giovedì 7 agosto 2014

Ferragosto # 20


96.

«Signori Greppi», esordì diplomaticamente il Marengo, «non vorremmo sembrarvi troppo precipitosi e arroganti, ma non avremmo agito in questo modo se non fossimo stati malamente respinti la volta a scorsa a suon di menzogne. Siamo qui con questo mandato di perquisizione perché siamo convinti della vostra responsabilità per ciò che concerne la scomparsa di don Filippo. Insieme abbiamo ricostruito punto per punto come sono andate le cose, partendo dall’enigmatico ritrovamento del cadavere del prete…».
I Greppi risero silenziosamente, mostrando ancora una volta tutta la loro altezzosità; ma la pistola ben piantata sulle loro teste, gli impedì di compiere passi falsi.
«Il qui presente Giannino fu fra i primi ad accorgersi della scomparsa di don Filippo. Fu il primo, infatti, a intrufolarsi nella sua casa e a scoprire un biglietto con riportate le intenzioni del sacerdote di sparire per sempre: un biglietto del tutto fasullo, come abbiamo potuto confermare dall’analisi delle calligrafie».
«Interessante scoperta, signor Marengo», disse il più vecchio dei Greppi, «ma non vedo cosa possiamo c’entrare noi con quest'assurda storia. E tantomeno con il biglietto di cui parlate».
«Il biglietto? Beh, semplicemente… siete stati voi a scriverlo».  
Risero di nuovo.
«Sappiamo a malapena scrivere, Marengo», disse il più giovane dei Greppi, «come può insinuare una cosa del genere?».
«Appunto. La calligrafia non era particolarmente raffinata, sembrava scritta da un principiante. Ma lasciatemi proseguire».
«Prosegua Marengo, che questa storia comincia a divertirmi», disse il Greppi più anziano.
Calò un silenzio pesante, che preannunciò la prima sciabolata del Marengo.
«Avete ucciso voi il prete e poi l’avete gettato nello stagno di Burago, aiutandovi con un carretto».
Il più vecchio dei Greppi a questo punto si spazientì.
«Vedo che nemmeno con le buone volete capirla. Significa che siete duri di comprendonio».
«Sarà, ma non ritiro una virgola di quel che ho detto».
«E allora spiegatemi di che diamine di carretto state parlando. Noi non abbiamo mai posseduto un carretto!».
«Suvvia, volete smetterla con queste farneticazioni?», si fece avanti l'altro fratello.
«Vi scaldate signori Greppi?», domandò con una punta d'ironia il Bosi, «c’è qualcosa che ha stuzzicato il vostro buonumore?».
«Non mi ha scaldato niente», disse il più barbuto dei due, «ma odio essere accusato di nefandezze che non ho compiuto. Vi ripeto che non so nulla del carro di cui parlate… e non so nulla di questa maledetta storia!».
I presenti tirarono un sospiro per alleggerire l'angoscia, ma fu ormai evidente a tutti che i Greppi avevano cominciato ad arrampicarsi sui vetri.
«Signori Greppi, abbiamo le prove che il carretto che abbiamo trovato appartiene a voi», disse il Marengo.
«Mi piacerebbe tanto sapere come avete fatto ad avere queste prove, sinceramente mi viene da ridere».
Erano già d’accordo i Banfi di intervenire al momento opportuno. S’erano infatti nascosti dietro l’ingresso dei Greppi e avevano seguito l’intera scena, come da copione, pronti a buttarsi nella mischia, non appena avessero tirato in ballo la vicenda del carretto.  
«Chiedo permesso», disse il signor Banfi, entrando nella dimora dei Greppi, affiancato dal figlio Calimero.
«Voi?», disse stupito il maggiore degli indagati. 
«Siamo vicini di casa, lo so, ma so anche che ciò avete raccontato fino a oggi non corrisponde alla verità», disse il Banfi, con risolutezza, facendosi spazio fra i presenti asserragliati intorno ai fratelli malavitosi come un plotone di esecuzione.
«Come si permette di dire certe cose? È vero che siamo vicini, ma sarebbe quantomeno fuorviante asserire che noi e voi siamo amici».

97.

«Mai pensato che fossimo amici», disse il Banfi, «in ogni caso vorrei farvi presente che io posso testimoniare contro di voi. So tutto del vostro carretto».
«Si può sapere di quale carretto state parlando?».
«Il carretto che avete sempre custodito nel vostro cascinotto, a pochi metri da qua. Se pensa che non sia verosimile la mia tesi, dimostrateci il contrario, ossia che il mezzo è ancora al suo posto».
I due Greppi si guardarono costernati, ma ben lontani dall’idea di qualunque resa. Brillava nei loro occhi un luccichio perverso, che faceva rima con il ghigno disperato che contrassegnava i loro volti come una maschera d'orrore. Mossero gli occhi dall’alto al basso, volendo comicamente dimostrare che non avevano più tempo da dedicare a gente che sosteneva i teoremi più assurdi pur di metterli in difficoltà. Di fatto avevano il callo per reggere qualunque accusa, e ancora una volta erano, dunque, convinti di poterla fare franca.
«Ora che mi fate davvero perdere la pazienza», andò avanti il più anziano dei fratelli, «possiamo andare a vedere quello che volete, e se il carretto non è al suo posto è solo perché qualcuno ce l’ha rubato».
«Proprio così», intervenne il più giovane dei Greppi, «non nascondo che più volte alla nostra tenuta hanno fatto visita persone non proprio per bene».
«Proprio voi parlate di persone per bene?», sentenziò il Boffalora, centrando questa volta l’intervento.
«Eppure, più volte ci hanno fatto visita i ladri», raccontò il maggiore dei Greppi, «possiamo dimostrarlo come volete. Ci sono ancora le serratura divelte del pollaio».
Il Marengo e l’Ortolina si scambiarono uno sguardo stanco e preoccupato. Sapevano di averli in pugno, ma non comprendevano come potessero ancora trovare la forza e il coraggio di dichiararsi innocenti. Non avevano mai incontrato soggetti in grado di inventare di sana pianta nuove tesi per dichiararsi estranei a fatti che li vedevano palesemente immischiati in prima persona. Pensarono che certi individui non fossero degni di essere considerati uomini.
«Signori Greppi», riattaccò il Marengo, «vorrei precisarvi che le assi del carretto mostrano ancora le tracce del sangue versato da don Filippo».
«Il sangue di don Filippo?», ridacchiò il più vecchio dei Greppi, «e chi vi dice che non fosse il sangue di una gallina?».
«So riconoscerlo il sangue di una gallina», azzardò il Boffalora, recuperando alla grande i punti persi nelle ultime ore, «e non è quello che si viene a trovare su un vetusto mezzo di trasporto, abbandonato nel cuore della più lussureggiante foresta del circondario».
A un certo punto il Giannino prese a starnutire come un forsennato, l’ennesimo attacco di rinite, e per qualche secondo tornò il silenzio nella lugubre stanza dei Greppi. Il Marengo ebbe così modo di riorganizzare il discorso e avviarsi alla stoccata finale, contando su un nuovo intervento: quello di Calimero, che avrebbe preferito mille volte essere lasciato in pace.  

98.

«Calimero, tocca a te», disse lapidario il Marengo.
«Signori...», e gli si gelarono le parole in bocca, percependo come una coltellata nello stomaco l’occhiata malvagia dei Greppi.
«Forza ragazzo», gli disse l’Ortolina, «non ti fare impressionare».
«Signori», esordì con maggiore risolutezza, «ricordo molto bene la sera di una decina di giorni fa... e non potete non ricordarla anche voi».
«Non sappiamo di cosa parli, ragazzo. E in ogni caso stai bene attento a quel che dici, perché a noi i bugiardi non piacciono».
Questa volta, però, Calimero non si lasciò intimidire e proseguì audacemente per la sua strada, dopo aver rotto definitivamente il ghiaccio.
«Signori», riattaccò, «una decina di giorni fa avete cercato di vendermi un candelabro, un candelabro d’argento. Vi sfido a dire che non sia vero. Perché significa che state barando in modo spudorato e infingardo».
«Vai avanti se hai il coraggio», disse il più vecchio dei Greppi.
«Sicuro che vado avanti. Ebbene, vorrei farvi presente, supponendo che abbiate la memoria corta, che oggi chiunque può testimoniare che quel candelabro era lo stesso che aveva in casa don Filippo».
I due Greppi scoppiarono in una clamorosa risata, applaudendo come si fa nel corso di uno spettacolo del circo equestre.
«E proprio di quel candelabro che abbelliva la mensola sopra il camino della curia, è quello di cui vi siete serviti per assassinare don Filippo, colpendolo alla testa», precisò il Marengo.
«Peccato, però, che di quel candelabro non ci sia più traccia, non è vero ragazzo?», e continuarono a ridere sguaiatamente come maschere di carnevale.
«È qui che vi sbagliate», disse temerariamente il Calimero, ripristinando l’assoluto silenzio di pochi istanti prima, quando il Giannino era stato colto da un attacco di allergia.
«È qui che vi sbagliate», ribadì istantaneamente.
E a questo punto i Greppi provarono per la prima volta un certo imbarazzo, non sapendo più come destreggiarsi.
Lasciarono che un altro minuto di silenzio si consegnasse all'eternità, dopodiché riprese la parola il più giovane dei due sgherri che tentò l’inverosimile per tirarsi fuori da un inghippo ormai senza via d’uscita.
«Cosa vorresti dire?».
«Le cose, semplicemente, non sono andate come pensate. Dopo avere rifiutato la vostra offerta, infatti, pur senza avere alcun presentimento sul vostro conto, non so per quale motivo, m’è venuto in mente di seguirvi. Non so dove eravate diretti e per che scopo, ma non avevo altro da fare e così vi ho...».
«Brutto cane vigliacco!», ululò il più giovane dei Greppi, alzandosi di scatto con il pugno teso.
«Aspetti signor Greppi», intimò l’Ortolina, facendo ronzare la canna della pistola intorno alle sue tempie, «lasci finire il giovane. Cos’è tutta questa rabbia improvvisa?».
I Greppi erano alle corde. Ormai era evidente a tutti: compresi gli stessi accusati.
«Beh, alla fine vi sono stato alle costole fino all’orto abbandonato e... vi ho visto benissimo mentre scavavate la buca per farlo sparire per sempre».
«Diavolo di un cane», mormorò di nuovo il più anziano dei Greppi.
«Bene, signori», intervenne il Bosi, «e adesso se volete seguirci, farebbe piacere anche a noi andare a vedere dov’è finito il bel cimelio di don Filippo...».

99.

I due Greppi, immobili per l'istante più doloroso di tutta la loro esistenza, respirarono profondamente, avvolti da una nube di infamante candore; il più giovane fu il primo ad alzarsi con il passo più stanco del solito e la voglia di spaccare tutto ciò che aveva intorno. Indossò un nuovo paio di pantaloni, presto imitato dal fratello più grande che ancora pareva non rendersi conto di quel che stava accadendo. Poi, tutti insieme, come una scolaresca in gita, si diressero al famoso orto dimenticato: davanti i due incriminati, con la pistola dell’Ortolina a un metro di distanza, a chiudere la fila i tre giovani, travolti da un sentimento sconosciuto, misto euforia ed eccitazione.
«Bravo Calimero», sussurrò all’amico, il Giannino.
«Non ho fatto altro che il mio dovere».
«All’inizio, però, dì la verità, te la sei fatta sotto», mormorò l’Ambrogino.
«Beh, sì, non è stato facile, lo devo ammettere. Me ne sarei tranquillamente stato sulle mie, ma dopo l’intervento dell’Ortolina è stato tutto più semplice».
Giunsero al cospetto del grande vivaio derelitto con il sole ormai ben alto sull’orizzonte, velato da timide nubi che di tanto in tanto, regalavano disegni surreali all’incantesimo celeste. Fu un momento di grande tensione collettiva e chiunque avrebbe ammesso di non essersi mai trovato prima in una situazione tanto minacciosa. Nessuno fiatò, e in religioso silenzio, con una banale sbracciata, il Marengo indicò ai due Greppi di fare saltare fuori il candelabro.
Nessuno di essi, però, si mosse.
«Signori, per favore, non rendiamo ancora più complicata la situazione», disse il Bosi.
Ma ancora i fratelli non alzarono un dito.
«Calimero?», ordinò l’Ortolina.
«Ora non ricordo con esattezza il punto, era buio e osservavo da lontano, ma... fatemi fare un giro veloce».
Il ragazzo si staccò dal gruppo e cominciò a percorrere avanti e indietro il piccolo e infestato lembo di terra, dove da anni ormai non cresceva più nulla; se non qualche ortaggio selvatico, che nemmeno gli insetti dimostravano di apprezzare.
«Signori Greppi», disse, da una decina di metri dal capannello, «se non mi sbaglio è proprio qui che seppelliste il candelabro».
A ben guardare, infatti, la terra era ancora smossa, rendendo evidente a chiunque che in quel misero angolo abbandonato da Dio, contrassegnato da una vitalba che pareva esalare il suo ultimo respiro, giaceva l’oggetto della disputa.
«Avete sentito cos’ha detto Calimero?», intimò l’Ortolina ai due appuntati, «se ora voleste, da brave persone quali dite di essere, scavare in quel punto per vedere cosa c’è sotto, ci fate un immenso piacere».
I due Greppi furono presi dallo sconforto. Sapevano che qualunque mossa gli sarebbe costata la vita e dunque non poterono far altro che obbedire.
Li supportò cinicamente l’Ambrogino che servì loro una vecchia pala tutta arrugginita, coricata su se stessa a due passi dall’ingresso dell’orto.
«Forza signori», berciò il Bosi.
Prese la pala il più giovane dei Greppi che con ritmo lento e cadenzato, quasi stesse scavando la sua tomba, cominciò a vangare. Non ci mise molto ad arrivare al dunque, e dopo pochi istanti si udì il tintinnio di un oggetto: proprio il famoso candelabro di don Filippo.
«Volete essere così gentili da recuperarlo dalla fossa e consegnarlo nelle nostre mani?».
«Cani bastardi», disse il più giovane dei Greppi, «vi pentirete amaramente di quello che ci state facendo passare».
«Lo vedremo caro Greppi», disse il Boffalora, ridacchiando, «ora sia così gentile da mostrarci il reperto una volta per tutte».
L’uomo alzò il candelabro e lo piantò davanti al naso di Calimero fulminandolo con lo sguardo; e fu evidente a tutti che, il braccio più esterno dell’oggetto, era ancora impiastrato dal sangue del povero don Filippo.

100

15 agosto

La Cesira andava di fretta, con la sua solita andatura, comica e febbricitante. Non c'erano stati questa volta topolini da eliminare la mattina presto, ma Ferragosto era arrivato e voleva che ogni cosa fosse a posto. D'altra parte, da quando era morto don Filippo, s’era presa carico da sola di tutti gli impegni e le scadenze della parrocchia e ogni giorno che passava sembrava ancora più affaccendata di prima. Peraltro non poteva contare molto sugli altri compaesani. La perpetua pareva persa in un mondo tutto suo, irrecuperabile meteora in cerca di un nuovo ospite da servire; mentre le altre donne, fra casa, figli, e mariti, avevano sempre un mucchio di cose da fare per poter stare a pensare anche ai festoni per la celebrazione religiosa. La Cesira non stava più nella pelle anche perché di lì a poco sarebbe arrivato il prete di Cavenago per dire messa; senza contare che c’era in programma addirittura una grande festa per fine serata.
Non era stato facile decidere per una chiusura in pompa magna, ma alla fine tutti i paesani erano stati felici di accogliere questa nuova proposta, arrivata da chissà dove, per sollevare animi depressi da troppi giorni; consci del fatto che lo stesso don Filippo sarebbe stato lieto di dare una bella botta alla solita routine. Peraltro il giorno prima i due Greppi erano stati consegnati alla polizia, e finalmente era stata fatta giustizia e chiarezza sulla torbida vicenda costata la vita al prete del paese. Insomma, era parere unanime che non ci fosse migliore momento per poter benedire il cielo e l’intero villaggio del vimercatese con un po’ di sano e spontaneo baccagliare.
La donna giunse in curia che il sole era sorto da poco, colorando tante nuvolette disposte una in coda all'altra, come pecorelle al pascolo. La perpetua dormiva ancora, ma aveva le chiavi per entrare in chiesa dal retro e così non dovette scomodare nessuno. Raggiunse la saletta di fianco al piccolo organo, famelica come un gattino randagio in cerca di un goccio di latte, dove erano accatastati gli ultimi paramenti da sistemare; e prese ad addobbare l’altare principale e i due laterali più piccoli, dove il prete sarebbe finito durante l’omelia per rivolgere una preghiera a sant’Antonio e a santa Lucia. Ai più sensibili una scena del genere avrebbe suscitato un sentimento a metà strada fra la pena e la tenerezza. Nel giro di un’ora aveva, d'ogni modo, fatto tutto, con il suo solito insopportabile ma necessario puntiglio. Si rilassò per qualche istante sulla panchina più esterna della chiesa, attendendo l’arrivo dei primi fedeli.
La messa prese il via alle nove in punto, come tutte le domeniche, benedetta dall’enorme crocefisso che troneggiava sopra l’altare maggiore e dal caloroso "benvenuti fratelli" del sacerdote cavenaghese, ancora con le lacrime agli occhi. La chiesa fu subito contrassegnata dal giubilare collettivo e catartico dei fedeli, raccolti in un religioso e commosso silenzio. La missione del Marengo e i suoi uomini aveva regalato un sentimento di grande felicità e distensione a tutti i parrocchiani, ma anche la consapevolezza di vivere in un mondo dannato, sempre pronto a mostrare il suo lato peggiore quando meno ce lo si aspetta. Ma finalmente era arrivato Ferragosto, una delle feste più attese dell’anno, che in qualche modo, in quest'occasione, avrebbe davvero segnato un nuovo inizio per la comunità.
In prima fila, le donne vestite di nero, reclamarono al Signore un po’ di pioggia, e lo ringraziarono per avere consentito al Marengo di fare luce sull’omicidio di don Filippo. C’erano ancora molte cose che sfuggivano al popolino, ma l’importante era che i due assassini di cascina Branca non fossero più in giro a seminare terrore. Durante la predica il curato di Cavenago ricordò ancora la figura dell’amico prete, e benché fosse venuto a conoscenza di tutti i risvolti della vicenda, del ricatto e della tresca con la giovane Agnese, non fece altro che spendere parole di encomio per il collega scomparso. 
«E ora andiamo in pace», concluse, «e se qualcuno di noi ha voglia di fare festa, ben venga, anche il Signore ne sarà contento. Ma non dimentichiamo don Filippo, che, potete starne certi, è ancora qui in mezzo a noi e lo sarà fino alla fine dei nostri giorni».

101.

Il Mario Vismara era uno dei più apprezzati musicisti della zona, a suo agio fin da bambino con gli strumenti musicali. Ogni volta che c’era da fare festa chiamavano lui, un po’ come accadeva con il Giuan da Zin quando c’era da scannare un maiale. Arrivò a bordo di un calesse malandato, trepidante per il caldo e innervosito da un battibecco avuto con la moglie prima di partire, e fu subito accolto con grande calore dai buraghesi. Dante Cereda e Giovanni Galbusera compirono quattro passi di danza per sottolineare il suo beneaugurato arrivo.
«La Cesira! Vogliamo la Cesira!», prese a sbraitare la Ilma Casiraghi.
La volevano in mezzo alle donne maritate, per festeggiare con loro, per ringraziarla del lavoro svolto e per dimostrarle una volta per tutte che, nonostante il carattere burbero, chiunque le voleva bene, come a una persona di famiglia.
La donna se ne stava in disparte, come sempre in imbarazzo di fronte all’ipotesi di lasciarsi andare. Non comprendeva, d'altra parte, la necessità da fare baccano, di divertirsi: per lei il divertimento era una sorta di tributo agli inferi. Avrebbe preferito continuare a farsi gli affari suoi o, meglio ancora, filarsela a casa per concedersi un po’ di meritato riposo. Ma le cose non dovevano andare così, visto che anche la Maria Casiraghi ci mise del suo per tirarla nella mischia:
«Senza la Cesira non possiamo dare il via alle danze! Cesira! Cesira!».
Alla fine la donna, seppur con reticenza, raggiunse il gruppo delle ammogliate, regalando loro un timido sorriso.
«Ma non pensate di farmi fare chissà che cosa», mugugnò, «non voglio dare scandalo adesso che sono già vecchia».
Rebecca Mariani le strinse la mano e la ringraziò privatamente, mentre tutte le altre presero a saltare benedette da un'elettrizzante euforia.
Perfino la Marta Bucchi si unì ai festeggiamenti, fortunatamente libera dalle malelingue che la volevano coinvolta nell’omicidio del prete. Si abbandonò a un ballo elegante e sensuale che non lasciò indifferente la lunga fila di uomini che, ancor più intontiti della Cesira, se ne stavano in mezzo alla piazza a fumare come turchi e a far finta di seguire la musica del Vismara.
«Hai capito la strega?», disse il Luciano Brioschi.
«Forse dovremmo imparare ad apprezzarla di più», disse il Marengo.
«L’avrà imparato nel corso di qualche sabba», affermò sarcastico Modesto Galli, indifferente al suggerimento del saggio del villaggio, fino a quel momento intento a parlare di mais con l’amico Pinuccio Villa.
Anche i ragazzi erano in subbuglio, esaltati da una festa che pareva promettere grandi cose. Maschi e femmine se ne stavano ai margini della piazza, separati in due gruppi, sapendo che questa sarebbe stata una ghiotta occasione per far colpo su qualcuno o qualcuna. C’erano l’Ambrogino e la Lina che non smettevano di scambiarsi occhiate languide; mentre Andrea Brambilla bofonchiava agitato con il figlio di Domenico Carimati, parlando di tutto e di niente, divorato da uno strano desiderio di scappare chissà dove. 
«E il Giannino?», domandò all’improvviso il Calimero, «si può sapere dove è finito?».
L’Ambrogino sapeva tutto, ma aveva taciuto, in accordo con il compagno di ventura. Ce ne sarebbe stato, del resto, di tempo per far circolare certe voci.
«Non ne ho la più pallida idea», disse indirizzando alla Lina un sorriso malizioso.

Ce l’aveva però l’Agnese, con la quale il Giannino, per la prima volta in vita sua, s’era messo a rimirare un affascinante spicchio di luna, non lontano dal sinuoso e sempiterno scorrere del Molgora.  

martedì 5 agosto 2014

Ferragosto # 19


91.

Giunsero al laghetto accompagnati da una brezza leggera, che fece ben sperare in un cambiamento del clima: l'esperienza gli aveva, infatti, insegnato che quando il vento si alzava dai monti, significava che non mancava molto alla pioggia. E solo Dio sapeva quanto l’avrebbero benedetta.
«Buon segno», disse il Bosi, trovando nell’argomento anche un buon motivo per tenere a bada la tensione.
«Davvero», commentò il Boffalora, «sarebbe bello che le cose cambiassero, anche se ormai quest’anno un buon raccolto ce lo possiamo solo sognare».
«Ma c’è ancora in giro un bel po’ di granoturco», intervenne il Banfi, «qualcosa potremmo ancora recuperare».
Alle porte dello stagno il Calimero rimase interdetto di fronte a tutto quel verde che cresceva così rigoglioso. Non ci era mai stato, e a parte le foreste che lambivano il famigerato crocicchio, pensava che non esistessero altri posti con tanto vigore clorofilliano.  
«Mai visto una selva del genere», confidò sottovoce al Giannino.
«Per noi di Burago è un posto ben noto», rispose l’amico, «benché capiti di rado che qualcuno passi da queste parti. Se non fosse stato per l’omicidio di don Filippo, nessuno sarebbe finito fin qui».
«Sembra un luogo di fantasmi».
«Pensa che l’Ambrogino ci è venuto da solo, e che proprio a lui ha scoperto il corpo del prete».
«Oddio, chissà che paura. Io non ci dormirei la notte».
L’Ambrogino che aveva udito tutto, intervenne con piglio autoritario.
«Non sono da tempo un piscialletto».
Lasciò a bocca aperta entrambi i ragazzi, mortificati dall’inaspettata e vanagloriosa uscita dell’amico. Evitarono, comunque, di commentare, consci del fatto che sarebbe stato assurdo, in un simile frangente, mettersi anche a litigare. Avanzarono silenziosi, in coda al gruppo, finché non si ritrovarono oltre il scintillio dello stagno, nel punto in cui poco prima, l’Ambrogino e il Giannino, erano incappati nel Marengo e nel Boffalora.
«Peggio di una foresta», disse il Banfi.
«Alla faccia della foresta», sorrise il Bosi, «qui ci vorrebbe un mulo per far strada in mezzo a questo diavolo di piante».
«Eccolo», disse, bruciapelo, il Marengo.
Davanti ai loro occhi si stagliava il carretto che avevano individuato qualche ora prima, ma con un'aria decisamente più sinistra. L’Ambrogino si portò come un falco in picchiata sull’attrezzo, indicando il punto in cui erano ancora perfettamente perscrutabili le tracce di sangue.
«Dio mio», blaterò il Banfi.
«Allora che ci dice?», domandò il Bosi.
«E’ proprio il carretto dei Greppi, non ho alcun dubbio», spiaccicò il Banfi, esterrefatto. «In cascina non ce ne sono così tanti, e quei pochi che girano sappiamo bene di chi sono e a cosa servono».
«Proprio come avevamo supposto», disse il Boffalora.
«A questo punto è perfettamente ricostruibile la dinamica dell’omicidio», sentenziò il Marengo.
Tutti penderono dalle sue labbra.
«I Greppi hanno fatto fuori in curia don Filippo, con il candelabro, come dimostra l’ecchimosi che abbiamo trovato. L’hanno caricato in fretta e furia sul carretto e portato fin qui, facendolo affogare nello stagno. In seguito hanno cercato di nascondere il mezzo in uno dei punti più inaccessibili della regione e provato a fare sparire, senza successo, il candelabro. E compilato una lettera di addio fasulla. Finalmente tutto torna».
Non si sentì volare una mosca. Non parve vero a nessuno che la vicenda fosse veramente all’epilogo e che la soluzione al mistero della scomparsa di don Filippo fosse ormai dietro l'angolo.  L’Ambrogino e il Giannino non poterono non scambiarsi un sorriso di sana e beata compiacenza.

92.

Quando giunsero di nuovo al cospetto del giudice Ortolina, i loro stomaci gridarono pietà. Da ore non mettevano qualcosa sotto i denti, e arrivate ormai le due di pomeriggio, il desiderio di divorare qualcosa si era trasformato per tutti in un umanissimo e insopportabile languore. Il primo a lamentarsi fu il Boffalora:
«Se non butto giù qualcosa svengo».
Nessuno se la sentì di ammonirlo; ma ci pensò l’Ortolina a placare gli animi della compagnia.
«Signori, se non vi offendete, sarò lieto di ospitarvi per pranzo, così potremo tranquillamente discutere della questione e decidere come muoverci per chiudere una volta per tutte il caso».
«Per pranzo?», domandò il Boffalora.
«Beh, non so se qualcuno di voi se la sente di tirare l’ora di cena…».
Risero in coro, finalmente un po’ più leggeri.
«Prego, seguitemi», disse il giudice.
Lasciarono la sala principale del Manzi per raggiungere un locale interno, riservato di solito ai famigliari del proprietario o ai clienti più intimi desiderosi di un po’ di pace. L’Ortolina aveva già sistemato tutto con i titolari, dicendo loro che avrebbe saldato l'indomani l'intero debito. Non gli fu difficile passare per un valido istrione e padrone di casa, sapendo perfettamente come comportarsi e prendersi certe libertà. D'altra parte lo poteva fare: con tutti i pranzi e le cene che consumava in quel ristorante, c'era da fargli un monumento per la fedeltà riservata ai piatti del vimercatese.
Sedettero a un grande tavolo circolare, tipo i cavalieri della tavola rotonda, aspettando che la Ivana, la ragazza che abitualmente serviva trippe e cassuole, giungesse al loro cospetto con una bella brocca di vino e un po’ di pane.
La giovane, i cui bellissimi occhi non erano sfuggiti a quella vivace platea maschile pronta a rifocillarsi, non ci mise molto a soddisfare le esigenze dei commensali. I più stupiti furono i ragazzi, abituati alle povere mense casalinghe; e qui invece trattati come uomini d’alto rango, meritevoli delle migliori prelibatezze della regione. In effetti, erano in compagnia di ben due sindaci, un giudice, e di un umile ma lungimirante padre di famiglia che, se avesse avuto un po’ più di fortuna, sarebbe potuto essere uno dei principali proprietari terrieri della zona.
«Dunque, signori, ditemi bene come sono andate le cose», esordì l’Ortolina.
Il Marengo indicò l'abitante di cascina Branca con un cenno del mento.
«Posso giurare che quello è proprio il carretto dei Greppi», disse il Banfi, serafico, appoggiato dal figlio che annuì con vigore.
Anche gli altri uomini andati in perlustrazione fecero capire che era quello il carretto incriminato.
«In realtà, è emerso un dato ancora più interessante», disse il Marengo.
«In che senso?», chiese l’Ortolina.
«Vuoi spiegarlo tu?», domandò il Marengo a Calimero.
Il ragazzo deglutì imbarazzato e prese a raccontare quel che aveva visto.
«Doveva essere la sera del 2 agosto, o del 3. Ho incontrato i Greppi poco fuori la cascina e mi volevano vendere un candelabro. Gli ho risposto che non avrei potuto acquistarlo perché non avevo i soldi, e poi ho lasciato morire la cosa. Non avrei mai immaginato, infatti, che potessero averlo utilizzato per uccidere don Filippo; anche perché all’epoca non sapevo nulla della triste fine del prete di Burago».
L’Ortolina sbigottì, comprendendo in pochi secondi che tutto quadrava alla perfezione, come le perfette geometrie di un fiocco di neve.
«Allora, miei signori, direi che non c’è altro da aggiungere».
Nessuno obiettò.
«Compiliamo immediatamente un mandato di perquisizione e arresto e partiamo per cascina Branca».
«Quanto ci vuole per...».
Il Boffalora non finì la frase.
«Stasera faccio tutto e domani possiamo andare a incastrare quei farabutti», disse l’Ortolina.
«Benissimo, direi», commentò il Bosi, «Marengo, cosa ne pensa?».
«Assolutamente d’accordo. Se vorrete noi potremo farci trovare già qui per l’alba».
«Ora mangiamo signori», disse l’Ortolina, «e con lo stomaco pieno prenderemo le ultime decisioni».
Arrivarono le portate più abbondanti che avessero mai sognato. Fu un pranzo davvero felice e piacevole. E per fortuna non si parlò solo dell’assassinio di don Filippo.

14 agosto

93.

Con la pancia piena s’erano dati appuntamento per l’indomani alle sette, davanti alla cascina San Paolo. Non c’era particolare fretta, ma l’ansia di poter mettere al muro i due Greppi, contagiò un po’ tutti. Il Marengo avrebbe preferito limitare a pochi uomini la missione, ma non gli fu possibile non invitare l’Ambrogino e il Giannino; rendendosi perfettamente conto che il loro contributo alle ricerche era stato determinante e ora che arrivava la parte più succulenta dell’incredibile storia, non gli pareva corretto fare finta di niente ed escluderli.
Alle sette di mattina in punto, della vigilia di Ferragosto del 1855, sfilarono, dunque, di fronte alla cascina più meridionale del vimercatese, come un battaglione pronto alla riscossa, il Marengo, il Boffalora, il Bosi, l’Ortolina e i due ragazzi.
«Ci siamo», bofonchiò il Bosi, ancora assonnato.
«Pronti a stanare quei maledetti assassini», disse il Boffalora.
«Non sarà una passeggiata, ma temo che questa volta non avranno modo di scamparla», berciò il Marengo.
«Bene, allora, si parte, fate strada voi che io in quel covo di matti non ho ancora avuto il piacere, o il dispiacere, di metterci piede», disse l’Ortolina.
Non intervennero l’Ambrogino e il Giannino, per il sonno arretrato, che cominciava a pesare anche sulle loro palpebre, e per il pudore derivante dal fatto di poter far ufficialmente parte del manipolo di uomini che avrebbe finalmente regalato ai buraghesi la verità sulla fine di don Filippo; ma in cuor loro non vedevano l’ora di  poter fronteggiare i due malavitosi e gridare al cielo il loro entusiasmo.
«Stai pensando anche tu a quello che sto pensando io?», chiese il Giannino all’amico.
«Se anche tu stai pensando alla faccia che faranno quando ci vedranno arrivare…».
«Proprio, cani malefici, finalmente avrete la vostra croce».
Non dissero altro e proseguirono in coda ai grandi, con lo sguardo concentrato e attento a ogni minimo sussulto del quartetto apripista. Ormai i giochi erano fatti, ma davvero fu difficile per chiunque prevedere quale sarebbe stato il reale epilogo della vicenda e in che modo avrebbero gestito la furia dei Greppi; e questa consapevolezza, nei più giovani, trovò sfogo in nervose smorfie del viso o inconsulti gesti delle braccia, tipo quello inteso a mimare un incontro ravvicinato con lo spettro del crocicchio.
La giornata prendeva il via preannunciando il solito solleone. Faceva già un caldo della malora, e il cielo non lasciava presagire ad alcun cambiamento imminente, alla faccia della brezza goduta il giorno prima. A un certo punto del tragitto fu per tutti possibile rimirare le lontane cime della catena del Monte Rosa, cosa che accadeva solo nelle giornate più limpide e soleggiate, lo spettacolo ideale per cacciare i cattivi pensieri.
«Ci siete ragazzi?», domandò il Marengo, attraversando il ponte sul Molgora.
«Prontissimi», risposero in coro, pur non comprendendo la necessità di compiere un giro così lungo per arrivare a cascina Branca.
«Forse vogliono passare a prendere qualcuno da Burago», disse il Giannino, non appena il Marengo riprese a trotterellare con gli altri.
«Mah, secondo me l’hanno fatto perché non c’è nessuna premura e per avere tutto il tempo per preparare al meglio la sortita».
«Può essere».
Dopo una decina di minuti scorsero all'orizzonte il pittoresco e confusionario profilo della cascina: il grande momento era finalmente arrivato.

94.

Imboccarono il lungo sentiero che conduceva alla tenuta situata sulla strada per Ornago. L’Ortolina disse a tutti di stare tranquilli che già in altre occasioni s’era trovato a dover affrontare assassini come i Greppi. Spiegò che di fronte a certe prove non c’era la speranza che potessero farla franca. E che quindi si sarebbero arresi senza tante storie.
«E se ci affrontassero con qualche arma strana?», domandò il Boffalora.
«Non andrebbero comunque molto lontani con un bel mandato di cattura che potrebbe trasformarsi rapidamente in una condanna a morte. In ogni caso questa vi stare meglio?».
Il giudice estrasse una pistola che possedeva da una vita, e che non dimenticava di rispolverare ogni volta che si trovava a dover fare quadrare qualche conto.
«Anche questo potrebbe servire», disse il Marengo estraendo un coltellaccio dal fondo dei pantaloni.
Lo guardarono sbalorditi: nessuno si aspettava che un uomo così saggio e retto come il Marengo potesse avvalersi di un simile oggetto.
«Non è certo nel mio stile, ma bisogna essere preparati a tutto», aggiunse, con un sorriso belligerante.
«Ben detto, Marengo», disse il Bosi, «così stiamo in una botte di ferro».
Da lontano intravidero la Biraghi che trafficava con un catino malconcio; pensarono che stesse preparandosi a lavare i panni o a stenderli. Fecero finta di niente e proseguirono per la loro strada, limitandosi a un saluto cordiale. Mantennero lo stesso atteggiamento anche transitando di fronte alla casa dei Banfi, benché fossero d’accordo che a un certo punto sarebbero entrati anch’essi in azione, per essere certi di avere la meglio sui due farabutti. C’era sulla porta solo la signora di casa.
Il Bosi la salutò strizzando un occhio, presto imitato da tutti gli altri della missione.
L’aia era deserta. Gran parte degli uomini era già a spasso nei campi e le donne in casa a sistemare i letti o a pulire qualche stanza. La casa dei Greppi apparve di fronte ai loro occhi in tutta la sua esuberante peccaminosità. Sembrava ancora più ridondante di quando l’avevano vista pochi giorni prima, come se nel frattempo nuovi lavori avessero contribuito a renderla ulteriormente sfarzosa. Intorno non c’era anima viva. Le finestre e il cancello del giardino erano chiusi. Così le persiane. Fu per tutti evidente che i due fratelli stessero ancora dormendo. Niente di strano, visto che spesso tiravano tardi ubriacandosi e poi svegliandosi quando il sole era già alto da un pezzo.   
«Sono ancora nel mondo dei sogni», blaterò il Boffalora.
«Così sembra», disse il Bosi.
«Che facciamo Ortolina?», domandò il Boffalora.
«Muoviamoci piano. Potrebbe essere una messa in scena».
«Cosa vuole dire?», domandò l'Ambrogino.
«Magari ci hanno già visti e stanno studiando le nostre mosse da qualche pertugio».
L’Ambrogino e il Giannino, per la prima volta, provarono paura. Un sentimento vivo e tenace che gli strinse la gola e gli tolse il respiro. Ma fecero di tutto per mostrarsi impavidi e risoluti: erano ormai pronti a tutto.
«Vado avanti io», disse il giudice, infilando la mano nella tasca dove custodiva la pistola.
Dietro di lui in fila indiana si mossero il Marengo, il Bosi, il Boffalora e infine i due giovani.
«Ci siamo», disse l’Ortolina, provando a bussare alla porta principale della casa.
Non arrivò alcuna risposta. Riprovò con più vigore. Ancora nulla.
«Nel caso dovremo sfondare la porta», suggerì il Bosi.
«È proprio quello che sto per fare», disse spavaldamente il giudice.

95.

L’uomo da cento chili prese una bella rincorsa e come un pachiderma vinse l’uscio dei Greppi, proiettando la porta a un paio di metri di distanza, che si frantumò a terra a mo’ di un vaso di porcellana.
«Sarà anche una bella casa, ma questo legno non vale niente», ironizzò l’Ortolina.
Nella casa dei Greppi si respirava un odore acre, tipico delle dimore che vengono aperte raramente, con fuori oltre trenta gradi. All'Ambrogino parve di respirare lo stesso olezzo percepito in casa di don Filippo, durante la veglia funebre. Era lo stesso odore di marcio. Del resto i due, in estate almeno, trascorrevano quasi tutto il tempo all'aria aperta, nel giardino o nell’orto, dove qualche volta avevano anche provato a passare la notte. Era buio, ma si potevano intravedere i mobili e qualche elegante quadro alle pareti, in antitesi alla sciatteria comportamentale dei due malfattori.
«Dio...», si sentì bestemmiare a voce alta.
Il rumore della porta che crollava aveva destato i due Greppi che coperti dalle sole mutande si precipitarono all’esterno della stanza per capire cosa stesse succedendo. Si presentarono agli occhi dei presenti con le croste agli occhi, la barba sfatta, come due moribondi in fuga da una guerra civile.
«Ancora voi?», domandò il più vecchio dei due, incredulo di fronte a quella accozzaglia di uomini agguerriti.
«Ancora noi, Greppi», esordì il Bosi, «e se non volete peggiorare le cose vi conviene sedervi, darvi una calmata e starci a sentire. E se doveste avere qualche dubbio sulla nostra perentoria azione, ecco qui un bel mandato di perquisizione».
I due Greppi cercarono di mantenere la calma, ma non fu facile. Ancora si sentivano liberi e immacolati, e non comprendevano come degli sconosciuti potessero trattarli tanto male in casa loro. Tentarono di rientrare nei gangheri, individuando un modo banale, ma sufficientemente credibile per alleggerire la situazione e deviare il discorso.
«Vorreste almeno lasciarci indossare qualcosa?».
«Oh, certo, ma preferiremmo che qualcuno controllasse le vostre mosse», disse l’Ortolina, «non vi dispiace se vi seguo con questo piccolo giocattolo?».
Il giudice estrasse la pistola e accompagnò i due sgherri in camera, mentre il Bosi apriva un paio di imposte per vincere le tenebre di una notte non ancora evaporata.   
«Quanto chiasso per nulla», obiettò il più giovane, «vi sembra questo il modo di intrufolarsi nella casa di gentiluomini?».
«Vedremo se siete davvero dei gentiluomini», disse l’Ortolina, «se adesso avrete la compiacenza di rispondere alle nostre domande, potremo risolvere ogni dubbio».
Sul volto del più anziano dei Greppi si disegnò un ringhio diabolico. Dentro di sé si materializzò la volontà di vendetta. Se solo avesse avuto la possibilità di recuperare il suo archibugio, che custodiva gelosamente in un anfratto del muro della cucina... gliela avrebbe fatta vedere lui.
«Buh!», urlò il più giovane dei Greppi al Giannino, che prese a sussultare come una foglia.
«Si sieda, Greppi!», ordinò l’Ortolina, con la pistola piantata, «e non faccia tanto il gradasso».
I due fratelli si accomodarono spavaldi sulle proprie poltrone, pronti a difendersi come antichi gladiatori.

«Bene, se siete d’accordo, e anche se non lo siete, direi che possiamo iniziare con l’interrogatorio. Marengo, vuole partire lei?». 

sabato 2 agosto 2014

Ferragosto # 18

 


13 agosto

86.

Le tracce individuate dal gruppetto in ricognizione intorno al laghetto dell’omicidio, parlavano fin troppo chiaro: qualcuno aveva caricato sul carretto un cadavere, per poi farlo sparire, magari proprio nelle acque melmose dello stagno. Fu impossibile, certo, per i buraghesi ammettere che quello fosse veramente il sangue di don Filippo, tuttavia ogni supposizione spingeva proprio in quella direzione.
L’indomani si dettero appuntamento in piazza della chiesa con un intento ben preciso: sferrare l’ultimo colpo agli unici sospettati, i due fratelli Greppi di cascina Branca. Mancavano i tre uomini al lavoro per i campi, ma non l’Ambrogino e il Giannino, i primi a raggiungere il luogo del puntello.
«Bravi ragazzi, è ora di dirvi che senza di voi le cose sarebbero andate diversamente, avremmo fatto molta più fatica, e forse oggi non saremmo qui a un passo dalla soluzione del mistero», disse il Marengo.
Si sciolsero, quasi, i due giovani, che non vedevano l’ora di sentirsi dire dal saggio della comunità che il loro contributo era stato determinante. L’Ambrogino strizzò l’occhio all’amico, mettendosi in cammino verso Vimercate.  
«Non abbiamo altra scelta, se non quella di interpellare qualcuno della cascina per sapere se hanno già visto in giro il carretto», disse il Boffalora.
«Speriamo di farcela prima di sera. Meglio far quadrare subito i conti», disse il Marengo.
All’altezza della cascina di San Paolo, il Giannino fu vittima di un attacco di raffreddore. Starnutì per una ventina di volte, e quasi finì per rimanere senza fiato.
«Che diamine ti prende, ragazzo mio? Come fai ad avere il raffreddore in piena estate?», domandò  il Boffalora.
«Conosco altre persone con questo problema», disse il Marengo, «probabilmente è dovuto alle piante».
«In che senso?», domandò l’Ambrogino.
«Le piante rilasciano nell’aria sostanze che in alcuni soggetti provocano malesseri come questo».
«Ma è grave?», chiese il Giannino, in apprensione.
«Non credo, e comunque se vorrai, quando questa storia sarà finita, potremo parlarne a Gandolfo. Oggi con la medicina si possono fare cose miracolose».
Ripresero in silenzio il cammino e in una ventina di minuti giunsero alle porte di Vimercate. Non fu difficile scovare il sindaco della cittadina, a quell’ora come sempre a passeggio per il centro, per assicurarsi che tutto fosse in ordine e non corresse il rischio di farsi scappare qualche importante pettegolezzo.
«Sindaco», berciò il Marengo, «proprio lei».
«Oh, Marengo, di nuovo fra noi. Scoperto qualcosa di interessante?».
Il Marengo spiegò tutto al Bosi, della lettera, dell’Agnese e del fatto di voler interpellare qualche abitante di cascina Branca per capire se il carretto trovato apparteneva davvero al duo sospetto.
«Si può fare, certo, se lo ritenete opportuno: le macchie di sangue sono sicuramente un indizio importante che va approfondito. Questa storia dobbiamo chiuderla al più presto».
Si mise a pensare all’incredibile coinvolgimento di una ragazzina, fumando con foga il suo sigaro, mentre gli altri si guardavano intorno per allentare la tensione.
Il Giannino riprese a starnutire, ma per fortuna, questa volta, non andò oltre i cinque colpi.
«Per l’occasione vorrei proporvi l’Ortolina».
Era un giudice, da tempo residente a Vimercate, che, nonostante l’età, aveva ancora il potere di emanare mandati di cattura.

87.

«Addirittura?», domandò il Boffalora.
«Con lui siamo sicuri di poter giocare al meglio le nostre carte». 
«Se lo dice lei», mugugnò il Boffalora, «sicuramente ne sa più di noi che non siamo così abituati a storie del genere».
Il Marengo lo squadrò con sufficienza: ancora non riusciva ad amarlo come avrebbe voluto, nonostante le tante ore di lavoro trascorse gomito a gomito.
«Cosa suggerisce?», chiese il Marengo.
«Beh, andiamo di corsa a cercarlo. A quest’ora starà di sicuro a parlare di politica al bar del Manzi».
Si trovava nel cuore di Vimercate, di fianco alla chiesa di Santo Stefano, nei pressi delle famose carceri, dove nel Medioevo venivano spediti i farabutti della zona. Si diceva che anche qualche Visconti finì in quelle secrete, dopo avere compiuto qualche nefandezza. All’epoca non c’era grande rigore morale, e fra le alte cariche del milanese era normalissimo pugnalarsi alle spalle, non solo metaforicamente e sfruttare meschinamente persone poco abbienti, che nessuno tutelava, per poter soddisfare i propri interessi e desideri; comprese innocenti creature colpevoli solo di avere due occhi belli come il cielo.
«Pazzesca la storia di don Filippo», disse il sindaco di Vimercate, in marcia verso il ritrovo del Manzi.
«Non lo dica a noi», rispose il Marengo, «non riusciamo ancora a riprenderci dall’accaduto».
«C’è in giro della gente che non è degna di stare al mondo».
«Lo può dire forte», intervenne il Boffalora.
«Ma questa ragazzina è stata informata di tutto questo macello?».
«Non è stato facile, ma è andata anche questa», continuò il sindaco di Burago.
«E i suoi genitori?».
«Probabilmente non ne sanno nulla», disse il Marengo, «a tempo debito provvederemo a informarli. Non sarà una passeggiata».
«Mi metto anche nei panni della ragazzina».
«Altroché», disse il Marengo, «così giovane potrebbe cadere vittima delle malelingue».
«E’ un pericolo che dobbiamo scongiurare», disse il Boffalora.
«Come?», domandò il Bosi. 
«Vedremo», disse il Marengo, «adesso è più impellente cercare di chiudere il caso, mettendo al muro quei due delinquenti, prima che commettano qualche altro delitto. Abbiamo prove a sufficienza per incastrarli».
Percorso la via principale del villaggio a passo spedito, come se ad aspettarli ci fosse stato l'onnipotente in persona, e arrivarono dal Manzi con il fiatone. Osservarono con puntiglio il ritrovo dall’esterno, elegante per i tempi che correvano, con due belle piante ai lati dell’ingresso e un’insegna ben disegnata che invitava a sedersi e a consumare qualcosa. Inquadrarono al volo l’Ortolina seduto a un tavolo del bar, con un giornale fra le mani e, di fronte, un bicchiere di vino bianco e a una signora che trattava di zucchine con un oste trafelato e nervoso.
«Signor Ortolina, buongiorno», disse il primo cittadino di Vimercate.
Il giudice si stupì di vedere tanta gente in un sol colpo e per poco non traballò su se stesso come un boccale di birra appena spillato.
«Sindaco, buongiorno a lei».
«Questi sono miei ospiti. Stiamo indagando su un caso spinoso».
Li fissò uno a uno per sincerarsi di avere a che fare con gente per bene. Si tranquillizzò quando vide la faccia pulita dei due ragazzi.
«Orbene, sindaco, sono qui per lei. Ditemi tutto quello che vi serve».
Il primo cittadino di Vimercate svuotò il sacco, lasciando letteralmente a bocca aperta il famoso rappresentante della giustizia locale.

88.

«È una faccenda a dir poco sconvolgente», disse l’Ortolina.
«Può dire giuro», mormorò il Bosi.  
Il giudice si alzò dalla sedia, alla quale era appollaiato come un barbagianni a una grondaia all’imbrunire, e cominciò a ruotare, tarantolato, intorno al gruppetto di visitatori. Alzava gli occhi al cielo, respirava profondamente, e ogni tanto si fermava per emettere una specie di rutto sommesso. Data la sua mole, non c’era da stupirsi se aveva appena finito di divorare qualche succulente pietanza, benché fosse ancora mattina.
«Possiamo confermare il mandato di persecuzione... e di arresto», disse l’Ortolina, «ma prima sarebbe utile che qualcuno confermi la paternità del carretto. Se dovessimo scoprire che il carretto è proprio quello dei tipi della cascina, siamo a cavallo».
«Altrimenti?», domandò il Marengo.
L’Ortolina lo guardò disincantato.
«Altrimenti dobbiamo far saltare fuori qualche altro indizio».
«Altri indizi non ne abbiamo, e sarebbe anche il caso di darci una mossa», disse il Boffalora, con aria insofferente.
«Boffalora», disse il sindaco di Vimercate, «io e lei rivestiamo lo stesso ruolo, ma sembra che il caso stia più cuore a me che non a lei, benché riguardi il suo paese».
Raimondo dondolò la testa, cercando di non dare peso alle parole del collega; ma in cuor suo sapeva benissimo che aveva ragione: non ne poteva più di questa storia e se fosse stato per lui sarebbe volentieri tornato a casa per girovagare fra le vie del proprio borgo, per parlare con i compaesani, affrontando tematiche a lui ben più congeniali, fossero state anche le solite e stupide trivialità legate a qualche concittadino che aveva esagerato un po’ con il bere.
«Come potremmo muoverci?», chiese umilmente il Marengo.
L’Ortolina, ciondolando, come un otre piena di acquavite, pensò che tanto valeva ripresentarsi alla cascina Branca, per far visita a qualche vicino dei fratelli indagati, in grado di confermare le supposizioni del Marengo e dei suoi uomini.
«Sindaco», disse il giudice, «chi conosce di fidato a cascina Branca?».
Il primo cittadino di Vimercate pensò rapidamente agli abitanti della piccola frazione di Vimercate e non ebbe difficoltà a individuare la famiglia che faceva al caso loro. Da anni vivevano nel vimercatese, erano bravissime persone, timorate di dio, sempre a disposizione degli ultimi e del prossimo. Vivevano in cascina Branca perché dopo un rovescio economico, dovuto a un pesante furto, avevano trovato lavoro solo lì.
«I Banfi», berciò il Bosi, «più volte ho avuto a che fare con loro e so di per certo che contribuiranno felicemente alla causa».
«Bene allora», disse il giudice, «non perdiamo altro tempo e raggiungiamo i nostri amici… non vorrei che i Greppi se la dessero a gambe».
«Ben detto», blaterò il Boffalora, «prima partiamo, prima finiamo».
Lo biasimarono anche i due più giovani.
Si misero in cammino lasciando il sindaco di Burago nel suo brodo e pensando al modo ideale per poter incontrare i Banfi senza dare nell’occhio. Trovarono la soluzione ipotizzando di spedire una sola persona a destinazione, mentre tutti gli altri avrebbero aspettato dalle parti della cascina San Paolo.
«Ci vado io che li conosco già bene», disse il sindaco di Vimercate, entusiasta per la febbricitante situazione, «così se rivedo la Birgahi, saprò cosa raccontarle per tenere cucita la bocca».
Nessuno obiettò e l’ultimo capitolo dell'incredibile saga buraghese giunse al via.

89.

Era quasi mezzogiorno quando il sindaco di Vimercate bussò alla casa dei Banfi. Lo accolse la moglie di Giuseppe Banfi, in piena tenuta a lavoro, con le maniche rimboccate, e delle gocce di sugo fresco che pitturavano qua e là il grembiule.
«Sindaco, qual buon vento».
«Signora, mi faccia entrare che certi argomenti non possono essere affrontati qui sull’aia».
La donna deglutì amaramente, non capendo tutta quella fretta; diamine, s'erano appena salutati. Che voleva da lei il primo cittadino del paese?  Le sue visite, del resto, erano così sporadiche che anche senza tutto quell'affanno, avrebbero comunque suscitato una certa apprensione. La povera signora provò una paura incondizionata, perché all'improvviso temette di non avere risolto l’ultima tassazione. Ma si rese immediatamente conto che il rischio non c'era, perché lei stesa s'era recata qualche mese prima in centro per risolvere la semestrale incombenza. Le cose non quadravano. Ci doveva essere dell’altro.
«La prego, sindaco, si accomodi pure. Gli uomini sono ancora in giro per lavoro, ma può dire a me».
«Proprio di loro avrei bisogno».
«Oh, beh, allora aspetti qualche minuto che arriveranno… saranno già in strada, a quest'ora».
La donna invitò il sindaco a raccontarle qualcosa, ma l’uomo preferì aspettare l’arrivo dei contadini. Tergiversò parlando del tempo.
«Se andiamo avanti così brucia tutto».
«Speriamo per Ferragosto», disse la donna, «la Madonna pregherà per noi».
«Speriamo, tutto il vimercatese sta patendo una sete senza precedenti. Anche gli animali hanno iniziato a morire. Una moria terrificante».  
«Mi viene in mente il morbo del 1845».
«Appunto, ci manca solo quello».
Sentirono l’uscio aprirsi di colpo, e i due uomini di casa varcare la soglia devastati dal calore e dalla stanchezza. Quando videro il Bosi strabuzzarono gli occhi increduli, farneticando mentalmente come aveva fatto pochi istanti prima la signora Banfi.
«Sindaco».
«Buongiorno Banfi, non faccia quella faccia. Non sono qui per voi, ma...».
«Ma?», chiese il figlio Calimero, mentre riponeva il cappello su uno spuntone dello spartano appendiabiti della cucina.
«Ma di un fatto di cronaca che riguarda Burago».
«Non sarete mica qui per la faccenda di don Filippo», intervenne la signora Banfi.
«Allora avete saputo anche voi», disse il sindaco.
«Eccome, non si parla d’altro. Povero don Filippo, chissà quanti dispiaceri avrà avuto per compiere un gesto del genere», disse Calimero.
Il primo cittadino di Vimercate sogghignò.
«Fosse davvero così come la dipingete voi... non vi ha detto nulla la Biraghi?».
«Parliamo poco con loro, non corre buon sangue».
«Capisco».
«Ma cosa intende dire che non è come dipingiamo noi la situazione?», chiese il capofamiglia. 
«Adesso non c’è tempo per spiegarvi ogni cosa, dovete seguirmi».
«Ma sindaco», obiettò la signora Banfi, «mettete almeno qualcosa sotto i denti».
«Avremo modo di rifocillarci quando questa faccenda sarà chiusa. Ci sono già delle persone che ci aspettano».
I due Banfi si guardarono costernati: fosse stata qualunque altra persona non le avrebbero dato retta, ma era il Bosi, impossibile far finta di niente.
«D’accordo sindaco», disse il Banfi, «anche se non sappiamo cosa ci attende, se può servire a qualcosa la nostra presenza...».

90.

Si ritrovano con gli altri poco fuori l'abitato di Vimercate, dalle parti di cascina San Paolo, alle porte di Burago. I Banfi nel vedere quegli sconosciuti rimasero ancora più stupiti. A questo punto, però, il Bosi narrò per filo e per segno l’intera faccenda ai due di cascina Branca, il minimo che potesse fare.  
«Avevamo sentito di don Filippo, ma non pensavamo che in qualche modo potesse essere coinvolta una famiglia della nostra cascina», disse il Banfi.
«Insomma, la situazione è decisamente più intricata di quanto si sospettasse all’inizio», disse il Marengo, dopo essersi presentato. «Don Filippo non è morto per mano sua, ma è stato brutalmente assassinato. Le prove non mancano, ma abbiamo bisogno di una vostra conferma».
I Banfi si guardarono sempre più perplessi, ma ormai rassegnati.
«Abbiamo trovato un carretto dalle parti dello stagno, e supponiamo che possa essere stato utilizzato per il trasporto del cadavere di don Filippo, o comunque del suo corpo ancora agonizzante», andò avanti il Marengo.
«Vi abbiamo interpellato perché vorremmo che ci aiutaste a identificarlo», precisò il Boffalora.
«Ma di chi dovrebbe essere questo carretto?», domandò il Calimero.
«Vi dicono niente i fratelli Greppi?».
«Dio mio!», esclamò il Banfi, «non vorrete mettermi contro quei brutti ceffi?».
«Non si preoccupi, se le indagini andranno a buon fine, fra poco tempo se ne staranno al fresco per il resto dei loro giorni», disse il Bosi.
«I Greppi?», domandò all’improvviso il Calimero.
«Già», gli disse il Giannino, al suo fianco nel cammino verso il laghetto.
«E pensare che li ho incontrati proprio pochi giorni fa... mi volevano vendere un candelabro».
Sentendo queste parole, i presenti si girarono sbalorditi verso il giovane vimercatese, chiedendosi se avevano udito correttamente quel che aveva sentenziato.  
«Come, scusa?!», domandarono all’unisono il Marengo e Boffalora.
Il Calimero quasi si spaventò.
«Che ho detto di male?».
«Non hai detto nulla di male, anzi», mugugnò il Marengo, «ma saresti gentile da ripetere quello che hai detto?».
Il Calimero spalancò gli occhi incredulo di fronte all’interesse mostrato per la sua ultima affermazione, che gli pareva del tutto insignificante. 
«Ho semplicemente detto che qualche giorno fa hanno tentato di vendermi un candelabro».
Il Marengo e gli altri uomini si fissarono conturbati: con questa notizia avevano fatto centro.
«E tu cosa gli hai risposto?».
«Beh, era d’argento, non avevo certo i mezzi per poterlo acquistare».
«Incredibile», sussurrò l’Ambrogino al Giannino, «se lo avessimo saputo prima, avremmo già potuto incastrarli».
«Questa è proprio bella», disse il secondo. 
Il Marengo diede una pacca sulla spalla al Calimero che, avendo capito l’importanza della sua confidenza, si stava gonfiando pieno di orgoglio.
«In realtà, non è finita qui», aggiunse il ragazzo.
«Che c’è ancora?», gli chiese il padre, anche lui in qualche modo stupefatto dall’uscita del figlio.
«Dopo averli incontrati, non so perché, li ho seguiti senza farmi vedere. E ho visto che si dirigevano verso l’orto abbandonato dei Brambillasca. Lì hanno scavato una buca bella profonda e hanno seppellito il candelabro».

Il Marengo e il Boffalora non potevano credere alle loro orecchie. Guardarono il Bosi con grande soddisfazione. Il cerchio poteva dirsi definitivamente chiuso. Il carretto sarebbe stata la conferma principe.