91.
Giunsero al laghetto
accompagnati da una brezza leggera, che fece ben sperare in un cambiamento del
clima: l'esperienza gli aveva, infatti, insegnato che quando il vento si alzava
dai monti, significava che non mancava molto alla pioggia. E solo Dio sapeva
quanto l’avrebbero benedetta.
«Buon segno», disse il
Bosi, trovando nell’argomento anche un buon motivo per tenere a bada la
tensione.
«Davvero», commentò il
Boffalora, «sarebbe bello che le cose cambiassero, anche se ormai quest’anno un
buon raccolto ce lo possiamo solo sognare».
«Ma c’è ancora in giro un
bel po’ di granoturco», intervenne il Banfi, «qualcosa potremmo ancora
recuperare».
Alle porte dello stagno
il Calimero rimase interdetto di fronte a tutto quel verde che cresceva così
rigoglioso. Non ci era mai stato, e a parte le foreste che lambivano il
famigerato crocicchio, pensava che non esistessero altri posti con tanto vigore
clorofilliano.
«Mai visto una selva del
genere», confidò sottovoce al Giannino.
«Per noi di Burago è un
posto ben noto», rispose l’amico, «benché capiti di rado che qualcuno passi da
queste parti. Se non fosse stato per l’omicidio di don Filippo, nessuno sarebbe
finito fin qui».
«Sembra un luogo di
fantasmi».
«Pensa che l’Ambrogino ci
è venuto da solo, e che proprio a lui ha scoperto il corpo del prete».
«Oddio, chissà che
paura. Io non ci dormirei la notte».
L’Ambrogino che aveva
udito tutto, intervenne con piglio autoritario.
«Non sono da tempo un
piscialletto».
Lasciò a bocca aperta
entrambi i ragazzi, mortificati dall’inaspettata e vanagloriosa uscita
dell’amico. Evitarono, comunque, di commentare, consci del fatto che sarebbe
stato assurdo, in un simile frangente, mettersi anche a litigare. Avanzarono
silenziosi, in coda al gruppo, finché non si ritrovarono oltre il scintillio
dello stagno, nel punto in cui poco prima, l’Ambrogino e il Giannino, erano
incappati nel Marengo e nel Boffalora.
«Peggio di una foresta»,
disse il Banfi.
«Alla faccia della
foresta», sorrise il Bosi, «qui ci vorrebbe un mulo per far strada in mezzo a
questo diavolo di piante».
«Eccolo», disse,
bruciapelo, il Marengo.
Davanti ai loro occhi si
stagliava il carretto che avevano individuato qualche ora prima, ma con un'aria
decisamente più sinistra. L’Ambrogino si portò come un falco in picchiata
sull’attrezzo, indicando il punto in cui erano ancora perfettamente
perscrutabili le tracce di sangue.
«Dio mio», blaterò il
Banfi.
«Allora che ci dice?»,
domandò il Bosi.
«E’ proprio il carretto
dei Greppi, non ho alcun dubbio», spiaccicò il Banfi, esterrefatto. «In cascina
non ce ne sono così tanti, e quei pochi che girano sappiamo bene di chi sono e
a cosa servono».
«Proprio come avevamo
supposto», disse il Boffalora.
«A questo punto è
perfettamente ricostruibile la dinamica dell’omicidio», sentenziò il Marengo.
Tutti penderono dalle
sue labbra.
«I Greppi hanno fatto
fuori in curia don Filippo, con il candelabro, come dimostra l’ecchimosi che
abbiamo trovato. L’hanno caricato in fretta e furia sul carretto e portato fin
qui, facendolo affogare nello stagno. In seguito hanno cercato di nascondere il
mezzo in uno dei punti più inaccessibili della regione e provato a fare
sparire, senza successo, il candelabro. E compilato una lettera di addio
fasulla. Finalmente tutto torna».
Non si sentì volare una
mosca. Non parve vero a nessuno che la vicenda fosse veramente all’epilogo e
che la soluzione al mistero della scomparsa di don Filippo fosse ormai dietro
l'angolo. L’Ambrogino e il Giannino non
poterono non scambiarsi un sorriso di sana e beata compiacenza.
92.
Quando giunsero di nuovo
al cospetto del giudice Ortolina, i loro stomaci gridarono pietà. Da ore non
mettevano qualcosa sotto i denti, e arrivate ormai le due di pomeriggio, il
desiderio di divorare qualcosa si era trasformato per tutti in un umanissimo e
insopportabile languore. Il primo a lamentarsi fu il Boffalora:
«Se non butto giù
qualcosa svengo».
Nessuno se la sentì di ammonirlo;
ma ci pensò l’Ortolina a placare gli animi della compagnia.
«Signori, se non vi
offendete, sarò lieto di ospitarvi per pranzo, così potremo tranquillamente
discutere della questione e decidere come muoverci per chiudere una volta per
tutte il caso».
«Per pranzo?», domandò
il Boffalora.
«Beh, non so se qualcuno
di voi se la sente di tirare l’ora di cena…».
Risero in coro,
finalmente un po’ più leggeri.
«Prego, seguitemi»,
disse il giudice.
Lasciarono la sala
principale del Manzi per raggiungere un locale interno, riservato di solito ai
famigliari del proprietario o ai clienti più intimi desiderosi di un po’ di
pace. L’Ortolina aveva già sistemato tutto con i titolari, dicendo loro che
avrebbe saldato l'indomani l'intero debito. Non gli fu difficile passare per un
valido istrione e padrone di casa, sapendo perfettamente come comportarsi e
prendersi certe libertà. D'altra parte lo poteva fare: con tutti i pranzi e le
cene che consumava in quel ristorante, c'era da fargli un monumento per la
fedeltà riservata ai piatti del vimercatese.
Sedettero a un grande
tavolo circolare, tipo i cavalieri della tavola rotonda, aspettando che la
Ivana, la ragazza che abitualmente serviva trippe e cassuole, giungesse al loro
cospetto con una bella brocca di vino e un po’ di pane.
La giovane, i cui
bellissimi occhi non erano sfuggiti a quella vivace platea maschile pronta a
rifocillarsi, non ci mise molto a soddisfare le esigenze dei commensali. I più
stupiti furono i ragazzi, abituati alle povere mense casalinghe; e qui invece trattati
come uomini d’alto rango, meritevoli delle migliori prelibatezze della regione.
In effetti, erano in compagnia di ben due sindaci, un giudice, e di un umile ma
lungimirante padre di famiglia che, se avesse avuto un po’ più di fortuna,
sarebbe potuto essere uno dei principali proprietari terrieri della zona.
«Dunque, signori, ditemi
bene come sono andate le cose», esordì l’Ortolina.
Il Marengo indicò
l'abitante di cascina Branca con un cenno del mento.
«Posso giurare che
quello è proprio il carretto dei Greppi», disse il Banfi, serafico, appoggiato
dal figlio che annuì con vigore.
Anche gli altri uomini
andati in perlustrazione fecero capire che era quello il carretto incriminato.
«In realtà, è emerso un
dato ancora più interessante», disse il Marengo.
«In che senso?», chiese
l’Ortolina.
«Vuoi spiegarlo tu?»,
domandò il Marengo a Calimero.
Il ragazzo deglutì
imbarazzato e prese a raccontare quel che aveva visto.
«Doveva essere la sera
del 2 agosto, o del 3. Ho incontrato i Greppi poco fuori la cascina e mi
volevano vendere un candelabro. Gli ho risposto che non avrei potuto
acquistarlo perché non avevo i soldi, e poi ho lasciato morire la cosa. Non
avrei mai immaginato, infatti, che potessero averlo utilizzato per uccidere don
Filippo; anche perché all’epoca non sapevo nulla della triste fine del prete di
Burago».
L’Ortolina sbigottì,
comprendendo in pochi secondi che tutto quadrava alla perfezione, come le
perfette geometrie di un fiocco di neve.
«Allora, miei signori,
direi che non c’è altro da aggiungere».
Nessuno obiettò.
«Compiliamo
immediatamente un mandato di perquisizione e arresto e partiamo per cascina
Branca».
«Quanto ci vuole
per...».
Il Boffalora non finì la
frase.
«Stasera faccio tutto e
domani possiamo andare a incastrare quei farabutti», disse l’Ortolina.
«Benissimo, direi»,
commentò il Bosi, «Marengo, cosa ne pensa?».
«Assolutamente
d’accordo. Se vorrete noi potremo farci trovare già qui per l’alba».
«Ora mangiamo signori»,
disse l’Ortolina, «e con lo stomaco pieno prenderemo le ultime decisioni».
Arrivarono le portate
più abbondanti che avessero mai sognato. Fu un pranzo davvero felice e
piacevole. E per fortuna non si parlò solo dell’assassinio di don Filippo.
14 agosto
93.
Con la pancia piena
s’erano dati appuntamento per l’indomani alle sette, davanti alla cascina San Paolo.
Non c’era particolare fretta, ma l’ansia di poter mettere al muro i due Greppi,
contagiò un po’ tutti. Il Marengo avrebbe preferito limitare a pochi uomini la
missione, ma non gli fu possibile non invitare l’Ambrogino e il Giannino;
rendendosi perfettamente conto che il loro contributo alle ricerche era stato
determinante e ora che arrivava la parte più succulenta dell’incredibile
storia, non gli pareva corretto fare finta di niente ed escluderli.
Alle sette di mattina in
punto, della vigilia di Ferragosto del 1855, sfilarono, dunque, di fronte alla
cascina più meridionale del vimercatese, come un battaglione pronto alla
riscossa, il Marengo, il Boffalora, il Bosi, l’Ortolina e i due ragazzi.
«Ci siamo», bofonchiò il
Bosi, ancora assonnato.
«Pronti a stanare quei
maledetti assassini», disse il Boffalora.
«Non sarà una
passeggiata, ma temo che questa volta non avranno modo di scamparla», berciò il
Marengo.
«Bene, allora, si parte,
fate strada voi che io in quel covo di matti non ho ancora avuto il piacere, o
il dispiacere, di metterci piede», disse l’Ortolina.
Non intervennero
l’Ambrogino e il Giannino, per il sonno arretrato, che cominciava a pesare
anche sulle loro palpebre, e per il pudore derivante dal fatto di poter far
ufficialmente parte del manipolo di uomini che avrebbe finalmente regalato ai
buraghesi la verità sulla fine di don Filippo; ma in cuor loro non vedevano
l’ora di poter fronteggiare i due malavitosi e gridare al cielo il loro
entusiasmo.
«Stai pensando anche tu
a quello che sto pensando io?», chiese il Giannino all’amico.
«Se anche tu stai
pensando alla faccia che faranno quando ci vedranno arrivare…».
«Proprio, cani malefici,
finalmente avrete la vostra croce».
Non dissero altro e
proseguirono in coda ai grandi, con lo sguardo concentrato e attento a ogni
minimo sussulto del quartetto apripista. Ormai i giochi erano fatti, ma davvero
fu difficile per chiunque prevedere quale sarebbe stato il reale epilogo della
vicenda e in che modo avrebbero gestito la furia dei Greppi; e questa
consapevolezza, nei più giovani, trovò sfogo in nervose smorfie del viso o
inconsulti gesti delle braccia, tipo quello inteso a mimare un incontro
ravvicinato con lo spettro del crocicchio.
La giornata prendeva il
via preannunciando il solito solleone. Faceva già un caldo della malora, e il
cielo non lasciava presagire ad alcun cambiamento imminente, alla faccia della
brezza goduta il giorno prima. A un certo punto del tragitto fu per tutti
possibile rimirare le lontane cime della catena del Monte Rosa, cosa che
accadeva solo nelle giornate più limpide e soleggiate, lo spettacolo ideale per
cacciare i cattivi pensieri.
«Ci siete ragazzi?»,
domandò il Marengo, attraversando il ponte sul Molgora.
«Prontissimi», risposero
in coro, pur non comprendendo la necessità di compiere un giro così lungo per
arrivare a cascina Branca.
«Forse vogliono passare
a prendere qualcuno da Burago», disse il Giannino, non appena il Marengo
riprese a trotterellare con gli altri.
«Mah, secondo me l’hanno
fatto perché non c’è nessuna premura e per avere tutto il tempo per preparare
al meglio la sortita».
«Può essere».
Dopo una decina di
minuti scorsero all'orizzonte il pittoresco e confusionario profilo della
cascina: il grande momento era finalmente arrivato.
94.
Imboccarono il lungo
sentiero che conduceva alla tenuta situata sulla strada per Ornago. L’Ortolina
disse a tutti di stare tranquilli che già in altre occasioni s’era trovato a
dover affrontare assassini come i Greppi. Spiegò che di fronte a certe prove
non c’era la speranza che potessero farla franca. E che quindi si sarebbero
arresi senza tante storie.
«E se ci affrontassero
con qualche arma strana?», domandò il Boffalora.
«Non andrebbero comunque
molto lontani con un bel mandato di cattura che potrebbe trasformarsi
rapidamente in una condanna a morte. In ogni caso questa vi stare meglio?».
Il giudice estrasse una
pistola che possedeva da una vita, e che non dimenticava di rispolverare ogni
volta che si trovava a dover fare quadrare qualche conto.
«Anche questo potrebbe
servire», disse il Marengo estraendo un coltellaccio dal fondo dei pantaloni.
Lo guardarono
sbalorditi: nessuno si aspettava che un uomo così saggio e retto come il
Marengo potesse avvalersi di un simile oggetto.
«Non è certo nel mio
stile, ma bisogna essere preparati a tutto», aggiunse, con un sorriso
belligerante.
«Ben detto, Marengo»,
disse il Bosi, «così stiamo in una botte di ferro».
Da lontano
intravidero la Biraghi che trafficava con un catino malconcio;
pensarono che stesse preparandosi a lavare i panni o a stenderli. Fecero finta
di niente e proseguirono per la loro strada, limitandosi a un saluto cordiale.
Mantennero lo stesso atteggiamento anche transitando di fronte alla casa dei
Banfi, benché fossero d’accordo che a un certo punto sarebbero entrati
anch’essi in azione, per essere certi di avere la meglio sui due farabutti.
C’era sulla porta solo la signora di casa.
Il Bosi la salutò
strizzando un occhio, presto imitato da tutti gli altri della missione.
L’aia era deserta. Gran
parte degli uomini era già a spasso nei campi e le donne in casa a sistemare i
letti o a pulire qualche stanza. La casa dei Greppi apparve di fronte ai loro
occhi in tutta la sua esuberante peccaminosità. Sembrava ancora più ridondante
di quando l’avevano vista pochi giorni prima, come se nel frattempo nuovi
lavori avessero contribuito a renderla ulteriormente sfarzosa. Intorno non
c’era anima viva. Le finestre e il cancello del giardino erano chiusi. Così le
persiane. Fu per tutti evidente che i due fratelli stessero ancora dormendo.
Niente di strano, visto che spesso tiravano tardi ubriacandosi e poi
svegliandosi quando il sole era già alto da un pezzo.
«Sono ancora nel mondo
dei sogni», blaterò il Boffalora.
«Così sembra», disse il
Bosi.
«Che facciamo
Ortolina?», domandò il Boffalora.
«Muoviamoci piano. Potrebbe
essere una messa in scena».
«Cosa vuole dire?»,
domandò l'Ambrogino.
«Magari ci hanno già
visti e stanno studiando le nostre mosse da qualche pertugio».
L’Ambrogino e il Giannino,
per la prima volta, provarono paura. Un sentimento vivo e tenace che gli
strinse la gola e gli tolse il respiro. Ma fecero di tutto per mostrarsi
impavidi e risoluti: erano ormai pronti a tutto.
«Vado avanti io», disse
il giudice, infilando la mano nella tasca dove custodiva la pistola.
Dietro di lui in fila
indiana si mossero il Marengo, il Bosi, il Boffalora e infine i due giovani.
«Ci siamo», disse
l’Ortolina, provando a bussare alla porta principale della casa.
Non arrivò alcuna
risposta. Riprovò con più vigore. Ancora nulla.
«Nel caso dovremo
sfondare la porta», suggerì il Bosi.
«È proprio quello che
sto per fare», disse spavaldamente il giudice.
95.
L’uomo da cento chili
prese una bella rincorsa e come un pachiderma vinse l’uscio dei Greppi, proiettando
la porta a un paio di metri di distanza, che si frantumò a terra a mo’ di un
vaso di porcellana.
«Sarà anche una
bella casa, ma questo legno non vale niente», ironizzò l’Ortolina.
Nella casa dei Greppi si
respirava un odore acre, tipico delle dimore che vengono aperte raramente, con
fuori oltre trenta gradi. All'Ambrogino parve di respirare lo stesso olezzo
percepito in casa di don Filippo, durante la veglia funebre. Era lo stesso
odore di marcio. Del resto i due, in estate almeno, trascorrevano quasi tutto
il tempo all'aria aperta, nel giardino o nell’orto, dove qualche volta avevano
anche provato a passare la notte. Era buio, ma si potevano intravedere i mobili
e qualche elegante quadro alle pareti, in antitesi alla sciatteria
comportamentale dei due malfattori.
«Dio...», si sentì
bestemmiare a voce alta.
Il rumore della porta
che crollava aveva destato i due Greppi che coperti dalle sole mutande si
precipitarono all’esterno della stanza per capire cosa stesse succedendo. Si
presentarono agli occhi dei presenti con le croste agli occhi, la barba sfatta,
come due moribondi in fuga da una guerra civile.
«Ancora voi?», domandò
il più vecchio dei due, incredulo di fronte a quella accozzaglia di uomini
agguerriti.
«Ancora noi, Greppi»,
esordì il Bosi, «e se non volete peggiorare le cose vi conviene sedervi, darvi
una calmata e starci a sentire. E se doveste avere qualche dubbio sulla nostra
perentoria azione, ecco qui un bel mandato di perquisizione».
I due Greppi cercarono
di mantenere la calma, ma non fu facile. Ancora si sentivano liberi e
immacolati, e non comprendevano come degli sconosciuti potessero trattarli
tanto male in casa loro. Tentarono di rientrare nei gangheri, individuando un
modo banale, ma sufficientemente credibile per alleggerire la situazione e
deviare il discorso.
«Vorreste almeno
lasciarci indossare qualcosa?».
«Oh, certo, ma
preferiremmo che qualcuno controllasse le vostre mosse», disse l’Ortolina, «non
vi dispiace se vi seguo con questo piccolo giocattolo?».
Il giudice estrasse la
pistola e accompagnò i due sgherri in camera, mentre il Bosi apriva un paio di
imposte per vincere le tenebre di una notte non ancora evaporata.
«Quanto chiasso per
nulla», obiettò il più giovane, «vi sembra questo il modo di intrufolarsi nella
casa di gentiluomini?».
«Vedremo se siete
davvero dei gentiluomini», disse l’Ortolina, «se adesso avrete la compiacenza
di rispondere alle nostre domande, potremo risolvere ogni dubbio».
Sul volto del più anziano
dei Greppi si disegnò un ringhio diabolico. Dentro di sé si materializzò la
volontà di vendetta. Se solo avesse avuto la possibilità di recuperare il suo archibugio,
che custodiva gelosamente in un anfratto del muro della cucina... gliela
avrebbe fatta vedere lui.
«Buh!», urlò il più
giovane dei Greppi al Giannino, che prese a sussultare come una foglia.
«Si sieda, Greppi!»,
ordinò l’Ortolina, con la pistola piantata, «e non faccia tanto il gradasso».
I due fratelli si
accomodarono spavaldi sulle proprie poltrone, pronti a difendersi come antichi
gladiatori.
«Bene, se siete
d’accordo, e anche se non lo siete, direi che possiamo iniziare con
l’interrogatorio. Marengo, vuole partire lei?».
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