martedì 5 agosto 2014

Ferragosto # 19


91.

Giunsero al laghetto accompagnati da una brezza leggera, che fece ben sperare in un cambiamento del clima: l'esperienza gli aveva, infatti, insegnato che quando il vento si alzava dai monti, significava che non mancava molto alla pioggia. E solo Dio sapeva quanto l’avrebbero benedetta.
«Buon segno», disse il Bosi, trovando nell’argomento anche un buon motivo per tenere a bada la tensione.
«Davvero», commentò il Boffalora, «sarebbe bello che le cose cambiassero, anche se ormai quest’anno un buon raccolto ce lo possiamo solo sognare».
«Ma c’è ancora in giro un bel po’ di granoturco», intervenne il Banfi, «qualcosa potremmo ancora recuperare».
Alle porte dello stagno il Calimero rimase interdetto di fronte a tutto quel verde che cresceva così rigoglioso. Non ci era mai stato, e a parte le foreste che lambivano il famigerato crocicchio, pensava che non esistessero altri posti con tanto vigore clorofilliano.  
«Mai visto una selva del genere», confidò sottovoce al Giannino.
«Per noi di Burago è un posto ben noto», rispose l’amico, «benché capiti di rado che qualcuno passi da queste parti. Se non fosse stato per l’omicidio di don Filippo, nessuno sarebbe finito fin qui».
«Sembra un luogo di fantasmi».
«Pensa che l’Ambrogino ci è venuto da solo, e che proprio a lui ha scoperto il corpo del prete».
«Oddio, chissà che paura. Io non ci dormirei la notte».
L’Ambrogino che aveva udito tutto, intervenne con piglio autoritario.
«Non sono da tempo un piscialletto».
Lasciò a bocca aperta entrambi i ragazzi, mortificati dall’inaspettata e vanagloriosa uscita dell’amico. Evitarono, comunque, di commentare, consci del fatto che sarebbe stato assurdo, in un simile frangente, mettersi anche a litigare. Avanzarono silenziosi, in coda al gruppo, finché non si ritrovarono oltre il scintillio dello stagno, nel punto in cui poco prima, l’Ambrogino e il Giannino, erano incappati nel Marengo e nel Boffalora.
«Peggio di una foresta», disse il Banfi.
«Alla faccia della foresta», sorrise il Bosi, «qui ci vorrebbe un mulo per far strada in mezzo a questo diavolo di piante».
«Eccolo», disse, bruciapelo, il Marengo.
Davanti ai loro occhi si stagliava il carretto che avevano individuato qualche ora prima, ma con un'aria decisamente più sinistra. L’Ambrogino si portò come un falco in picchiata sull’attrezzo, indicando il punto in cui erano ancora perfettamente perscrutabili le tracce di sangue.
«Dio mio», blaterò il Banfi.
«Allora che ci dice?», domandò il Bosi.
«E’ proprio il carretto dei Greppi, non ho alcun dubbio», spiaccicò il Banfi, esterrefatto. «In cascina non ce ne sono così tanti, e quei pochi che girano sappiamo bene di chi sono e a cosa servono».
«Proprio come avevamo supposto», disse il Boffalora.
«A questo punto è perfettamente ricostruibile la dinamica dell’omicidio», sentenziò il Marengo.
Tutti penderono dalle sue labbra.
«I Greppi hanno fatto fuori in curia don Filippo, con il candelabro, come dimostra l’ecchimosi che abbiamo trovato. L’hanno caricato in fretta e furia sul carretto e portato fin qui, facendolo affogare nello stagno. In seguito hanno cercato di nascondere il mezzo in uno dei punti più inaccessibili della regione e provato a fare sparire, senza successo, il candelabro. E compilato una lettera di addio fasulla. Finalmente tutto torna».
Non si sentì volare una mosca. Non parve vero a nessuno che la vicenda fosse veramente all’epilogo e che la soluzione al mistero della scomparsa di don Filippo fosse ormai dietro l'angolo.  L’Ambrogino e il Giannino non poterono non scambiarsi un sorriso di sana e beata compiacenza.

92.

Quando giunsero di nuovo al cospetto del giudice Ortolina, i loro stomaci gridarono pietà. Da ore non mettevano qualcosa sotto i denti, e arrivate ormai le due di pomeriggio, il desiderio di divorare qualcosa si era trasformato per tutti in un umanissimo e insopportabile languore. Il primo a lamentarsi fu il Boffalora:
«Se non butto giù qualcosa svengo».
Nessuno se la sentì di ammonirlo; ma ci pensò l’Ortolina a placare gli animi della compagnia.
«Signori, se non vi offendete, sarò lieto di ospitarvi per pranzo, così potremo tranquillamente discutere della questione e decidere come muoverci per chiudere una volta per tutte il caso».
«Per pranzo?», domandò il Boffalora.
«Beh, non so se qualcuno di voi se la sente di tirare l’ora di cena…».
Risero in coro, finalmente un po’ più leggeri.
«Prego, seguitemi», disse il giudice.
Lasciarono la sala principale del Manzi per raggiungere un locale interno, riservato di solito ai famigliari del proprietario o ai clienti più intimi desiderosi di un po’ di pace. L’Ortolina aveva già sistemato tutto con i titolari, dicendo loro che avrebbe saldato l'indomani l'intero debito. Non gli fu difficile passare per un valido istrione e padrone di casa, sapendo perfettamente come comportarsi e prendersi certe libertà. D'altra parte lo poteva fare: con tutti i pranzi e le cene che consumava in quel ristorante, c'era da fargli un monumento per la fedeltà riservata ai piatti del vimercatese.
Sedettero a un grande tavolo circolare, tipo i cavalieri della tavola rotonda, aspettando che la Ivana, la ragazza che abitualmente serviva trippe e cassuole, giungesse al loro cospetto con una bella brocca di vino e un po’ di pane.
La giovane, i cui bellissimi occhi non erano sfuggiti a quella vivace platea maschile pronta a rifocillarsi, non ci mise molto a soddisfare le esigenze dei commensali. I più stupiti furono i ragazzi, abituati alle povere mense casalinghe; e qui invece trattati come uomini d’alto rango, meritevoli delle migliori prelibatezze della regione. In effetti, erano in compagnia di ben due sindaci, un giudice, e di un umile ma lungimirante padre di famiglia che, se avesse avuto un po’ più di fortuna, sarebbe potuto essere uno dei principali proprietari terrieri della zona.
«Dunque, signori, ditemi bene come sono andate le cose», esordì l’Ortolina.
Il Marengo indicò l'abitante di cascina Branca con un cenno del mento.
«Posso giurare che quello è proprio il carretto dei Greppi», disse il Banfi, serafico, appoggiato dal figlio che annuì con vigore.
Anche gli altri uomini andati in perlustrazione fecero capire che era quello il carretto incriminato.
«In realtà, è emerso un dato ancora più interessante», disse il Marengo.
«In che senso?», chiese l’Ortolina.
«Vuoi spiegarlo tu?», domandò il Marengo a Calimero.
Il ragazzo deglutì imbarazzato e prese a raccontare quel che aveva visto.
«Doveva essere la sera del 2 agosto, o del 3. Ho incontrato i Greppi poco fuori la cascina e mi volevano vendere un candelabro. Gli ho risposto che non avrei potuto acquistarlo perché non avevo i soldi, e poi ho lasciato morire la cosa. Non avrei mai immaginato, infatti, che potessero averlo utilizzato per uccidere don Filippo; anche perché all’epoca non sapevo nulla della triste fine del prete di Burago».
L’Ortolina sbigottì, comprendendo in pochi secondi che tutto quadrava alla perfezione, come le perfette geometrie di un fiocco di neve.
«Allora, miei signori, direi che non c’è altro da aggiungere».
Nessuno obiettò.
«Compiliamo immediatamente un mandato di perquisizione e arresto e partiamo per cascina Branca».
«Quanto ci vuole per...».
Il Boffalora non finì la frase.
«Stasera faccio tutto e domani possiamo andare a incastrare quei farabutti», disse l’Ortolina.
«Benissimo, direi», commentò il Bosi, «Marengo, cosa ne pensa?».
«Assolutamente d’accordo. Se vorrete noi potremo farci trovare già qui per l’alba».
«Ora mangiamo signori», disse l’Ortolina, «e con lo stomaco pieno prenderemo le ultime decisioni».
Arrivarono le portate più abbondanti che avessero mai sognato. Fu un pranzo davvero felice e piacevole. E per fortuna non si parlò solo dell’assassinio di don Filippo.

14 agosto

93.

Con la pancia piena s’erano dati appuntamento per l’indomani alle sette, davanti alla cascina San Paolo. Non c’era particolare fretta, ma l’ansia di poter mettere al muro i due Greppi, contagiò un po’ tutti. Il Marengo avrebbe preferito limitare a pochi uomini la missione, ma non gli fu possibile non invitare l’Ambrogino e il Giannino; rendendosi perfettamente conto che il loro contributo alle ricerche era stato determinante e ora che arrivava la parte più succulenta dell’incredibile storia, non gli pareva corretto fare finta di niente ed escluderli.
Alle sette di mattina in punto, della vigilia di Ferragosto del 1855, sfilarono, dunque, di fronte alla cascina più meridionale del vimercatese, come un battaglione pronto alla riscossa, il Marengo, il Boffalora, il Bosi, l’Ortolina e i due ragazzi.
«Ci siamo», bofonchiò il Bosi, ancora assonnato.
«Pronti a stanare quei maledetti assassini», disse il Boffalora.
«Non sarà una passeggiata, ma temo che questa volta non avranno modo di scamparla», berciò il Marengo.
«Bene, allora, si parte, fate strada voi che io in quel covo di matti non ho ancora avuto il piacere, o il dispiacere, di metterci piede», disse l’Ortolina.
Non intervennero l’Ambrogino e il Giannino, per il sonno arretrato, che cominciava a pesare anche sulle loro palpebre, e per il pudore derivante dal fatto di poter far ufficialmente parte del manipolo di uomini che avrebbe finalmente regalato ai buraghesi la verità sulla fine di don Filippo; ma in cuor loro non vedevano l’ora di  poter fronteggiare i due malavitosi e gridare al cielo il loro entusiasmo.
«Stai pensando anche tu a quello che sto pensando io?», chiese il Giannino all’amico.
«Se anche tu stai pensando alla faccia che faranno quando ci vedranno arrivare…».
«Proprio, cani malefici, finalmente avrete la vostra croce».
Non dissero altro e proseguirono in coda ai grandi, con lo sguardo concentrato e attento a ogni minimo sussulto del quartetto apripista. Ormai i giochi erano fatti, ma davvero fu difficile per chiunque prevedere quale sarebbe stato il reale epilogo della vicenda e in che modo avrebbero gestito la furia dei Greppi; e questa consapevolezza, nei più giovani, trovò sfogo in nervose smorfie del viso o inconsulti gesti delle braccia, tipo quello inteso a mimare un incontro ravvicinato con lo spettro del crocicchio.
La giornata prendeva il via preannunciando il solito solleone. Faceva già un caldo della malora, e il cielo non lasciava presagire ad alcun cambiamento imminente, alla faccia della brezza goduta il giorno prima. A un certo punto del tragitto fu per tutti possibile rimirare le lontane cime della catena del Monte Rosa, cosa che accadeva solo nelle giornate più limpide e soleggiate, lo spettacolo ideale per cacciare i cattivi pensieri.
«Ci siete ragazzi?», domandò il Marengo, attraversando il ponte sul Molgora.
«Prontissimi», risposero in coro, pur non comprendendo la necessità di compiere un giro così lungo per arrivare a cascina Branca.
«Forse vogliono passare a prendere qualcuno da Burago», disse il Giannino, non appena il Marengo riprese a trotterellare con gli altri.
«Mah, secondo me l’hanno fatto perché non c’è nessuna premura e per avere tutto il tempo per preparare al meglio la sortita».
«Può essere».
Dopo una decina di minuti scorsero all'orizzonte il pittoresco e confusionario profilo della cascina: il grande momento era finalmente arrivato.

94.

Imboccarono il lungo sentiero che conduceva alla tenuta situata sulla strada per Ornago. L’Ortolina disse a tutti di stare tranquilli che già in altre occasioni s’era trovato a dover affrontare assassini come i Greppi. Spiegò che di fronte a certe prove non c’era la speranza che potessero farla franca. E che quindi si sarebbero arresi senza tante storie.
«E se ci affrontassero con qualche arma strana?», domandò il Boffalora.
«Non andrebbero comunque molto lontani con un bel mandato di cattura che potrebbe trasformarsi rapidamente in una condanna a morte. In ogni caso questa vi stare meglio?».
Il giudice estrasse una pistola che possedeva da una vita, e che non dimenticava di rispolverare ogni volta che si trovava a dover fare quadrare qualche conto.
«Anche questo potrebbe servire», disse il Marengo estraendo un coltellaccio dal fondo dei pantaloni.
Lo guardarono sbalorditi: nessuno si aspettava che un uomo così saggio e retto come il Marengo potesse avvalersi di un simile oggetto.
«Non è certo nel mio stile, ma bisogna essere preparati a tutto», aggiunse, con un sorriso belligerante.
«Ben detto, Marengo», disse il Bosi, «così stiamo in una botte di ferro».
Da lontano intravidero la Biraghi che trafficava con un catino malconcio; pensarono che stesse preparandosi a lavare i panni o a stenderli. Fecero finta di niente e proseguirono per la loro strada, limitandosi a un saluto cordiale. Mantennero lo stesso atteggiamento anche transitando di fronte alla casa dei Banfi, benché fossero d’accordo che a un certo punto sarebbero entrati anch’essi in azione, per essere certi di avere la meglio sui due farabutti. C’era sulla porta solo la signora di casa.
Il Bosi la salutò strizzando un occhio, presto imitato da tutti gli altri della missione.
L’aia era deserta. Gran parte degli uomini era già a spasso nei campi e le donne in casa a sistemare i letti o a pulire qualche stanza. La casa dei Greppi apparve di fronte ai loro occhi in tutta la sua esuberante peccaminosità. Sembrava ancora più ridondante di quando l’avevano vista pochi giorni prima, come se nel frattempo nuovi lavori avessero contribuito a renderla ulteriormente sfarzosa. Intorno non c’era anima viva. Le finestre e il cancello del giardino erano chiusi. Così le persiane. Fu per tutti evidente che i due fratelli stessero ancora dormendo. Niente di strano, visto che spesso tiravano tardi ubriacandosi e poi svegliandosi quando il sole era già alto da un pezzo.   
«Sono ancora nel mondo dei sogni», blaterò il Boffalora.
«Così sembra», disse il Bosi.
«Che facciamo Ortolina?», domandò il Boffalora.
«Muoviamoci piano. Potrebbe essere una messa in scena».
«Cosa vuole dire?», domandò l'Ambrogino.
«Magari ci hanno già visti e stanno studiando le nostre mosse da qualche pertugio».
L’Ambrogino e il Giannino, per la prima volta, provarono paura. Un sentimento vivo e tenace che gli strinse la gola e gli tolse il respiro. Ma fecero di tutto per mostrarsi impavidi e risoluti: erano ormai pronti a tutto.
«Vado avanti io», disse il giudice, infilando la mano nella tasca dove custodiva la pistola.
Dietro di lui in fila indiana si mossero il Marengo, il Bosi, il Boffalora e infine i due giovani.
«Ci siamo», disse l’Ortolina, provando a bussare alla porta principale della casa.
Non arrivò alcuna risposta. Riprovò con più vigore. Ancora nulla.
«Nel caso dovremo sfondare la porta», suggerì il Bosi.
«È proprio quello che sto per fare», disse spavaldamente il giudice.

95.

L’uomo da cento chili prese una bella rincorsa e come un pachiderma vinse l’uscio dei Greppi, proiettando la porta a un paio di metri di distanza, che si frantumò a terra a mo’ di un vaso di porcellana.
«Sarà anche una bella casa, ma questo legno non vale niente», ironizzò l’Ortolina.
Nella casa dei Greppi si respirava un odore acre, tipico delle dimore che vengono aperte raramente, con fuori oltre trenta gradi. All'Ambrogino parve di respirare lo stesso olezzo percepito in casa di don Filippo, durante la veglia funebre. Era lo stesso odore di marcio. Del resto i due, in estate almeno, trascorrevano quasi tutto il tempo all'aria aperta, nel giardino o nell’orto, dove qualche volta avevano anche provato a passare la notte. Era buio, ma si potevano intravedere i mobili e qualche elegante quadro alle pareti, in antitesi alla sciatteria comportamentale dei due malfattori.
«Dio...», si sentì bestemmiare a voce alta.
Il rumore della porta che crollava aveva destato i due Greppi che coperti dalle sole mutande si precipitarono all’esterno della stanza per capire cosa stesse succedendo. Si presentarono agli occhi dei presenti con le croste agli occhi, la barba sfatta, come due moribondi in fuga da una guerra civile.
«Ancora voi?», domandò il più vecchio dei due, incredulo di fronte a quella accozzaglia di uomini agguerriti.
«Ancora noi, Greppi», esordì il Bosi, «e se non volete peggiorare le cose vi conviene sedervi, darvi una calmata e starci a sentire. E se doveste avere qualche dubbio sulla nostra perentoria azione, ecco qui un bel mandato di perquisizione».
I due Greppi cercarono di mantenere la calma, ma non fu facile. Ancora si sentivano liberi e immacolati, e non comprendevano come degli sconosciuti potessero trattarli tanto male in casa loro. Tentarono di rientrare nei gangheri, individuando un modo banale, ma sufficientemente credibile per alleggerire la situazione e deviare il discorso.
«Vorreste almeno lasciarci indossare qualcosa?».
«Oh, certo, ma preferiremmo che qualcuno controllasse le vostre mosse», disse l’Ortolina, «non vi dispiace se vi seguo con questo piccolo giocattolo?».
Il giudice estrasse la pistola e accompagnò i due sgherri in camera, mentre il Bosi apriva un paio di imposte per vincere le tenebre di una notte non ancora evaporata.   
«Quanto chiasso per nulla», obiettò il più giovane, «vi sembra questo il modo di intrufolarsi nella casa di gentiluomini?».
«Vedremo se siete davvero dei gentiluomini», disse l’Ortolina, «se adesso avrete la compiacenza di rispondere alle nostre domande, potremo risolvere ogni dubbio».
Sul volto del più anziano dei Greppi si disegnò un ringhio diabolico. Dentro di sé si materializzò la volontà di vendetta. Se solo avesse avuto la possibilità di recuperare il suo archibugio, che custodiva gelosamente in un anfratto del muro della cucina... gliela avrebbe fatta vedere lui.
«Buh!», urlò il più giovane dei Greppi al Giannino, che prese a sussultare come una foglia.
«Si sieda, Greppi!», ordinò l’Ortolina, con la pistola piantata, «e non faccia tanto il gradasso».
I due fratelli si accomodarono spavaldi sulle proprie poltrone, pronti a difendersi come antichi gladiatori.

«Bene, se siete d’accordo, e anche se non lo siete, direi che possiamo iniziare con l’interrogatorio. Marengo, vuole partire lei?». 

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