«Amavo la letteratura fuori moda, il latino di chiesa, libri
erotici senza ortografia, i romanzi dei nostri avi, racconti di fate...».
Arthur Rimbaud
giovedì 29 agosto 2013
martedì 20 agosto 2013
Bandoneon
BANDONEON
Sono un
artista tardo barocco
Ma non sono
sciocco, meglio di me
Non ce ne
sono, son io il migliore
Con tutto il
tempo che ancora c’è
Vita di
strada, di malaffare
Questa
plebaglia non fa per me
Sono il
pittore più prestigioso
Per quanto
assurdo non c’è un perché
Dipingo il
cielo, coloro il mare
Bevendo birra se
non caffé
Raggio di
sole, raggio di luna
Principi e
dame, regine e re
Sono un
artista, un tipo strano
Vivo lontano
dalla realtà
Son la
leggenda del mio paese
Pardon volevo
dir la mia città
RIT. Me
gustaria salir contigo
Acompagnado da
esta cancion
Cuando la
noche se recorierda
El canto suave
di un bandoneon
Y la esperanza
para el manana
Y el
contrapunto de la emocion
Sono un poeta,
un commediante
E ho tutti i
dischi di Charles Trenet
Occhio non
vede, cuore non duole
Sempre dipingo
pensando a te
Pensieri figli
delle parole
Di
quest’autunno che arriverà
Saran le
foglie che ingialliranno
O il tuo
sorriso che sbiadirà
RIT. Me
gustaria salir contigo
Acompagnado da
esta cancion
Cuando la
noche se recorierda
El canto suave
di un bandoneon
Y la esperanza
para el manana
Y el
contrapunto de la emocion
2013
(La seconda
canzone – dopo “l’uomo con l’aquilone” – dedicata ai personaggi di Vimercate)
martedì 6 agosto 2013
domenica 4 agosto 2013
Laila # 11
11.
A
spasso per Milano
Avevo voglia di staccare
e così ho staccato e adesso sono pieno di vesciche ai piedi e sono stanco
morto. Ho fatto visita a Milano, finalmente. Per la prima volta mi sono girato
in lungo e in largo la metropoli. Giunto a Sesto San Giovanni, un borgo alle
porte del capoluogo lombardo, dicono assai famoso, ma che io non avevo mai
sentito nominare, ho preso il metrò e prenotato la fermata Duomo. Ho viaggiato
tranquillo e sereno, di fronte a una donna di origine sudamericana con la bocca
larga e la carnagione scura. L’ho osservata a lungo, cercando di capire
qualcosa della sua vita. Mi chiedevo quanti anni avesse, se avesse figli, un
marito. Non aveva età. Avrei potuto darle venticinque anni, come
quarantacinque. Le poche rughe che solcavano il suo volto erano evidentemente
figlie delle vicissitudini e non degli anni. Indossava un vestito sgualcito, un
paio di scarpe demodè e una sciarpa sgargiante che le copriva metà corpo.
A destinazione, una
folata di vento gelido proveniente dalla superficie, mi ha ridestato dal
torpore del viaggio. Trovandomi di fronte all’imponenza marmorea del Duomo,
sono rimasto per qualche minuto a guardare per aria come un ebete. Mi ha
colpito come tempo fa mi affascinò la Tour Eiffel, in gita con la scuola,
l’ultimo anno del liceo: travi di acciaio inossidabile, ferro e chissà cos’altro,
puntate come spilli giganteschi verso il cielo, pronti a punzecchiare il sedere
di angeli e demoni; sciocchezze di chi blatera con se stesso per rivendicare
gioie sbiadite sotto quintali di progetti esistenziali naufragati nel nulla.
Solo più tardi avrei saputo che il suo ideatore era lo stesso della Statua
della Libertà, di cui potei godere durante il viaggio a New York, anche se non
con lo stesso entusiasmo. C’era – e penso ci sia ancora oggi - del campanilismo
nelle mie scelte, nei miei gusti. Tutto, ai miei occhi, di fatto, derivava
(doveva derivare) dall’Europa. L’America, mi dicevo, in fondo, non era che una
replica in larga scala dell’Europa. Non era solo l’architettura, la Tour
Eiffel, la Statua della Libertà... era, per esempio, gli ingegneri
tedeschi che dopo la guerra vennero reclutati – per non dire catturati -
per la conquista dello spazio. Erano Von Braun. I tedeschi portarono alle
missioni Apollo, non gli statunitensi. Gli americani sono stati bravi a fare
solo una cosa: far fruttare al meglio gli esiti del secondo conflitto mondiale,
spargendo per ogni dove la propria filosofia di vita, e il proprio narcisismo.
Rimiro il Duomo pensando
ai numerosi anni che ha sulle spalle, come se fosse un vecchio parente da
omaggiare e riverire; risale al Trecento; e, dunque, da settecento anni
illumina il cammino dei milanesi e dei tanti turisti che si avvicendano
idolatranti alle sue pendici. Riflette la luce del sole come un gigantesco
specchio; se ci fosse il sole... Ma il sole come potevasi immaginare (anche
oggi) non c'è. Per fortuna non piove. E' già qualcosa. Se piovesse sarebbe una
piccola grande tragedia, il mio viaggio milanese si trasformerebbe in
un’inutile odissea. E’ da troppo che aspetto questo giorno di svago per poter
sopportare l’idea della pioggia, del tormento che mi perseguita da quando la
mia storia con Laila è capitolata. Alla fine non è più contato nulla e mi sono
concentrato su un libro letto di recente che raccoglieva i pareri di alcuni
scrittori di passaggio da Milano. Percy Shelley, Henry James e Oscar Wilde sono
quelli che ricordo con certezza.
Shelley parla di una
città molto gradevole. Si sofferma sul Duomo definendolo "una sorprendente
opera d'arte". Descrive le guglie, le sculture, le vetrate, con dovizia di
particolari e grande passione romantica e letteraria. Confida di essersi
fermato in un angolo perduto del divino monumento alle spalle dell'altare, e di
essersi messo a leggere Dante. Che meraviglia pensare a qualcuno che va in
chiesa per trovare l'atmosfera giusta per mettersi a leggere qualche passo del
più grande poeta italiano. Dante, oggi, si legge solo a scuola, magari qualche
studente lo sfoglia in metrò… e invece Shelley lo lesse proprio nel cuore della
più importante cattedrale di Milano. Un francese a Milano che legge Dante è una
scintilla di eternità. Chissà se, da dopo la sua capatina, qualcun altro si
sarà mai cimentato nello stesso diletto... ma penso proprio di no. Di Shelley,
in verità, non ho mai letto nulla, ma so qualcosa della sua rocambolesca esistenza:
sono sempre stato appassionato delle biografie di chi ha saputo più degli altri
marcare la storia con le proprie opere artistiche. Alla fine se ne va ad appena
trenta anni, perdendosi nelle acque del mar Tirreno, ingannato da un turbine o
da una sirena.
Henry James visita la
città nella seconda metà dell'Ottocento, una Milano di sicuro diversa da quella
fotografata da Shelley. Racconta di una germanizzazione della sua fisionomia,
dovuta al lungo periodo di dominio austriaco. Potrebbe avere avuto ragione,
benché io non trovi nulla di mitteleuropeo nella Milano attuale, se non nel
luogo comune che vuole tutti i milanesi doc caratterizzati più da uno spirito
centro europeo, che non tipicamente italico, come può essere quello di chiunque
abiti a sud del Po, sottoscritto compreso. Anch'egli ammira il Duomo, raggiunge
la sua cima cavalcando una lunga scalinata, da cui rimira la pianura lombarda,
che assimila a un vasto mare punteggiato di navi. Come gli sia venuta in mente
un’idea del genere lo sa solo lui; ma è un altro aspetto dell’arte milanese a
far breccia nel suo cuore con particolare vigore: il Cenacolo di Leonardo da
Vinci. Dice che ogni pittore dovrebbe avere il dovere di rimirarlo, adorarlo,
implorarlo come si implora Dio, indagandone la moralità, l’essenza più intima,
le ombre e i misteri che si celano dietro le figure in primo piano.
Anche Oscar Wilde
raggiunge Milano verso la fine dell’Ottocento, ma è tutt'altro che sorpreso
dall'imponenza e dalla sacralità del Duomo. Lo giudica, infatti, un "terribile
fiasco", circostanza che mi porta a sorridere di tanta spavalderia e
audacia. Chi può permettersi di dire che il Duomo sia un’idiozia, un capriccio
di trecenteschi signori annoiati? Ma Oscar Wilde non può smentirsi, è Oscar
Wilde, e va avanti imperterrito per la sua strada, sovvertendo ogni logica,
sostenendo che il Duomo sia davvero una costruzione volgare, scarsamente
artistica, troppo elaborata. Ma non ha la stessa opinione dell’intera città. Ci
sono angoli che lo galvanizzano, che gli fanno gridare al capolavoro. Si
riferisce, per esempio, ai numerosi porticati della città, che gli ricordano
aspetti dell’urbanistica parigina, assai cara al suo immaginario. Abbandona
Milano per Losanna, diciotto ore di diligenza, attraverso il passo del
Sempione, altri tempi, altre... Laile.
Lasciatomi alle spalle
il Duomo, mi tuffo come uno scolaro pieno di brufoli e speranze in corso
Vittorio Emanuele, punteggiata dai famosi porticati decantati da Wilde, fino a
giungere in piazza San Babila, uno spazio non molto ampio, caratterizzato al
centro da un’anonima fontana. Mi trovo di fronte a una vecchia chiesetta,
coperta di mattoni rossi e circondata da pusillanimi palazzi senza grandi
pretese artistiche. Varco la sua soglia principale, venendo inondato dal
profumo pungente dell’incenso, forse appena utilizzato per qualche celebrazione
religiosa; benché la chiesa sia sostanzialmente vuota. In fondo, sulla
sinistra, una breve rientranza mette in evidenza un grosso crocefisso, più
sofferente degli altri, contornato da ori e cimeli donati al luogo di culto per
commemorare una grazia ricevuta. Gli oggetti più vecchi sono affiancati da
quadretti dipinti grossolanamente.
Proseguendo a ritroso
vado a sbattere contro la fonte battesimale. Una targa ricorda che qui avvenne
il battesimo di Alessandro Manzoni. Mi fa un certo effetto immaginare Manzoni
in fasce che viene benedetto con l'acqua santa, da chissà quale dimenticato
sacerdote. Chi fra i presenti alla cerimonia avrà mai immaginato di trovarsi di
fronte a uno dei più grandi letterati della storia italiana? Magari qualche
indovina… Quand’ero piccolo gli adulti del mio paese sostenevano, infatti, che
alcune donne vedendo un nascituro erano in grado di prevedere se avrebbe avuto
o meno un futuro raggiante. Si riferivano a sensitive, streghe, megere,
appassionate di esoterismo, capaci di indovinare la data della prossima eclissi
di luna o di sole o qualunque altro fenomeno astronomico di rilevanza. Io ci
credo poco. Dove sta scritto che un bimbo appena nato diventerà un presidente,
un grande musicista, un famosissimo scienziato?
All’esterno inciampo in
una mendicante che appena giunto non avevo notato, forse perché non ancora
arrivata. Le regalo un sorriso mogio, quasi indifferente. Mi guarda con aria
triste, pregandomi di darle qualche soldo. Ha le mani terribilmente lerce, la
faccia piena di tagli, le labbra devastate dal gelo e una strana verruca
intorno agli occhi. Apro il portafogli e le dono la prima banconota che mi
capita fra le mani: centomila lire. Ha un sussulto, come se non avesse mai
visto tanti soldi insieme in una sola volta. Ancora con gli occhi strabuzzanti,
s'inginocchia ai miei piedi per ringraziarmi. Rimango di sasso.
«La prego non faccia
così», le dico.
«Io dire grazie così».
«Mi ha già ringraziato,
non serve… la prego si alzi».
La abbandono imbarazzato
e intirizzito, con un nuovo sorriso inutile, muovendomi a casaccio,
scontrandomi con un'edicola, sotto un lungo portico che conduce oltre i confini
di piazza San Babila. E’ stracolma di giornali che implorano acquirenti con
copertine vagamente osé. Mi cade l’occhio su una copertina dedicata a “Il tempo
delle mele”, film francese del 1980, interpretato dalla giovanissima Sophie
Marceau. All’istante mi viene in mente Filomena, avendolo visto con lei una
sera d'autunno, poco dopo aver iniziato a frequentarci, senza sapere come
sarebbero potute andare le cose. Il film non mi fece grande impressione,
pensando che fosse destinato a un pubblico di ragazzini: lo trovai mieloso e
superfluo. A Filomena, invece, come immaginai dovesse accadere a gran parte
delle donne in crisi sentimentale, le piacque parecchio, al punto che andò
avanti a parlarne tutta la sera, in un baretto dove ci fermammo a bere una
birra e tirare tardi. Rividi, però, con piacere Parigi, dove era ambientato il
lungometraggio, le sue strade, i suoi vicoli e bistrò. Una città che avrei
voluto presto tornare a visitare, magari proprio con la mia nuova collega con
cui, ogni giorno che passava, mi trovavo sempre meglio.
«Sei mai stata a
Parigi?», le chiesi.
«Sì, certo».
«E allora dimmi, cosa ne
pensi?».
«E’una città
bellissima», mi rispose serafica, arrossendo un poco.
«Anch’io la penso così.
Se potessi, ci tornerei domani».
«E’ una delle città più
romantiche».
«Trovi?».
«Hai dei dubbi?».
Dimentico della mendicante
e del film francese, mi riaffaccio all’epopea manzoniana - forse per via
del battistero appena visitato – e ricostruisco uno dei passaggi del suo libro
più famoso, sul quale da sempre amo soffermarmi più di quanto non accada con
molti altri tipicamente osannati da generazioni sempreverdi di studenti e
professori rigidi e severi: la fuga di Renzo da Milano, verso Bergamo. Mi piace
immedesimarmi in un comune viandante che in pieno Seicento si mette a
girovagare per le campagne lombarde, rievocando perdute sensazioni, appannaggio
di esseri che mi hanno preceduto, dando vita a una specie di romanzo
autobiografico, frutto esclusivo della mia fervente fantasia; e mi piace anche
pensare che possa essere passato proprio da Concorezzo, il paese degli appestati,
ormai la mia definitiva dimora. Del resto Manzoni non è chiarissimo sul
tragitto intrapreso dal fuggiasco. Sappiamo che dal Duomo si dirige verso Porta
Orientale, niente meno che Porta Venezia, e che in seguito si ritrova, non si
capisce bene come e perché, dalle parti di Liscate, a est della città. Eppure
se avesse proseguito lungo Porta Venezia sarebbe dovuto arrivare proprio dalle
parti di Concorezzo, via Sesto San Giovanni. Sto farneticando? Forse. Però c'è
qualche studioso che può escluderlo con certezza? Da qui, del resto, avrebbe
potuto benissimo puntare verso sud est per raggiungere Liscate e Gorgonzola,
dove è noto si ferma in un'osteria per rifocillarsi. Potrebbe tornare... Tutto
torna. Prima o poi tutto deve tornare... Mi immagino il cammino di Renzo che,
per paura di essere scovato dalla polizia, diserta le strade maestre,
buttandosi sulle secondarie, saltando di borgo in borgo come un disperato,
mimetizzandosi fra boscaglie e sentieri poco battuti. Ragionando sul paesaggio
di ieri, valuto anche il fatto che la vegetazione dovesse essere molto diversa
da quella odierna. Le numerose specie importate dall'America probabilmente non
erano ancora diffuse. I campi di mais che caratterizzano con tanta disinvoltura
queste terre, dovevano essere una rarità. Lo stesso vale per le patate, la
robinia e chissà quante altre varietà vegetali che solo un botanico potrebbe
elencare e analizzare con precisione.
Il clacson di un
camioncino che sfreccia a grande velocità lungo una via che non conosco, mi
riporta alla realtà, facendomi stupire della mia insana capacità di passare da
un argomento all'altro in così poco tempo. A volte ho davvero l'impressione di
ragionare troppo velocemente, al punto che i pensieri finiscono per
accavallarsi, impedendo al mio cervello di ricaricarsi. È questo il motivo per
cui spesso mi ritrovo esaurito e incapace di risolvere anche il più banale
calcolo. La testa mi si riempie di ragnatele, le idee scorrono piano e ogni
input dall'esterno si trasforma in un micidiale contraccolpo psichico. Ma ormai
sono abituato. Benché non mi capitasse con Laila, anche quando non riposavo mai
ed ero tirato come le corde di un violino. Ma si sa, durante le fasi di
innamoramento, le sofferenze dell'anima se ne stanno quiete in qualche angolino
sperduto della mente, e lì rimangono finché il sentimento non svanisce o non
succede qualcosa di straordinario come è successo nel corso della mia storia…
malata.
Proseguo per la mia
strada, senza più darmi noie, accantonando Laila, Manzoni e la mendicante…
Raggiungo un’elegante costruzione, ad angolo, che attira la mia attenzione. Mi
avvicino, scoprendo meravigliato il via vai incessante di persone che impiega
frettolosamente l'uscio principale, come accade in posta o dal benzinaio: è una
biblioteca, la più importante biblioteca di Milano. C'è un cartello a fianco
dell'ingresso, pensato soprattutto per i turisti, con indicazioni storico
architettoniche. Si tratta del Palazzo Sormani, sorto sulle ceneri di una
preesistente costruzione risalente al Sedicesimo secolo. Negli anni è stato
ridimensionato, ma conserva ancora la sua affascinante aurea. Non avendo nulla
da fare, se non girare a zonzo come un clochard, scelgo di varcarne la soglia,
incuriosito da alcuni ragazzi, immagino studenti universitari, che cincischiano
fra loro.
Faccio tappa in una
grossa sala piena di giornali, quotidiani e riviste. Prendo un volume a
caso, più una fanzine che un giornale a tutti gli effetti. L'intestazione è
talmente piena di ghirigori grafici che non riesco nemmeno a interpretare il
significato della scritta. Ma dopo una rapida sfogliata scorgo un interessante
articolo dedicato all'assassinio di Germana Stefanini, avvenuto il 25 gennaio a
opera del gruppo terroristico Potere proletario. Sono notizie che scuotono,
almeno scuotono me. C'è un impercettibile filo conduttore che lega i miei
interessi generali alla lotta armata. Non ne comprendo il motivo, ma so che è
così, ché ogni volta che ho a che fare con i brigatisti mi si rizzano le
orecchie ed è come per un farmacista sentire parlare di un principio attivo
dotato di incredibili poteri. Forse perché non ho ancora capito cosa vogliono i
brigatisti e in che modo credono di poter ambire a un mondo migliore uccidendo
altre persone. Non è una questione morale, non ne faccio una questione morale,
non critico chi pensa di fare politica con la pistola; piuttosto sono
affascinato dal cervello, dalla mente di queste persone distanti anni luce da
me, dal meccanismo neuronale che mette in moto il desiderio di freddare senza
pietà un altro essere umano in virtù della cosiddetta "lotta di
classe". A momenti pare tutto logico, comprensibile e giustificabile, ma
subito dopo l’orrore fagocita ogni cosa. Quando penso a un’azione terrorista e
la metto in relazione con l'immensità dell'universo e le leggi che lo
governano, mi sembra tutto così assurdo. Qual è il senso di un omicidio
intenzionale? Che significato ha nella nostra società? Quando è il caso di
tollerare un omicidio? Se fanno del male a una delle persone che abbiamo più
care, ogni pazzia può essere, in qualche modo, tollerabile… ma in questo caso,
quando si ha a che fare con una persona che non si sa neanche chi è?
La morte di Germana
Stefanini avviene il 28 dicembre 1982, a Roma. Germana è la
vigilatrice penitenziaria del carcere di Rebibbia. La rapiscono per sottoporla
alla sintesi del tribunale rivoluzionario. Finisce nel modo più tragico,
parafrasando le ultime ore di Aldo Moro: Germana viene freddata con un colpo
alla nuca e abbandonata nel bagagliaio di una Fiat 131 che sarà rinvenuta in una
strada del Tiburtino. Stop. Ora sono in corso le indagini, ci sono già dei
nomi, ma immagino che ci vorranno anni prima di riuscire a metabolizzare, per
non dire esorcizzare, l'accaduto. Qualunque persona mediamente intelligente,
dotata di buon senso, dovrebbe ragionare su questi fatti, per capire chi è
l'uomo veramente, cosa vuole e dove sta andando. Altrimenti cosa ci
distinguerebbe da un animale?
Quando esco dalla
Sormani il cielo è un po’ più indulgente rispetto a quello del mattino, ma il
sole come sempre latita. Però non piove, e sembra non averne l'intenzione.
Meglio così. Proseguo lasciandomi alle spalle l'antica costruzione e
abbracciando una via larga e luminosa, contrassegnata dal passaggio di autobus
e tram, che sfrecciano a intermittenza, fra formicai di pedoni e macchine di
grossa cilindrata. Mi soffermo sull'anatomia di un tram, che raramente nella
vita ho avuto modo di rimirare, provenendo da una città dove non ne esistono.
Ha una linea perfetta, sinuosa, elegante, demodè, fra tutti i mezzi in
circolazione è quello che prediligo di più. Chissà perché mi è tornato in mente
la roulotte di Laila, e l'idea che se avesse avuto a disposizione un tram tutto
suo, sarebbe stata molto più comoda. Lei ed io.
Un brontolio allo
stomaco più bruciante degli altri mi suggerisce che forse è ora di mettere
qualcosa sotto i denti. C'è un baretto che fa proprio al caso mio sulla mia
destra, evidenziato da un’insegna pacchiana. Ordino un panino e una birra a un
cameriere segaligno che, per caso, mi ritrovo fra i piedi. Mi invita ad
accomodarmi, ma gli dico che ho una certa fretta e preferisco mangiare
camminando.
«Come desidera».
Pago pochi spiccioli e
di nuovo in strada proseguo nel mio vagabondaggio, dirigendomi verso un'ampia
area verde che scorgo da lontano. All'arrivo il panino è già un ricordo
lontano. E' un ampio parco, verde e splendente, cosparso di specie arboree
senz'altro centenarie, con rami che coprono gran parte della radura cittadina.
Riconosco la magnolia perché è uno dei pochi sempreverdi diverso dai pini,
tutti uguali fra loro. Al centro risalta una bella vasca, chiaramente antica,
con uno stile architettonico che rimanda al barocco, ricoperta da numerosi
licheni. A destra e a sinistra si intravedono due strutture cementizie, forse
cappelle religiose; magari più tardi andrò a visitarle da vicino. Ma l'edificio
che cattura di più la mia attenzione è quello che sorge al centro del parco,
rimandando all'idea di un collegio ottocentesco o a una scuola privata, un
seminario, nella peggiore delle ipotesi a un manicomio. Ci vedo benissimo tante
donzelle che entrano ed escono dalla scuola con la cartella in spalla, la
divisa, le calzette sotto al ginocchio, l’aria maliziosa.
C'è una panchina che fa
proprio al caso mio, semicoperta dalle fronde di un albero rigoglioso; mi siedo
e stappo la bottiglia di birra. Bevo. Fa freddo, ma ormai ho una certa
confidenza con le basse temperature, resisto senza problemi, potrei vivere al
polo Nord e trovarmi perfettamente a mio agio, come un eschimese. Dopo il caos
con Laila, sembra proprio che il mio corpo abbia perso certe sensibilità. Le
altre panchine sono deserte, tranne quella che mi sta davanti, piuttosto
lontana da me, occupata da un tipo che legge il giornale, con le gambe mezze
aperte. Ci sono, in compenso, un po’ di persone che si avvicendano,
trotterellando compiaciute, spesso in gruppo. Credo siano soprattutto colleghi
di lavoro. Parlottano fra loro con scarsa convinzione, costretti a farlo per
educazione, etichetta, ma si vede che molti di loro vorrebbero essere da
tutt’altra parte. Anche per me era così alla Vian, finché non ho familiarizzato
con Filomena e Francesco. Certo, deve essere un supplizio dover stare tutto il
giorno gomito a gomito con persone che non si sopportano; se poi anche il
lavoro lascia a desiderare…
Io, in ogni caso, se
anche non avessi avuto la fortuna di avere a che fare con i miei due amici, so
che non avrei patito più di tanto, dovendo assolvere un lavoro piuttosto
individualistico, e potendo peraltro guardare gli altri dall'alto della mia
posizione. Se la gerarchia è palese, i rapporti resistono di più, i problemi
insorgono fra i colleghi dello stesso livello, disposti ad accoltellarsi l'un
l'altro pur di ottenere qualcosina in più. Che tristezza. La favola umana
mostra tutta la sua pochezza proprio in queste cose, le cose di tutti i giorni,
nel falso ritratto di una convivenza civile, celante affilatissime lame pronte
a maciullare senza pietà l'ennesimo capro espiatorio.
Rapito dai miei
pensieri, quasi non mi accorgo che il tipo che ho davanti ha abbassato il
giornale e mi sta guardando con aria indagatrice. Contraccambio la sua
curiosità... e vacillo: ho la netta impressione che sia lo stesso uomo che mi
stava fissando l'altro dì mentre mi recavo dal panettiere. Potrei sbagliarmi,
eppure… qualcosa non torna. Faccio finta di niente e mi volto dall'altra parte,
ma – guadandolo di sbieco, con la coda dell’occhio – mi accorgo che continua a
puntare i suoi fari accecandomi. Ce l’ha proprio con me. Decido allora di
metterlo alla prova; tiro un respiro profondo e passo all’attacco, alzandomi e
provando a raggiungerlo con passo spedito. L’uomo si muove di scatto, colto da
un panico improvviso, e si mette a camminare con passo sostenuto verso
l'uscita. E' agile e svelto, molto più di me. Allorché incremento la mia
falcata, obbligandolo ad accelerare ulteriormente e ad ammettere, quindi, che è
lì per il sottoscritto; altrimenti non vedrei il motivo di tutta questa sua
foga... Dunque, che vuole da me? Alla fine si dà letteralmente alla fuga, sbriciolando
qualunque mio dubbio: è lo stesso uomo dell'altra volta e, verosimilmente,
chissà da quanto tempo mi sta pedinando. Scendo dal pero, non capacitandomi del
fatto che qualcuno si sia davvero messo sulle mie tracce. Per quale motivo? Chi
è quell'uomo?
Torno alla mia panchina,
con l'umore decisamente compromesso. Vengo sopraffatto dall'angoscia e dal
timore che sia trapelato qualcosa. In fondo, la faccenda di Laila non è mai
stata chiarita. Anche i media non sono mai riusciti a esprimere un'opinione a riguardo,
benché ne abbiano parlato a lungo. Ne hanno discusso per settimane fino a
perdersi nei meandri del mistero. Se ne sentono tante di storie analoghe.
D'estate soprattutto… d'estate. Persone che spariscono, cronache nere, rosa,
indefinibili storie senza età. Ne sento fin da quando ero piccolo e spulciavo
il giornale di mio nonno, accomodato alla poltrona sgualcita e putrida sulla
quale riposava il nostro cane. Mi ricordo ancora di quel tale che… meglio
lasciare perdere. Ma se così non fosse, allora perché qualcuno mi sta alle
calcagna?
O forse mi sto
preoccupando per niente. Quell'uomo se l'è filata semplicemente perché devo
avergli fatto paura… in fondo mi sono messo a galoppare all’improvviso verso di
lui, come un selvaggio, un assassino, con una faccia, presumo, tutt'altro che
pacifica e amichevole. Chiunque si sarebbe comportato nello stesso modo. Io
stesso, penso. Peraltro, a ben pensarci, anche durante il mio raid nella
biblioteca di Concorezzo, l'altro giorno, per cercare informazioni su Layla, la
risposta espressiva dei presenti non è stata così idilliaca. Evidentemente c'è
qualcosa di me che turba, i lineamenti stanchi e rassegnati del mio volto, i
miei vestiti trasandati... e così si spiegherebbe tutto, il motivo per cui…
tuttavia, permangono troppe perplessità, tenendo soprattutto conto del fatto
che Ginevra, Orso e gli altri del circolino sembrerebbero non pensarla così,
dandomi sempre retta e avendomi quasi accettato come un amico di sempre. Come
mai? Dove sta la soluzione? So solo che il tipo che se n’è appena andato era
incredibilmente simile... all’uomo della cappelletta.
Temo che la mia
escursione fuori porta stia per andare a farsi benedire, ma alla fine –
stupefatto da un grigiore ancora più sostenuto del solito - trovo la forza e il
coraggio per rimettermi in pista, e portare a compimento una giornata assurda,
strana, ma a modo suo bellissima. Per cena mi fermerò in piazza Duomo e fino a
notte fonda resterò a rimirare le guglie della cattedrale pensando a
Shelley.
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