Fece quasi 40mila scatti
dei prigionieri ebrei che arrivavano nel lager. Al termine della
guerra riuscì a salvare la sua documentazione che servì come prova
al processo di Norimberga: i nazisti gli ordinarono di bruciare
tutto, ma lui si oppose e alla fine, pur rischiando la vita, riuscì
a cavarsela. Il Ritrattista dell'Olocausto, così venne battezzato,
si chiamava Wilhelm Brasse. Aveva il padre austriaco e la madre
polacca. Ma lui si sentì sempre e solo polacco, essendo peraltro
nato a Zywiec nel 1917. Nel 1939, con l'attacco nazista-sovietico,
Wilhelm fu catturato dalla Gestapo, rifiutò di giurare fedeltà a
Hitler e fuggì per unirsi all'Armia Krajowa, l'esercito partigiano.
Fu di nuovo catturato e divenne la matricola 3444 di Auschwitz. Lo
salvò la sua professione: fotografo. I nazisti lo obbligarono a
ritrarre tutti coloro che erano destinati al “patibolo”, le cavie
sezionate vive da Mengele, i bimbi scheletrici e i primi condannati
alle docce del Zyklone-B. Immagini che lo perseguiteranno per tutta
la vita: «Per tutto il dopoguerra tentai invano di ricominciare da
fotografo una vita normale. Ogni volta, nel mirino, mi apparivano
quei volti giovani e belli, ragazzi, anziani, fanciulle da registrare
subito prima che finissero...».
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