mercoledì 24 luglio 2013

Colori


COLORI

Giallo come un girasole
Rosso come una ciliegia
Verde come la campagna
E chissà il cielo che colore avrà

Viola come la vendemmia
Nero come una mattanza
Freddo come la paura
E chissà il cielo che colore avrà

RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io che fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si

Giallo come la polenta
Rosso come un peperone
Fresco come la rugiada
E chissà il cielo che colore avrà

Grande come una montagna
Comodo come un divano
Gelido come la neve
E chissà il cielo che colore avrà

RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io che fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si

Bella come una farfalla
Bianca come l'innocenza
Rosa come una mattina
E chissà il cielo che colore avrà

Bianco come una cicogna
Grigio come un'incombenza
Strana come l'incertezza
E chissà il cielo che colore avrà

RIT. Ma sono io un pittore, e saprò io che fare
Niente da temere, niente da strafare
Che il cielo si fa anche così
Do, re, mi, fa, sol, la, si

2013 

L'uomo con l'aquilone


L'UOMO CON L'AQUILONE

Camminava per la strada con un aquilone stretto fra le mani
Rincorreva sogni che nemmeno i sogni sanno bene cosa fare
Brividi d'amore e batticuore al ritmo della turpe fantasia
Comico, ridicolmente uomo con quell'unico vestito blu

Molto prima che arrivasse lei l'aveva immaginato il cataclisma
Certe donne lo si vede dalla gonna nascon solo per far male
Lei veniva dalla steppa con quell'espressione forse un po’ volgare
Cincischiava con le amiche l'ho trovato un altro pollo adatto a me

RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto benissimo anche senza te

Come passa il tempo, scivolano gli anni, scivolano le stagioni
Perfido colui che chiede senza dare perfida malinconia
Ma il coltello dalla parte dell'impugnatura ce l'ha solo Dio
Non ce l'ha di certo chi è convinto che fortuna basti solo a sé

Così andarono le cose e un giorno peggio del diluvio universale
Se la ritrovò piangente con le mani assorte al suo capezzale
Solo per mostrarle cos'è vita e cos'è invece nulla e preconcetto
Solo perché niente c'è di meglio di un germoglio in mezzo alla città 

RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto benissimo anche senza te

Oggi tutto è ormai cambiato dove se n'è andata non lo sa nessuno
L'altro giorno raccontavano però di un uomo senza l'aquilone
Ridere non serve, piangere non basta, allora tutto è un'illusione
L'illusione è spesso ridere che tanto piangere viene da sé

RIT. Quant'è vero che mi ami ami, dammi tutto quello che possiedi
La mia ricompensa sarà regalarti un altro ballo a tarda sera
E se non bastasse lo saranno le mie labbra rosse come il fuoco
Stringimi, ti prego abbracciami che sto benissimo anche senza te

2013 

Lady D


LADY D

Da quando ci vediamo, è tutto così strano
Da quando ci vediamo il sole non tramonta più
Da quanto siamo stati, vicini e poi spaiati
Qualunque cosa basta a scioglierci nel cielo

Da quando l'orizzonte, non sembra più lo stesso
Da quando l'aria non è l'aria che dicevi tu
Fantasmi del passato, briciole di memoria
Ecco l'ennesimo ripetersi di un sogno

RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà

Da quando ci crediamo è tutto più speciale
Da quando ogni momento è buono per un dejàvu
Le frasi dette a caso, storielle da imparare
Biciclettate insieme in riva al fiume o al mare

Da quando l'algoritmo dei nostri intendimenti
Ha indovinato il tiro del piacevole che fu
Da quando è tutto nuovo, compreso il Medioevo
Compresa la tua vecchia giacca con i fiori gialli

RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà

Da quando il mondo intero non ha più pregiudizi
Da quando l'imbrunire non impensierisce più
Da quando sei arrivata, la vita è risbocciata
Non è più solo la carriera di un templare

Da quando il mondo ride, è tutto così bello
Chiamarla non è un eufemismo eterna gioventù
Da quando alle domande, non servono più riposte
Tu la miglior risposta che si possa dare

RIT: Lady D, lady La-Di-La, se questa storia comincerà
Lady D, lady La-Di-La, si vedrà

2013 

giovedì 18 luglio 2013

Laila # 10


10.

Stalking suburbano

Stamane vado a prendere il pane e ho l'impressione di essere tallonato. Un'impressione sottile, quasi impercettibile, uno spirito che mi osserva, mi scruta, studia il mio comportamento. Un alito di vento che soffia alle mie spalle, rendendomi nervoso. Mi giro di scatto per capire se c'è davvero qualcuno pronto a scannarmi appena voltato un angolo, ma non scorgo che qualche uccellino intento a soffiare gli avanzi di una pizza a un suo simile. Una coppia nota i miei movimenti improvvisi e non può fare a meno di squadrarmi con biasimo: non devo essergli sembrato molto normale.
Il panificio si trova lungo una piccola stradina del budello storico. Forse ce ne sono altri, magari anche più vicini, ma questo è il primo che ho trovato e, per questo semplice motivo, ho deciso di eleggerlo mio panettiere di fiducia. A destinazione la sensazione di essere pedinato diviene ancora più palpabile e, di fatto, noto un tale, da lontano, che mi fissa. Sta appoggiato al muro e finge di leggere il giornale; dico finge perché in quel punto della strada e in quella posizione nemmeno un mentecatto si sognerebbe di mettersi a sfogliare qualcosa. Quando i nostri sguardi si incrociano, abbassa gli occhi, girando su se stesso e volgendo le sue attenzioni verso un bimbo che giochicchia con uno strano marchingegno. Me ne disinteresso e varco la soglia del panificio, ordino quanto devo e in pochi minuti mi rituffo nel caos cittadino; ma mi stupisco nel vedere che dell'uomo appoggiato al muro non c'è più traccia. Sparito. Volatilizzato. Che fine ha fatto? Chi era quell'uomo? Me lo domando senza giungere a una risposta esaustiva, eppure sono convinto che quel figuro fosse lì per me; non sono ancora del tutto rimbambito. Il problema è che se anche fosse stata una persona già incontrata sul mio cammino, non avrei potuto riconoscerla: era troppo camuffata. Vestiva in modo spartano, con un paio di stivali scuri e un cappello che gli adombrava mezzo volto. Aveva la barba e un soprabito beige; tutti chiari stratagemmi per cercare di mascherare una situazione ritenuta quantomeno delicata.  
Riprendo la strada di casa con lo stesso patema di non essere libero di muovermi come desidero, anelando sogni che solo io vorrei avere il diritto di gestire, ma non fotografo niente di strano; sennonché, a trecento metri dal panettiere inciampo nel tipo che mi aveva accompagnato a visitare la cappelletta degli appestati. E' stato, all'apparenza, come ritrovare un vecchio amico. In realtà, era soprattutto lui a stare sulle sue, come se avesse avuto qualcosa da nascondermi.
«Non è più tornato alla cappelletta?», gli domando gioioso.
«Vado ogni tanto», mi risponde, vago.
«Come va il libro?».
«Bene, grazie».
Fa a malapena in tempo a chiudere la frase e scompare come un missile. Mi osservo negli specchi di una vetrina per vedere se ho qualcosa in faccia che possa averlo turbato, ma il mio aspetto è quello di sempre, benché un po’ scompigliato, non noto nulla di così malevole da fare scappare una persona. Mi dimentico in fretta dell'accaduto, sgranocchio un pezzo di pane e trotterello verso casa. Ricomincia a piovere. Il freddo e soprattutto l'umidità hanno ripreso ad attanagliarmi le ossa. Ma è possibile che in questo paese non brilli mai il sole? In pochi secondi le creature delle pozzanghere tornano a farmi visita. Ne vedo un centinaio che saltellano una sull'altra, giocose come bimbi al primo giorno di asilo. So che l'inizio di una precipitazione è sempre vissuto con grande enfasi dal popolino misterioso, tuttavia questa volta mi sembrano davvero eccitati più del normale. Gli faccio un cenno con il capo, per congratularmi della loro contentezza e spensieratezza. Vorrei quasi essere al loro posto. Non hanno nulla da fare se non pensare a divertirsi, o almeno questa è l'impressione che trapela. Uno di essi mi si avvicina e mi regala un sorriso spettacolare. Ne sono felice. Chiedo il motivo di tanta affettuosità, ma nessuna creatura delle pozzanghere si degna di soddisfare la mia fame di verità. In un battibaleno, sopraffatte dal passaggio deciso e rumoroso di un tir, scompaiono nel nulla, così come sono venute. Che strane creature…
La via in cui abito si apre di fronte ai miei occhi; una via sempre più anonima e insignificante, perfetta per questo paese e per la mia odissea. Si allunga verso sud, sbiadendo fra i campi e i pali della luce del centro sportivo, lo scheletro arrugginito di un gigante precipitato dal cielo.
Da lontano osservo che il mio vicino non è in casa: manca la macchina. E torno a pensare al baccano della notte appena trascorsa. E a supporre che ci sia qualcosa che non va in quella famiglia. Movimenti troppo strani e orari sballati, non è normale, non è normale…

Io e Laila

Dopo la prima notte con Laila, ne sono arrivate molte altre, fino a trasformare il nostro incontro in una storia d'amore a tutti gli effetti. Dopo un paio di mesi ero completamente rimbambito dalla sua presenza. Facevo orari assurdi per poter presentarmi sul posto di lavoro puntuale e trascorrere con lei più tempo possibile. Dormivo tre, quattro ore per notte, ma mi sentivo sempre fresco come una rosa. Capivo che c'era qualcosa di chimico a tenermi sveglio: l'adrenalina che scorreva copiosa nel mio sangue. L'adrenalina, la voglia costante di vedere Laila e stare con lei, smorzava qualunque fatica, debolezza, stress. Filomena non mi riconosceva più e il suo sguardo era diventato triste e mogio come quello che avevo sempre osservato prima che diventassimo amici. Non era solo il fatto che le nostre uscite si fossero irrimediabilmente diradate; era anche e soprattutto perché si vedeva lontano miglia che il mio cuore era ormai appannaggio di altri mondi. Le nostre conversazioni erano divenute stanche e laconiche. Il tono dei discorsi strascicato. La magia della nostra intesa era scemata. Con Francesco andava un po’ meglio, ma anche lui in più occasioni mi aveva rivelato che non ero più lo stesso, che era come se vivessi in una bolla di sapone riempita di effluvi stupefacenti.
«Sembri innamorato, ragazzo mio», mi diceva, facendosi una sana risata.
Aveva perfettamente ragione, ma non mi capitò mai di raccontargli nei dettagli di Laila. Fui vago qualche volta, ma lui non ci fece nemmeno caso. Sembravano discorsi che non gli interessavano più di tanto: finché andavo a vedere con lui le partite allo stadio andava tutto bene. Poi, però, avevo cominciato a bigiare anche gli appuntamenti sportivi, giustificandomi col fatto che non ero molto in forma; erano scuse per poter correre ancora una volta da Laila.
Vivevamo nel suo camper come due adolescenti, in uno stato di ebbrezza costante. Lei rideva e sembrava serena, ma non mancavano i momenti in cui rabbuiava, perdendo la sua abituale freschezza. In questi casi avevo imparato a non disturbarla, conscio del fatto che il nostro bel rapporto si sarebbe ripristinato velocemente. Spesso le sue lune erano dovute a qualche mia domanda, da lei, probabilmente, giudicata inopportuna. Ogni volta che cercavo di sapere qualcosa della sua vita passata tergiversava, cambiava discorso o si metteva a fare la sciocchina, esibendosi in qualche strano ballo improvviso, sollevando la gonna come una danzatrice del Moulin Rouge, e facendomi perdere il lume della ragione. Tutto sembrava misterioso. Quando le chiedevo informazioni sulla sua vita sentimentale, mi liquidava dicendomi che nella sua vita c'era stato un solo uomo: io.
«Io?», le domandavo un po’ ridendo, un po’ palesando il mio sbigottimento.
Lei mi si avvicina e strizzava gli occhi come una strega.
«Sì, tu, e non so ancora se sia stato un bene o un male».
Parole che mi gelavano, ma che poi sdrammatizzava in un colpo, dicendomi che non c'era nulla di cui preoccuparsi.
«Stavo scherzando, scemo, ti pare che possa pensare certe cose?».
Mi prendeva le mani e cominciava a farmi roteare su me stesso, fino a farmi perdere l'equilibrio. Può sembrare assurdo ma talvolta, per impercettibili momenti, mi faceva paura. Vedevo in lei qualcosa che non riuscivo a decifrare e che suscitava in me un vago senso di terrore. Poi la guardavo, disegnata così bene, con quello sguardo così trascendentale, e ogni perplessità se ne andava.  
Di notte dormivamo abbracciati, anche quando il caldo rimbambiva i nostri corpi e pensieri. Era soprattutto Laila ad avvinghiarmi come una stella bisognosa di affetto e calore. A volte era esasperante. Mi discostavo un attimo per cercare un refrigerio inesistente, e all'istante mi inseguiva, cingendomi la vita o appoggiando il suo capo sulla mia spalla. Comunque mi piaceva. Amavo il profumo della sua pelle, un profumo naturale, mistico. A volte morivo per l'afa, ma era un supplizio che sostenevo con gioia. La mattina mi alzavo quasi sempre io per primo. Le preparavo la colazione e a volte partivo per il lavoro che non si era ancora alzata. La guardavo mentre risposava, ammirando la sua figura, la sua eleganza, che si manteneva anche durante le ore di sonno. Era bellissima anche quando dormiva, bellissima e silenziosa.
Per lei la giornata cominciava almeno tre ore dopo la mia: al botteghino non attaccava mai prima delle undici. Si alternava a un socio di cui non mi aveva mai voluto parlare. Ma io sospettavo che fra loro ci fosse qualcosa di più di un semplice sodalizio professionale. Mi nascondeva qualcosa, ma alla fine me ne ero fatto una ragione dimenticandomi di lui. La sera ero io il primo a crollare. Ogni tanto mi preparava una tisana ai mirtilli. Non so perché prediligesse proprio questa bevanda, fra le tante che c'erano. Non cambiava mai, per lei era sempre "tisana ai mirtilli". Bevendola crollavo su me stesso come se al suo interno ci fosse stato del veleno, quando lei era ancora nel pieno delle forze e avrebbe magari voluto fare chissà cosa, tipo andare a ballare da qualche parte o a bere un cocktail. Ma non si lamentava mai, comprendeva la mia necessità di dover rispettare degli orari di lavoro e un adeguato riposo. Sembrava semplicemente contenta di avermi al suo fianco, come se fino a quel momento non ci fosse mai stato nessuno a prendersi cura di lei.
Cambiavano le cose nel week end, quando entrambi avevamo molto più tempo a disposizione. Lasciavamo volentieri il camper perso nella radura e con la mia macchina partivamo senza aver fatto programmi, diretti ovunque capitasse, senza meta, senza orari, senza leggi. Ma erano, certo, quasi sempre posti strani, possibilmente lontani dal traffico quotidiano, dove non ci passa nessuno; come se solo in determinati angoli bistrattati dalla società e dimenticati dalla storia ci fosse data l'opportunità di ritrovare noi stessi, la nostra coppia, il nostro atipico stare insieme; benché non cavalcassimo a priori il desiderio di voler pascolare ai margini della civiltà, come individui snob che, per prosaica presa di posizione, evitano qualunque contatto con il mondo perché giudicato inferiore alle proprie capacità ed esigenze.
Una volta siamo finiti per visitare un'enorme tenuta agricola completamente abbandonata, in una provincia del centro Italia che non saprei nemmeno identificare. Come due boyscout ci mettemmo a esplorare ogni buco, cercando di indovinare dove potessero avere nascosto un tesoro, la traccia per sbucare in un mondo parallelo… Alla fine, fattosi tardi e avendo compreso che non sarebbe stato possibile rincasare per la notte, ci sistemammo alla bell'è meglio su un giaciglio di paglia tirando mattina. Fu come vivere in un film. Laila mi rimase appiccicata come una sardina tutta notte, e prima di prendere sonno andammo avanti per ore a parlare di tutto e niente, contemplando una volta celeste come non ne avevamo mai viste.
«E' ancora più bello del nostro posto magico».
Annuii.
«Chissà quanta gente abitava qui», proseguì in tono nostalgico. «E' triste che il tempo finisca per cancellare ogni cosa».
Condividevo la sua opinione, ma non seppi come controbattere. Avrei voluto dire che in fin dei conti il tempo non esiste, ma forse non avevo voglia di proseguire su un tema troppo impegnativo per una notte benedetta come quella che stavamo trascorrendo. Lasciai cadere il discorso e poco dopo ci addormentammo.
Siamo andati avanti così per numerosi mesi, un anno…  Abbiamo vissuto insieme in quel bugigattolo come due eterni innamorati, pur sapendo di avere a disposizione casa mia, molto più ampia e confortevole. Pareva sottinteso che dovessimo vivere nel suo camper, non ci fu nemmeno la necessità di metterci d'accordo. Solo una volta passammo insieme dalla mia dimora, per recuperare dei vestiti e qualche coperta. Ricordo la curiosità con cui tergiversò su ogni angolo del mio appartamento oggettivamente lussuoso, come se fino a quel momento avesse avuto a che fare solo con sistemazioni bieche e provvisorie; come la sua. Concentrò la sua attenzione su un soprammobile che veniva dall'Iran che mi aveva regalato un lontano parente almeno venti anni prima.
«Cos'è?», mi chiese incuriosita.
Era una riproduzione fedele del cilindro di Ciro, un pezzo di argilla riportante un'iscrizione cuneiforme risalente a cinquecento anni prima di Cristo.
«E' la copia di un famoso reperto persiano, credo indichi la conquista di Babilonia da parte di un re».
A Laila luccicarono gli occhi come se le avessi parlato di un amico o di un parente. E ancora una volta si fece strada la mia ipotesi che provenisse dal Medio Oriente.
«Come mai sei così interessata?», le chiesi.
«Mi piace l'archeologia».
Dribblò scaltramente il mio desiderio di sapere qualcosa di più sul suo conto. Anche in questo caso, compresi che, pur standole di fianco un'intera vita, non avrei mai saputo ricavare un ragno dal buco.

Horror movie

Un film del genere non mi era mai capitato… troppo inutile, troppo assurdo. Benché a notte fonda certi improbabili lungometraggi possano alla fine sembrare gli unici adatti ad accompagnare una notte tenebrosa. Il protagonista era un sedicente dottore a caccia di cadaveri per condurre esperimenti nel proprio laboratorio segreto, una specie di caverna lugubre piena di ampolle e liquidi mortali. Un film di serie B, un horror b-movie direbbero in America, con pessime riprese, pessimi attori… Chiari i rimandi alla storia di Frankenstein, la famosa creatura di Mary Shelley.
Arrivano al castello del "conte" due fanciulle che si sciolgono nell'improbabile clan di scappati di casa: con il dottore ci sono anche un nano, un gobbo e una specie di maggiordomo apparentemente normale; in realtà sembrano tutte creature assemblate con porzioni anatomiche di zombie raccattate qua e là dal genio malato del capobanda. Una delle due fanciulle è la figlia del dottore, l'altra un'amica della quale lo scienziato si innamora. Entrambi sono molto avvenenti e in una scena all'interno di pozze sulfuree mettono in luce le loro amabili grazie.
Abitano tutti insieme "appassionatamente" in un castello che sorge in cima a una rupe, bombardata dalle saette. Ma non sono soli. Nei dintorni, in alcune grotte, vivono esemplari dell'Uomo di Neanderthal, ideali per i test sperimentali dell'enigmatico ricercatore. Goliath è uno di essi e muore in un combattimento con vari popolani scagliatesi su di lui con pietre e bastoni. Il dottore lo porta a casa e gli ridà vita con scariche elettriche rubate ai fulmini e con il cervello di una ragazza appena scomparsa e trafugata da un sepolcro vicino. "Il castello della paura" è il titolo del film, ma la paura è lontana, relativa e impalpabile. Ho visto horror decisamente più sfrontati. In alcuni punti è addirittura noioso, per non dire ridicolo. Alla fine mi abbiocco sul divano e al risveglio le luci di un nuovo giorno sono già spuntate.  

Sandy Danny

Il tempo è ancora increscioso, ma dopo qualche giorno d'isolamento sento la necessità di tornare a fare visita ai vecchi amici del circolino. Ho voglia di risentire la voce di Orso e di rivedere il bel viso di Ginevra. La sera è fredda e pungente. Ha smesso di piovere da qualche ora; curiosamente non vedo in giro le creature delle pozzanghere. Si saranno dileguate per qualche ricorrenza, ne capitano spesso in questo periodo dell'anno, quello a loro più congegnale, in cui dominano le tinte scure, i bui, gli aghi di ghiaccio che penzolano dai tetti… Il cielo conserva i soliti connotati di un inverno senza fine, come un foglio di carta fresco di stampa che non fa certo fatica a preservare il proprio candore. Come ieri, oggi, l'altro ieri e domani: grigio, plumbeo, grigio, spento, è l'apocalisse del colore, della cromatografia… Non è mai cambiato da quando sono qui. Sembra che abbiano spento il sole e le stelle e i sentimenti. Le stelle che rimiravo per ore, affiancato da Laila, sono un ricordo lontano, perso, disincantato.
Al mio arrivo il locale è deserto e anche il bancone sgombro del personale. Rivivo il passato recente catapultato in una dimensione a me estranea, del tutto diversa da quella che avevo ponderato prima di muovermi. E' quasi un circolino che non riconosco più. Eppure ero proprio seduto lì, al tavolo che ho di fronte, con Orso e Delfino, pochi giorni fa. Non mi posso sbagliare. E' su quella superficie intelata che ho brindato con i miei nuovi… amici. La verità è che troppe volte finiamo ingannati dalla nostra stessa mente, dalle nostre supposizioni, ci crediamo a casa, e invece siamo in un mondo scivolato via, perfido e meschino. Perché sono tornato al bar?
E' una sensazione che mi mette l'amaro in bocca, ma, per fortuna, dura una quisquilia di minuti. E' un sogno quando dalla porta che dà sul retro spunta Ginevra con un sorriso abbacinante, come una cometa di Natale che arriva a far luce su una capanna abbandonata. All'improvviso ridiventa il mio circolino, la mia seconda casa, quella che veramente mi ha dato ospitalità in questo covo abitato da serpi. Ho un sussulto, tipo quando si rivede un vecchio amore. Mi sembra più giovane del solito, con un taglio di capelli che rende ancora più vivace la sua caratura. Mi accoglie gioiosamente, dandomi l'impressione che mi stesse aspettando.
«Era da un po’ che non ti facevi vedere», mi dice sorridendo, come se ci conoscessimo da anni.
«Ho avuto da fare», taglio corto.
«Perché, che lavoro fai?».
Non avevo calcolato che potesse farmi una domanda del genere e non so proprio che risposta dare. Tergiverso.
«Che cosa potrei fare secondo te?».
«Mi dai l'aria di uno scrittore, ho sempre avuto quest'impressione, dal primo giorno che sei venuto a farci visita. Mi sono domandata che cosa ci facesse un tipo del genere in un locale di bifolchi come questo».
«Hai una scarsissima considerazione dei tuoi clienti…».
Mi guarda sorridendo.
«Ma no, mi piace scherzare, figurati».
Mi fissa sorniona.
«Allora, mi vuoi dire di che ti occupi?».
Insiste, significa che le interessa veramente… le interessa veramente sapere qualcosa di me. Tiro un respiro profondo e tento una risposta quantomeno credibile.
«Sono in aspettativa. Prima lavoravo in una ditta farmaceutica».
Ginevra non si scompone, immaginando che qualunque prossimo quesito possa essere troppo personale, da mettermi in imbarazzo. Si fa da parte. 
«E' per via di quella colpa che ti dicevo…».
Annuisce.
«Ora capisco».
Si fa seria e silenziosa. Mette in moto la macchina del caffè pensando di offrirmi spontaneamente una tazza.
«Sei un tipo eccentrico. Mi piacerebbe capire di che colpa si tratta».
Corrugo la fronte, rendendomi conto di essere ormai in procinto di rivelare tutto me stesso.
«Dirlo così su due piedi, rischia di essere… precipitoso».
Ginevra sbuffa mentre raccoglie le tazzine di caffè piene fino all'orlo e le dispone sul bancone.
«Ecco lo zucchero».
Osservo le sue bellissime mani, affusolate e gentili. Le unghie ben curate con un velo di smalto, chiaro, trasparente. Noto un neo sul polso destro, che fa a pugni con un braccialetto d'argento che scorre su e giù.
«Grazie».
Zittiamo per qualche istante, mentre arrivano due nuovi clienti che si avvicinano al banco e ordinano due amari. Giunge anche Orso, con un soprabito nero e le scarpe da metalmeccanico.
«Puttana troia, non la smette più questo tempo infame».
Esordisce senza calcolare che ci sono due clienti davanti a lui e che la padrona di casa potrebbe infastidirsi per un'entrata dal genere. Ma forse è solo una mia impressione. Nessuno, di fatto, batte ciglio, come se fosse del tutto normale raggiungere un bar e mettersi a bestemmiare.
«Ciao Orso, caffè?», domanda Ginevra.
«Sì, grazie», fa l'uomo venendomi incontro.
«Allora come butta?», mi domanda vincendo le ultime gocce di pioggia che gli si sono appiccicate ai pantaloni.
«Non c'è male. Ha ripreso a piovere?».
«Che domande. E' da mesi che piove tutti i giorni. Non se ne può più di questo tempo di…».
Questa volta si trattiene. Lo sguardo di Ginevra basta a riportarlo in sé. Orso mi dà una spallata e raggiunge i due tipi poco distanti, che l'hanno richiamato con una specie di fischio. Intuisco che si conoscono, come la maggior parte delle persone che varcano la soglia del circolino. Ginevra si avvicina allo stereo e fa partire una cassetta.
«Che ascolti di bello?».
Glielo chiedo senza un reale interessamento, se non quello di cercare un nuovo pretesto per conversare.
«Roba poco apprezzata dalle nostre parti».
Oddio, mi sembra di avere a che fare con l'alterigia di Francesco.
«Si chiama Sandy Danny».
Naturalmente è un nome che non mi dice niente.
«Era una voce bellissima dei Sessanta inglesi. Ha suonato in vari gruppi, ma si è spesso esibita anche come solista».
«Perché parli al passato?».
«Se n'è andata giovanissima».
Me lo dice mostrando tutta la sua tristezza. Poi parte un pezzo intitolato "Matty Groves".
«Questo brano l'ha cantato con i Fairport Convention…».
«Com'è morta?».
Ginevra mi guarda con aria sospetta, non comprendendo come possa essere più interessato alla prematura scomparsa di Sandy, che non alla canzone che stiamo ascoltando e che mi ha appena presentato. Non so perché glielo chiedo.  
«E' morta qualche anno fa. Beveva, e un giorno è caduta malamente picchiando la testa. La madre che era con lei non dette importanza all'accaduto, ma un paio di giorni più tardi se ne andò per un'emorragia».
Mi devo sedere. Sento cedermi le gambe. Mi manca il respiro. Ginevra si accorge della mia difficoltà, non capendo come il suo racconto possa avermi fatto così male. In fondo parlavamo di una persona che nessuno di noi due aveva mai conosciuto.
«Qualcosa non va? Ho detto qualcosa che non dovevo?».
«Niente di tutto ciò, non ti preoccupare, è solo che… ogni tanto mi vengono questi giramenti di testa e ho bisogno di sedermi».
E' una scusa, logico. Ginevra mi offre un bicchiere di acqua e in pochi minuti riprendo la mia normale vitalità.
«Conosci la canzone intitolata Layla?».
«Certo, è di Eric Clapton».
Incredibile. E' tutto dannatamente incredibile. Come se Laila continuasse a perseguitarmi, anche se è così lontana da me… ed è incredibile che fuggendo da Filomena e da Francesco abbia trovato Ginevra che, in pratica, sembra riassumerli in un'unica persona; benché la mia ultima conoscente, a differenza della mia collega, mi susciti interesse anche dal punto vista fisico.
Dopo un quarto d'ora rientra tutto nella norma e mi rassereno. I due nuovi arrivati si accomodano con Orso a guardare la tv, presto raggiunti da Giorgio e Delfino, disinteressati dalla mia presenza. Anch'io resto defilato: preferendo la compagnia di Ginevra, rimango praticamente tutto il tempo asserragliato al bancone. Prima di salutarci torniamo sull'argomento accennato all'inizio della serata.
«Quando vorrai raccontarmi di più del tuo lavoro e soprattutto della colpa che hai da espiare, sarò felice di ascoltarti».
Me lo confida con il cuore in mano, con una tenerezza che non sapevo potesse ancora esistere sulla terra. Rimango colpito dalla sua ultima uscita, comprendendo che, forse, non le sono del tutto indifferente. La cosa mi stupisce parecchio: anche a me piace e sento che qualcosa comincia a smuovere il mio animo. Mi faccio forza per proporle una giornata insieme, pervaso da un sentimento che ancora non riesco a mettere a fuoco.
«Se ti va potremmo, un giorno, andare a fare un giro…».
Mi fissa con uno sguardo accattivante e civettuolo, intuendo che il nostro sodalizio sta prendendo una piega sempre più particolare, tipica di coppie per cui la sola e semplice amicizia comincia ad andare stretta.  
«Così potrò spiegarti cosa mi è successo».
Termino la frase quasi pentito di essermi esposto tanto. Vengo sopraffatto dal timore di avere esagerato, di essermi lasciato andare oltre il necessario, ma ormai la frittata è fatta. Sono sicuro di volerle parlare di Laila? E' passato così poco tempo… Me lo chiedo con apprensione, ma la ribattuta della mia interlocutrice ridimensiona le mie perplessità, restituendomi la volontà di tornare a credere nel luccichio delle stelle.
«Che bello», mi dice con vivo trasporto. «Sarei molto contenta di poter fare una gita, sono sempre chiusa in questo buco…».
«Una domenica?».

«La domenica va benissimo, è proprio il giorno in cui sono completamente libera». 

giovedì 11 luglio 2013

Dolce Stil Novo


Mi ha detto Dante, mi chiamo Dante
Non son distante, dalla politica del libero pensante
E' edificante, entusiasmante e al tempo stesso sconvolgente
Mi ha detto Dante, per un istante

Mi ha detto Dante, come un'amante
Il preveggente, ma quale libero pensiero ricorrente
Probabilmente, l'uomo è la pecora migliore fra le tante
Mi ha detto Dante, liberamente  

RIT. Mi ha detto Dante Dante dimmi dammi anche del tu
Mi ha detto Dante un giorno tutti avremo la tv
Mi ha detto Dante presto scriveremo cartoline da Parigi
Mi ha detto Dante che fra un po’ sapremo tutto dei crossopterigi
Mi ha detto Dante, l'intransigente

Mi ha detto Dante che il salvagente
Non serve a niente, se chi lo indossa è una persona intelligente
Amaramente, oggi che vince è soprattutto l'arrogante
Mi ha detto Dante, terrificante

Mi ha detto Dante, febbricitante
Non valgo niente, se non c'è modo di convincere la gente
Quando presente, che anche un gorilla può svegliarsi presidente
Mi ha detto Dante, semplicemente

RIT. …

Mi ha detto Dante, sono un mutante
Un commediante, l'imprevedibile percorso di un aliante
Emozionante, come un tramonto che sbiadisce all'orizzonte  
Mi ha detto Dante, perdutamente

Mi ha detto Dante, il comandante
Coscientemente, fin troppe volte l'uomo è peggio di un serpente
Ma non è niente, non è soltanto una questione di quoziente 
Mi ha detto Dante, inutilmente

RIT. …

Mi ha detto Dante, letteralmente
L'inferno è niente, ma il paradiso è molto meno stravagante 
Seduta stante, ci puoi giurare con o senza una scusante
Mi ha detto Dante, rapidamente

Mi ha detto Dante, pubblicamente
Non serve a niente, cercare un modo per redimere la mente
Stupidamente, il pregiudizio è solamente un'attenuante
Mi ha detto Dante, saputamente

RIT. …

2013

martedì 9 luglio 2013

Laila # 9


9.

Radio Varsavia

Oggi sono completamente rimbambito: ho la testa pesante, sento degli strani brividi che mi percorrono l'intero corpo e ho la gola secca. E ho un incommensurabile dolorino a livello scapolare, sulla sinistra… Volevo tornare al circolino, rivedere Orso e gli altri, godere della loro spontaneità così refrigerante per il mio spirito, ma è successa una cosa alquanto strana… inopportuna, che nemmeno se mi sforzassi riuscirei a ritrovare il me stesso degli ultimi giorni, pronto a rituffarmi nell'universo civile; non dico arrivare a pensare di riprendere il lavoro alla Vian - cosa che non accadrà mai - ma almeno ritrovare quella minima volontà, serenità, di voler fare parte in modo coerente e deciso del mondo. Tornare a vivere… ci stavo riuscendo, sennonché…
Stamattina accendo la radio, si chiama Radio Varsavia, m'è bastato il nome, uno spot pubblicitario dell'emittente a decidere di non cambiare più sintonizzazione, sapendo che altrove avrei trovato solo sciocchezze commerciali che vogliono dire tutto e niente. Parte una raffica di brani di nomi sconosciuti, rimandi all'amato Bruce Springsteen, rock di chiara fede americana. Mi dico che da un momento all'altro potrebbe spuntare qualche pezzo del Boss, ci starebbe benissimo, è il suo campo di battaglia. Al rock si alternano il blues e il country; in Italia - attualmente bombardata da "Vacanze romane" dei Matia Bazar e "Bravi ragazzi" di Miguel Bosè - non interessano a nessuno, ma Radio Varsavia, evidentemente, nutre un target più selezionato e appassionato. Se Francesco vedesse, udisse, si renderebbe conto di come, alla fine, le sue lunghissime lezioni, digressioni di storia musicale moderna, abbiano avuto successo anche su uno sprovveduto accademico come il sottoscritto. Mi dico che se dovessi sentire "The River" - estemporanea come solo una radio può promettere - esco per strada e mi metto a ballare nudo intorno alla casa dei vicini, come una cinciallegra in calore; non ci crederebbe nessuno, d'accordo, tuttavia… mi regala un po’ di folclore … amo il folclore, le radici dei popoli, le storie di civiltà morte e sepolte. In fondo dovrei lasciarmi andare di più a pazzie del genere per ridare pepe al mio presunto avvenire.
Non arriva il Boss ma una canzone che parte con un ottimo riff chitarristico (che chissà se Francesco avrà mai sentito, ma immagino di sì), per poi aprirsi su un ritornello di quelli che ti si stampano in testa come adesivi di cartoni animati appiccicati al frigorifero di una casa abitata da file di mocciosi. Ma è un inciso che, paradossalmente, non avrei mai voluto sentire: una picconata che mi apre in due lo stomaco. Mi sconvolge il catatonico ripetersi del nome di quella che, suppongo, sia la protagonista della canzone: Laila, Laila, Laila. Odo il ritornello, momento topico del brano, concentrarsi sulla mia infinita e mai rimpiazzata dolce metà e inevitabilmente subisco uno sconquassamento dell'animo, così feroce da sopportare. Zampillano le lacrime dalle mie palpebre arrossate. Pare incredibile, eppure bastano poche note a mandarmi in tilt, a farmi risentire il male che mi attanagliava prima di lasciare la Vian, subito dopo il macello di una storia naufragata, per colpa di un destino beffardo, crudele e beffardo.
Ma sarai mai possibile?, mi chiedo. Come fa a esistere perfino una canzone dedicata - volontariamente o involontariamente - all'unica donna che abbia mai amato in vita mia? Cosa diamine è successo? E se fosse veramente la mia Laila? Impossibile. Il nome non è così frequente, ma ce ne saranno a centinaia, almeno, spero, suppongo, nel mondo ce ne saranno un'infinità, o no? Mah. Rimango come un ebete drogato di ansiolitici a fissare il muro che ho di fronte; la parte più spoglia della casa, null'altro che l'intonaco bianco con cui sono state verniciate le pareti prima che arrivassi. All'improvviso un incubo mi prende alle spalle e cambia completamente i connotati della mia grigia esistenza. Degli insetti orripilanti percorrono avanti e indietro la parete, hanno le zampe lunghissime e sembrano in grado di divorarmi in un sol boccone. Li osservo meglio e scopro che non sono insetti, ma… centopiedi, qualcosa del genere, mi viene in mente un film visto di recente, con protagonisti esseri mostruosi, di immani proporzioni, riconducibili a specie vissute trecento milioni di anni fa; possono arrivare a due metri di lunghezza e muoversi veloci come saette.
Uno di essi sporge la sua testona oltre i confini del quadro magico in cui si specchiano e pare volermi dire qualcosa. Parla una lingua sconosciuta, emette frasette che mi incantano senza darmi modo di comprendere la finalità della sua azione. Cerco di esprimere le mie perplessità, ma la mia bocca riesce solo a ricamare fili stonati di note. C'è qualcosa che non va come dovrebbe, i sogni non sono così reali. Sono tormentato da un formicolio sempre più pressante, che mi intorpidisce mezzo corpo. Scompare il testone del centopiedi, e si profilano nuove maschere d'orrore. Una possiede una lunga proboscide che si incunea fra il mio sedere e il cuscino che mi ospita. Paiono l'alter ego delle creature delle pozzanghere. Non mostrano, infatti, un'area amichevole. Benché non mi stiano facendo del male, scorgo nei loro sguardi il tentativo di controllare ogni mia mossa, per poter sferrare quanto prima un colpo basso. E' un delirio che dura pochi secondi o un'intera vita, non saprei davvero quantificarlo. Ma so bene che quando torno in me ho gli occhi chiusi e sono madido di sudore. Mi spaventa l'idea di avere perso, seppure per un attimo, i lumi della ragione. Non mi è mai capitata una cosa del genere, nemmeno dopo i casini insorti con Laila. Era tutto così vivido… Cosa sarà mai? Tento invano di dare un senso all'apocalisse che mi ha attanagliato, ma i risultati sono alquanto sconfortanti. Agito la testa per sincerarmi che sia ancora attaccata, che sia tutto a posto, così sembra… Sarà forse il caso che mi faccia vedere da qualcuno… da uno strizzacervelli? Da quando in qua penso a migliorare le mie condizioni fisiche e mentali? Forse, nonostante l'ultimo delirio, qualcosa sta davvero cambiando, in meglio. Il divano di Freud, torno a disquisire a proposito del divano di Freud che vorrei possedere come un feticista… Il suo divano avrebbe senz'altro il potere di rimettermi in sesto e darmi la forza di combattere gli esseri misteriosi che affollano la mia mente.
Mi tranquillizzo respirando profondamente. Piano piano i muri tornano del loro usuale pallore, e ogni mostruosità si dilegua, nebulizza. Tutto torna come prima, sennonché la spina del mio cuore ricomincia a sanguinare in modo evidente, riprendendosi la rivincita sulle mie recenti conquiste in campo sociale. Si susseguono nuove canzoni che ridanno vita alla mia giornata; e alla fine ciò che rimane impresso nella mia memoria, più ancora del ritornello incriminato, è l'autore della canzone misteriosa: Eric Clapton.

While My Guitar Gently Weeps

Salto il pranzo sollecitato dal desiderio di rituffarmi in paese per fare un giro in biblioteca. Non ho idea di dove si trovi, ma è indubbio che un paese come questo ne possegga una. Esco e chiedo. Mi dà le indicazioni una signora sulla sessantina, tipica di queste lande, con una folta chioma grigia e due occhiali vistosi che le occupano mezza faccia. Sembra la moglie del tipo che avevo incontrato alla cappelletta degli appestati, che non ho più rivisto da quel giorno. Insieme starebbero meravigliosamente. Lo intuirebbe anche un bimbo, si incastrano alla perfezione. La loro genetica, penso non sia molto differente. Da queste parti sono tutti mezzi parenti, è anche per questo motivo che fino a qualche decennio fa nascevano spesso piccoli con qualche problema. E' la voce che mi è giunta da una creatura delle pozzanghere.
La biblioteca si trova nel centro del paese, nei pressi della chiesa principale, lungo una lunga via trafficata e avara di parcheggi. E' elegante, piccola ma elegante e apparentemente ben fornita. Al suo interno sono stato squadrato da quattro utenti che parlottavano fra loro. Solo uno mi ha salutato.
«Buongiorno», ho contraccambiato.
Mi sono guardato intorno un po’ a disagio, sentendomi addosso gli occhi dei presenti, come fucili a canne mozze piantati nella schiena. Sono stato pervaso dall'idea di tirare urlo, per dare almeno un motivo valido ai quattro per guardarmi come se stessero vedendo un extraterrestre. Toccandomi, però, il mento per scaricare l'ansia mi sono accorto della lunghezza della barba e del fatto che, verosimilmente, non sono molto presentabile. Quando sono in casa, di fatto, non mi guardo quasi mai allo specchio per vedere come sto e tantomeno quando devo uscire mi preoccupo di come possa apparire. Chissà se anche Ginevra lo avrà notato. Ginevra? Perché sto pensando a lei?
Dovrei rientrare nei gangheri e magari comprare qualche vestito nuovo. Alcuni sono davvero impresentabili. Non era così quando stavo alla Vian. Toelettatura e vestiario erano due aspetti che osservavo con rigore. Scrutandomi con maggiore attenzione, noto che, peraltro, indosso un paio di scarpe inadatte alla stagione, che si combinano malissimo con i pantaloni. Ora capisco lo sbigottimento dei presenti. Devono avermi scambiato per una specie di clochard.
«Sapete dirmi dove posso trovare qualche rivista o libro musicale?».
La bibliotecaria, una signora sgraziata e tonda, mi indica l'ultimo scaffale in fondo alla stanza che si apre davanti ai miei occhi. La ringrazio con un cenno del capo, muovendomi barcollando. Le riviste sono in cima al mobile, dove si intuisce che più persone vanno a mettere le mani. Comincio a sfogliare a casaccio, incredulo di fronte all'eccezionale numero di magazine di settore. Recupero l'indice di una raccolta di fascicoli musicali pubblicati da Curcio Editore, allegati a una rivista chiamata Rock & Blues. Cerco Eric Clapton. Mi manda a pagina 96 del quarto volume. Il servizio si apre con una bella immagine del musicista inglese, che suona con altri comprimari in una specie di teatro. Le luci falsano la realtà, facendolo sembrare una specie di robot con la chitarra in mano. Leggo cose interessanti sulla sua biografia: abbiamo quasi la stessa età, ma lui è nato a Ripley, piccolo villaggio a una quarantina di chilometri da Londra. E' soprannominato "slowhand", manolenta, curioso epiteto che non riesco a ricondurre a un'origine precisa. Risulta tutt'oggi essere uno dei più importanti musicisti blues. Leggo e leggo, finché non arrivo alla fatidica sentenza. Eric Clapton ha dato alle stampe nel 1970 a una delle sue canzoni di maggiore successo: Layla. Ho un fremito. Layla e non Laila. Dunque, ho la certezza matematica che la mia Laila non possa essere quella della canzone… Ridicolo che abbia ancora dei dubbi in questo senso, ma ora che posso appurare con certezza la sua estraneità nei riguardi del capolavoro claptiano provo un senso di sollievo. Layla non è Laila. Ma poco cambia. Quella canzone mi rimanderà per sempre al mio vecchio e indimenticato amore.
Proseguo nella mia ricerca, incuriosito dal fatto di scoprire chi si cela dietro alla protagonista del pezzo. Emerge che Clapton non è l'unico autore della canzone. Al suo fianco c'è Duane Allman, chitarrista e cantante statunitense, scomparso giovanissimo, l'anno dopo la pubblicazione di Layla, per via di un incidente stradale. Layla? Scopro che, in realtà, non è Layla, ma Pattie Boyd, moglie di un altro grande amico di Eric Clapton: George Harrison, nientemeno che uno dei quattro beatle. E che c'entra? Piccolo retroscena. Clapton e Harrison si stimano molto e non perdono occasione per suonare insieme. Il primo contribuisce alle registrazioni di "While My Guitar Gently Weeps", brano composto da Harrison per "White Album" dei Beatles; il secondo contraccambia in "Badge", dall'album "Goodbye" dei Cream, dove suonava Clapton. Risultato: Clapton vede sempre Harrison, ma anche la moglie di quest'ultimo, della quale alla fine si innamora, contraccambiato. L'amore, si sa, mette pepe all'ispirazione e così Clapton decide di dedicare un pezzo alla consorte dell'amico. Trova il pretesto per non utilizzare un nome fin troppo esplicito rifacendosi a un poeta azero, Nezami, autore di una storia dedicata a una principessa costretta a sposare per volontà del padre un uomo diverso da quello di cui era innamorata. Sembra proprio la sua storia. E visto che la protagonista della saga azera è Leylà… giungere a Layla pare inevitabile. Giochi chiusi? Non ancora.
La canzone, dopo qualche tentennamento iniziale, dovuto al fatto che vari opinion leader credevano che provenisse da un semisconosciuto gruppo della periferia londinese, ottiene un successo strepitoso, spendendo nel gotha dei più grandi musicisti di sempre il mitico slowhand, e consentendogli di soffiare definitivamente la moglie all'amico. Pattie Boyd divorzierà, infatti, da Harrison nel 1977 per sposare Clapton due anni dopo. Matrimonio che, a quanto pare, sta andando ancora oggi a gonfie vele.

Parametri esistenziali

Dopocena mi sono sdraiato sul divano e mi sono messo a fissare il soffitto, accantonando per un attimo Layla e Calpton, e ripescando un argomento affrontato qualche giorno fa: l'antropocentrismo. Ma da un nuovo punto di vista, o meglio, da un punto di vista basato sul fatto che probabilmente anche concetti tabù come la morte hanno valore solo se analizzati e valutati dalla nostra posizione. Non è escluso che anche il trapasso sia un immenso granchio e che, di fatto, non esista. Non sappiamo nulla del mondo che ci circonda, inutile negarlo, e diamo consistenza a parametri esistenziali sui quali probabilmente non abbiamo i mezzi per indagare. Non sappiamo quale sia l'energia che tiene in piedi l'universo, non sappiamo cosa succede a livello subatomico, c'è discrepanza fra le teorie di Einstein e l'immensamente piccolo, brancoliamo nel buio per ciò che riguarda l'ipotesi di un pre-big bang.
Si dovrebbe iniziare a parlare di biocentrismo, dove "il mondo", l'universo, è il centro, e noi solo una minuscola e infinitesimale appendice (che se anche non ci fosse non cambierebbe nulla). La morte, dunque, se si osservasse il processo da questo punto di vista, non dovrebbe sussistere, essendo una prerogativa della nostra mente, della nostra società. Siamo stati educati a credere nella morte e, paradossalmente, a evitar di discorrerne il più possibile. Ma, in realtà, non si muore mai, così come non si nasce mai, si esiste da sempre e per sempre sotto forme diverse, sotto materializzazioni differenti dell'energia. Ricordo di avere avuto questa sensazione anche quando mi capitò di vedere delle mummie mezze imbalsamate in un sotterraneo di Praga, in seguito a un'uscita improvvisa per la Vian. Guardavo quelle facce stranite e scheletriche e intanto avevo l'impressione che non fossero morte, ma che fossero altrove. Era come se a un certo punto l'energia in esse contenuta avesse smesso di irraggiare potere per volare chissà dove. Le cose credo che funzionino così, e anche i nostri sbagli, le nostre paure, dipendono verosimilmente dall'errata consapevolezza che abbiamo del genere umano. Lo stesso Einstein credeva che la morte fosse una sciocchezza. Quando gli diagnosticarono un aneurisma, rifiutò di farsi operare, sapendo che è tutto relativo, compreso il trapasso.
Il nostro principale errore è quello di vedere le cose sempre dallo stesso punto di vista. Dovremmo imparare, invece, a staccarci dalla nostra apparente solidità cosmica. Siamo in una stanza e vediamo di fronte a noi un tavolo, delle sedie, alcuni quadri appesi alle pareti. Ma non è quello che c'è veramente, è quello che crediamo ci possa essere: praticamente nulla rispetto a ciò che c'è davvero. I nostri occhi, certo, sono un limite sacrosanto alla conoscenza. Diamo giudizi in base a ciò che vediamo, ma gran parte di ciò che c'è non può essere visto con gli occhi, ma con la mente. Dunque, nella stessa stanza dove ci trovavamo poc'anzi, con l'intelletto arriveremmo a ben altro e vedremmo nuvole di atomi che si aggrovigliano fra loro, misteriose particelle che guizzano nell'aria, fantascientifiche creature che nemmeno il miglior microbiologo della Terra saprebbe diagnosticare ed energie che ci attraversano senza sapere cosa siano e da dove arrivino. E' grazie al potere della mente che possiamo vedere ciò che non c'è; se invece, come facciamo, ci affidiamo agli occhi e all'educazione che abbiamo ricevuto, non portiamo a casa nulla d'interessante. Continuiamo a sprofondare nella nostra boria, inconsapevoli di tutto e tutti.
L'antropocentrismo è in gran parte figlio della religione, temo; di quella cristiana soprattutto. Le cose sono state confuse dalle sacre scritture. Qual è il senso della resurrezione di Cristo se, in pratica, siamo già tutti i risorti e ogni giorno risorgiamo? Chiunque, infatti, se ragionasse con la mente e non con gli occhi, vedrebbe che la reincarnazione di Gesù - magistralmente ideata per alleviare le nostre pene convincendoci di un immenso potere sovrannaturale in grado di regalare l'immortalità - non è che un concetto arbitrario, obsoleto, mitologico. Non c'è nulla di vero in essa, per il semplice fatto che racconta una verità che si verifica tutti i giorni, e che, pertanto, non ha nulla di trascendentale. La superficialità del cristianesimo è stucchevole, e stucchevole è il fatto che ci siano ancora preti che non si siano accorti delle immense fregnacce che raccontano. Dovrebbero auto infliggersi delle punizioni, non per redimere il peccato universale (altra cosa stupida), ma per i continui lavaggi di cervello che operano nei confronti di seguaci ignari, incapaci di fare un po’ di autocritica. Senza contare la presunzione legata al fatto di ritenere santo Gesù, ma non Maometto e Buddha. Che differenza ci sarebbe fra queste persone?
Semmai è il mistero della carità cristiana che andrebbe approfondito e perseguito. Quella magica e indescrivibile spinta che porta a vincere le leggi darwiniane, antiponendo all'io, l'altro, questo sì che può avere un vero valore trascendentale, il resto sono sciocchezze. Ma il cristiano medio fa troppo spesso orecchie da mercante, facendo e predicando tutto, senza donare un bel niente e, quindi, rinunciando clamorosamente all'unico vero paradigma della comunione con Gesù. Al cristiano andrebbe, dunque, suggerito di evitare di parlare di cose che non ci sono e di santificare feste che non servono, ma di vivere come insegnava Cristo, all'insegna della rinuncia per l'altro. Mi viene in mente Kolbe, il sacerdote che durante la guerra si fece avanti per essere giustiziato al posto di un condannato a morte con moglie e figli. Questo è un bell'esempio di vero cristiano, uno fra i pochissimi, gli altri scimmiottano il cristianesimo con un'incoerenza spaventosa, abbeverandosi alla fonte dell'ipocrisia. Anche se poi si finisce per aprire una nuova questione: il donarsi agli altri è un puro e spontaneo regalarsi o è la modalità estrema per far stare bene noi stessi? In altre parole, per esempio i missionari, fanno del bene ai terzomondisti o al proprio spirito che altrimenti soccomberebbe?
Sono tornato a parlare di questo argomento anche perché l'altro giorno ho visto un documentario dedicato all'ipotesi di forme di vita aliene, su cui mi sono trovato a meditare subliminalmente fino a oggi. Quasi l'intera durata della trasmissione ha avuto come tema clou l'ipotesi che gli extraterrestri ci possano attaccare. Mi sono scaldato. Se ci sentissero gli alieni si farebbero della grosse, grasse risate… Ma possibile che a nessuno di noi venga in mente che per creature più o meno sviluppate delle nostre il concetto di guerra possa non avere alcun senso? Perché riconduciamo tutto all'uomo? Perché non s'impara a vedere le cose da un punto di vista universale? Il fatto che ci facciamo guerra dagli albori della civiltà non può e non deve significare che anche in altri punti del cosmo tutto ciò abbia un significato… Ancora una volta valutiamo il discorso come se fossimo al centro di tutto… mentre non siamo altro che minuscoli esseri terribilmente arretrati.

Un gatto nero a passeggio

E' notte e non riesco a chiudere occhio. Ripenso ancora alla canzone di Clapton, mi giro e rigiro nel letto come un drogato in crisi di astinenza; come i primi giorni di soggiorno a Concorezzo, con una colpa troppo grande da espirare con successo, senza un aiuto, un appoggio dall'esterno. Andare a fare una passeggiata nel cuore della notte, con il freddo che c'è, mi pare un'assurdità… Quindi? Quindi, come in un copione già visto, mi alzo e vagabondo per casa fino a trovarmi di fronte alla finestra che dà sulla casa del vicino. Nonostante l'ora tarda ha ancora le luci accese. Mi pare strano. La macchina al solito posto, i bagliori del soggiorno, la fine del mondo verosimilmente ancora lontana; ma qualcosa mi lascia di perplesso. Sono le due di notte e, domani, suppongo che, come tutti i mortali (a parte il privilegiato sottoscritto) debbano andare a lavorare: cosa ci fanno ancora in piedi? Noto delle ombre al di là delle tende che si sovrappongono freneticamente. C'è qualcuno che va e che viene; sembrerebbero persone diverse, affaccendate per qualcosa, ma è pressoché sicuro che siano solo i due proprietari della casa, che si avvicendano l'uno con l'altro come se si fossero messi in testa di traslocare col buio o fuggire per via di un'imminente esplosione. Perché sicuro? Non so, è un'idea, una certezza che mi sovviene, non ha senso che alle due di notte due tipi come loro stiano facendo festa con qualche amico particolare. Peraltro non vedo parcheggiate auto lungo la via, né ci sono altri mezzi motorizzati. Potrebbero esserci amici del paese, sopraggiunti a piedi… ma insisto: nei giorni feriali i brianzoli non fanno festa fino alle ore piccole. E allora… che diamine staranno facendo i miei vicini?
La luce si spegne e si riaccende, come se qualche imbecille si divertisse a pigiare sull'interruttore per fare passare il tempo. Lo facevo anch'io da bambino con qualche mio cuginetto, fingendo di trovarci in un casinò di Las Vegas. Continuano i loro assurdi avanti e indietro. Le tende subiscono uno sconquassamento, un movimento anomalo, sussultorio. Non ci sono, però, correnti d'aria, presumo non ce ne siano, non soffia un alito di vento e le finestre sono ben serrate; evidentemente uno dei due è finito addosso alla finestra: la schiena di una persona ricama un confine fin troppo netto nel drappo di tessuto, a mo' di uno spettacolo di ombre cinesi. Per poco non si riconoscono anche le vertebre dell'individuo sospinto da una forza a dir poco tracotante. Un brivido mi scombussola lo stomaco, facendomi andare su e giù quel poco che ho mangiato. Mi pare di sentire un urlo. E' un urlo. Mantengo la calma e mi avvicino alla porta di casa che disserro lentamente.
Ora domina il silenzio. Saluto con un cenno sbrigativo qualche creatura delle pozzanghere che tergiversa nei pressi di un minuscolo alveare lacustre condannato all'estinzione. Torno alla casa dei vicini. La luce del soggiorno sembrerebbe essere stata definitivamente smorzata. Vengo, di nuovo, sopraffatto dall'ipotesi che mi stia sfuggendo qualcosa, nel bene o nel male. Sono solo immagini distorte della mia mente? Cosa sta accadendo in quella casa?
Prendo le sigarette e mi metto a fumare sull'uscio di casa, seminascosto da un grosso vaso spoglio.  Dalla mia posizione posso vedere tutto senza essere visto da nessuno. Fa un freddo della miseria ma è come se fossi anestetizzato; benché in pigiama resisto come un eschimese alle ferite del gelo, soffiando in mezzo alla strada nuvole di fumo e vapore. Mi guardo intorno scoprendo una via totalmente deserta: perfino delle creature delle pozzanghere non c'è più traccia. C'è un rumore di fondo, che non riesco a decifrare, un rumore sordo e costante. Forse è l'eco dell'autostrada, dei mezzi ancora in circolazione. A quest'ora della notte? Mah. In ogni caso non devono esserci tantissimi metri fra il mio quartiere e la tangenziale e lì convergono molte altre strade.

Alla mia sinistra odo un miagolio che mi restituisce per un attimo il buonumore. E' un gatto nero che attraversa la strada. Gli dedico la mia attenzione, come se fosse la più bella cosa che abbia mai visto da un bel po’ di mesi a questa parte. Sembra l'animale più tranquillo e pacifico del creato, del tutto disinteressato alle vicissitudini degli umani che lo circondano. Con assoluta nonchalance filtra nel giardino dei vicini, attraversando l'ampia feritoia del cancello, perdendosi dietro un'araucaria mezza rinsecchita. Mi rimanda ai pensieri di oggi pomeriggio. Anche il senso di questa notte bizzarra dipende da un punto di vista: in questo caso, il mio e quello di un gatto teso a traguardi che non mi competono minimamente. L'antropocentrismo abiura lo spirito critico, ma è sufficiente il semplice galoppo di un felino domestico a far quadrare nuovamente le cose. Basta un piccolo sforzo, un misero e mistico ragionamento. Basterebbe poco, per tutto.