martedì 27 maggio 2014

Ferragosto # 12


56.

Il più vecchio si fece scappare una specie di rutto e a fatica contenne il nervosismo. Si alzò di scatto e reclamò autorevolmente la sua totale estraneità ai fatti.
«Non vediamo don Filippo da qualche settimana, non è vero fratello?».
«Assolutamente. Forse siamo stati là che era ancora primavera».
Il Marengo e gli altri non fecero una piega, incapaci di capire se stessero dicendo la verità o meno, benché le loro facce avrebbero potuto fare paura agli spettri.
«Come vi abbiamo accennato», proseguì il più anziano, «andavamo a far visita sporadicamente al prete… forse una o due volte all'anno, tre al massimo. Le sue parole erano per noi di gran conforto. Certo, ora che ci dite che ha fatto questa brutta fine…».
«Non ci sembra vero, non può essere vero», disse il più giovane, «l'ultima volta che l'abbiamo visto stava benissimo, era in gran forma, come sempre. Ci aveva parlato dei nuovi lavori che voleva fare nell'orto».  
«E della luna giusta per seminare una nuova varietà di insalata», precisò il più grande.
«Ma come è potuto annegare? E dove?», chiese il più piccolo.  
«Non sappiamo se è veramente annegato», disse il Marengo, «potrebbe anche essere stato assassinato o, purtroppo…».
«Cosa?!», domandò con grande enfasi il più giovane dei Greppi, «vorrete mica farci credere che si sia…».
«C'era un biglietto sulla sua scrivania», disse il Boffalora, «che lascia intuire il peggio».
I due Greppi si mostrarono molto costernati, al punto che i buraghesi e il Bosi ebbero difficoltà a pensare che stessero barando. Capivano che ci fosse qualcosa di strano nelle loro parole, ma il modo in cui si posero, era perfettamente in linea con il sentimento che avrebbero potuto patire persone disperate per la triste sorte di un caro.
«Nulla che lo preoccupava, secondo voi?», chiese il Marengo.
«Niente di niente», disse il più giovane dei Greppi, «ci offriva sempre un bicchiere di vino. Era cordiale con tutti, figuriamoci con due vecchi amici come noi».
La confessione dei due Greppi non lasciò adito a supposizioni che potessero metterli davvero in imbarazzo. Non poterono quindi insistere oltre l'evidenza, oltre l'innocenza. Gli improvvisati investigatori dovettero mollare il colpo. Anche se, in cuor suo, il Marengo fu tutt'altro che convinto. Trovò, infatti, la ricostruzione rilasciata dai due fratelli in completa antitesi a quella fornita dalla perpetua e da Felice. La donna, in particolare, aveva rivelato che i toni delle conversazioni fra il prete e i Greppi erano stati tutt'altro che amichevoli, mentre i due fratelli insistevano nel dire che fra loro correva ottimo sangue. Qualcosa non tornava. Era evidente. Qualcuno mentiva, e non c'era ragione di credere che il falso fosse appannaggio di una povera donna al servizio della chiesa.
Insomma, fu impossibile dire, per il momento, in che modo potessero essere legati alla morte di don Filippo, ma di sicuro c'era sotto del marciume. Il Marengo ne fu sicuro.
Lui e il Bosi si scambiarono un'occhiata di complicità, entrambi convinti che non ci fosse granché da aggiungere.
«Bene allora, possiamo anche levare il disturbo», disse il Brambillasca, perso in una dimensione tutta sua, ma in qualche modo ancora vigile e attento.
«Non c'è altro da dire, in effetti», aggiunse il Marengo.
Il congedo definitivo avvenne a opera del primo cittadino di Vimercate, che con grande diplomazia si liberò della morsa dei Greppi, portando il discorso da tutt'altra parte.
«Allora scusate ancora la nostra intromissione. Ma ricordatevi di passare dal comune per sistemare gli aspetti burocratici legati alla vostra permanenza in paese. Sennò fioccano le sovvenzioni».
«Verremo sindaco a fare tutto ciò che ci tocca, anche in onore del nostro amato avo  che fra queste mura ha vissuto gran parte della sua vita».
Si guardarono con sufficienza e un po’ di amaro in bocca.
«Bene, buona giornata a voi», disse il Bosi.
«A voi», dissero in coro i Greppi, senza scomodarsi.
Felice li guardò con la coda dell'occhio prima di superare la soglia dell'uscio: sul loro volto era disegnato un orribile ghigno.

57.

10 agosto

Il Marengo non ebbe una notte facile, e dovette fare i conti con miriadi di pensieri che si accavallarono senza sosta nella sua mente. Pensieri e incubi, sogni e risvegli con l'acqua alla gola. Fu addirittura peggio delle ore trascorse all'indomani della scoperta della scomparsa del prete. Troppe cose non gli tornavano e più ci pensava, più andava in tilt. Il punto è che c'erano tutti i presupposti per poter partire seriamente con le indagini, ma non sapeva da che parte iniziare. Mancava un vero appiglio, qualcosa che potesse dargli il la per arrivare a svelare tutto ciò che si nascondeva dietro la misteriosa morte di don Filippo. Lo trovò riflettendo sul fatto che nessuno, a parte il Giannino, aveva ancora rovistato la casa del curato; c'erano magari tracce, indizi, indicazioni, nascoste chissà dove, in grado di chiarire molti passaggi ancora oscuri. Di fatto, era stato trovato un biglietto, ma era troppo poco: sembrava dire tutto, ma in realtà, non diceva un bel niente. Il Giannino, il sindaco, la perpetua… chi di loro s'era dato da fare in tal senso? Nessuno. Se ne rese conto e capì che anche questa incombenza l'avrebbe dovuta assolvere lui, prima che fosse troppo tardi.  
Si alzò a bere un bicchiere d'acqua, gironzolò per qualche minuto per la casa come uno zombie, e quando tornò a coricarsi si vide costretto a trovare un modo per sollevare la schiena, perché gli mancava il respiro. Si sentì un rottame e per un attimo maledì la vecchiaia imminente. Le sei del mattino, comunque, non tardarono ad arrivare, e fu preciso il gallo del cortile vicino a segnalare l'inizio di un nuovo giorno. Con le prime luci dell'alba tornò a farsi bello, e accolse con piacere la sensazione di sentirsi tutto sommato in forze, benché non avesse chiuso occhio tutta notte. Compì una rapida colazione, ingurgitando un paio di uova raccolte il giorno prima, e si mise in strada per tornare a bussare alla casa della perpetua.
Lungo il tragitto si lasciò cullare dalla poesia dell'estate, con il sole ancora un po’ addormentato sulla linea dell'orizzonte, e tanti uccelli che chissà da quante ore già inneggiavano alla nuova giornata. Incontrò degli uomini che stavano raggiungendo i campi. Domenico Carimati si muoveva con passo sostenuto e la testa china, avendo litigato ancora una volta con la donna per via di un mestolo che s'era rotto proprio quando serviva a portare in tavola una pietanza preparata con grande cura. Il Marengo, non volendo rischiare di dover intavolare una discussione senza fine, si limitò a salutarlo con un cenno del capo e tirò dritto per la sua strada.
In fondo alla via la curia riposava come in un incantesimo, perduta in una solenne eternità. Sperò che la perpetua non fosse ancora rintronata come il giorno dopo il suo ritorno in paese, beatamente intenta a dormire come se fosse stata notte fonda; ma fu risoluto nel convincersi che, in tal caso, l'avrebbe tirata giù di forza dal letto, a costo di strapparle di dosso la vestaglia. In realtà, non accadde nulla di tutto ciò, perché non fece in tempo a terminare con le sue infinite e moribonde elucubrazioni, che la perpetua spalancò le persiane della cucina trovandoselo di fronte.
«Ancora lei?».
«Fino a prova contraria è stata lei a venirmi a trovare l'ultima volta», fu pronto a ribattere il Marengo.
La donna gonfiò le gote imbarazzata, guardandosi di nuovo intorno per sincerarsi che nessuno li stesse osservando, col pericolo di mettere in giro strane e inopportune voci. 
«Se ha bisogno di me venga dentro, si muova, non diamo scandalo».

58.

«Cosa c'è ancora?».
«Mi dovrebbe dare una mano».
«In che senso?».
«Vorrei dare un'occhiata alle cose del prete».
La perpetua s'inalberò.
«Volete venire a frugare in casa mia? Se lo scordi!».
Il Marengo cercò il modo più adatto per calmare la signora.
«Perpetua, la prego, non voglio farmi gli affari suoi. Cerco solo di fare luce su quest'assurda situazione… qui potremmo trovare importanti informazioni».
«Qui non c'è niente. Niente che valga la pena cercare. Ne sono più che sicura».
Il Marengo chiese qualcosa da bere, pensando in questo modo di alleggerire la cappa di angoscia che ammantava la stanza principale della curia. Si guardò intorno per vedere se riusciva a catturare particolari che gli erano sfuggiti, ma non trovò nulla di strano se non un paio di calzette appese vicino al camino, che probabilmente la perpetua aveva appena lavato. In ogni caso, a lui interessava ben altro. Il Marengo voleva infatti giungere alla camera di don Filippo, che non aveva mai visitato; tenuto conto del fatto che, normalmente, è proprio vicino ai giacigli che ci ospitano per la notte, che si tende a nascondere e proteggere i propri segreti.  
«Ecco, beva quanto le pare, ma poi la prego di lasciarmi in pace», disse la perpetua porgendogli un bicchiere d'acqua, acida come un'insalata russa andata a male.
«La ringrazio».
«Io chiedo solo alla Maria Vergine di essere lasciata in pace».
«Ma nessuno vuole disturbarla».
«Quello che sapevo sono venuto a dirglielo. Ora basta».
«Ma se lei mi lascia…».  
«Non mi costringa a essere villana».
Il Marengo si trovò solo e sconsolato a lottare contro un muro di emozioni incontrollabili. Non seppe più come procedere nelle indagini, se non usando la forza. Ma il solo pensiero lo sgomentò. Era un uomo di sani principi e le mani addosso a una donna non le avrebbe messe mai, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Gli venne però un'idea. Conosceva uno dei punti deboli della perpetua, e in quella direzione provò a muoversi per vedere se riusciva a ottenere qualche informazione in più.
«Perpetua», principiò, «ricorda cosa disse don Filippo il giorno in cui la tromba d'aria devastò la cappelletta di San Martino?».
«Ora non mi viene in mente nulla».
«Disse che avrebbe fatto di tutto per aggiustarla e che quello era uno dei suoi grandi sogni».
«Sì, però la chiesa non ha mai avuto i soldi per farlo, lo sa bene, e alla fine sappiamo tutti com'è andata; ancora adesso è là che crolla».  
«Certo. Ma io le dico che insieme potremmo esaudire questo suo desiderio, se proponiamo al paese una bella colletta in memoria di don Filippo».
La perpetua era una donna sensibile e l'ipotesi di poter esaudire un vecchio sogno del curato illuminò il suo volto crucciato e perplesso.  
«Sarebbe davvero una bella idea. Se riuscissimo a sistemarla don Filippo ci benedirà dal cielo».
«Allora, mi creda», disse il Marengo, «quando questa situazione sarà risolta procederemo con questo progetto. Ma adesso, la prego, perpetua, mi faccia ispezionare la casa… Non c'è più tempo da perdere. Ogni ora che passa potrebbe allontanarci sempre più dall'assassino».
Sentendo la parola assassino la perpetua sobbalzò.
«Faccia quel che vuole», disse in tono mogio, puntando gli occhi al pavimento come una cagna bastonata, «faccia quel che vuole e mi lasci stare una volta per tutte».
Il Marengo strizzò le labbra e senza farselo ripetere due volte, calmo e pacato, cominciò a salire i gradini che conducevano al ricovero di don Filippo; pronto per far breccia nell'ultimo eremo del prete.

59.

Stupì se stesso, quando con uno sguardo rapido salutò il grosso crocefisso che troneggiava in cima alla scalinata, mentre lentamente scostava la porta della camera del prete. Lo stridore dei cardini gli procurò un leggero brivido, alimentato dal pensiero dell'incontro avuto con il Giannino e l'Ambrogino, il giorno prima del funerale; fortuito, ma angosciante.
C'era un buon profumo di legno nella stanza del curato, ma si capiva che era già da parecchie ore che le finestre non venivano aperte. Ci pensò lui, dunque, a farlo, non tanto per rinfrescare l'aria, quanto per avere maggiore luce a disposizione: per cercare bene, occorreva illuminare a giorno il buco in cui don Filippo prendeva sonno e condensava tutti i suoi pensieri.
«Marengo», gridò dalla strada l'Ambrogino, vedendolo spalancare le persiane.
«Che c'è?», chiese l'uomo, infastidito dal vocio del ragazzo.  
Ma la risposta non arrivò: il giovane era già al suo cospetto, come una sentinella pronta all'assalto, prima che potesse iniziare a cercare tracce della vita segreta del prete.   
«Non mi sembra di averti detto che avevo bisogno del tuo aiuto».
«Marengo, mi perdoni», disse il ragazzo eccitato, «ma ormai non riesco più farmi da parte. Ho seguito il caso fin dall'inizio e… poi, sa bene, quattro occhi sono meglio di due».
Il saggio del paese non replicò, tutto sommato contento di ritrovarselo al fianco.
«E la perpetua?».
«L'ho schivata per un pelo».
Il Marengo inarcò le sopracciglia e gonfiò le guance in segno di resa definitiva.  
«Va bene, allora, diamoci da fare. Tu dai un'occhiata alla vetrinetta; io passo al setaccio la scrivania».
«D'accordo, al lavoro», esclamò l'Ambrogino felice come una Pasqua.
Cominciarono a rovistare fra libri, messali e quadernetti privati del curato, su cui annotava soprattutto le entrate e le uscite della curia. Molti testi erano così rovinati da sembrare più simili a pezzi di antiquariato, che a veri e propri tomi aggiornati da consultare tutti i dì.
«Con tutta la polvere che c'è, mi sa che li teneva qui di bellezza… non trova?», ironizzò l'Ambrogino.
«Non fare domande inutili, e continua a cercare. Se anche oggi non troviamo nulla, la vedo grigia».
Andarono avanti per mezz'ora spulciando fogli, foglietti, pagine di giornali, ogni minimo dettaglio che potesse nascondere qualcosa di compromettente, ma non trovarono nulla. Si guardarono affranti, temendo di non avere più spazi per poter risalire a qualche valido ed esplicativo particolare.
«Maledizione», imprecò il Marengo.
Si sedettero smarriti ed esausti sul piccolo divanetto che sorgeva ai piedi del letto. Aveva le sponde divorate dai tarli, e una gamba un po’ più corta dell'altra. Traballava, ma spesso don Filippo se ne serviva per meditare. E proprio mentre stavano per gettare la spugna, il Marengo ebbe un'illuminazione.
«Se tu dovessi nascondere qualcosa di prezioso… dove la metteresti?», chiese al ragazzo.
L'Ambrogino sorrise, divertito dall'inaspettata domanda.
«Non ne ho la più pallida idea».
«Pensaci».
«Forse sotto al letto».
«Oppure?».
«In un angolo del muro?».
Così anche il ragazzo finì per posare gli occhi su una specie di monetiere seminascosto da un vetusto e orripilante reliquario, ereditato dalla nonna materna del curato.  
«Giusto», disse.
Si alzarono in preda all'agitazione e ispezionarono l'oggetto, facendolo traballare, muovendolo su e giù e picchiettandolo come si fa con un otre per capire se è pieno o meno. Dava uno strano rumore, la prova che conteneva qualcosa… di solido. Allorché si misero in cerca della chiave.  
«Proviamo sotto i mobili, nell'armadio, dietro ai comodini», propose il Marengo.
Le tentarono tutte, ma non saltò fuori nulla.
«Eccola», esclamò, all'improvviso, l'Ambrogino.
«Dov'era?».
Il ragazzo indicò al Marengo la minuscola rientranza che si intravedeva ai piedi del letto e che aveva raggiunto per caso inciampando in una minuscola sporgenza della parete.
«Ottimo. Dai qua».
Il monetiere si aprì senza problemi e al suo interno trovarono qualche spicciolo e due fogli scritti. Era una calligrafia piuttosto infantile, di una persona che non doveva avere molta dimestichezza con il pennino. I loro cuori sbatacchiarono come i tamburi di una marcia funebre.
«Vediamo cosa c'è scritto», disse ansimante l'Ambrogino.
Il Marengo resse con la mano tremante il foglio con il maggior numero di parole.
Non ci mise molto a capire che si trattava di una lettera d'amore e rendendosene conto fu sopraffatto dall'ansia. Scivolò di colpo in fondo allo scritto per vedere se ci fosse una firma. La lessero insieme: Agnese Bucchi.
«La figlia di Carlo il panettiere», disse il giovane, sbigottendo.
«La figlia di Carlo Bucchi», mormorò incredulo il Marengo.

60.

Tornarono a sedersi, con la stessa passione di chi ha appena finito di combattere la più dura battaglia della vita, con le mani insanguinate e la mente bruciata dal fuoco nemico. Ma il Marengo aveva già capito tutto e sul suo volto calò una maschera di dolore. 
«Vuoi leggere tu che vedi meglio di me?».
L'Ambrogino accolse la richiesta del Marengo, prese la lettera e cominciò a tartagliare una serie di frasi qua e là sconclusionate - e con alcuni errori - che non lasciarono adito ai fraintendimenti.
«Come dirvelo, come dirvelo, don Filippo, che ormai il mio cuore è tutto per voi. Per voi che aveva riempito il mio cuore di amore e di bontà. Don Filippo, non posso mai scordare i nostri incontri nel bosco e tutto quel che ci è stato fra noi e i nostri bei cuori del Celo. Io sono appena giovane ma quando donna divengo voglio stare per sempre con lei e la sua bontà. Don Filippo, lei mi ha liberato l'anima dai miei egoismi e mi hai fatto capire cosa significa davvero amare una pesrona. Un amore diverso da quello provato per mio fratello o mia mamma. Un amore più purissimo. Lo so che tra noi è difficile e che lei buon curato non può fare quello che vuole o vuole fare con me. Ma la provvidenza penserà anche a questo e un giorno noi possiamo stare insieme per sempre. Vero? Vero don Filippo che anche voi la pensate come me? Io faccio tanta fatica a scrivere questa lettera perché il mio cuore gronda di tristezza, al pensiero che non posso vederla sempre, per ora, per ora, perché siamo ancora lontani nel tempo, per ora, poi domani tutto può cambiare. Vero don Filippo? Non c'è da preoccuparsi mamma non sa nulla e neanche la mia famiglia, possiamo continuare felici la nostra storia, sperando in futuro meglio per noi. Con il mio amore, con tutto il mio amore, la saluto con riverenza e la imploro di vederci come sempre dove sempre ci vediamo».
Il Marengo e l'Ambrogino rimasero senza parole, calati in un mondo di spettri che vorticavano nell'aria senza trovare pace; gli occhi sgranati, le bocche impastate da una salsedine immaginaria che divorava anche il pensiero. Anche il respiro non correva più per la sua strada e faceva fatica a immagazzinare l'ossigeno a sufficienza per alimentare dei neuroni sconquassati da un'idea folle, da una tresca amorosa senza precedenti. Non potevano, non riuscivano a capacitarsi di quel che avevano appena letto, qualcosa di veramente impressionante che avrebbe messo in subbuglio lo stesso padreterno. Don Filippo e l'Agnese avevano una storia, una storia, a quanto pare, serissima, che, all'insaputa del mondo intero, andava avanti da chissà quanto tempo. C'era un problema insormontabile: don Filippo era un prete, con la tunica, con tutti i crismi, e l'Agnese una ragazzetta di 16 anni, a malapena consapevole di quel che la vita è in grado di serbare.
«Che facciamo Marengo?», domandò l'Ambrogino, in apprensione,.
Il Marengo precipitò dal nido più alto della sequoia immaginaria posta sopra la sua testa e, atterrando, gli riuscì di dire una cosa soltanto:
«Ambrogino, stammi bene a  sentire. Mi devi giurare che non dici nulla di quello che abbiamo scoperto, qui, oggi. Hai capito?».
«Sì, ho capito», disse l'Ambrogino, sempre più in crisi.
«No, non basta dirmi che hai capito, me lo devi giurare. Ti rendi conto di quello che è saltato fuori? Da qui non deve volare una mosca. E' qualcosa di assolutamente… pazzesco».
Avrebbe dovuto dire "orribile", ma comprese di non avere abbastanza numeri per poter esprimersi con un aggettivo così dequalificante. Certo, una storia d'amore fra un prete e una sedicenne, aveva tutte le carte in regola per sollevare uno scandalo d'immani proporzioni, tuttavia si rese conto che non toccasse a lui giudicare. Per queste cose c'era, forse, un creatore.
«Lo giuro, lo giuro, Marengo, te lo giuro», disse l'Ambrogino con tutto il fiato che aveva in corpo.

«Bene ragazzo, bene, adesso possiamo andare».

venerdì 9 maggio 2014

Ferragosto # 11


51.

9 agosto

Una nuova mattina si aprì all'insegna di un'estate ancora nel pieno del suo fragore, benché una specie di leggera nebbiolina coprisse l'orizzonte dei campi, predisponendo terra e uomini ai primi gorgoglii dell'autunno. Il sole appena sorto illuminava le strade e le viuzze di Burago, restituendogli il calore perso durante la notte. Il Marengo e il Boffalora avevano trascorso una notte tranquilla, e tutto sommato anche la perpetua e gli altri abitanti del paese avevano riposato bene. La scomparsa di don Filippo cominciava a essere metabolizzata, come uno dei tanti e tristi canti della vita.
La toilette del Marengo non era mai particolarmente veloce. Gli piaceva starsene le mezzore davanti allo specchio, elucubrando sul suo corpo, non per narcisismo o vanità, ma solo perché amava apparire pulito e presentabile. A livello inconscio c'era, probabilmente, il desiderio di staccarsi dalla plebaglia che lo circondava; sottolineava così la sua erudizione, la sua autorità, il suo distacco dal pressapochismo delle genti che affiancavano il suo cammino. Quando sentì bussare alla porta si stava ancora infilando le mutande e non fu così felice di ricevere visite. Pensò che potesse essere ancora la perpetua giunta fin lì per raccontargli di un nuovo incontro con il fantasma di don Filippo. Era invece Felice Galbiati, unico figlio della Piera Bosisio, fra le migliori sarte del paese.
«Qual buon vento ti porta dalle mie parti, ragazzo?», esordì il Marengo, come sempre gentile e disponibile verso i compaesani, anche in casi come questi in cui avrebbe voluto risolvere in pace i propri comodi.  
Il ragazzo si guardò intorno con fare circospetto, temendo che qualcuno lo potesse vedere. Era piuttosto agitato; l'uomo lo capì osservandogli uno strano tremore alle mani.
«Posso entrare?», sussurrò.
«Ma certo», disse il Marengo, senza remore, «c'è qualcosa che non va? Sta bene la mamma?».
«Noi tutto bene Marengo, ma c'è dell'altro…».
Temporeggiò.
«Credo di avere visto qualcosa a casa del prete».
Il Marengo tirò un respiro profondo e chiese al giovane se voleva qualcosa da bere.
Fece di no con il capo e andò avanti a parlare.
«Non ricordo quando è successo, forse un paio di mesi fa, forse era ancora primavera. Stavo bighellonando dalle parti della curia e per caso sentii delle persone che bisbigliavano fra loro. Non avevo interesse a sapere cosa stessero dicendo, ma volevo solo capire chi fossero. Stavano all'interno del giardinetto di don Filippo, e non avevano la più pallida idea ch'io fossi nei paraggi. Mi avvicinai alla siepe di bosso, che divide il verde del prete dal paese, e intravidi due persone che parlottavano con lui».
«Sai descrivermele?».
«Ricordo solo che mi erano sembrate persone malmesse, sgarbate, disgustose».
«Cosa c'era che non andava?».
«Sembravano dei poco di buono. I classici poco di buono, ha presente? Erano vestiti male, da balordi, forse erano anche armati. Intuii che non fossero dei veri amici del don, tuttavia non diedi molto peso alla faccenda. Me ne andai, dimenticandomi presto dell'accaduto. In fondo non avevo visto nulla di trascendentale».
Il Marengo fissò il ragazzo con grande attenzione.
«Sono contento che tu sia venuto a dirmi queste cose. Anche grazie al tuo contributo, i conti iniziano a tornare».
«In realtà, so di più».
«In che senso?».
«Più volte ho sentito menzionare cascina Branca».
«Scherzi?».
«Per niente».
«E' a Vimercate».
«Lo so benissimo».

52.

«Chi ne parlò?».
«Non saprei, ma non di certo il prete. Fu uno dei due. Quello con la voce più grossa».
Il Marengo dondolò il capo cercando di uscire dall'empasse.
«Un bel rebus. Ma, a questo punto, è lecito supporre che i due uomini c'entrino, in qualche modo, con la frazione di Vimercate».
Felice era d'accordo, ma non pronunciò parola, per non correre il rischio di dire qualche fesseria. Rimaneva un timidone, un po’ come il Galbusera, nonostante le raccomandazioni di mamma che lo spronavano a essere un po’ più intraprendente. Comprendeva, peraltro, che fosse un momento molto delicato, e non voleva rovinare tutto.
«Poi?».
«Me ne sono andato, non mi sembrava così importante. Certo, oggi valuterei quell'incontro in modo diverso».
Il Marengo non poté biasimarlo, constatando con soddisfazione che gran parte delle sue descrizioni combaciavano con quelle della perpetua.   
«Grazie Felice, mi sei stato molto utile», disse al ragazzo, strizzandogli l'occhio, già pronto a entrare in azione, «se ti viene in mente qualcos'altro corri a dirmelo, mi raccomando».
«Grazie a lei Marengo, speriamo di riuscire a scoprire quel che è davvero accaduto».
«Lo speriamo tutti».
Il Marengo accompagnò il giovane alla porta, ansioso di riprendere i suoi passi, ma anche orgoglioso di avere assolto il suo dovere e aver trovato il coraggio per rivelare tutto al saggio della comunità. Lo salutò con un mezzo inchino, e tornò a prepararsi pensando alla prossima inevitabile e quasi scontata mossa: organizzare una mini retata a cascina Branca.
A questo punto, pensò, tanto valeva verificare al più presto se sussistevano legami concreti fra i brutti ceffi che andavano a fare visita al prete e il piccolo distaccamento di Vimercate. Nessun dettaglio andava scartato. Restava solo da capire come svolgere l'incombenza senza dare troppo nell'occhio, e quali compaesani coinvolgere.
Cascina Branca sorgeva come un vecchio castello sul limitare di un antico contado, sulla vecchia ma ancora battutissima strada che conduceva a Ornago, non molto distante da Burago; lui stesso la percorreva spesso quando doveva andare ad acquistare qualche preparato del dottor Crippa, esperto erborista e medico di conclamata bravura.
Andò a chiamare il Brambillasca e il Boffalora - ancora nelle rispettive abitazioni, pronti per affrontare la nuova giornata - e gli spiegò la situazione; aggiungendo che, se volevano scoprire qualcosa, non c'era tempo da perdere.
«Non sarebbe il caso di portare qualcun altro con noi?», domandò il sindaco, con un ciuffo di capelli che non ne voleva sapere di acquietarsi.
«Giusto, non possiamo sapere quel che potrebbe accadere se i due sgherri dovessero avere cattive intenzioni», si preoccupò il medico del paese.
«Ma non abbiamo neanche la certezza che abitino a cascina Branca», precisò il Marengo, «e in ogni caso non compieremo alcuna mossa se non dopo avere interpellato il primo cittadino di Vimercate».
«Però converrebbe almeno portare con noi la perpetua o Felice», propose il Brambillasca, «anzi, mi sembra fondamentale, visto che sono gli unici due che potrebbero riconoscere i due tipi».
«Non fa una piega», disse il Boffalora.
«Andiamo a vedere se Felice è ancora in casa», tagliò corto il Marengo.
Trovarono il ragazzo nel pollaio, con il naso toppato dagli effluvi maleodoranti rilasciati da una vecchia mangiatoia piena di sterco di piccione. Si spaventò nel vedere i tre uomini del paese alle sue spalle, le tre più alte cariche del villaggio che lo fissavano irrequieti, come se avesse combinato qualche misfatto.
«Ciao Felice», esordì il Marengo, «te la sentiresti di venire con noi?».
Capì al volo quel che c'era sotto.
«Alla cascina?».
«Già».
Rimase titubante, rabbrividendo all'idea di finire coinvolto in qualche brutta sorpresa. Ma si rese anche conto che non aveva via d'uscita e che, arrivato fin lì, era forse arrivato il momento di dimostrare alla mamma tutto il suo valore.  
«D'accordo. Avverto i miei e arrivo».
Partirono in pompa magna per la cittadina antica, così chiamata perché in epoca romana era sede di un mercato famoso in tutta la regione. Percorsero la lunga via rettilinea che passava di fianco alla cascina San Paolo, e in poco meno di mezzora furono al cospetto del primo cittadino di Vimercate: Valerio Bosi.

53.
Il sindaco del paesone li accolse benevolmente nel suo studio a Palazzo Trotti, una vecchia costruzione risalente al Settecento, da sempre al centro dell'attività pubblica del villaggio. Anche se buona parte del caseggiato era ancora gestita e abitata dai proprietari originari, provenienti da un villaggio dell'alta Brianza.
Conosceva da tempo il Marengo, sapeva tutto della sua intelligenza e saggezza; e dunque non ebbe remore ad accoglierlo a braccia aperte, come si riceve un amico di vecchia data. 
«Chi si vede!», esordì con una gaiezza sfrontata, indicando, intanto, agli ospiti di accomodarsi sulle eleganti sedie ricoperte di velluto, che troneggiavano all'ingresso della stanza.
«Buongiorno Bosi», disse, severo, il Marengo, «come andiamo?».
«Non ci possiamo lamentare. Di questi tempi, è calma piatta. Anche se i contadini iniziano a scalpitare».
«L'estate in corso ci sta facendo penare».
«Se non si mette a piovere ne vedremo delle belle».
«La gente ha troppa paura della fame, non si può biasimare».
«Eh già, può dirlo ben forte. Ma mi dica, qual buon vento la porta dalle mie parti?».
Il Marengo sospirò addolorato.  
«Non se la prenda a male, ma non avremmo mai voluto essere qui».
Il sindaco fece una faccia buffa.
«Oh diamine, che succede di tanto grave?».
«Avrete saputo la notizia».
«Di don Filippo».
«Appunto».
«Un'immane tragedia. Ma non ne so granché. Forse voi sapete dirmi qualcosa di più?».
«Siamo qui proprio per questo».
Sul volto del Bosi si scolpì un'espressione di grande meraviglia; parlavano di Burago, cosa poteva c'entrare Vimercate con tutta questa faccenda?
«So che si starà già chiedendo il nesso fra la morte di don Filippo e il vostro paese; ma è proprio questo il punto».
«Suvvia Marengo, non mi tenga sulle spine, arriviamo al dunque».
«Non possiamo saperlo con certezza. Ma vari indizi sull'assassino, o gli assassini, ci portano al vostro paese», proclamò il Marengo.
Il Bosi deglutì amaramente, incredulo di fronte a una simile supposizione.
«Ma non è stato trovato annegato nel laghetto?».
«Beh, sì, ma le cose sono cambiate, Bosi. Don Filippo non si è ammazzato».
«E allora?».
«Don Filippo è stato assassinato».
Il Bosi si alzò dalla sedia e si appoggiò stancamente alla scrivania, alzando gli occhi al soffitto in segno di resa. A questo punto non ci capiva più niente.
«Signori, comprendo la vostra angoscia, ma qui don Filippo non veniva mai, se non per dire qualche messa una o due volte all'anno. Come potete pensare che la sua morte possa essere ricondotta a noi?».  
Il Marengo indicò il giovane al suo fianco, teso come una corda di violino.
«Felice».
«Dica».
«Te la senti di raccontare al sindaco ciò che hai visto e sentito?».
Il ragazzo deglutì imbarazzato, ma al tempo stesso orgoglioso di potere dire la sua e poter vivere in prima persona un momento tanto importante, fra le persone più in vista del circondario. Disse sì con un timido cenno del capo.
«Ecco… un giorno mi ritrovai a passare per caso dalla curia e vidi don Filippo chiacchierare con due persone, persone strane, che non avevo mai visto in vita mia, tutt'altro che piacevoli da vedere e sentire. Non credo che fossero amici del prete, perché il loro tono era sgarbato e… ostile. Insomma, il tono della loro voce… mi lasciò intendere che ce l'avessero proprio con lui».
«Con don Filippo?».
«Esattamente».
«Poi, all'improvviso, ho sentito menzionare cascina Branca. Non so per quale motivo, non so nemmeno a cosa alludessero, ma ricordo che mi rimase impresso il nome della cascina, che anch'io conosco molto bene, perché da piccoli ci andavamo per vedere chi riusciva a spingersi da solo più lontano da casa».
«Cascina Branca», ripeté il sindaco di Vimercate, «sulla vecchia strada per Ornago».
«Proprio così», disse il medico di Burago, compiacendosi del suo primo intervento, «a due passi dal nostro villaggio».
«Che lei sappia, a cascina Branca c'è qualcosa di strano, o abitano personaggi poco raccomandabili?», chiese il Marengo.
Il Bosi alzò le spalle. 
«Cascina Branca, certo, non è mai stato un bel posto, lo saprete anche voi… ma è un bel po’ che non bazzico più da quelle parti. So che in passato viveva lì l'Enrico Tricudai».
Sentendo questo nome i presenti percepirono un brivido freddo lungo la schiena.

54.

«Il Tricudai veniva da lì?», chiese il Boffalora, giunto nel buraghese più tardi degli altri e non al corrente di tanti trascorsi.
«Ha sempre abitato lì», disse il Bosi, «anche quando aveva già fatto fuori un paio di persone».
«Alla fine, però, hanno fatto fuori lui», disse il Brambillasca.
«Che fine ha fatto?», chiese con un po’ di soggezione Felice.
Il Marengo respirò profondamente.
«Nessuno ha mai saputo come andarono le cose. Si sa solo che lo trovarono senza vita in un cascinotto dalle parti di Roncello».
«Con il cranio fracassato», precisò il Bosi.
Felice tremò di paura e si ritrovò all'improvviso con la gola riarsa. Aveva sempre odiato i racconti troppo cruenti e l'idea del sangue non poteva sopportarla.
Il Marengo comprese la sua sensibilità e cercò di rasserenarlo.
«Ma adesso non c'è più, quindi possiamo stare tranquilli», gli disse.
«Al suo posto, però, potrebbero essercene degli altri», squillò il Brambillasca, mandando a repentaglio il buon proposito dell'amico.  
Lo guardarono stupiti, a dir poco sgomenti di fronte all'ipotesi di potersi trovare un giorno di fronte a figure assimilabili al famigerato Tricudai.
«In ogni caso, signori, converrete con me che abbiamo un solo modo per fare luce sulla vicenda», incalzò il Bosi, ormai definitivamente coinvolto nel mistero della scomparsa di don Filippo.
Tutti lo fissarono come si obbedisce a un capobanda, avendo in parte già intuito il succo dell'imminente intervento.
«Non abbiamo altra scelta se non quella di andare là a fare un giro».
«Era quello che avevamo in mente anche noi», disse il Marengo, «ma prima ci è sembrato giusto coinvolgere anche lei, e la ringraziamo per la sua disponibilità».
Il sindaco di Vimercate e i quattro di Burago non sprecarono altro tempo e, a mo' di un improvvisato mini reggimento, ansioso di combattere e sconfiggere il nemico, si misero in marcia verso la periferia della cittadina.
Non ci misero molto a scorgere all'orizzonte la sagoma disarticolata della cascina, frutto dei numerosi interventi architettonici succedutesi negli anni, del tutto indifferenti alla bellezza artistica. Zittirono fino all'ingresso del portone principale, ben spalancato in quel momento della giornata.
«Buongiorno signora», esordì il sindaco di Vimercate incontrando Genoveffa Biraghi, che abitava la prima casa del piccolo conglomerato; una donna tuttofare, che raramente amava chiacchierare con chi non vedeva mai.
La donna guardò sottecchi i cinque visitatori, temendo che qualche strana richiesta avrebbe potuto metterla in difficoltà, benché non avesse nulla da nascondere e avesse sempre regolarizzato i suoi conti con il contado.
«Buongiorno sindaco, buongiorno signori».
«Come vanno le cose in cascina?».
«Non andiamo male, anche se potremmo stare meglio, e voi?».
«Anche noi non ci lamentiamo».
Risero tiepidamente.  
«Bene, bontà divina, speriamo allora che possa andare avanti così. Ci vorrebbe un po’ di pioggia, quello sì, i campi hanno sete».
Il Bosi cambiò discorso.
«Dica signora, ha per caso visto qualcosa di strano in cascina negli ultimi tempi?».
La Biraghi si insospettì.
«In che senso?».
«Movimenti strani, persone strane».
«Qui in cascina sa anche lei come vanno le cose. Viviamo dei nostri raccolti e del nostro pollame. Non c'è mai niente di cui parlare. E ogni famiglia si fa i fatti propri. Non saprei proprio cosa dirvi. Ma perché me lo chiedete?».
«E' successa una brutta cosa e…».
«Cosa?», domandò la donna spaventata, appoggiando a terra i secchi vuoti che stava trasportando dalle parti del fienile.
«Glielo diremo, ma ora è necessario sapere se qui abita qualche malintenzionato».
«Oddio», fece la donna, sempre più scombuiata, «non credo, non direi, lo sa bene anche lei sindaco, siamo solo contadini… siamo tutti contadini».

55.

Il Marengo si guardò intorno pervaso da uno strano presentimento. Qualcosa non quadrava, ma non capiva da dove arrivasse quest'ambigua percezione. Finché il suo sguardo non inciampò in una specie di dependance leggermente distaccata dal corpo centrale, apparentemente in disaccordo con la vetustà del posto. Avrebbe potuto giurarlo: fino a poco tempo prima quella costruzione sfarzosa non c'era, o almeno, originariamente non era così.
«Ma i contadini non abitano case tanto belle», disse rivolgendosi alla Genoveffa.
«Ah, quella», fece la donna meravigliata, «avete ragione, ma noi la consideriamo esterna alla cascina».
«Eppure è perfettamente allineata con i fienili», puntualizzò il Bosi.
«Il problema è che, da quando sono arrivati, fanno quello che vogliono, convinti che, avendo due soldi in più, possano comportarsi da padroni».
«Scusi, ma a chi si riferisce?», domandò il Bosi.
«Ai fratelli Greppi… e chi sennò?».
«Chi?», incalzò il Boffalora.
«Vi ricordate l'Antonio Smargiassi?».
Era un vecchio nato sul finire del Settecento, noto in cascina fino a trent'anni prima, per via del suo terribile carattere autoritario e per certe sue condotte poco ortodosse nei riguardi delle donne che trattava come schiave.
«L'Antonio, e chi non lo ricorda? Se non sbaglio viveva qui anche il Tricudai», disse il Marengo.
«Di quello è meglio non parlarne. In ogni caso, i fratelli Greppi sono i nipoti dello Smargiassi, i figli della sorella. Lei è morta e loro sono venuti qui, sapendo dell'abitazione libera dello zio. Non si è mai saputo il perché, avrebbero potuto vendere tutto e andare altrove… loro, certo, non raccontano nulla. Arrivano, passano e se ne vanno senza nemmeno salutare».
«Avrei dovuto saperlo che nuovi inquilini s'erano aggiunti alla cascina», disse il sindaco.
«Gliel'ho detto, fanno quello che vogliono e comunque non tocca a noi controllare chi va e chi viene».
Il Bosi tirò un respiro profondo e con un gesto del capo invitò la compagine a seguirlo.
«Ci tocca proprio?», mugugnò il Brambillasca.
Trovarono i due fratelli nel retro della dependance, intenti a cincischiare fra loro, con il solito burbero vocio che Felice riconobbe subito.
«Sono loro, non ho dubbi».
Il Marengo gli diede una pacca sulle spalle.
«Chiedo scusa», disse il sindaco di Vimercate, picchiettando su una specie di cartello corroso dalla ruggine con una scritta indecifrabile, appiccicato a un tronco rinsecchito.
I Greppi non si scomposero.
«Chi è?», domandò il più vecchio dei due.
«Sono il sindaco».
«Sindaco! Finalmente abbiamo il piacere di conoscerla, la prego, si faccia avanti. Che bella sorpresa!».
I nuovi arrivati guadagnarono metri e circondarono il duo.
«Abbiamo da bere per ognuno di voi, se lo desiderate», proseguirono i Greppi, ostentando una contentezza equivoca.
«Vi ringraziamo ma non siamo qui per questo», disse il Bosi, «piuttosto avrei dovuto sapere che cascina Branca ospita nuovi vimercatesi».
«Non siamo ancora venuti in comune perché abbiamo avuto da fare, ma lo faremo quanto prima. Nostra intenzione è, infatti, trasferirci definitivamente qui, posto amato dal nostro vecchio zio e… al più presto, vedrete, verremo a sistemare ogni pratica amministrativa: siamo gente per bene noi Greppi».
«Non lo mettiamo in dubbio», proseguì con una punta di ironia il Bosi.
«Sappiamo peraltro che eravate amici di don Filippo», andò subito al dunque il Marengo. 
I Greppi sorrisero laconicamente.  
«Certo, è un bravo prete», fece il più giovane, «un ottimo servo del Signore».
«Era», disse il Brambillasca.
«Era?», domandò il più vecchio.
«Non sapete che è morto?», domando il Bosi.
«Morto?», chiesero il coro i due fratelli.
«Annegato», confermò il sindaco di Vimercate.
I Greppi sbalordirono, dando la sincera impressione di non sapere minimamente di cosa stessero parlando.
«State scherzando? Come può essere avvenuta una tragedia del genere?», domandò il più anziano.

«E' quello che stiamo cercando di capire. E che voi potreste aiutarci a capire», disse il sindaco di Vimercate. «Se eravate così amici di don Filippo, possibile che non vi abbia mai confidato qualche segreto?».  

giovedì 8 maggio 2014

Santità rom


Quando lo fucilano, il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso, vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l'ultimo suo grido è "Viva Cristo Re!", mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Qualche giorno prima aveva difeso un prete dall'attacco dei soldati repubblicani. Ceferino Gimenez Malla detto "El Pelè" nacque in Spagna nel 1861, da una famiglia rom. Sposò a 18 anni Teresa Jimenez con la quale rimase per quarant'anni. A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di "gitani", Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato; il primo della chiesa cattolica di origine rom.