ragionare su particolari fenomeni e sulla futurologia. Sapeva molto di lui, della sua eccentricità, e dei suoi hobby curiosi, dalla tassonomia vegetale agli anelli di benzene della chimica organica. Lui non la vedeva proprio così, non erano queste le sue paradossali voglie giovanili, tuttavia condivideva col quasi coetaneo la passione per tutto ciò che è strano, inspiegabile e irraggiungibile. Inoltre provava per lui una sincera e umana simpatia. Insieme si divertivano a leggere storielle a metà strada fra l'horror e il paranormale e ad augurarsi la scoperta di qualcosa di importante negli anni a venire. Questa consapevolezza aveva preso forma all'indomani di un'esperienza vissuta pochi mesi prima del disastro di Chernobyl negli scantinati di villa Mirabello, nel Parco di Monza, che si diceva abitata da un fantasma. Ma anche di altre fantasiose entità fra cui elfi, gnomi e folletti. Era il periodo in cui chiunque poteva travalicare i confini della dimora secentesca e addentrarvisi, tenuto conto del fatto che alcuni appartamenti destinati alla servitù erano ancora occupati e quindi in qualche modo predisposti a lasciar liberi gli ingressi principali, che davano direttamente sui larghi viali della distesa bucolica. Sorgeva sulle fondamenta di un antico castello dove alcuni esperti erano pronti a scommettere fosse nata la monaca di Monza ed era contraddistinta da un mastodontico scalone di ingresso, tipico delle case signorili dell'epoca, e da un grande salone alto due piani coperto di affreschi. Esternamente troneggiava in tutto il suo splendore, con un portico elegante sormontato da un balcone in ferro battuto e una lunga serie di finestre, perlopiù chiuse da tempo. Maurizio e Guido avevano sbrigativamente fatto visita alle sale principali, affascinati dall'aria antica che vi si respirava: ogni angolo rimandava a epoche ancestrali di cui ormai nessun vivente poteva conservare ricordo. In seguito, girovagando a casaccio, erano finiti alle spalle della villa, dove una breve rampa di scale accompagnava a una porticina dimessa, facilmente superabile muovendo un chiavistello traballante. Oltre la porticina si celavano buie e umide cantine intatte da più di trecento anni. Fiotti di luce penetravano da minuscole aperture in superficie, alla base dell'edificio principale, e solo tramite esse i due ragazzi erano riusciti a muoversi in qualche modo nel cuore tenebroso di quelle secrete monzesi. Avanzando tentoni erano finiti in un minuscolo vano, impregnato dall'odore delle muffe, con tante goccioline che colavano dal muro formando disegni surrealisti; c'era qualcosa di particolare in esso, come se fosse stato creato appositamente per conservare un piccolo grande tesoro. E infatti qualcosa c'era. D'un tratto Guido, nell'angolo in basso della ministanza, aveva notato un leggero luccichio. Brillava, per quel tanto che fosse possibile concepire il verbo 'brillare' in quel buio spettrale, qualcosa che pareva metallo, ma era quasi completamente nascosto dalla polvere del pavimento per capire di cosa si trattasse. I due avevano tergiversato per qualche minuto, fantasticando sulle faccende che potevano essersi consumate in quell'angusta area del caseggiato. Avevano anche accarezzato con vivido fervore e orrore l'ipotesi che potessero essere stati commessi degli omicidi, o comunque brutte vicende da tenere lontane dalla luce del sole. Questi discorsi avevano ricordato a Guido di un cugino di Busnago, che gli aveva raccontato di aver trovato in una grotta di Mezzago, dei teschi risalenti alla seconda guerra mondiale: certo l'immaginazione non doveva essere mancata al parente, se era stato così audace da ipotizzare la presenza di anfratti rocciosi nel cuore di un territorio pressoché pianeggiante, con una geologia assolutamente innocua. Finché Maurizio non s'era fatto avanti con piglio autoritario, strappando l'oggetto dei sogni dall'humus degli anni e verificando il mistero del suo scintillio: l'ultimo lembo di una lama, l'appendice di un affilatissimo coltello. La meraviglia dei due ragazzi era stata incontenibile. Erano convinti di aver scoperto qualcosa di veramente prezioso che gli avrebbe conferito ricchezze e onori negli anni a venire e li avrebbe resi famosi come Howard Carter, lo scopritore della tomba di Tutankamon, di cui erano sfegatati fan.
“Potrebbe appartenere a un membro degli Sforza”, aveva detto Maurizio.
“Forse, ma potrebbe anche essere un cimelio visconteo”, aveva ribattuto con aria saccente Guido.
“In ogni caso dobbiamo levarci da qui. Se ci scoprono potrebbero metterci in gattabuia”.
Alla fine se n'erano andati con il reperto nascosto sotto la maglietta di Maurizio, poi nascosto in un tombino omatese, in attesa di essere venduto al miglior offerente.