56.
Il più vecchio si
fece scappare una specie di rutto e a fatica contenne il nervosismo. Si alzò di
scatto e reclamò autorevolmente la sua totale estraneità ai fatti.
«Non vediamo don
Filippo da qualche settimana, non è vero fratello?».
«Assolutamente. Forse
siamo stati là che era ancora primavera».
Il Marengo e gli
altri non fecero una piega, incapaci di capire se stessero dicendo la verità o
meno, benché le loro facce avrebbero potuto fare paura agli spettri.
«Come vi abbiamo
accennato», proseguì il più anziano, «andavamo a far visita sporadicamente al
prete… forse una o due volte all'anno, tre al massimo. Le sue parole erano per
noi di gran conforto. Certo, ora che ci dite che ha fatto questa brutta fine…».
«Non ci sembra
vero, non può essere vero», disse il più giovane, «l'ultima volta che l'abbiamo
visto stava benissimo, era in gran forma, come sempre. Ci aveva parlato dei
nuovi lavori che voleva fare nell'orto».
«E della luna
giusta per seminare una nuova varietà di insalata», precisò il più grande.
«Ma come è
potuto annegare? E dove?», chiese il più piccolo.
«Non sappiamo se
è veramente annegato», disse il Marengo, «potrebbe anche essere stato
assassinato o, purtroppo…».
«Cosa?!»,
domandò con grande enfasi il più giovane dei Greppi, «vorrete mica farci
credere che si sia…».
«C'era un
biglietto sulla sua scrivania», disse il Boffalora, «che lascia intuire il
peggio».
I due Greppi si mostrarono
molto costernati, al punto che i buraghesi e il Bosi ebbero difficoltà a pensare
che stessero barando. Capivano che ci fosse qualcosa di strano nelle loro
parole, ma il modo in cui si posero, era perfettamente in linea con il
sentimento che avrebbero potuto patire persone disperate per la triste sorte di
un caro.
«Nulla che lo
preoccupava, secondo voi?», chiese il Marengo.
«Niente di
niente», disse il più giovane dei Greppi, «ci offriva sempre un bicchiere di
vino. Era cordiale con tutti, figuriamoci con due vecchi amici come noi».
La confessione
dei due Greppi non lasciò adito a supposizioni che potessero metterli davvero in
imbarazzo. Non poterono quindi insistere oltre l'evidenza, oltre l'innocenza. Gli
improvvisati investigatori dovettero mollare il colpo. Anche se, in cuor suo,
il Marengo fu tutt'altro che convinto. Trovò, infatti, la ricostruzione
rilasciata dai due fratelli in completa antitesi a quella fornita dalla
perpetua e da Felice. La donna, in particolare, aveva rivelato che i toni delle
conversazioni fra il prete e i Greppi erano stati tutt'altro che amichevoli,
mentre i due fratelli insistevano nel dire che fra loro correva ottimo sangue.
Qualcosa non tornava. Era evidente. Qualcuno mentiva, e non c'era ragione di
credere che il falso fosse appannaggio di una povera donna al servizio della
chiesa.
Insomma, fu
impossibile dire, per il momento, in che modo potessero essere legati alla
morte di don Filippo, ma di sicuro c'era sotto del marciume. Il Marengo ne fu sicuro.
Lui e il Bosi si
scambiarono un'occhiata di complicità, entrambi convinti che non ci fosse
granché da aggiungere.
«Bene allora, possiamo
anche levare il disturbo», disse il Brambillasca, perso in una dimensione tutta
sua, ma in qualche modo ancora vigile e attento.
«Non c'è altro
da dire, in effetti», aggiunse il Marengo.
Il congedo
definitivo avvenne a opera del primo cittadino di Vimercate, che con grande
diplomazia si liberò della morsa dei Greppi, portando il discorso da tutt'altra
parte.
«Allora scusate ancora
la nostra intromissione. Ma ricordatevi di passare dal comune per sistemare gli
aspetti burocratici legati alla vostra permanenza in paese. Sennò fioccano le
sovvenzioni».
«Verremo sindaco
a fare tutto ciò che ci tocca, anche in onore del nostro amato avo che fra queste mura ha vissuto gran parte
della sua vita».
Si guardarono
con sufficienza e un po’ di amaro in bocca.
«Bene, buona
giornata a voi», disse il Bosi.
«A voi», dissero
in coro i Greppi, senza scomodarsi.
Felice li guardò
con la coda dell'occhio prima di superare la soglia dell'uscio: sul loro volto
era disegnato un orribile ghigno.
57.
10 agosto
Il Marengo non
ebbe una notte facile, e dovette fare i conti con miriadi di pensieri che si
accavallarono senza sosta nella sua mente. Pensieri e incubi, sogni e risvegli
con l'acqua alla gola. Fu addirittura peggio delle ore trascorse all'indomani
della scoperta della scomparsa del prete. Troppe cose non gli tornavano e più
ci pensava, più andava in tilt. Il punto è che c'erano tutti i presupposti per
poter partire seriamente con le indagini, ma non sapeva da che parte iniziare.
Mancava un vero appiglio, qualcosa che potesse dargli il la per arrivare a
svelare tutto ciò che si nascondeva dietro la misteriosa morte di don Filippo.
Lo trovò riflettendo sul fatto che nessuno, a parte il Giannino, aveva ancora
rovistato la casa del curato; c'erano magari tracce, indizi, indicazioni, nascoste
chissà dove, in grado di chiarire molti passaggi ancora oscuri. Di fatto, era
stato trovato un biglietto, ma era troppo poco: sembrava dire tutto, ma in
realtà, non diceva un bel niente. Il Giannino, il sindaco, la perpetua… chi di
loro s'era dato da fare in tal senso? Nessuno. Se ne rese conto e capì che
anche questa incombenza l'avrebbe dovuta assolvere lui, prima che fosse troppo
tardi.
Si alzò a bere
un bicchiere d'acqua, gironzolò per qualche minuto per la casa come uno zombie,
e quando tornò a coricarsi si vide costretto a trovare un modo per sollevare la
schiena, perché gli mancava il respiro. Si sentì un rottame e per un attimo
maledì la vecchiaia imminente. Le sei del mattino, comunque, non tardarono ad
arrivare, e fu preciso il gallo del cortile vicino a segnalare l'inizio di un
nuovo giorno. Con le prime luci dell'alba tornò a farsi bello, e accolse con
piacere la sensazione di sentirsi tutto sommato in forze, benché non avesse
chiuso occhio tutta notte. Compì una rapida colazione, ingurgitando un paio di
uova raccolte il giorno prima, e si mise in strada per tornare a bussare alla
casa della perpetua.
Lungo il
tragitto si lasciò cullare dalla poesia dell'estate, con il sole ancora un po’
addormentato sulla linea dell'orizzonte, e tanti uccelli che chissà da quante
ore già inneggiavano alla nuova giornata. Incontrò degli uomini che stavano
raggiungendo i campi. Domenico Carimati si muoveva con passo sostenuto e la
testa china, avendo litigato ancora una volta con la donna per via di un
mestolo che s'era rotto proprio quando serviva a portare in tavola una pietanza
preparata con grande cura. Il Marengo, non volendo rischiare di dover
intavolare una discussione senza fine, si limitò a salutarlo con un cenno del
capo e tirò dritto per la sua strada.
In fondo alla
via la curia riposava come in un incantesimo, perduta in una solenne eternità.
Sperò che la perpetua non fosse ancora rintronata come il giorno dopo il suo
ritorno in paese, beatamente intenta a dormire come se fosse stata notte fonda;
ma fu risoluto nel convincersi che, in tal caso, l'avrebbe tirata giù di forza
dal letto, a costo di strapparle di dosso la vestaglia. In realtà, non accadde
nulla di tutto ciò, perché non fece in tempo a terminare con le sue infinite e
moribonde elucubrazioni, che la perpetua spalancò le persiane della cucina trovandoselo
di fronte.
«Ancora lei?».
«Fino a prova
contraria è stata lei a venirmi a trovare l'ultima volta», fu pronto a
ribattere il Marengo.
La donna gonfiò
le gote imbarazzata, guardandosi di nuovo intorno per sincerarsi che nessuno li
stesse osservando, col pericolo di mettere in giro strane e inopportune
voci.
«Se ha bisogno
di me venga dentro, si muova, non diamo scandalo».
58.
«Cosa c'è ancora?».
«Mi dovrebbe dare
una mano».
«In che senso?».
«Vorrei dare
un'occhiata alle cose del prete».
La perpetua
s'inalberò.
«Volete venire a
frugare in casa mia? Se lo scordi!».
Il Marengo cercò
il modo più adatto per calmare la signora.
«Perpetua, la
prego, non voglio farmi gli affari suoi. Cerco solo di fare luce su quest'assurda
situazione… qui potremmo trovare importanti informazioni».
«Qui non c'è
niente. Niente che valga la pena cercare. Ne sono più che sicura».
Il Marengo
chiese qualcosa da bere, pensando in questo modo di alleggerire la cappa di
angoscia che ammantava la stanza principale della curia. Si guardò intorno per
vedere se riusciva a catturare particolari che gli erano sfuggiti, ma non trovò
nulla di strano se non un paio di calzette appese vicino al camino, che
probabilmente la perpetua aveva appena lavato. In ogni caso, a lui interessava ben
altro. Il Marengo voleva infatti giungere alla camera di don Filippo, che non
aveva mai visitato; tenuto conto del fatto che, normalmente, è proprio vicino
ai giacigli che ci ospitano per la notte, che si tende a nascondere e
proteggere i propri segreti.
«Ecco, beva
quanto le pare, ma poi la prego di lasciarmi in pace», disse la perpetua
porgendogli un bicchiere d'acqua, acida come un'insalata russa andata a male.
«La ringrazio».
«Io chiedo solo
alla Maria Vergine di essere lasciata in pace».
«Ma nessuno
vuole disturbarla».
«Quello che
sapevo sono venuto a dirglielo. Ora basta».
«Ma se lei mi
lascia…».
«Non mi
costringa a essere villana».
Il Marengo si
trovò solo e sconsolato a lottare contro un muro di emozioni incontrollabili. Non
seppe più come procedere nelle indagini, se non usando la forza. Ma il solo
pensiero lo sgomentò. Era un uomo di sani principi e le mani addosso a una
donna non le avrebbe messe mai, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Gli venne
però un'idea. Conosceva uno dei punti deboli della perpetua, e in quella
direzione provò a muoversi per vedere se riusciva a ottenere qualche informazione
in più.
«Perpetua»,
principiò, «ricorda cosa disse don Filippo il giorno in cui la tromba d'aria
devastò la cappelletta di San Martino?».
«Ora non mi
viene in mente nulla».
«Disse che
avrebbe fatto di tutto per aggiustarla e che quello era uno dei suoi grandi
sogni».
«Sì, però la
chiesa non ha mai avuto i soldi per farlo, lo sa bene, e alla fine sappiamo
tutti com'è andata; ancora adesso è là che crolla».
«Certo. Ma io le
dico che insieme potremmo esaudire questo suo desiderio, se proponiamo al paese
una bella colletta in memoria di don Filippo».
La perpetua era
una donna sensibile e l'ipotesi di poter esaudire un vecchio sogno del curato
illuminò il suo volto crucciato e perplesso.
«Sarebbe davvero
una bella idea. Se riuscissimo a sistemarla don Filippo ci benedirà dal cielo».
«Allora, mi
creda», disse il Marengo, «quando questa situazione sarà risolta procederemo
con questo progetto. Ma adesso, la prego, perpetua, mi faccia ispezionare la
casa… Non c'è più tempo da perdere. Ogni ora che passa potrebbe allontanarci
sempre più dall'assassino».
Sentendo la
parola assassino la perpetua sobbalzò.
«Faccia quel che
vuole», disse in tono mogio, puntando gli occhi al pavimento come una cagna
bastonata, «faccia quel che vuole e mi lasci stare una volta per tutte».
Il Marengo
strizzò le labbra e senza farselo ripetere due volte, calmo e pacato, cominciò
a salire i gradini che conducevano al ricovero di don Filippo; pronto per far
breccia nell'ultimo eremo del prete.
59.
Stupì se stesso,
quando con uno sguardo rapido salutò il grosso crocefisso che troneggiava in
cima alla scalinata, mentre lentamente scostava la porta della camera del
prete. Lo stridore dei cardini gli procurò un leggero brivido, alimentato dal
pensiero dell'incontro avuto con il Giannino e l'Ambrogino, il giorno prima del
funerale; fortuito, ma angosciante.
C'era un buon
profumo di legno nella stanza del curato, ma si capiva che era già da parecchie
ore che le finestre non venivano aperte. Ci pensò lui, dunque, a farlo, non
tanto per rinfrescare l'aria, quanto per avere maggiore luce a disposizione:
per cercare bene, occorreva illuminare a giorno il buco in cui don Filippo
prendeva sonno e condensava tutti i suoi pensieri.
«Marengo», gridò
dalla strada l'Ambrogino, vedendolo spalancare le persiane.
«Che c'è?»,
chiese l'uomo, infastidito dal vocio del ragazzo.
Ma la risposta
non arrivò: il giovane era già al suo cospetto, come una sentinella pronta all'assalto,
prima che potesse iniziare a cercare tracce della vita segreta del prete.
«Non mi sembra
di averti detto che avevo bisogno del tuo aiuto».
«Marengo, mi
perdoni», disse il ragazzo eccitato, «ma ormai non riesco più farmi da parte. Ho
seguito il caso fin dall'inizio e… poi, sa bene, quattro occhi sono meglio di
due».
Il saggio del
paese non replicò, tutto sommato contento di ritrovarselo al fianco.
«E la
perpetua?».
«L'ho schivata
per un pelo».
Il Marengo
inarcò le sopracciglia e gonfiò le guance in segno di resa definitiva.
«Va bene,
allora, diamoci da fare. Tu dai un'occhiata alla vetrinetta; io passo al
setaccio la scrivania».
«D'accordo, al
lavoro», esclamò l'Ambrogino felice come una Pasqua.
Cominciarono a
rovistare fra libri, messali e quadernetti privati del curato, su cui annotava
soprattutto le entrate e le uscite della curia. Molti testi erano così rovinati
da sembrare più simili a pezzi di antiquariato, che a veri e propri tomi
aggiornati da consultare tutti i dì.
«Con tutta la
polvere che c'è, mi sa che li teneva qui di bellezza… non trova?», ironizzò
l'Ambrogino.
«Non fare
domande inutili, e continua a cercare. Se anche oggi non troviamo nulla, la
vedo grigia».
Andarono avanti
per mezz'ora spulciando fogli, foglietti, pagine di giornali, ogni minimo
dettaglio che potesse nascondere qualcosa di compromettente, ma non trovarono
nulla. Si guardarono affranti, temendo di non avere più spazi per poter risalire
a qualche valido ed esplicativo particolare.
«Maledizione»,
imprecò il Marengo.
Si sedettero smarriti
ed esausti sul piccolo divanetto che sorgeva ai piedi del letto. Aveva le
sponde divorate dai tarli, e una gamba un po’ più corta dell'altra. Traballava,
ma spesso don Filippo se ne serviva per meditare. E proprio mentre stavano per
gettare la spugna, il Marengo ebbe un'illuminazione.
«Se tu dovessi
nascondere qualcosa di prezioso… dove la metteresti?», chiese al ragazzo.
L'Ambrogino
sorrise, divertito dall'inaspettata domanda.
«Non ne ho la
più pallida idea».
«Pensaci».
«Forse sotto al
letto».
«Oppure?».
«In un angolo
del muro?».
Così anche il
ragazzo finì per posare gli occhi su una specie di monetiere seminascosto da un
vetusto e orripilante reliquario, ereditato dalla nonna materna del curato.
«Giusto», disse.
Si alzarono in
preda all'agitazione e ispezionarono l'oggetto, facendolo traballare,
muovendolo su e giù e picchiettandolo come si fa con un otre per capire se è
pieno o meno. Dava uno strano rumore, la prova che conteneva qualcosa… di
solido. Allorché si misero in cerca della chiave.
«Proviamo sotto i
mobili, nell'armadio, dietro ai comodini», propose il Marengo.
Le tentarono
tutte, ma non saltò fuori nulla.
«Eccola»,
esclamò, all'improvviso, l'Ambrogino.
«Dov'era?».
Il ragazzo
indicò al Marengo la minuscola rientranza che si intravedeva ai piedi del letto
e che aveva raggiunto per caso inciampando in una minuscola sporgenza della
parete.
«Ottimo. Dai qua».
Il monetiere si
aprì senza problemi e al suo interno trovarono qualche spicciolo e due fogli
scritti. Era una calligrafia piuttosto infantile, di una persona che non doveva
avere molta dimestichezza con il pennino. I loro cuori sbatacchiarono come i
tamburi di una marcia funebre.
«Vediamo cosa
c'è scritto», disse ansimante l'Ambrogino.
Il Marengo resse
con la mano tremante il foglio con il maggior numero di parole.
Non ci mise
molto a capire che si trattava di una lettera d'amore e rendendosene conto fu
sopraffatto dall'ansia. Scivolò di colpo in fondo allo scritto per vedere se ci
fosse una firma. La lessero insieme: Agnese Bucchi.
«La figlia di
Carlo il panettiere», disse il giovane, sbigottendo.
«La figlia di Carlo
Bucchi», mormorò incredulo il Marengo.
60.
Tornarono a
sedersi, con la stessa passione di chi ha appena finito di combattere la più
dura battaglia della vita, con le mani insanguinate e la mente bruciata dal
fuoco nemico. Ma il Marengo aveva già capito tutto e sul suo volto calò una
maschera di dolore.
«Vuoi leggere tu
che vedi meglio di me?».
L'Ambrogino accolse
la richiesta del Marengo, prese la lettera e cominciò a tartagliare una serie
di frasi qua e là sconclusionate - e con alcuni errori - che non lasciarono
adito ai fraintendimenti.
«Come dirvelo,
come dirvelo, don Filippo, che ormai il mio cuore è tutto per voi. Per voi che
aveva riempito il mio cuore di amore e di bontà. Don Filippo, non posso mai
scordare i nostri incontri nel bosco e tutto quel che ci è stato fra noi e i
nostri bei cuori del Celo. Io sono appena giovane ma quando donna divengo voglio
stare per sempre con lei e la sua bontà. Don Filippo, lei mi ha liberato
l'anima dai miei egoismi e mi hai fatto capire cosa significa davvero amare una
pesrona. Un amore diverso da quello provato per mio fratello o mia mamma. Un
amore più purissimo. Lo so che tra noi è difficile e che lei buon curato non
può fare quello che vuole o vuole fare con me. Ma la provvidenza penserà anche
a questo e un giorno noi possiamo stare insieme per sempre. Vero? Vero don
Filippo che anche voi la pensate come me? Io faccio tanta fatica a scrivere
questa lettera perché il mio cuore gronda di tristezza, al pensiero che non
posso vederla sempre, per ora, per ora, perché siamo ancora lontani nel tempo,
per ora, poi domani tutto può cambiare. Vero don Filippo? Non c'è da
preoccuparsi mamma non sa nulla e neanche la mia famiglia, possiamo continuare
felici la nostra storia, sperando in futuro meglio per noi. Con il mio amore,
con tutto il mio amore, la saluto con riverenza e la imploro di vederci come
sempre dove sempre ci vediamo».
Il Marengo e
l'Ambrogino rimasero senza parole, calati in un mondo di spettri che
vorticavano nell'aria senza trovare pace; gli occhi sgranati, le bocche
impastate da una salsedine immaginaria che divorava anche il pensiero. Anche il
respiro non correva più per la sua strada e faceva fatica a immagazzinare
l'ossigeno a sufficienza per alimentare dei neuroni sconquassati da un'idea
folle, da una tresca amorosa senza precedenti. Non potevano, non riuscivano a capacitarsi
di quel che avevano appena letto, qualcosa di veramente impressionante che
avrebbe messo in subbuglio lo stesso padreterno. Don Filippo e l'Agnese avevano
una storia, una storia, a quanto pare, serissima, che, all'insaputa del mondo
intero, andava avanti da chissà quanto tempo. C'era un problema insormontabile:
don Filippo era un prete, con la tunica, con tutti i crismi, e l'Agnese una
ragazzetta di 16 anni, a malapena consapevole di quel che la vita è in grado di
serbare.
«Che facciamo
Marengo?», domandò l'Ambrogino, in apprensione,.
Il Marengo
precipitò dal nido più alto della sequoia immaginaria posta sopra la sua testa
e, atterrando, gli riuscì di dire una cosa soltanto:
«Ambrogino,
stammi bene a sentire. Mi devi giurare
che non dici nulla di quello che abbiamo scoperto, qui, oggi. Hai capito?».
«Sì, ho capito»,
disse l'Ambrogino, sempre più in crisi.
«No, non basta
dirmi che hai capito, me lo devi giurare. Ti rendi conto di quello che è
saltato fuori? Da qui non deve volare una mosca. E' qualcosa di assolutamente…
pazzesco».
Avrebbe dovuto
dire "orribile", ma comprese di non avere abbastanza numeri per poter
esprimersi con un aggettivo così dequalificante. Certo, una storia d'amore fra
un prete e una sedicenne, aveva tutte le carte in regola per sollevare uno
scandalo d'immani proporzioni, tuttavia si rese conto che non toccasse a lui
giudicare. Per queste cose c'era, forse, un creatore.
«Lo giuro, lo
giuro, Marengo, te lo giuro», disse l'Ambrogino con tutto il fiato che aveva in
corpo.
«Bene ragazzo, bene,
adesso possiamo andare».