10.
Stalking
suburbano
Stamane vado a
prendere il pane e ho l'impressione di essere tallonato. Un'impressione sottile,
quasi impercettibile, uno spirito che mi osserva, mi scruta, studia il mio
comportamento. Un alito di vento che soffia alle mie spalle, rendendomi
nervoso. Mi giro di scatto per capire se c'è davvero qualcuno pronto a
scannarmi appena voltato un angolo, ma non scorgo che qualche uccellino intento
a soffiare gli avanzi di una pizza a un suo simile. Una coppia nota i miei
movimenti improvvisi e non può fare a meno di squadrarmi con biasimo: non devo
essergli sembrato molto normale.
Il panificio si
trova lungo una piccola stradina del budello storico. Forse ce ne sono altri,
magari anche più vicini, ma questo è il primo che ho trovato e, per questo
semplice motivo, ho deciso di eleggerlo mio panettiere di fiducia. A
destinazione la sensazione di essere pedinato diviene ancora più palpabile e,
di fatto, noto un tale, da lontano, che mi fissa. Sta appoggiato al muro e
finge di leggere il giornale; dico finge
perché in quel punto della strada e in quella posizione nemmeno un mentecatto
si sognerebbe di mettersi a sfogliare qualcosa. Quando i nostri sguardi si incrociano,
abbassa gli occhi, girando su se stesso e volgendo le sue attenzioni verso un
bimbo che giochicchia con uno strano marchingegno. Me ne disinteresso e varco
la soglia del panificio, ordino quanto devo e in pochi minuti mi rituffo nel
caos cittadino; ma mi stupisco nel vedere che dell'uomo appoggiato al muro non
c'è più traccia. Sparito. Volatilizzato. Che fine ha fatto? Chi era quell'uomo?
Me lo domando senza giungere a una risposta esaustiva, eppure sono convinto che
quel figuro fosse lì per me; non sono ancora del tutto rimbambito. Il problema
è che se anche fosse stata una persona già incontrata sul mio cammino, non
avrei potuto riconoscerla: era troppo camuffata. Vestiva in modo spartano, con
un paio di stivali scuri e un cappello che gli adombrava mezzo volto. Aveva la
barba e un soprabito beige; tutti chiari stratagemmi per cercare di mascherare
una situazione ritenuta quantomeno delicata.
Riprendo la
strada di casa con lo stesso patema di non essere libero di muovermi come desidero,
anelando sogni che solo io vorrei avere il diritto di gestire, ma non fotografo
niente di strano; sennonché, a trecento metri dal panettiere inciampo nel tipo
che mi aveva accompagnato a visitare la cappelletta degli appestati. E' stato,
all'apparenza, come ritrovare un vecchio amico. In realtà, era soprattutto lui
a stare sulle sue, come se avesse avuto qualcosa da nascondermi.
«Non è più
tornato alla cappelletta?», gli domando gioioso.
«Vado ogni
tanto», mi risponde, vago.
«Come va il
libro?».
«Bene, grazie».
Fa a malapena in
tempo a chiudere la frase e scompare come un missile. Mi osservo negli specchi
di una vetrina per vedere se ho qualcosa in faccia che possa averlo turbato, ma
il mio aspetto è quello di sempre, benché un po’ scompigliato, non noto nulla
di così malevole da fare scappare una persona. Mi dimentico in fretta
dell'accaduto, sgranocchio un pezzo di pane e trotterello verso casa. Ricomincia
a piovere. Il freddo e soprattutto l'umidità hanno ripreso ad attanagliarmi le
ossa. Ma è possibile che in questo paese non brilli mai il sole? In pochi
secondi le creature delle pozzanghere tornano a farmi visita. Ne vedo un
centinaio che saltellano una sull'altra, giocose come bimbi al primo giorno di
asilo. So che l'inizio di una precipitazione è sempre vissuto con grande enfasi
dal popolino misterioso, tuttavia questa volta mi sembrano davvero eccitati più
del normale. Gli faccio un cenno con il capo, per congratularmi della loro
contentezza e spensieratezza. Vorrei quasi essere al loro posto. Non hanno
nulla da fare se non pensare a divertirsi, o almeno questa è l'impressione che
trapela. Uno di essi mi si avvicina e mi regala un sorriso spettacolare. Ne
sono felice. Chiedo il motivo di tanta affettuosità, ma nessuna creatura delle
pozzanghere si degna di soddisfare la mia fame di verità. In un battibaleno,
sopraffatte dal passaggio deciso e rumoroso di un tir, scompaiono nel nulla,
così come sono venute. Che strane creature…
La via in cui
abito si apre di fronte ai miei occhi; una via sempre più anonima e
insignificante, perfetta per questo paese e per la mia odissea. Si allunga
verso sud, sbiadendo fra i campi e i pali della luce del centro sportivo, lo
scheletro arrugginito di un gigante precipitato dal cielo.
Da lontano
osservo che il mio vicino non è in casa: manca la macchina. E torno a pensare
al baccano della notte appena trascorsa. E a supporre che ci sia qualcosa che
non va in quella famiglia. Movimenti troppo strani e orari sballati, non è
normale, non è normale…
Io
e Laila
Dopo la prima
notte con Laila, ne sono arrivate molte altre, fino a trasformare il nostro
incontro in una storia d'amore a tutti gli effetti. Dopo un paio di mesi ero
completamente rimbambito dalla sua presenza. Facevo orari assurdi per poter
presentarmi sul posto di lavoro puntuale e trascorrere con lei più tempo
possibile. Dormivo tre, quattro ore per notte, ma mi sentivo sempre fresco come
una rosa. Capivo che c'era qualcosa di chimico a tenermi sveglio: l'adrenalina
che scorreva copiosa nel mio sangue. L'adrenalina, la voglia costante di vedere
Laila e stare con lei, smorzava qualunque fatica, debolezza, stress. Filomena
non mi riconosceva più e il suo sguardo era diventato triste e mogio come
quello che avevo sempre osservato prima che diventassimo amici. Non era solo il
fatto che le nostre uscite si fossero irrimediabilmente diradate; era anche e
soprattutto perché si vedeva lontano miglia che il mio cuore era ormai
appannaggio di altri mondi. Le nostre conversazioni erano divenute stanche e
laconiche. Il tono dei discorsi strascicato. La magia della nostra intesa era
scemata. Con Francesco andava un po’ meglio, ma anche lui in più occasioni mi
aveva rivelato che non ero più lo stesso, che era come se vivessi in una bolla
di sapone riempita di effluvi stupefacenti.
«Sembri
innamorato, ragazzo mio», mi diceva, facendosi una sana risata.
Aveva
perfettamente ragione, ma non mi capitò mai di raccontargli nei dettagli di
Laila. Fui vago qualche volta, ma lui non ci fece nemmeno caso. Sembravano
discorsi che non gli interessavano più di tanto: finché andavo a vedere con lui
le partite allo stadio andava tutto bene. Poi, però, avevo cominciato a bigiare
anche gli appuntamenti sportivi, giustificandomi col fatto che non ero molto in
forma; erano scuse per poter correre ancora una volta da Laila.
Vivevamo nel suo
camper come due adolescenti, in uno stato di ebbrezza costante. Lei rideva e
sembrava serena, ma non mancavano i momenti in cui rabbuiava, perdendo la sua
abituale freschezza. In questi casi avevo imparato a non disturbarla, conscio
del fatto che il nostro bel rapporto si sarebbe ripristinato velocemente.
Spesso le sue lune erano dovute a qualche mia domanda, da lei, probabilmente,
giudicata inopportuna. Ogni volta che cercavo di sapere qualcosa della sua vita
passata tergiversava, cambiava discorso o si metteva a fare la sciocchina,
esibendosi in qualche strano ballo improvviso, sollevando la gonna come una
danzatrice del Moulin Rouge, e facendomi perdere il lume della ragione. Tutto
sembrava misterioso. Quando le chiedevo informazioni sulla sua vita
sentimentale, mi liquidava dicendomi che nella sua vita c'era stato un solo
uomo: io.
«Io?», le
domandavo un po’ ridendo, un po’ palesando il mio sbigottimento.
Lei mi si
avvicina e strizzava gli occhi come una strega.
«Sì, tu, e non
so ancora se sia stato un bene o un male».
Parole che mi
gelavano, ma che poi sdrammatizzava in un colpo, dicendomi che non c'era nulla
di cui preoccuparsi.
«Stavo
scherzando, scemo, ti pare che possa pensare certe cose?».
Mi prendeva le
mani e cominciava a farmi roteare su me stesso, fino a farmi perdere
l'equilibrio. Può sembrare assurdo ma talvolta, per impercettibili momenti, mi
faceva paura. Vedevo in lei qualcosa che non riuscivo a decifrare e che
suscitava in me un vago senso di terrore. Poi la guardavo, disegnata così bene,
con quello sguardo così trascendentale, e ogni perplessità se ne andava.
Di notte
dormivamo abbracciati, anche quando il caldo rimbambiva i nostri corpi e
pensieri. Era soprattutto Laila ad avvinghiarmi come una stella bisognosa di
affetto e calore. A volte era esasperante. Mi discostavo un attimo per cercare
un refrigerio inesistente, e all'istante mi inseguiva, cingendomi la vita o
appoggiando il suo capo sulla mia spalla. Comunque mi piaceva. Amavo il profumo
della sua pelle, un profumo naturale, mistico. A volte morivo per l'afa, ma era
un supplizio che sostenevo con gioia. La mattina mi alzavo quasi sempre io per
primo. Le preparavo la colazione e a volte partivo per il lavoro che non si era
ancora alzata. La guardavo mentre risposava, ammirando la sua figura, la sua
eleganza, che si manteneva anche durante le ore di sonno. Era bellissima anche
quando dormiva, bellissima e silenziosa.
Per lei la
giornata cominciava almeno tre ore dopo la mia: al botteghino non attaccava mai
prima delle undici. Si alternava a un socio di cui non mi aveva mai voluto
parlare. Ma io sospettavo che fra loro ci fosse qualcosa di più di un semplice
sodalizio professionale. Mi nascondeva qualcosa, ma alla fine me ne ero fatto
una ragione dimenticandomi di lui. La sera ero io il primo a crollare. Ogni
tanto mi preparava una tisana ai mirtilli. Non so perché prediligesse proprio
questa bevanda, fra le tante che c'erano. Non cambiava mai, per lei era sempre
"tisana ai mirtilli". Bevendola crollavo su me stesso come se al suo
interno ci fosse stato del veleno, quando lei era ancora nel pieno delle forze
e avrebbe magari voluto fare chissà cosa, tipo andare a ballare da qualche
parte o a bere un cocktail. Ma non si lamentava mai, comprendeva la mia
necessità di dover rispettare degli orari di lavoro e un adeguato riposo. Sembrava
semplicemente contenta di avermi al suo fianco, come se fino a quel momento non
ci fosse mai stato nessuno a prendersi cura di lei.
Cambiavano le
cose nel week end, quando entrambi avevamo molto più tempo a disposizione.
Lasciavamo volentieri il camper perso nella radura e con la mia macchina partivamo
senza aver fatto programmi, diretti ovunque capitasse, senza meta, senza orari,
senza leggi. Ma erano, certo, quasi sempre posti strani, possibilmente lontani
dal traffico quotidiano, dove non ci passa nessuno; come se solo in determinati
angoli bistrattati dalla società e dimenticati dalla storia ci fosse data
l'opportunità di ritrovare noi stessi, la nostra coppia, il nostro atipico
stare insieme; benché non cavalcassimo a priori il desiderio di voler pascolare
ai margini della civiltà, come individui snob che, per prosaica presa di
posizione, evitano qualunque contatto con il mondo perché giudicato inferiore
alle proprie capacità ed esigenze.
Una volta siamo
finiti per visitare un'enorme tenuta agricola completamente abbandonata, in una
provincia del centro Italia che non saprei nemmeno identificare. Come due
boyscout ci mettemmo a esplorare ogni buco, cercando di indovinare dove
potessero avere nascosto un tesoro, la traccia per sbucare in un mondo
parallelo… Alla fine, fattosi tardi e avendo compreso che non sarebbe stato
possibile rincasare per la notte, ci sistemammo alla bell'è meglio su un
giaciglio di paglia tirando mattina. Fu come vivere in un film. Laila mi rimase
appiccicata come una sardina tutta notte, e prima di prendere sonno andammo
avanti per ore a parlare di tutto e niente, contemplando una volta celeste come
non ne avevamo mai viste.
«E' ancora più
bello del nostro posto magico».
Annuii.
«Chissà quanta
gente abitava qui», proseguì in tono nostalgico. «E' triste che il tempo
finisca per cancellare ogni cosa».
Condividevo la
sua opinione, ma non seppi come controbattere. Avrei voluto dire che in fin dei
conti il tempo non esiste, ma forse non avevo voglia di proseguire su un tema
troppo impegnativo per una notte benedetta come quella che stavamo
trascorrendo. Lasciai cadere il discorso e poco dopo ci addormentammo.
Siamo andati
avanti così per numerosi mesi, un anno… Abbiamo vissuto insieme in quel bugigattolo come
due eterni innamorati, pur sapendo di avere a disposizione casa mia, molto più
ampia e confortevole. Pareva sottinteso che dovessimo vivere nel suo camper,
non ci fu nemmeno la necessità di metterci d'accordo. Solo una volta passammo
insieme dalla mia dimora, per recuperare dei vestiti e qualche coperta. Ricordo
la curiosità con cui tergiversò su ogni angolo del mio appartamento
oggettivamente lussuoso, come se fino a quel momento avesse avuto a che fare
solo con sistemazioni bieche e provvisorie; come la sua. Concentrò la sua
attenzione su un soprammobile che veniva dall'Iran che mi aveva regalato un
lontano parente almeno venti anni prima.
«Cos'è?», mi
chiese incuriosita.
Era una
riproduzione fedele del cilindro di Ciro, un pezzo di argilla riportante
un'iscrizione cuneiforme risalente a cinquecento anni prima di Cristo.
«E' la copia di
un famoso reperto persiano, credo indichi la conquista di Babilonia da parte di
un re».
A Laila
luccicarono gli occhi come se le avessi parlato di un amico o di un parente. E
ancora una volta si fece strada la mia ipotesi che provenisse dal Medio
Oriente.
«Come mai sei così
interessata?», le chiesi.
«Mi piace
l'archeologia».
Dribblò
scaltramente il mio desiderio di sapere qualcosa di più sul suo conto. Anche in
questo caso, compresi che, pur standole di fianco un'intera vita, non avrei mai
saputo ricavare un ragno dal buco.
Horror
movie
Un film del
genere non mi era mai capitato… troppo inutile, troppo assurdo. Benché a notte
fonda certi improbabili lungometraggi possano alla fine sembrare gli unici
adatti ad accompagnare una notte tenebrosa. Il protagonista era un sedicente
dottore a caccia di cadaveri per condurre esperimenti nel proprio laboratorio
segreto, una specie di caverna lugubre piena di ampolle e liquidi mortali. Un
film di serie B, un horror b-movie direbbero in America, con pessime riprese,
pessimi attori… Chiari i rimandi alla storia di Frankenstein, la famosa
creatura di Mary Shelley.
Arrivano al
castello del "conte" due fanciulle che si sciolgono nell'improbabile clan
di scappati di casa: con il dottore ci sono anche un nano, un gobbo e una specie
di maggiordomo apparentemente normale; in realtà sembrano tutte creature
assemblate con porzioni anatomiche di zombie raccattate qua e là dal genio
malato del capobanda. Una delle due fanciulle è la figlia del dottore, l'altra
un'amica della quale lo scienziato si innamora. Entrambi sono molto avvenenti e
in una scena all'interno di pozze sulfuree mettono in luce le loro amabili
grazie.
Abitano tutti
insieme "appassionatamente" in un castello che sorge in cima a una
rupe, bombardata dalle saette. Ma non sono soli. Nei dintorni, in alcune
grotte, vivono esemplari dell'Uomo di Neanderthal, ideali per i test sperimentali
dell'enigmatico ricercatore. Goliath è uno di essi e muore in un combattimento
con vari popolani scagliatesi su di lui con pietre e bastoni. Il dottore lo
porta a casa e gli ridà vita con scariche elettriche rubate ai fulmini e con il
cervello di una ragazza appena scomparsa e trafugata da un sepolcro vicino. "Il
castello della paura" è il titolo del film, ma la paura è lontana,
relativa e impalpabile. Ho visto horror decisamente più sfrontati. In alcuni
punti è addirittura noioso, per non dire ridicolo. Alla fine mi abbiocco sul
divano e al risveglio le luci di un nuovo giorno sono già spuntate.
Sandy
Danny
Il tempo è
ancora increscioso, ma dopo qualche giorno d'isolamento sento la necessità di
tornare a fare visita ai vecchi amici del circolino. Ho voglia di risentire la
voce di Orso e di rivedere il bel viso di Ginevra. La sera è fredda e pungente.
Ha smesso di piovere da qualche ora; curiosamente non vedo in giro le creature
delle pozzanghere. Si saranno dileguate per qualche ricorrenza, ne capitano
spesso in questo periodo dell'anno, quello a loro più congegnale, in cui
dominano le tinte scure, i bui, gli aghi di ghiaccio che penzolano dai tetti… Il
cielo conserva i soliti connotati di un inverno senza fine, come un foglio di
carta fresco di stampa che non fa certo fatica a preservare il proprio candore.
Come ieri, oggi, l'altro ieri e domani: grigio, plumbeo, grigio, spento, è
l'apocalisse del colore, della cromatografia… Non è mai cambiato da quando sono
qui. Sembra che abbiano spento il sole e le stelle e i sentimenti. Le stelle
che rimiravo per ore, affiancato da Laila, sono un ricordo lontano, perso,
disincantato.
Al mio arrivo il
locale è deserto e anche il bancone sgombro del personale. Rivivo il passato
recente catapultato in una dimensione a me estranea, del tutto diversa da
quella che avevo ponderato prima di muovermi. E' quasi un circolino che non
riconosco più. Eppure ero proprio seduto lì, al tavolo che ho di fronte, con
Orso e Delfino, pochi giorni fa. Non mi posso sbagliare. E' su quella
superficie intelata che ho brindato con i miei nuovi… amici. La verità è che
troppe volte finiamo ingannati dalla nostra stessa mente, dalle nostre
supposizioni, ci crediamo a casa, e invece siamo in un mondo scivolato via,
perfido e meschino. Perché sono tornato al bar?
E' una
sensazione che mi mette l'amaro in bocca, ma, per fortuna, dura una quisquilia
di minuti. E' un sogno quando dalla porta che dà sul retro spunta Ginevra con
un sorriso abbacinante, come una cometa di Natale che arriva a far luce su una
capanna abbandonata. All'improvviso ridiventa il mio circolino, la mia seconda
casa, quella che veramente mi ha dato ospitalità in questo covo abitato da
serpi. Ho un sussulto, tipo quando si rivede un vecchio amore. Mi sembra più
giovane del solito, con un taglio di capelli che rende ancora più vivace la sua
caratura. Mi accoglie gioiosamente, dandomi l'impressione che mi stesse
aspettando.
«Era da un po’
che non ti facevi vedere», mi dice sorridendo, come se ci conoscessimo da anni.
«Ho avuto da
fare», taglio corto.
«Perché, che
lavoro fai?».
Non avevo
calcolato che potesse farmi una domanda del genere e non so proprio che risposta
dare. Tergiverso.
«Che cosa potrei
fare secondo te?».
«Mi dai l'aria
di uno scrittore, ho sempre avuto quest'impressione, dal primo giorno che sei
venuto a farci visita. Mi sono domandata che cosa ci facesse un tipo del genere
in un locale di bifolchi come questo».
«Hai una
scarsissima considerazione dei tuoi clienti…».
Mi guarda
sorridendo.
«Ma no, mi piace
scherzare, figurati».
Mi fissa
sorniona.
«Allora, mi vuoi
dire di che ti occupi?».
Insiste,
significa che le interessa veramente… le interessa veramente sapere qualcosa di
me. Tiro un respiro profondo e tento una risposta quantomeno credibile.
«Sono in
aspettativa. Prima lavoravo in una ditta farmaceutica».
Ginevra non si
scompone, immaginando che qualunque prossimo quesito possa essere troppo personale,
da mettermi in imbarazzo. Si fa da parte.
«E' per via di
quella colpa che ti dicevo…».
Annuisce.
«Ora capisco».
Si fa seria e
silenziosa. Mette in moto la macchina del caffè pensando di offrirmi
spontaneamente una tazza.
«Sei un tipo eccentrico.
Mi piacerebbe capire di che colpa si tratta».
Corrugo la
fronte, rendendomi conto di essere ormai in procinto di rivelare tutto me
stesso.
«Dirlo così su
due piedi, rischia di essere… precipitoso».
Ginevra sbuffa
mentre raccoglie le tazzine di caffè piene fino all'orlo e le dispone sul
bancone.
«Ecco lo
zucchero».
Osservo le sue
bellissime mani, affusolate e gentili. Le unghie ben curate con un velo di
smalto, chiaro, trasparente. Noto un neo sul polso destro, che fa a pugni con
un braccialetto d'argento che scorre su e giù.
«Grazie».
Zittiamo per
qualche istante, mentre arrivano due nuovi clienti che si avvicinano al banco e
ordinano due amari. Giunge anche Orso, con un soprabito nero e le scarpe da
metalmeccanico.
«Puttana troia,
non la smette più questo tempo infame».
Esordisce senza
calcolare che ci sono due clienti davanti a lui e che la padrona di casa
potrebbe infastidirsi per un'entrata dal genere. Ma forse è solo una mia
impressione. Nessuno, di fatto, batte ciglio, come se fosse del tutto normale raggiungere
un bar e mettersi a bestemmiare.
«Ciao Orso, caffè?»,
domanda Ginevra.
«Sì, grazie», fa
l'uomo venendomi incontro.
«Allora come
butta?», mi domanda vincendo le ultime gocce di pioggia che gli si sono
appiccicate ai pantaloni.
«Non c'è male.
Ha ripreso a piovere?».
«Che domande. E'
da mesi che piove tutti i giorni. Non se ne può più di questo tempo di…».
Questa volta si
trattiene. Lo sguardo di Ginevra basta a riportarlo in sé. Orso mi dà una
spallata e raggiunge i due tipi poco distanti, che l'hanno richiamato con una
specie di fischio. Intuisco che si conoscono, come la maggior parte delle
persone che varcano la soglia del circolino. Ginevra si avvicina allo stereo e
fa partire una cassetta.
«Che ascolti di
bello?».
Glielo chiedo
senza un reale interessamento, se non quello di cercare un nuovo pretesto per
conversare.
«Roba poco
apprezzata dalle nostre parti».
Oddio, mi sembra
di avere a che fare con l'alterigia di Francesco.
«Si chiama Sandy
Danny».
Naturalmente è
un nome che non mi dice niente.
«Era una voce
bellissima dei Sessanta inglesi. Ha suonato in vari gruppi, ma si è spesso
esibita anche come solista».
«Perché parli al
passato?».
«Se n'è andata
giovanissima».
Me lo dice
mostrando tutta la sua tristezza. Poi parte un pezzo intitolato "Matty
Groves".
«Questo brano l'ha
cantato con i Fairport Convention…».
«Com'è morta?».
Ginevra mi
guarda con aria sospetta, non comprendendo come possa essere più interessato
alla prematura scomparsa di Sandy, che non alla canzone che stiamo ascoltando e
che mi ha appena presentato. Non so perché glielo chiedo.
«E' morta
qualche anno fa. Beveva, e un giorno è caduta malamente picchiando la testa. La
madre che era con lei non dette importanza all'accaduto, ma un paio di giorni
più tardi se ne andò per un'emorragia».
Mi devo sedere.
Sento cedermi le gambe. Mi manca il respiro. Ginevra si accorge della mia difficoltà,
non capendo come il suo racconto possa avermi fatto così male. In fondo
parlavamo di una persona che nessuno di noi due aveva mai conosciuto.
«Qualcosa non
va? Ho detto qualcosa che non dovevo?».
«Niente di tutto
ciò, non ti preoccupare, è solo che… ogni tanto mi vengono questi giramenti di
testa e ho bisogno di sedermi».
E' una scusa,
logico. Ginevra mi offre un bicchiere di acqua e in pochi minuti riprendo la
mia normale vitalità.
«Conosci la
canzone intitolata Layla?».
«Certo, è di
Eric Clapton».
Incredibile. E'
tutto dannatamente incredibile. Come se Laila continuasse a perseguitarmi,
anche se è così lontana da me… ed è incredibile che fuggendo da Filomena e da
Francesco abbia trovato Ginevra che, in pratica, sembra riassumerli in un'unica
persona; benché la mia ultima conoscente, a differenza della mia collega, mi susciti
interesse anche dal punto vista fisico.
Dopo un quarto
d'ora rientra tutto nella norma e mi rassereno. I due nuovi arrivati si
accomodano con Orso a guardare la tv, presto raggiunti da Giorgio e Delfino, disinteressati
dalla mia presenza. Anch'io resto defilato: preferendo la compagnia di Ginevra,
rimango praticamente tutto il tempo asserragliato al bancone. Prima di salutarci
torniamo sull'argomento accennato all'inizio della serata.
«Quando vorrai
raccontarmi di più del tuo lavoro e soprattutto della colpa che hai da espiare,
sarò felice di ascoltarti».
Me lo confida
con il cuore in mano, con una tenerezza che non sapevo potesse ancora esistere
sulla terra. Rimango colpito dalla sua ultima uscita, comprendendo che, forse,
non le sono del tutto indifferente. La cosa mi stupisce parecchio: anche a me
piace e sento che qualcosa comincia a smuovere il mio animo. Mi faccio forza
per proporle una giornata insieme, pervaso da un sentimento che ancora non
riesco a mettere a fuoco.
«Se ti va
potremmo, un giorno, andare a fare un giro…».
Mi fissa con uno
sguardo accattivante e civettuolo, intuendo che il nostro sodalizio sta prendendo
una piega sempre più particolare, tipica di coppie per cui la sola e semplice
amicizia comincia ad andare stretta.
«Così potrò
spiegarti cosa mi è successo».
Termino la frase
quasi pentito di essermi esposto tanto. Vengo sopraffatto dal timore di avere
esagerato, di essermi lasciato andare oltre il necessario, ma ormai la frittata
è fatta. Sono sicuro di volerle parlare di Laila? E' passato così poco tempo… Me
lo chiedo con apprensione, ma la ribattuta della mia interlocutrice ridimensiona
le mie perplessità, restituendomi la volontà di tornare a credere nel luccichio
delle stelle.
«Che bello», mi
dice con vivo trasporto. «Sarei molto contenta di poter fare una gita, sono
sempre chiusa in questo buco…».
«Una domenica?».
«La domenica va
benissimo, è proprio il giorno in cui sono completamente libera».