mercoledì 12 marzo 2014

Ferragosto # 8


36.

L'Ambrogino e il Giannino risero sommessamente, trovando paradossale e surreale la situazione; erano al cospetto del cadavere di don Filippo e il medico del paese era appena scappato fuori sopraffatto da un attacco di dissenteria.
«Tutto bene?», vociò il sindaco dalla finestra principale.
Non ebbe risposta, ma dopo pochi istanti, Gandolfo tornò al quartetto mezzo moribondo.
Lo guardarono come si fissa un appestato.
«Sto malissimo, sarà meglio che torni casa».
«Ci mancherebbe, vai pure», gli disse il Marengo con aria fraterna, «d'altra parte non c'è più motivo di fermarci, anche per noi».
Gandolfo non se lo fece ripetere due volte, e sgattaiolò via dalla casa del prete come una furia, di nuovo devastato dai crampi alla pancia.
«Così è tutto da rifare e la morte di don Filippo è sempre più avvolta nel mistero», riattaccò il Marengo.
«E adesso?», chiese il Giannino.
Nessuno fiatò di fronte a una domanda così limpida, ma al tempo stesso tanto caliginosa. La verità è che erano tutti fusi e in quel momento si sarebbero trovati in difficoltà davanti a qualunque quesito. Il sindaco riacciuffò la sedia che fino a pochi istanti prima aveva dato asilo al suo prorompente fondoschiena; e sempre più cupo e assonnato si mise a fissare il soffitto come un pellagroso allo stadio terminale.
Gli altri, intanto, riprendevano a ciondolare senza motivo per la curia, come delle marionette sfilate dal cursore e abbandonate a un crudele destino.   
«Andate a casa anche voi, ragazzi… avrete certo bisogno di una bella dormita», disse il Marengo.
Il Giannino e l'Ambrogino non si convinsero facilmente di dover lasciare la casa del curato, sentendosi ormai indispensabili al proseguo della dannata storia e avendo quasi il timore che, andandosene, non avrebbero potuto prendere parte a importanti capovolgimenti delle indagini.   
«Fidatevi», disse il sindaco, comprendendo la titubanza dei giovani, e il loro desiderio di continuare imperterriti nella ricerca, a costo di stramazzare da un momento all'altro, «fra poco ce ne andremo anche noi. La notte è fonda e solo dopo esserci rinfrescati ben bene le idee potremo capire come andare avanti».
Il Marengo approvò con un cenno del capo, con l'occhio destro ormai quasi completamente paralizzato dal fumo delle candele e dalla spossatezza.
«Buonanotte, signori», disse all'improvviso l'Ambrogino, «vorrà dire che ci vedremo domattina per il funerale».
«Buonanotte», tagliarono corto gli adulti.
I ragazzi lasciarono la casa di don Filippo mettendosi a correre come lepri tallonate da un cane rabbioso. Sfogarono così i quintali di adrenalina accumulati fino a quel momento, scordando ogni patema, e provando un sentimento molto vicino alla felicità. Era in fondo anche grazie al loro contributo che le cose avevano preso la piega giusta. Di fatto, insieme erano corsi a chiamare il medico del paese; il Giannino aveva poi trovato il biglietto di don Filippo e l'Ambrogino era addirittura stato il primo a vedere il suo cadavere. Consci e orgogliosi delle loro azioni, congedandosi, non ebbero remore a palesare la loro soddisfazione.  
«A domani!», si urlarono imboccando il bivio che li conduceva alle rispettive dimore. 
Mentre il Marengo e il sindaco si trattenevano ancora per un po’ nella stanza mortuaria, ipotizzando nuovi assurdi scenari; benché fosse ormai a entrambi sempre più evidente che la morte di don Filippo non fosse verosimilmente dipesa dalla sua volontà di farla finita, bensì dall'azione di qualche malvagio.
«Non riuscirei, in tal caso, a spiegarmi la faccenda del biglietto», commentò il Boffalora.
«Mi sa che qualcuno l'ha scritto al posto del prete», arguì il Marengo, sospinto da una specie di illuminazione.
«Sei sicuro che non fosse la sua calligrafia?».
«Facciamo ancora uno sforzo, e diamo una controllatina ai registri parrocchiali».
Ripresero il biglietto scoperto dal Giannino, conservato in un cassetto della scrivania del pievano, e andarono a confrontarlo con i documenti della curia.

37.

Il Marengo aprì il registro più recente e si soffermò sulle prime righe in cui don Filippo scriveva a proposito del battesimo del figlio di Giulio Sironi. Erano riportate date, nomi dei genitori, dei padrini e del nascituro, dettagli legati alle provenienze della famiglia buraghese, oltre a una specie di bollo che testimoniava il buon esito del rito. Il Boffalora avvicinò il messaggio incriminato e insieme paragonarono le due calligrafie.
Notarono al volo che erano piuttosto simili, ma non identiche. Qualcosa, come sospettato, non quadrava. Temporeggiarono sulla "s" maiuscola di "scusatemi", che cozzava maldestramente con la "s" maiuscola di Sironi.
«Vedi anche tu il riccio della "s" del registro?», chiese il Marengo.
«Vedo», affermò con veemenza il Boffalora.
La seconda "s" era, infatti, molto più raffinata, elegante, s'intuiva redatta da una persona abituata a scrivere e a leggere.
«Qui non c'è», disse indicando l'angosciante traccia trovata dal Giannino.
«Pensi che il biglietto sia stato creato intenzionalmente?».
«Tu?».
Il Boffalora strizzò gli occhi e corrucciò la fronte, rassegnato dall'idea che a questo punto qualunque risposta avrebbe avuto lo stesso peso.
«Mi pare la soluzione più ovvia. L'hanno fatto per confondere le ricerche».
«Forse siamo sulla strada giusta».  
Lo pensarono vicendevolmente, confortandosi con uno sguardo compiaciuto.
Sfogliarono quindi le successive pagine del registro, cercando nuove "s" da confrontare con il reperto del Giannino, e riscontrando lo stesso identico risultato: i due scritti erano stati elaborati da mani differenti.
Si acquietarono per un po’, immergendosi in un nuovo apocalittico silenzio. Finché il Marengo non si alzò per chiudere le finestre e spegnere i ceri, presto imitato dal sindaco, consapevole che ormai anche la loro autonomia fosse svanita: devastati dalla stanchezza, non sapevano più che parole spendere e quali ragionamenti affrontare. Diedero un'ultima occhiata al cadavere del prete, composto come un damerino all'ultima moda, e in religioso mutismo lasciarono finalmente la curia.
Percorsero un breve tratto di strada fianco a fianco, senza fiatare, con lo sguardo avvilito e inespressivo di chi non ha più alcuna speranza per il domani. Si lasciarono al bivio, dove pochi istanti prima si erano salutati anche il Giannino e l'Ambrogino, benedetti dal luccichio di una bellissima luna.
«Domani ne vedremo delle belle», mugugnò il Marengo.
«Non saprei proprio da dove iniziare», disse il Boffalora.
«Dovremo coinvolgere la gendarmeria di Vimercate».
Il Boffalora stropicciò le labbra, conscio del fatto che non ci fosse alternativa, benché la soluzione del giallo paresse lontanissima. Il Marengo colse l'invincibile stanchezza del compaesano e si chiese se anche la sua faccia fosse altrettanto deturpata.   
«A domani, allora, più di così per oggi non potevamo fare».
Si congedarono con un sorriso inutile. E giunti alle rispettive abitazioni, crollarono esausti sui propri giacigli.

38.

6 agosto

Il giorno del funerale di don Filippo brillava uno strano sole, pallido e scontato. Come se Dio avesse voluto tenere a bada la sua furia, per consentire alla cerimonia di scorrere mesta e raccolta, senza i clamori di una tradizionale e pomposa giornata estiva. Fu il contorto pensiero che attraversò la mente della Cesira, la prima dei buraghesi a tornare al feretro del prete. Lo giudicò, anche questo, un segno del creatore, che, ancora una volta, nulla aveva lasciato al caso.
Il Marengo e il Boffalora arrivarono poco dopo, preoccupati di raggiungere immediatamente l'Ambrogino e il Giannino, per comunicargli di non dire nulla di quello che avevano scoperto la sera prima.
«Per caso avete spifferato qualcosa?», domandò il Boffalora ai due giovani, intenti a chiacchierare sottovoce con alcuni coetanei.
«No, niente», disse il Giannino, quasi spaventato.
«Nulla», confermò l'Ambrogino.
In realtà quest'ultimo aveva rivelato al padre della nottata trascorsa con i due capi del villaggio, ma senza entrare nei dettagli, pervaso dalla consapevolezza che certi argomenti sarebbe stato meglio tenerli in serbo per occasioni più tranquille.
«Continuate a tenere cucita la bocca», disse il Boffalora, «ne parleremo a tempo debito».
Don Giuliano giunse in paese indossando una vestaglia scura e impolverata, a bordo di un carretto da battaglia, con la perpetua al seguito e un paio di chierichetti con il volto stralunato. Con la sua proverbiale mole, stuzzicò l'ilarità di qualche buraghese, che sorrise sotto i baffi, imbarazzato dinanzi alla tragicità dell'accaduto. Salutò svogliatamente un paio di contadini lungo il cammino e si diresse verso l'abitazione di don Filippo; dove fu colpito dall'odore acre che si respirava al suo interno, come se la dimora del pievano fosse stata isolata dal mondo per troppo tempo, dando modo a tossine, batteri e altre oscenità di colonizzare e snaturare ogni cosa. Vedendo l'amico prete, congelato in un'eterna smorfia di dolore, non poté fare a meno di trattenere le lacrime, e lagnarsi come un bambino strappato dalle braccia della madre. Lo rincuorò la perpetua, che gli andò vicino accarezzandogli dolcemente le spalle.
«Possiamo partire», disse pochissimi istanti dopo.
Il feretro di don Filippo fece strada, seguito dal tonitruante e cadenzato ritmo dei paesani, con gli occhi lucidi e le facce paonazze. Raggiunsero la chiesa, gli uomini si disposero alla destra della navata, le donne a sinistra, come sempre. Calò una cappa d'angoscia prima che il sacerdote di Cavenago prendesse parola e la messa avesse inizio. Coincise con il tintinnio acuto della campanella della sacrestia, e un segno della croce che risuonò nell'area come un mantra. Partì don Giuliano, ma non disse nulla di strano, almeno fino al momento della predica.
«Ho scelto questo passo delle sacre scritture, perché sono convinto che il nostro don Filippo sapesse benissimo cosa volesse dire amare il Signore, e scoprirlo e venerarlo in tutte le sue forme ».
Aveva appena finito di leggere un passo di Matteo, nel quale Gesù spiegava che per essere degni del Regno dei cieli occorreva ridiventare bambini. Così disincantò buona parte dei presenti, non alludendo ad alcuna ipotesi che potesse fare luce sulla scomparsa tragica del prete, ma suggerendo che qualunque fosse stata la sua fine, non avrebbe cambiato l'opinione nei suoi riguardi.  
«Andiamo in pace», disse con la voce rotta dal singhiozzo, prima che l'intero paese, compresa Marta Bucchi che per l'occasione aveva esibito il suo abito più sgargiante, si dirigesse al camposanto.

39.

7 agosto

Alla perpetua di don Filippo non era stato possibile arrivare in tempo per la cerimonia funebre e, sconvolta dal dolore, ancora non riusciva a perdonarselo. Piangeva a dirotto da ore, al punto che qualcuno s'era chiesto da dove potesse sgorgare tutto quel delirio lacrimale.
«Povera donna», bisbigliavano le paesane.
Eppure non era per colpa sua che aveva fatto tardi. S'era, infatti, affidata a un ubriacone di prima categoria che si era offerto di accompagnarla gratuitamente a Burago, su una malandata carrozza. Sembrava la soluzione ideale per arrivare nel minor tempo possibile al borgo brianzolo. Ma l'uomo aveva esagerato così tanto col bere che, poco dopo aver lasciato Como, si era addormentato come un sasso, lungo una strada poco battuta che, secondo il suo modesto parere, li avrebbe fatti rincasare prima dell'ora di pranzo.  
«Sei una botte di ferro», le aveva detto pochi istanti prima di fermarsi per liberare la vescica dietro a un cespuglio di vitalba e perdere definitivamente l'equilibrio e la ragione. Si era ripreso tre ore dopo, con la perpetua che l'avrebbe voluto uccidere con le sue mani se non avesse avuto timore di finire all'inferno.
Cercarono di rincuorarla anche il Pinuccio e il Luciano.  
«Forza perpetua, non faccia così, adesso don Filippo è in paradiso e pregherà per lei e per noi».
Ma la donna sembrava non essere presente, collegata ai barlumi di quella terra che da anni battezzava con il suo passo trafelato; gli occhi tumefatti come chi le ha prese di santa ragione e la mente lontana dalla realtà.  
«Cosa mi ha fatto? Cosa mi ha fatto? Cosa ha fatto il mio don Filippo? Cosa gli è venuto in mente?».
Alludeva all'unica ipotesi che le paresse plausibile e che ancora contraddistingueva l'opinione di quasi tutti i buraghesi: il prete s'era ammazzato. Di fatto, gliel'avevano detto subito del biglietto, e per lei ormai il caso era chiuso. Era tutto nero su bianco. Non c'erano alternative. Certo, non aveva la più pallida idea di ciò che avevano scoperto il Marengo e il Boffalora, con l'aiuto di Gandolfo e del suo stomaco malandato.
«Bontà divina, madre celeste», continuava a mormorare come rapita da un'estasi tormentata.  
Maria Casiraghi la guardò con aria compassionevole, comprendendo che per una donna così avanti negli anni, abituata al suo tradizionale viversi addosso, non ci sarebbe stata parola di conforto che avrebbe potuto sminuire la sua pena. Don Filippo era tutta la sua vita.
Non sapeva cos'altro fare se non badare a un prete. Anche prima di lavorare per il servo del Signore di Burago, aveva offerto il suo aiuto a un pievano. Era don Raimondo, prete di Calolziocorte, piccolo centro a due passi da Lecco. Viveva con lui in una specie di vecchio eremo, a due passi dal corso dell'Adda. La sua vita era trascorsa sempre serena e tranquilla, per non dire persa in una monotonia senza speranze, ma in qualche modo per lei benefica e gioviale.
«Non sappiamo ancora nulla», le disse la Maria, sfiorandole la mano gelida e ossuta, «non sappiamo cosa possa essergli veramente accaduto».
La perpetua alzò gli occhi al cielo, e il suo dolore si concretizzò in un grido soffocato.
«Lo sappiamo, lo sappiamo, solo che nessuno ha il coraggio di ammetterlo!».
La Palmira tentò di abbracciarla, ma la donna scosse le spalle soffocando nel suo calvario. Intorno, alcuni ragazzetti osservavano la scena con gli occhi esterrefatti, convinti di non avere mai visto una persona tanto sofferente.

40.

Ma il peggio doveva ancora venire. Si accorse per prima la Maria, che dal corso principale stavano arrivando i due capi del villaggio, come due condottieri al soldo di qualche vecchio mercenario spagnolo. Il Marengo precedeva il compaesano di un paio di passi, assorto in pensieri contorti, che con estrema facilità passavano da un argomento all'altro. Poco dietro c'era il Boffalora, con lo sguardo vagamente imbronciato, la camicia mezza sbottonata, i capelli arruffati; chiaro segno che s'era alzato da pochissimo e che avrebbe volentieri fatto a meno di correre di nuovo alla casa del morto per indagare su un mistero che, nel suo intimo, credeva non avrebbero mai risolto.
Al loro arrivo la piccola folla assiepata intorno alla perpetua si dissipò. I ragazzi smisero di mugugnare e le donne di confortare la serva di don Filippo.
«Andate a casa signore», disse il sindaco con fare deciso, «non serve tutta questa calca. Tornate alle vostre famiglie, ormai c'è ben poco da fare».
Non fu un grande sermone, tuttavia in pochi secondi i due uomini riuscirono a rimanere soli con la perpetua, proprio ciò che volevano, sormontati da un affascinante cielo cosparso di fili di nuvole.
La donna li osservava come se avesse di fronte due extraterrestri. La mente in subbuglio totale, non riusciva a mettere a fuoco le cose, come se all'improvviso fosse precipitata in un vortice di emozioni appannaggio di un'altra dimensione, così lontana dalla sua quotidianità. Se anche fosse stata morta stecchita come il suo amato pievano, sarebbe stata la stessa cosa. Lo pensò seriamente.
«Signora», tartagliò il Marengo, notando l'incredibile afflizione della donna.
La perpetua lo fissò con uno sguardo tremebondo. Voleva solo il silenzio.
«Forse è ancora presto per farle un interrogatorio», sussurrò il sindaco all'orecchio del Marengo.
«Se non lo facciamo ora, potrebbero sfuggirci indizi preziosi».
Aveva ragione, ma la perpetua era in uno stato tale di abbandono che sarebbe a malapena riuscita a pronunciare il suo nome. Come se non bastasse passò quella che veniva da tutti additata "la strega del villaggio", che, però, curiosamente, fornì alla sofferente il pretesto per riacquisire un po’ di lucidità. Le scagliò, infatti, un sasso che aveva tra i piedi.
Marta Bucchi non se la prese e la derise.
«Signore, vi prego», disse il Marengo, cercando di ripristinare l'ordine.
«Creatura dell'inferno, va via, va via!».
Sbigottirono i presenti, mentre Marta Bucchi prese a farle delle boccacce e a sventagliare la gonna mettendo in mostra senza remore la rammendata sottana.
«Non mi prendi, non mi prendi», si mise a cantilenare, come in un gioco per bambini non ancora svezzati.  
La perpetua si alzò per rincorrerla, ma il Boffalora glielo impedì strattonandola per un braccio.
«Perpetua, non faccia così, la conosciamo tutti com'è fatta. Lasci perdere».
«E' lei che porta il male in questo paese, è lei la strega, don Filippo lo diceva sempre».

Non ne fu così convinto il Marengo, che dondolò il capo, in segno di disapprovazione. Sapeva che don Filippo era un uomo al passo coi tempi e solo marginalmente succube della credenza popolare e di certi stigmi che molte persone si portavano appresso per l'ignoranza dei bifolchi; che la Marta Bucchi fosse una donna quantomeno eccentrica non c'erano dubbi, ma lo infastidiva il fatto che molti la ritenessero ancora una specie di creatura degli inferi. Erano passati i tempi della santa inquisizione, rifletté. 

L'universo di Alim Qasimov



Il Paganini del cymbalon

OBC, 14esima puntata: Il re del cymbalon