5.
L'eresia catara
Alla
fine sono giunto a Concorezzo per puro caso. Volevo scappare, isolarmi, ma in
qualche modo rimanere in contatto con una grossa città, per non privarmi di
comodità essenziali, come quella di andare al cinema. Di fatto Concorezzo non è
molto lontano da Milano; in alternativa c'è Monza, anch'essa ben rifornita a
quanto sembra di sale cinematografiche. I film sono un ottimo condimento alla
solitudine. Qui, in ogni caso, sono certo che non mi verrà a cercare nessuno.
So mimetizzarmi molto bene. Non ho cambiato nome e generalità, ma avrei potuto
farlo. Non l'ho fatto perché, in fondo, non serve. Se anche un giorno qualcuno
dovesse scoprire che mi sono rintanato a Concorezzo, chiudendomi in me stesso
come una lumaca al sopraggiungere della stagione fredda, e che sono proprio io
il tipo della Vian, non dovrò fare altro che rimettere mano ai bagagli e
partire per qualche altro posto dimenticato, facendo perdere ancora una volta
le tracce. Ho scelto Concorezzo senza alcuna premeditazione. Stavo osservando
una cartina della Lombardia, una vecchia e rovinatissima mappa acquistata forse
negli anni Quaranta da mio nonno, e l'occhio mi è caduto proprio su questo nome
astruso: Concorezzo. Mi sono detto, cosa mai ci potrà essere in un posto
chiamato con un nome così orrendo, Concorezzo? Nulla, mi sono detto: dunque, era
proprio il posto ideale per sparire.
Prima
di lasciare la Vian, Francesco e Filomena, scappando come un profugo afghano,
ho scartabellato un volume della Treccani per vedere se si diceva qualcosa di
questo postaccio. Così ho scoperto l'unica cosa per cui vale davvero la pena
ricordare simili coordinate geografiche: l'eresia catara. Il catarismo riguarda
l'intera Europa fra il XII e il XIV secolo, e proprio Concorezzo ha avuto un
ruolo determinante nella sua genesi e diffusione. Oggi deve essere difficile intuire
il punto in cui, i capostipiti del movimento, predicavano e compivano le loro
azioni quotidiane. Tuttavia sarebbe interessante affrontare l'argomento con
maggiore spirito critico per scoprire almeno qualche briciola del loro
passaggio, cercando di riesumarne antichi umori e segni che avrebbero il potere
di riportarci a epoche ancestrali, come a bordo di una macchina del tempo. Le
creature delle pozzanghere sicuramente ne sanno qualcosa, ma sono sempre così defilate,
che estorcerle un pettegolezzo è come chiedere al papa di girare nudo per la
piazza del Vaticano. Se mi fosse venuto in mente, avrei potuto chiedere
all'uomo che ieri mi ha accompagnato alla cappelletta degli appestati: di
sicuro, così ferrato com'é in storia, avrebbe avuto qualcosa da dirmi, benché
non si tratti del suo secolo prediletto.
Ho
scoperto che proprio a Concorezzo sorgeva la più importante chiesa catara in
Italia. Prendeva spunto dal bogomilismo bulgaro, setta eretica del decimo
secolo riconducibile alle regioni dell'Europa sud-orientale. Credevano in due
forze vive, palpabili e assolutamente contrapposte: il bene e il male, retaggio
di un culto che rimandava addirittura ai messaliani, movimento religioso sorto
in Mesopotamia nel quarto secolo. I catari presero, dunque, spunto da essi, dalla
Tracia, terre ben lontane dall'immaginario collettivo locale, accusando la
chiesa di essersi imborghesita e di vivere il vangelo senza una degna
corrispondenza fra parola e azioni. Non avevano tutti i torti. A quel tempo gli
stessi papi valevano più come magnaccia che figure degne di rappresentare la
croce. Si macchiavano anche di orrendi delitti pur di poter raggiungere i
propri obiettivi.
Sicché
il cristianesimo era solo di facciata, un optional. La chiesa di Roma peraltro
non ebbe remore a contrastare con violenza i catari e tutti coloro che si
lasciavano influenzare dai movimenti eretici. C'erano timorati di Dio forgiati
appositamente per combattere i nuovi credo, che serpeggiavano in gran parte del
nord Italia e l'ipotesi che il vangelo di Gesù potesse essere mal interpretato
per dare sfogo alla propria boria e ai propri egoismi. Fra questi ce ne fu uno
particolarmente attivo nel nord del Paese, poi divenuto santo: Pietro da Verona,
un frate francescano. Fece di tutto per debellare i virgulti catari, tuttavia
alla fine fu proprio lui a rimetterci le penne, come in molti avevano predetto
conoscendo la sua ferrea volontà di servire Dio. Accadde il 6 aprile del 1252.
Pietro da Verona era stato avvertito del pericolo che avrebbe potuto correre
raggiungendo Milano, da Como, lungo tracciati pieni di macchie forestali dove
potevano tranquillamente essere tesi agguati. Ma non badò ai rischi, sapendo in
cuor suo che prima o poi, qualunque strada avesse preso, l'avrebbero ucciso.
Organizzò l'omicidio Stefano Confalonieri, figura eminente della chiesa
concorezzese, da anni a capo del movimento e forte delle sue notevoli
disponibilità economiche che gli permettevano di vivere come un pascià. Verso
mezzogiorno l'inquisitore si trovò dalle parti della cosiddetta boscaglia di
Farsa, presso un altro comune di queste parti, tal Seveso, se non vado errato.
Quando s'accorse che qualcuno lo stava inseguendo era già troppo tardi. Si
ritrovò con il cranio contuso da un oggetto contundente e istantaneamente a
terra in un lago di sangue. Ma i suoi aguzzini non erano contenti, perché il
povero frate respirava ancora. Si scagliarono allora sulla vittima con un lungo
coltello perforandogli lo stomaco. Per Pietro da Verona ci fu ben poco da fare.
Gli sciacalli se la diedero a gambe e il corpo del servo di Dio fu raccolto da
alcuni passanti che lo trasportarono in un ospedale vicino. Pietro da Verona morì
qualche giorno dopo senza avere più ripreso conoscenza.
Ora
non ricordo più bene i particolari, ma il primo cataro concorezzese mi sembra
provenisse da Cologno Monzese, altro borgo di queste lande perdute. Fu il primo
a farsi sentire come una voce fuori dal coro, e anche per questo lo fecero a
pezzetti, in zona, intorno al 1180 (con le date rimango un fenomeno!). Ma ormai
il seme dell'eresia era stato gettato e il dogma concorezzese sarebbe di lì a
poco decollato. Ancora oggi è possibile intuire gli ipotetici discendenti degli
eretici. Potrebbero, per esempio, essere i membri di famiglie che rispondono a
cognomi particolari, come Paté; deriverebbero, infatti, da paterini, altro nome
con cui venivano designati i catari. Oggi ho visto sullo stradario che esiste
ancora una via centrale chiamata con questo nome. Non è escluso che nei
prossimi giorni possa andare a fargli visita. Via Paterini…
La visita dei
vicini
Cosa?
Ho sentito bene? Credo che qualcuno stia suonando il campanello… troppo strano.
Qualcuno deve sicuramente essersi sbagliato. Chi mai potrebbe venire a bussare
alla mia porta, considerato che sono qui da pochi giorni e non conosco anima
viva e non voglio conoscere anima viva? Ahia. Tiro un respiro profondo e
abbandono lo scrittoio gironzolandogli intorno perplesso. Che faccio? Fingo di
non aver sentito? Che faccio? Sentilo, di nuovo… e pensare che non avevo ancora
udito prima d'ora il suono del mio campanello; e non avevo neanche mai
riflettuto sul fatto che ci fosse. Ha un suono atipico, diverso dagli altri scampanellii
sentiti finora: è un fischio, acuto e fastidioso. Al di là di quel che adesso
deciderò di fare, dovrò presto o tardi trovare un modo per farlo zittire, o
sostituirlo almeno con un suono più delicato. Se penso che il passaggio di un
treno ha un suono più dolce, mi viene da sorridere… Ma perché insiste? Chi
diavolo è che mi vuole con tanta foga? Io non sono nessuno… non esisto, che
vogliono dal sottoscritto? Non so che fare. Aspetto ancora un… porca miseria
nera, questo suono mi sta davvero facendo impazzire; come si fa a essere tanto
insistenti? Non sarà mica qualche sbirro…
Ora
che ci penso non c'è neanche il mio nome sul citofono. E' una cosa su cui non
avevo mai riflettuto, non ho neanche la targhetta sulla porta a indicare lei
mie generalità. Come fanno a sapere che abito qui? Ma so di essere perfettamente
in regola, se anche fossero le forze dell'ordine, non ho niente di cui
preoccuparmi, sono a posto, non c'è motivo di temere, sono scappato per volontà
mia, niente a che vedere con la possibilità di vedermi trasformato in un
ricercato, un latitante, un clandestino… Oppure… oh, già che stupido, perché
non ci ho pensato prima? Probabilmente staranno cercando di mettersi in
contatto con l'inquilino che viveva qui prima di me. Oddio, sicuramente starà
andando così, chi vuoi che venga a cercare un quarantenne in fuga dalla società
in questo buco dimenticato dagli angeli? Il suono, ancora, imperterrito. Va
beh, togliamoci una volta per tutte lo sfizio e andiamo a vedere chi rompe così
tanto le palle.
«Chi
è?».
Ho
la voce di un gallo castrato.
«Buongiorno,
siamo i suoi vicini di casa».
I
miei vicini di casa? Quali vicini di casa? Quelli della macchina abbandonata,
di cui ho vagamente intravisto il capofamiglia, o quelli che mi stanno di
fianco di cui non so nulla?
«Siamo
venuti a salutarla, per conoscerla, darle il benvenuto e farle assaggiare una
torta».
Mi
viene da svenire. Non può essere vero. Dove deve andare una persona se vuole
davvero isolarsi dal mondo, sulla Luna?
«Non
dovevate».
«Ci
mancherebbe».
Perché
non mi lasciano in pace, cosa vogliono da me i miei vicini? Io non voglio
vicini. Mi si gelano le parole in gola e ho i brividi. Cosa diamine vogliono da
me? Le cose si stanno mettendo malissimo. Ho scelto di starmene da solo, non avere
a che fare con nessuno, perché già dopo tre giorni dal mio arrivo mi vengono a
perseguitare?
«Perché
vi siete disturbati?».
«E'
un piacere accogliere i nuovi venuti».
Ho
capito: è inutile proseguire con la pantomima, non ho altre chance se non
quella di andare a vedere che faccia abbiano. Non posso certo mandarli a quel
paese. Però, un attimo… potrei anche dirgli che sto facendo la doccia… non
potranno mica pretendere che esca ad accoglierli seminudo. Ma non so, così rischio
che mi si presentino qui fra qualche ora, rendendomi l'imminente futuro un supplizio
ancora più duro da sopportare, come quando si aspetta l'esattore delle tasse o
il tipo che controlla che sei veramente a casa in malattia. Via, indossiamo le
scarpe e andiamo una volta per tutte ad accogliere gli scocciatori.
Mi
trovo davanti a due persone distinte, bellocce, lei con una folta chioma rossiccia,
molto borghese, elegante, con un seno prosperoso; lui brizzolato, con due
sopracciglia folte, e un viso da attore hollywoodiano; proprio l'uomo che ho
visto dalla finestra, con la pigna di giornali sottobraccio, il tipo dell'auto
parcheggiata nella solita triste posizione. La signora mi regala un sorriso
splendido, mettendo in mostra una dentatura troppo perfetta per essere vera. Mi
verrebbe da chiederle dove è andata a rifarsi la dentiera per farle capire che
non ho alcuna intenzione di dare retta agli estranei, ma il buonsenso mi
trattiene. Lui fa altrettanto, sorridendomi come una iena, stracciando
vigorosamente il mio cenno del capo con un ghigno assatanato, molto
imbarazzato. Non mi fa una bellissima
impressione, ma so che il primo giudizio su cose e persone non dovrebbe essere
preso in considerazione. La donna mi consegna fra le mani il suo cimelio,
preceduta da una vampata di profumo.
«Abbiamo
visto che è arrivato qualche giorno fa e… ci è sembrato bello poterla
accogliere con questo piccolo pensiero».
Sorrido
per mascherare il disagio.
«Vi
ringrazio signori, vi ringrazio molto, ma non dovevate, siete troppo gentili…».
Rimangono
sulla soglia del mio abitato come pali della luce, come testimoni di Geova
convinti di poter avere in pugno il prossimo adepto. Evidentemente si aspettano
qualcos'altro.
«Lei
è di queste parti?».
Ecco
ciò che si aspettano, ora mi sembra tutto più chiaro, mi pare di rivivere la
storia di ieri. Si parte dal tempo o da scuse stravaganti come quella di
consegnare una torta appena tolta dai fornelli, per tentare di affondare il
colpo e, in buona sostanza, avere nuovo materiale con cui spettegolare al
prossimo incontro pubblico. Ne sono consapevole, ormai, e dunque mi ripeto
seguendo bene o male lo stesso copione.
«Sono
solo di passaggio».
Sembrano
delusi dalle mie parole. Si capisce che vorrebbero conoscere più aspetti della
mia vita, ma bado a esprimermi come vorrebbero, per non dargli troppe
soddisfazioni. Me ne sto sulle mie, in fondo, posso dirmi un professionista del
mestiere. Gli anni alla Vian lo possono confermare. Solo con Francesco e
Filomena, e naturalmente Laila, mi lasciavo veramente andare, mostrando il mio
lato più comico ed estroverso. La conversazione si blocca: io, infervorato, come
uno scolaro al suo primo giorno in aula, con una torta in mano che vorrei non
avere mai ricevuto e le ciabatte ai piedi, che mi fanno sembrare una specie di
spaventapasseri; i miei due interlocutori con gli occhi impallati e uno sguardo
da venditori di enciclopedie porta a porta, visibilmente delusi dal fatto di
avere avuto a che fare con una persona tanto avara di sentimenti.
Evidentemente, in questo paese, sono abituati a gestire le cose in questa
maniera; ma suppongo che i nuovi venuti siano accolti con calore non tanto per
un gesto di sensibilità, quanto per verificare che non siano portatori di
qualche strana malattia; alla stregua di veri untori. Dalle mie parti quest'aspetto
sociale pareva meno evidente, la riservatezza era più sentita e così anche i
rapporti personali crescevano solo in determinati contesti, dopo essersi
annusati con criterio e pudore. Anche ieri, in fondo, è andata così. I
concorezzesi fanno di tutto per dare il benvenuto agli estranei, e mostrarsi
accoglienti e solidali; in realtà, penso io, è solo un modo per tastare il
terreno e verificare che non corrano pericoli e che la loro vita potrà
proseguire tranquilla e serena con la stessa regolarità di sempre. Comunque sia
mi offrono terreno fertile su cui indagare la natura umana, anche questo un
tema sul quale amo soffermarmi.
«Bene,
allora… grazie ancora».
Gli
faccio capire che qualunque altro tentativo di proseguire nella conversazione
sarebbe vano, e che tanto vale concederci ai saluti. La donna ha il viso tirato
e si congeda con un sorriso di plastica; l'uomo ha il volto accigliato e sembra
pentito di aver suonato alla mia porta. Pretendeva, forse, di invitarmi stasera
a casa sua a giocare a Tresette?
«Si
figuri… allora, le auguriamo ancora il benvenuto e se ha bisogno di qualcosa,
mi raccomando, non faccia complimenti, venga pure a disturbarci, in fondo… ci
separano solo pochi metri».
La
loro cordialità è rigida e forzata.
«Lo
farò, intanto molte grazie».
Sorrido
di circostanza, felice di essere lasciato in pace. Non credo che si faranno
rivedere molto presto.
Dinamiche
condominiali
Stavo
pensando… chissà perché oggi, i miei cari vicini, hanno dato per scontato che
vivessi da solo. Non mi hanno fatto domande sulla mia vita privata, eppure
sembrava chiaro a entrambi che vivessi senza compagnia. Anche le loro ultime
affermazioni sono state palesi: mi hanno detto di farmi sentire se ho bisogno,
senza minimamente supporre che potessi avere una moglie o dei figli e valutare,
dunque, il discorso al plurale… eppure la casa è bella grande… chiunque
supporrebbe che non ci si possa abitare singolarmente, ma con una famiglia,
appunto. Che mi stiano osservando da giorni e io non mi sia ancora accorto di
niente? Avendoli conosciuti non lo escluderei, in ogni caso, m'importa poco. Possono
pensare quello che vogliono, io continuo nel mio imperturbabile silenzio.
Peraltro anch'io ho cercato spiegazioni sul loro conto, osservandoli dalla
finestra, come un membro dei servizi segreti; anche se non l'ho fatto certo per
curiosità, ma solo per ammazzare il tempo fra una pausa e l'altra della
giornata.
Non
vorrei apparire scontroso a priori, però, desidererei mantenere le distanze con
chi vive le conoscenze come un dovere, come una buona consuetudine. Dal mio
punto di vista i vicini non devono per forza venirsi in contro; possono anche
essere dei perfetti sconosciuti. Si fa un gran parlare delle belle abitudini trascorse,
relative a famiglie che mettevano tutto in condivisione; ma è solo per
giustificare il passato rendendolo più amabile di quello che fu, e così
sfuggire alle angherie e alle difficoltà del presente. La verità è che si tiene
solo conto delle belle cose di ieri, trascurando tutto il resto. Perché non si
considera anche il fatto che si moriva giovanissimi? Si soffriva per anni di
malattie banalissime come la bronchite e le conversazioni fra le coppie si
limitavano a scurrili mandarsi a quel paese… Le specie di comuni che venivano a
instaurarsi fra le famiglie che abitavano, per esempio, in una cascina, erano
dettate dalla necessità e non dalla volontà; se avessero indetto un referendum,
tutti avrebbero votato per ottenere la propria indipendenza, un po’ come è
sempre accaduto per l'evoluzione storica degli stati: per una mera questione di
sopravvivenza esisteva il motto "uno per tutti, tutti per uno". La
realtà era molto meno affascinante. Gran parte delle famiglie che dividevano il
pane quotidiano sarebbero state pronte ad azzannarsi l'una con l'altra, e non è
escluso che ciò accadesse, per poi fare ricadere il tutto su orrendi tragedie
figlie del fato. A volte si fa fatica a sopportarsi in famiglia, figuriamoci
quando ci sono di mezzo altri nuclei, spesso numerosissimi, come se chi faceva
più figli si sentisse in qualche modo più forte e potente degli altri. E' anche
questo un retaggio evoluzionistico. Evidentemente guardare in cagnesco il
vicino serviva a difendersi, a tenere alta la guardia, imparando da esso come
comportarsi dinanzi a eventuali sinistri. Strategie comportamentali ordite da
meccanismi antropologici di cui siamo precursori, ma che sostanzialmente
ignoriamo.
La ragazza del
chiosco
Oggi
non penso di uscire. E se guardo alla voglia non ne ho neanche di scrivere.
Quasi, quasi vado a citofonare al vicino… Da quando sono arrivato a Concorezzo
sono stato assalito da uno strano torpore. Ho sempre sonno, ma quando decido di
dormire, non riesco a chiudere occhio. E vengo assalito dagli incubi. Oggi mi
manca Laila in modo spropositato e continuo a pensare a lei. Ma per fortuna non
sto pensando al triste epilogo della nostra storia, bensì al giorno in cui ci
siamo visti per la prima volta. Lei vendeva patatine in uno di quegli orrendi
chioschi che spuntano come funghi lungo i provinciali di mezza Italia. Dall'esterno
era increscioso, sembrava essere stato rimesso in sesto malamente, dopo averlo
raccattato in qualche sfasciacarrozze. Dentro, però, sembrava pulito, più di
molti altri dai quali pare che l'olio coli dalle pareti. Non le avevo ancora
parlato e già il cuore s'era messo a sbatacchiare. Non mi era mai successa una
cosa del genere con altre donne. Laila era già entrata prepotentemente nella
mia vita, anche se non conoscevo nemmeno il suo nome. Lasciai che altri clienti
mi passassero davanti per poterla osservare meglio, e non rompere l'incantesimo
che mi aveva fatto sussultare come un ragazzetto delle medie. Ecco, semmai
avessi dovuto rapportare l'impeto provato vedendola per la prima volta, potrei
parlare solo delle primissime cotte giovanili, in cui ogni minuto era buono per
innamorarsi di qualche ragazzetta, auspicando con lei sogni di gloria. Sentii menzionare
il suo nome da un facinoroso con una lunga coda di capelli dorati. Un bel tipo,
se non fosse che non gli avrei dato due lire, in termini di affidabilità: aveva
i pantaloni macchiati di grasso e le mani putride e una parlata non dissimile
da quella di uno scaricatore di porto. Si vedeva che aveva feeling con la
ragazza del chiosco. Sorrideva con lei mentre le ordinava da mangiare.
«Laila,
non dire cazzate», le disse riferendosi a dinamiche precluse agli sconosciuti.
Non
udii correttamente il sillabato, e scambiai il suo nome per Linda o Leila. In
realtà era Laila. Lui le aveva ordinato un hotdog e a quanto sembra aveva una
certa premura, ma lei non ne voleva sapere di soddisfare le sue richieste e con
aria civettuola si divertiva a indisporlo. Era circa l'una e tornavo da una
visita da un rivenditore di oggetti di laboratorio, dove periodicamente mi
recavo per ordinare nuovi pezzi da allestire alla multinazionale. Mi era venuta
un'indicibile sete, dovuta alla moltitudine di salatini con cui mi ero
rimpinzato poco prima con il proprietario dell'esercizio, e mi ero deciso a
fermarmi alla prima occasione; era anche perché dovevo liberare la vescica che
mi stava scoppiando, compito che assolsi prima di ordinare qualcosa da
mangiare. Fu la stessa Laila a interpellarmi, vedendomi in grave defaillance.
«Signore?».
La
sua voce era sublime, una di quelle voci che ti portano in alto, senza dover
dare retta al resto. Era una bella e suadente voce da ragazza, dotata di una
dolcezza speciale, quasi appannaggio di un'altra dimensione. Chissà quanti
altri avventori avevano già provato quello che stavo provando io, mi dissi. Alla
fine, non senza imbarazzo, riuscii a mugugnare due parole:
«Vorrei
un panino».
Laila
si sporse dalla balaustra e mi regalò un sorriso immenso. Notai il suo
decolleté, che esibiva senza tanti tentennamenti e soprattutto il nero che
troneggiava sul suo corpo: i capelli, gli occhi, e i vestiti. Era di una
bellezza non convenzionale, come se nei suoi tratti fisionomici ci fossero
rimandi al Medio Oriente, al Libano, a Israele. Vendendola la assimilai a
qualche statuina del presepe, a una bellissima giovane che va a fare visita al
bambin Gesù, una giovane di duemila anni fa. Ecco cos'era che mi sbalestrava:
non riuscivo a collocarla nello spazio-tempo che ci rappresentava, era come se
provenisse da un'altra epoca. C'era disequilibrio fra il suo mondo e le
macchine che ci sfrecciavano accanto, il grigio, lo smog, le piante avvizzite.
Erano i suoi occhi a suggermi tutto questo, dicendomi più di tutto il resto.
Era come se nascondessero qualcosa di profondo, universale e, forse,
drammatico.
«Un
panino mi chiede, bene, meno male che non mi ha chiesto un cacciavite o una
carriola. Mio signore, come vede qui abbiamo praticamente solo panini, ma ne
abbiamo di tutti i gusti, le dimensioni, le razze. Se dà un'occhiata qui sotto
se ne potrà rendere conto anche lei e così scegliere quello che gradisce di
più».
Mi
sentii sprofondare. La sua spigliatezza fu così travolgente che mi mise in
totale sobbollimento. Ma mi resi conto che aveva perfettamente ragione, era
stato come entrare in farmacia e chiedere una generica medicina. Ma come
biasimarmi? Compii un rapido giro di ricognizione e individuai quasi per caso
il prodotto da consumare:
«Quello».
«Questo?
Mortadella e pancetta?».
«Direi
di sì».
Mi
fissò come si fotografa un pollo da spennare. E infatti non ci mise molto a
prendersi gioco di me.
«Lei
mi ricorda un tipo di animale che vive in Cina».
Non
mi piacque la sua uscita, ma cercai di domare il disagio.
«Sa
quei begli orsacchiotti che vivono sulle piante di bambù?».
Pensai
volesse riferirsi a un panda, benché nessuno mai prima d'ora m'avesse
assimilato a un animale del genere. Stetti al suo gioco.
«Cosa
glielo fa pensare?».
«Ha
l'aria da buono».
Mi
prese in contropiede. Pensai, infatti, che intendesse riferirsi al mio aspetto
fisico e alla mia tendenza alla pinguetudine e invece, a quanto sembra,
considerò quello spirituale. Mi colpì anche per questo.
«Dunque
non le ricordo il panda perché è cicciotto».
Rise.
E per un momento parve eclissarsi. Divenne mogia tutto d'un colpo, mentre
terminava di prepararmi il sandwich.
«Lei
è di qui?», mi azzardai.
Mi
guardò con fare minaccioso.
«Io
sono di ovunque».
Mi
piacque.
«Trovavo
il suo accento un po’…».
«Ho
vissuto in tante parti del mondo e potrei avere assimilato cadenze di ogni
città e nazione».
Ebbi
l'impressione che non volesse rivelare le sue vere origini, come se ci fosse
qualcosa di anomalo da nascondere. La lasciai in pace, dirigendomi verso uno dei
tavolini che circondavano il botteghino, dove già altri, compreso il cliente
che mi aveva preceduto, s'erano accomodati. Mangiai con calma, non avendo
nessuna fretta, osservando, di tanto in tanto, con la coda dell'occhio, Laila
che si dava da fare per lustrare il bancone e l'affettatrice. Sfregava con
grande foga, dando idea di compiere un lavoro che svolgeva di routine. Mi
stupii quando, fotografandola di sbieco per l'ennesima volta, m'accorsi che mi
stava guardando con gli occhi semichiusi, in tono di sfida. Provai una
sensazione strana, mista eccitazione, tenerezza e… terrore. Da una parte avrei
voluto gioire, dall'altra, però, mi frenò qualcosa che non riuscii a
focalizzare, come se dalla sua aurea trapelasse qualcosa di troppo difficile da
comprendere e analizzare. Continuai pertanto nel mio atto masticatorio,
cercando di fare finta di niente e di concentrarmi su un paio di formichine che
s'erano messe a gironzolare intorno a qualche briciola. Mi distrasse il vocio
di un nuovo gruppo di persone che prese d'assalto il negozietto ambulante di
Laila per ordinare cibo e bevande. Non ebbi il tempo di salutare Laila come
avrei voluto, ma rientrando alla Vian non feci che pensare a lei, come se fossi
stato sotto ipnosi. Ricordo ancora, peraltro, quel che disse Filomena
vendendomi riacquistare la mia postazione usuale.
«Tutto
bene?».
«Certo».
La
mia collega mi aveva squadrato malamente.
«Hai
una faccia…».
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