5 agosto
Ieri sera abbiamo tirato tardi ancora una volta e così stamane eravamo nuovamente in coma. Un coma collettivo. Un tema collettivo. Enrico il più comico, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Le sue palpebre erano appiccicate l'una sull'altra. Sbadigliava mentre padre Silvestro gli parlava del futuro di un pozzo dal quale, fino a poco tempo fa, si estraeva acqua purissima, oggi contaminata da un'azzardata mossa imprenditoriale di un'azienda agricola del posto. Anche Loredana non era messa bene. E invece, in qualche modo sorprendentemente pimpante, il sottoscritto, e le sue compaesane, forse per via dei dieci anni in meno che ci contraddistinguono: i fisici si riprendono prima dalle nottate balorde.
Dopo colazione, al lavoro, per quattro ore di fila. Fino a mezzogiorno abbiamo verniciato di bianco le finestre in muratura di quella che diverrà una scuola. Pranzo e via per la capitale: padre Silvestro ci porta a visitare il mercato dell'avorio che si trova in una zona un po’ periferica della metropoli, di cui mi rimangono impressi sghembi pali della luce, alberi rinsecchiti, cumuli di macerie, montagne di rifiuti, carcasse arrugginite di automobili. Non un bello spettacolo. Con noi sulla jeep ci sono Joseph, Gerard e Samson. Joseph insiste per farmi un regalo. Assurdo. Gli dico di lasciare perdere.
"Sono io che dovrei farne a te".
Il mercato dell'avorio è affascinante, è abitato da artisti straordinari, in grado di ricavare la luna da ogni misero frammento di legno. Mi fermo a osservarne qualcuno all'opera, come un bimbo alle prese con l'omino che fabbrica lo zucchero filato. All'ora del rientro s'è già fatto buio. Il rossore del cielo lascia il posto alle tenebre. Percorriamo il tracciato sterrato e polveroso che separa il punto d'imbarco per Dar Es Saalam dalla missione, in un clima difficilmente descrivibile. Un clima trascendentale. Con un po’ di fantasia non è difficile immaginare Lucy camminare con noi con la sua andatura goffa. E altre forme australopitcine farci "ciao" con le mani. Da un po’ amano rincorrersi nella savana, dopo millenni passati a volare da un albero all'altro come le scimmie. Ormai non hanno più nulla delle scimmie e la loro intelligenza ha spiccato il volo.
Mezz'ora di cammino, fra capanne di fango, illuminate da deboli lampadine e da sputi di fuoco, e alberi che assumono forme di demoni minacciosi. Gli odori penetrano le nostre nari e si accumulano nel cervello, dandoci sensazioni forti, mai provate, ancestrali, mistiche. Da dove provengono?
L'emisfero australe ci guarda dall'alto magnanimo. Altri occidentali in questi frangenti potrebbero fare una brutta fine. Basta poco, un coltello un po’ più affilato del solito e qualche tanzaniano particolarmente affamato di giustizia ed eguaglianza sociale. Qualche tanzaniano che ha studiato e conosce la storia infame che ci ha preceduti. E invece trascorre tutto felicemente. Forse anche grazie alla presenza rassicurante di padre Silvestro, perfettamente padrone del posto, del linguaggio, del rispetto per chi vive qui da sempre. Conclusa la cena non ci resta che concederci un meritato riposo. Non c'è tempo per un'altra nottata sopra le righe.
6 agosto
Sveglia: ore 7.00. Praticamente ci tirano giù dal letto. In barba alla vacanza estiva. Dopo colazione di nuovo al lavoro, fino alle 11.30. Questa mattina abbiamo risolto il nostro primo obiettivo: la verniciatura di otto grosse finestre. La futura scuola sta diventando sempre più bella.
Di ritorno dal luogo di lavoro, mi fermo per qualche minuto in camera per sistemare le corde della chitarra. Il SI è partito e devo trovare il modo per riutilizzarlo, visto che non ho più corde di ricambio. Se portavo la classica era meglio. Col nylon le cose sono decisamente più facili… Poi raggiungo gli altri per il pranzo.
In questo momento Enrico e Roberta stanno lavando i piatti. Domani toccherà a me. Pomeriggio visiteremo con padre Silvestro un villaggio abitato esclusivamente da lebbrosi. Si trova a circa dieci chilometri da Kigamboni. Porterò la macchina fotografica, ma non so se e come potrò utilizzarla. Non stiamo andando a Gardaland.
Oggi il tempo è un po’ imbronciato. Sono già cadute delle gocce di pioggia.
Pomeriggio.
Alle 14.30 partiamo per il villaggio dei lebbrosi. Al nostro arrivo regna il silenzio più assoluto. Sono un'accozzaglia di casupole fangose, protette dalle fronde di alberi maestosi. Sembra un villaggio fantasma, e invece, piano, piano, vediamo spuntare dagli angoli più disparati, persone completamente sfigurate. Sembrano zombie. Camminano come zombie. Stanno marcendo. Marcendo nell'anima e nel corpo. I loro occhi trasalgono. Le loro vite pure. Alcuni non hanno il naso, altri non hanno mani e piedi, e si aggrappano a bastoni sbilenchi, come tralci della vite devastati da un male inconcepibile. Gli storpi dell'altro giorno erano una favola a confronto. Dei centrometisti.
Il silenzio si trasforma in incredulità, impotenza, sbigottimento. Dove siamo? Che mondo è mai questo? Cosa staranno facendo in questo momento i nostri consimili a Milano, mentre qui è l'apocalisse? Sono alcune delle domande che traghettano a velocità inaudita nei nostri cervelli occidentali. Beoti. Pressappochisti. Troppo abituati a fotografare solo il proprio orticello di casa. Anche estrarre la macchina fotografica diviene un'impresa complicatissima. Tanto vale sparargli in testa. A malapena riesco a fare clic su due mani che non esistono, corrose dal morbo tremebondo.
Padre Silvestro parlotta con un responsabile del villaggio, anche lui lebbroso. Forse in via di guarigione. Si regalano dei gesti strani, incomprensibili. Padre Silvestro fa un mezzo inchino. L'interlocutore cerca di sorridergli, ma le labbra non ci sono più, e così il suo volto diviene il primo piano di un film horror.
Noi restiamo appollaiati sulla jeep in un atteggiamento paradossale. Perfino Enrico, quello che con più dimestichezza entra in contatto con gli abitanti locali, ha difficoltà a esprimersi. Tace. Guarda senza pronunciarsi. Il suo volto è contratto. Le sue labbra sviliscono. Loredana si soffia il naso per scaricare la tensione. Alessia comincia a singhiozzare.
"Oh, contieniti", le fa Enrico.
Di ritorno dal villaggio nessuno parla. Ci vorranno delle ore per riacquisire l'umore standard. Giusto così. Conferma la nostra coscienza. Conferma la nostra distanza da Lucy. Stati emozionali che rimangono dentro. E chissà se mai se ne andranno. Incappare in un villaggio di lebbrosi servirebbe a tutti. È un buon esercizio per comprendere come vanno veramente le cose. Come stanno veramente le cose. Quali sono i veri valori della vita. Quali sono i sogni corretti da perseguire. Il senso della vanità assume la sua vera identità: il niente.
Un villaggio abitato esclusivamente da lebbrosi aiuta a vivere l'esistenza dal giusto punto di vista, paradigma che abbiamo smarrito, fagocitati dai dettami delle nostre quotidianità fittizie, banali, vuote. Ogni occidentale dovrebbe rendersene conto. Farebbe bene anche a lui e alla sua economia malata.
In missione mi fermo con Roberta ad ascoltare un gruppo di donne che s'è messo a cantare e a ballare. Un programma in netta contraddizione con le luci terrificanti del pomeriggio. Ma la vita prosegue, la vita ha bisogno anche e soprattutto di questo: respiro, musica e danza.
"Con quello che abbiamo visto oggi, è difficile mettersi a cantare", fa Roberta.
"Non hai tutti i torti".
Durante l'uscita fuori porta abbiamo avuto modo di stringere un po’ di più i rapporti con i ragazzi che ci affiancano da quando siamo arrivati a Kigamboni. Joseph è un meticcio. È figlio di un greco e di una donna di colore. È un ragazzo molto gentile, sembra sincero, frequenta il seminario e partecipa vivamente alle attività della missione.
China è il più benestante. È intuibile dalla sua casa, dove vive con due fratelli: ci sono perfino dei mobili. Non si sa nulla dei suoi genitori. I suoi vestiti sono molto più belli di quelli dei suoi amici. Dice di fare il fotografo, ma nessuno di noi l'ha mai visto in giro con una macchina fotografica. In compenso strimpella la chitarra, provando accordi che io non ho mai incontrato in vita mia.
Samson ha l'aria da furbo. Va ancora a scuola. È il più casinista di tutti ed è quello con cui vado più d'accordo. Anche lui mastica l'inglese, e molto spesso ci isoliamo facendoci i fatti nostri. Qualche ora fa mi ha mostrato un preservativo, indicandomi una ragazza del posto molto carina. Non va certo per il sottile. La cosa mi ha messo seriamente in imbarazzo. La ragazza di riferimento mi ha regalato sorriso grande come il cielo; io mi sono messo a ridere lasciando cadere ogni cosa:
"Non credo sia il caso".
"Perché?".
"Beh, perché…".
"Perché?".
"Perché non penso sia il caso".
È andata.
Samson dà l'impressione di poterci far su come vuole. Più degli altri. Ha l'occhio lungo. Molto lungo. Troppo vivace. È per questo che mi piace. Non mi meraviglierei se un giorno dovessimo svegliarci con i portafogli vuoti. Oggi, intanto, gli ho regalato 400 scellini.
Poca roba.
Samson lavora con noi quasi tutti i giorni. Si arrampica come un gatto sulle impalcature e comincia a pedalare. Non teme le altezze. Non teme nulla. Fa andare il pennello che è una meraviglia. Non tutti i suoi soci si comportano così. La maggior parte di essi dà la seria impressione di non aver alcuna voglia di lavorare. Tre pennellate, una risata e un riposino. Padre Silvestro ci ha raccontato che una volta ha rubato tutti i soldi nella camera di un padre missionario. Eppure mi fido di lui. Con lui mi trovo perfettamente a mio agio, come se avessi a che fare con un amico di sempre delle mie parti. Mi sembra molto intelligente. Non a caso molti ritengono la furbizia, l'altra faccia della medaglia dell'intelligenza.
Il resto della combriccola di accompagnatori comprende ragazzetti vispi, svegli, casinisti, di età indefinibile - ci sono ventenni che sembrano quattordicenni, e bimbi che paiono adulti maturi - con due occhi che sprizzano gioia.
Oggi per la prima volta da quando sono partito, ho pensato ai miei affetti. Cominciando da Gilda. Ho patito la sua mancanza. Mi piacerebbe averla qui, parlarle, condividere con lei le mille sensazioni che provo, e perché no, sbaciucchiarmela un po’. Mi mancano anche Viola, Gianna, Silvia, Stefania, Marco, Mario, Andrea Pagani e… (scontato dirlo) i miei genitori, i miei nonni... Come ogni buon italiano che si rispetti, nonostante la fame di avventura che mi contraddistingue, resto un mammone. Peraltro è difficilissimo chiamare casa. Non si prende mai la linea. Ma non parlerei di nostalgia. In fondo, sono qui da sei giorni e sto benissimo, va benissimo così, era quello che volevo. Non ho alcuna voglia di tornare a casa. È già la mia Africa. La mia Africa? La mia vita?
Riattacco con i nonni materni. Con loro ho costruito un bellissimo rapporto. Paradossalmente ho passato più tempo con loro che con i miei genitori, impegnati al lavoro dalla mattina alla sera. Quando non sono a scuola, o in giro con qualche amico, trascorro le mie ore col nonno a piantare fiori e ortaggi. Sono ore serene e spensierate. Lavoro la terra e mi crogiolo nei suoi movimenti, nelle sue rughe e nel suo tergiversare. Penso agli anni che ha sulle spalle e alle tante persone che deve aver conosciuto. È bello sentire di volergli bene. Ha contribuito anche lui alla nascita della mia passione per la natura e le piante. Ha mille aneddoti da insegnarmi, utili alla coltivazione e concernenti le abitudini degli animali, retroscena scientifici che non esistono nemmeno nei libri universitari. La cultura popolare andrebbe presa di più in considerazione. A volte la scienza pecca in presunzione. M'insegna che anche gli astri influenzano la crescita delle piante, e che la semina deve tenere conto soprattutto dei movimenti lunari.
"Luna a ponente, gobba crescente, luna a levante, gobba calante", mi dice il nonno, sottolineando la necessità di seminare quando il satellite cresce.
Mi sono confrontato con Roberta, fra una pennellata e l'altra, tirando in ballo anche l'università, la musica, l'arte. Un discorso a trecentosessanta gradi. Anche lei si è confidata, dicendosi soddisfatta della sua vita, benché le manchi l'amore. È da un po’ che è single. Poco prima di partire per l'Africa ha rotto con Marino, di qualche anno più grande di noi, quasi laureato, conosciuto una sera in un locale brianzolo. Sono andati avanti per un po’ di mesi, poi lei s'è stancata: fra le tante cose che non le andavano anche il fatto che bestemmiasse con troppa disinvoltura.
"Ti pare sensato inserire un porcone a ogni fine frase?".
Ho chiesto a Roberta se le manca, mi ha risposto no. Ma non l'ho vista troppo convinta. Mi ha fatto uno strano sorriso. Ora indosso le cuffie e ascolto "Comes a time" di Neil Young. Fra poco andrò a mangiare.
7 agosto
La sveglia poco dopo l'alba non è più una novità. Ci sto facendo il callo. E le borse agli occhi sono sempre più evidenti. Enrico è sempre più comico. Per le prime due ore del mattino barcolla e non gli si può rivolgere la parola: non sente e di conseguenza non risponde, qualunque sia il quesito che gli viene posto. Pare che di notte faccia a pugni con se stesso, dal tanto che si ritrova scompigliato. La defaillance mattutina di Enrico, l'ha fatta sua anche padre Silvestro, ridendoci sopra. Nella sua lunga esperienza in missione ne ha incontrate tante di persone strane: ormai non si meraviglia più di niente.
Terminata la colazione siamo partiti per il lavoro. Impalcature a rapporto. Ma bisogna stare attenti, sono sempre più alte e traballanti, il rischio di cadere incombe. È capitato a qualche abitante locale. A un tale hanno dovuto amputare la gamba.
Alle 12.00 il pranzo: spaghetti e insalata mista. Poi di nuovo a tirare la lima fino alle 16.00.
Stacanovismo puro!
Oggi ho parlato soprattutto con Loredana. È quella con cui ho avuto meno a che fare fino a questo momento. Mi ha (finalmente) confidato che le piace Enrico, ma che non sa bene come farsi avanti: non vorrebbe correre il rischio di fare qualche brutta figura, di compiere il passo più lungo della gamba. Io le ho replicato che anche per lui potrebbe essere la stessa cosa. I suoi occhi si sono illuminati di speranza:
"Cosa te lo fa pensare?".
"Il modo in cui interagisce con te".
"In che senso?".
"Nel senso che a volte mi sembra che ti faccia gli occhietti dolci".
"Dici sul serio?".
"Perché dovrei mentirti?".
"E allora cosa mi consigli?".
"Se non sarà lui a farsi avanti, fatti avanti tu. Vedrai che ho ragione".
"Ne terrò conto".
8 agosto
"E un altro giorno è andato la sua musica ha finito, quando tempo è ormai passato e passerà".
Sono le parole di una canzone di Guccini. L'ho ascoltato poco prima di partire per l'Africa. Complice Andrea Pagani, un vero fan del cantautore emiliano e gran bevitore come lui. Sì, devo dire che piace anche a me, anche se lo trovo un po’ ripetitivo nelle melodie e certe volte un po’ palloso. Ma i testi sono delle vere pugnalate al cuore. Fanno riflettere. Inducono a credere in qualcosa di meglio, a vivere con un'intensità diversa l'esistenza, con piglio profondo. Sono pezzi che hanno davvero qualcosa da dire, a differenza della maggior parte degli altri propinati dall'establishment musicale italiano, sempre più squallidi, noiosi, scontati, eterne "notti rosa" alla Tozzi. Si salvi chi può. Poi ci dicono esterofili. Per forza. Ribalterei da cima a fondo l'industria discografica nostrana.
Ieri sera siamo rimasti fino alle 22.00 a giocare a carte con i ragazzi della missione. Ci siamo sfidati a Scala Quaranta e a Merda. Con Merda abbiamo riso fino alle lacrime. Enrico s'è perfino slogato la mano. Capitano tutte a lui. Poi, fino alle 2.00, nelle nostre camere, a chiacchierare fra noi. Argomento: il quadrilatero della moda milanese. Le donne erano in estasi.
Ma la notte è trascorsa in modo piuttosto burrascoso. Almeno per il sottoscritto. E ora spiego il perché. A Kigamboni non sono tutti cristiani. Ci sono anche animisti e musulmani. L'animismo è la religione che attribuisce a tutti i fenomeni naturali un'energia divina. Dio è perciò nella pioggia, nel vento, nelle mareggiate. Qualcuno la definisce una religione primitiva, ma io non ne sarei tanto sicuro. A volte la trovo molto più affascinante del cristianesimo.
L'Islam non ha bisogno di presentazioni. Il problema è che i musulmani pregano cinque volte al giorno, volgendo cuore, mente e corpo, in direzione della Mecca. Perciò tutte le notti, anche qui a Kigamboni, alle 4.30 del mattino, un muezzin si arrampica in cima a un minareto, che sorge nei pressi della missione, e comincia con le sue litanie potentemente amplificate. Il punto è che, nel corso della preghiera, il portavoce di Allah pronuncia una parola molto simile al mio nome: Gianluca. La prima notte mi sono preso un colpo. Dormivo sereno, quando all'improvviso ho udito d'oltretomba gridare:
"Gianluca! Gianluca! Gianluca!".
Tachicardia.
"Chi mi chiama nel cuore della notte in Africa? Cosa possono volere da me?".
Cerco di farmi coraggio, imputando il fenomeno all'autosuggestione. Enrico dorme come un ghiro, non mi sembra il caso di svegliarlo. Torna il silenzio. Poi, l'indomani, è padre Silvestro, a svelarmi l'arcano mistero, concedendosi a una grassa risata.
"Non ci pensare, vedrai che non sentirai più niente".
Vivida speranza.
Una settimana fa, a quest'ora, partivamo da Milano. Oggi ho pensato di nuovo a Gilda. Potessi almeno scambiare due chiacchiere con lei al telefono…
La giornata è trascorsa lieta. Abbiamo lavorato fino alle 11,00, riposato fino alle 15.30. E di nuovo al mare fino alle 17.00. Di ritorno abbiamo fatto visita alla casa di Samson. È una casa spaziosa, ma tremendamente incasinata. Le pareti sono azzurre e verdi. Qui la cromoterapia è una religione. Abbiamo anche conosciuto i suoi genitori: due belle persone. Se non ho capito male il padre di Samson lavora nell'esercito. La madre non so: è una bella donna sulla quarantina, ha i fianchi un po’ larghi, ma il viso delicato e un atteggiamento nobile.
In camera prima di cena ho fatto un breve elenco delle mie canzoni preferite del momento:
1. Comes a time - Neil Young
2. Fisherman's blues - Waterboys
3. Losing my religion - REM
4. Just like a woman - Bob Dylan
5. Sayonara - The Pogues
6. Chicago - Crosby, Stills & Nash
7. A little things in life - Green on Red
8. Dust in the wind - Kansas
9. Shiny happy people - REM
10. King of the hill - Roger McGuinn
9 agosto
Sto ascoltando la cassetta che ho registrato con Flavio Pulici prima di partire: "English Moviments". E mi rendo conto di aver omesso pezzi troppo importanti nella classifica di ieri. Perciò proporrei di sostituire il brano dei Kansas e il secondo dei REM con "Yellow moon" dei Neville Brothers e soprattutto "There she goes" dei La's. I La's sono una band inglese, che quest'estate mi ha segnato mica da ridere. Provengono da Liverpool e sono sotto contratto con un'ottima etichetta: la Go! Discs. C'è un po’ di Smiths, Primal Scream e soprattutto tanti anni Sessanta. Un caso?
Lee Mavers, il cantante e leader del gruppo, è un genio. È bello l'intero disco.
Con Flavio Pulici non faccio che parlare di musica. È un grande esperto di Brit-Pop; mi dà dritte assai interessanti. Ma ai La's ci sono arrivato da solo. La nostra amicizia è scoppiata proprio in merito ai La's. A una festa Flavio indossava una maglietta del gruppo inglese. Chiedendogli dove l'avesse presa, ho dato il via al nostro sodalizio musicale e di conseguenza amicale. Perché lui non suona alcuno strumento, altrimenti avremmo già messo in piedi una band. Di Brit-Pop brianzolo.
Un'oretta fa stavo componendo un nuovo pezzo: "Samson". Sono a già a buon punto e prevedo di chiuderlo entro un paio di giorni. Padre Silvestro permettendo. Gli altri sono via, non so dove. Con la scusa dell'ispirazione sono rimasto in camera da solo, concentrato su un pentagramma che minuto dopo minuto prende sempre più forma.
Poi è arrivato proprio Samson, col quale ho suonato qualche canzone. Ci dava dentro col tamburello: ha il ritmo nel sangue e anche una bella voce.
Stamattina abbiamo lavorato fino a mezzogiorno, poi dalle 14.00 alle 16.00. Mi sono ferito a un dito.
"Cazzo".
"Che succede?", mi chiede Roberta.
"Mi sono mozzato mezzo dito".
"Fa vedere".
Ora è avvolto in un cerotto dal quale s'intravede una macchia di sangue raggrumato. Ma niente di grave. Alle 17.00, la messa. Tra poco più di un'ora ceneremo. La giornata non è magnifica. È dal primo pomeriggio che piove. Il cielo è grigio e l'umidità mina le ossa.
Per il 16 o il 17 abbiamo in programma una escursione. Prima si pensava di raggiungere Iringa, ora Bagamoyo. Iringa è troppo distante: sono circa cinquecento chilometri da Kigamboni. È una città abitata da circa centomila abitanti, in cima a una collina che guarda dall'alto il fiume Ruaha: nei dintorni sono stati rinvenuti reperti antichi risalenti a insediamenti umani di settantamila anni fa. Bagamoyo è tutta un'altra realtà: ne parlerò il giorno in cui la visiteremo.
"Gianluca!".
Possibile che mi stiano chiamando? Possibilissimo. Sono le voci di padre Silvestro e di Enrico. Mi stanno chiamando per la cena. Oggi peraltro è il mio turno in cucina e dovrò lavare i piatti.
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