domenica 30 giugno 2013

Il mondo di Sofia (Sibilla)


IL MONDO DI SOFIA (Sibilla)

Io sono una ragazza, sognare è il mio mestiere
Mi piace andare a scuola, sì però non mi appartiene
Io sono come un cirro e appena posso volo
E al primo alito di vento m'abbandono

Io sono una scommessa, già vinta come se
Fosse già stato tutto scritto quello che ora c'è
Al di là delle cose semplici e persone
Al di là di qualunque timida canzone

E troppe volte penso che
Non sarei stare senza te
E qualche volta penso che
T'innamorerai di me

Io sono una ragazza, ma gioco a nascondino  
Mi metto già la gonna, ma per ora niente vino
Mi piace andare a spasso, vedere tanta gente
Nuotare al largo, al mare, senza il salvagente

Io sono come l'aria, non sono come te
Mi piace fare shopping e poi vedere cosa c'è
Di bello da raccontare
Di questo grande mondo così particolare

E troppe volte penso che
Non sarei stare senza te
E qualche volta penso che
T'innamorerai di me

Io sono una ragazza, sono fatta così
Dipende un po’ dai giorni, non è sempre venerdì
Ma so pensare e poi so danzare
Non ho certo paura di testimoniare

Quel che mi capita
So che significa
Questa vita che sta sbocciando
D'importante che sta accadendo

E troppe volte penso che
Non sarei stare senza te
E qualche volta penso che
T'innamorerai di me

2013 

venerdì 28 giugno 2013

I disegni di Baccarini


Domenico Baccarini è stato un grandissimo disegnatore italiano, oggi dimenticato. Nato a Faenza nel 1882, frequenta l'Accademia di Belle Arti a Firenze (grazie a un aiuto economico del comune natio). Ama la pittura a olio, a pastello, ma anche le incisioni su legno, rame e la litografia. Si lega a Elisabetta Santolini, la Bitta, che diventa sua modella per moltissime opere; dalla loro unione nasce Maria Teresa. Ammesso nel 1904 alla Scuola del Nudo dell'Accademia di Francia, conosce Umberto Boccioni e Giacomo Balla. Torna a Faenza nel 1905, lavorando nella produzione di modelli per le officine Minardi. Espone alla VI Biennale di Venezia. Se ne va giovanissimo per colpa della tubercolosi, il 31 gennaio 1907.

giovedì 27 giugno 2013

Laila # 8


8.

Araba fenice

Sto meglio, o vorrei dire mi sembra di stare meglio; ho un vago timore ad ammetterlo, non vorrei trovarmi con un pugno di mosche in mano. Dopo quasi due mesi dal mio incontro con la landa perduta degli appestati, posso dire di sentirmi… più in forma? Forse. Anche se non avrei mai immaginato di poter di nuovo respirare con piacere dopo appena pochi mesi dal cataclisma che ha sconvolto la mia pacata esistenza: Laila.
Non riesco bene a capire cosa sono, cosa voglio, come e perché e se sto realmente meglio. Di certo sono più rilassato, il peso che un tempo sfondava il mio torace, specialmente durante le prime ore del giorno (ma anche nel buio della notte), s'è fatto più leggero, volatile; non so se sto realmente meglio o se è la rassegnazione che sta avendo il sopravvento. Quale sia il vero motivo, comunque, m'interessa solo fino a un certo punto. Di fatto il passato mi mette meno angoscia, come se piano piano lo stessi esorcizzando. Il passato sta scemando in virtù di una scelta azzeccatissima. L'abbandono della Vian è stato provvidenziale. Se fossi rimasto alla Vian starei ancora agonizzando per un dolore insopportabile, rasenterei la pazzia. Solo qui dove regna il niente e il nulla ho l'impressione di potere recuperare me stesso, calato in un estemporaneo quieto vivere. Respiro aria nuova, come se stessi rinascendo dopo anni di sopimento e apatia. La spina nel cuore continua a sanguinare, ma sanguina in silenzio, e il mondo sembra… meno ostile.
I miei vecchi amici? Direi una bugia se affermassi che non mi mancano, tuttavia anche questa sofferenza è stata messa in conto, fa parte del gioco; guadagnando da una parte, si è costretti a perdere qualcosa dall'altra. Mi mancano Filomena e Francesco, spesso mi chiedo cosa staranno facendo e pensando. Come avranno mandato giù la mia sparizione misteriosa e improvvisa. Mi avranno cercato? In fondo credo che non l'abbiano fatto, proprio in virtù dell'amicizia che ci univa. Credo abbiano capito che se sono scappato senza dire niente, era perché desideravo fuggire da me stesso e dal mondo senza dare spiegazioni a nessuno; capendolo, devono avere lasciato correre le cose, senza troppo dannarsi l'anima. Certo, si saranno domandati quale potesse essere il motivo della mia insofferenza, un'incongruenza di sentimenti tale da spingermi all'auto licenziamento e a una sorta di volontaria alienazione. Filomena potrebbe avere sospettato qualcosa… ma Francesco no, no di certo. La mia eclissi deve averlo colpito come un terremoto nella notte, portandolo a supporre, chissà mai, che potessi essere finito in qualche strano giro o essere stato rapito. Filomena sapeva di Laila, ma non il mio amico. Non ne parlavo mai, del resto.
Laila era il mio mondo che non volevo condividere con nessuno. Anche a Filomena non ne parlavo esplicitamente, ma a lei non serviva raccontarle qualcosa. Sapeva già tutto senza che le dicessi nulla. Leggeva i miei occhi. E da quel primo giorno che ero uscito con Laila, sapeva che non sarebbero stati più gli stessi. Il suo sguardo meditabondo lo rivedo come se fosse ieri. Sicuramente si saranno confrontati per capirsi, per capire che fine abbia fatto. Ma poi avranno mollato la presa, non avendo scelta… Oggi mi staranno aspettando o si staranno dimenticando di me. Deve essere assurdo vivere gomito a gomito con una persona che sparisce dall'oggi al domani senza alcun preavviso. Si potrebbero costruire interi film. 

Nuovi amici

Anche se il tempo, intendo dire quello atmosferico, è tutt'altro che benevolo. Da quando sono giunto a Concorezzo non c'è ancora stata una giornata di sole. Piove sempre, e se non piove, fa un freddo terribile. Anche i meteorologi sono perplessi. Parlano di uno degli anni più freddi della storia. Curioso che cada proprio durante il momento più cruciale della mia vita. C'è il risvolto della medaglia, certo. I miei amici, le creature delle pozzanghere, sussistono proprio perché piove sempre o nevica. Se non ci fosse questo tempo inclemente, di loro non ci sarebbe traccia. Si nasconderebbero negli antri più bui e profondi della terra dimenticandosi di dover servire qualche anima in pena. Le buche delle strade si riempiono dei loro guizzi, e così finiscono per tenermi compagnia, senza assillarmi, senza il ghigno sospetto dei vicini. Senza di loro sarebbe stato difficile tirare avanti. Sono esseri discreti, ben lontani dalle arroganze umane. Proprio ciò che fa per me.
E c'è da tenere conto anche dei nuovi incontri reali, fisici, avuti in queste settimane, che non pensavo di poter vivere, che incredibilmente hanno contribuito a darmi sollievo e speranza. Non dovevo mica isolarmi da tutto e da tutti? Beh, non è andata così. Le carte in tavola sono cambiate quasi subito, dopo le capatine al circolino. Orso, Giorgio, Delfino, Ivo… e la bella ed enigmatica Ginevra, sono stati una manna dal cielo. Tra qualche giorno tornerò a trovarli.

Se Kant fosse un po’ più comprensibile…

Passo il tempo a cincischiare con me stesso, come un mendicante o un eremita. Mi piace cincischiare con me stesso, come se i "me stesso", in realtà, fossero più di uno. Talvolta mi sdoppio ed è come se un microcosmo schizofrenico della mente interpellasse una misteriosa mia dolce metà relegata chissà dove. Così è come essere sempre in compagnia di qualcuno, in un mondo dove domina il silenzio e, apparentemente, la noia. In effetti, penso molto, mi piace pensare, affidandomi spesso al pensiero altrui, menti illuminate che ci hanno preceduto.
Sarei già su Kant se fosse un po’ più accessibile. Ho tentato con "Critica della ragion pura", ma per ora, almeno per il sottoscritto, è arabo. Non mi raccapezzo. E' un inferno di considerazioni esagerate, complesse, funamboliche, voli pindarici che non riesco a cogliere, lontani dalla mia capacità di sintesi. Non è sempre così. Ho trovato più abbordabili, per esempio, Nietzsche e Schopenahuer. Ma è a Kant che vorrei arrivare, forse proprio perché è molto difficile. Amo, infatti, le sfide. Confrontarmi con ciò che mi sembra invalicabile. Kant, al momento, è per me invalicabile. Avrei bisogno di un passepartout, qualcuno che mi indichi la via, che mi tracci il cammino per capirlo e comprenderlo. Non sapevo che fosse anche un astronomo. Credo che abbia contribuito all'elaborazione di qualche importante tesi, ancora oggi appannaggio del mainstream astronomico. E' incredibile come un filosofo di simile portata possa anche aver messo lo zampino in ambito scientifico. Che mente sarà mai dovuta essere?
Mi sono accorto che le relazioni metafisiche che si vengono misteriosamente a instaurare fra una persona comune e uno scrittore o un filosofo, variano enormemente negli anni, determinando spessori amicali differenti. Ho notato che certe letture da me giudicate improponibili venti anni fa, ora mi sono del tutto comprensibili. Come se delle onde provenienti da chissà dove, da realtà ultraterrene, a un certo punto di un'esistenza entrassero in comunione con barlumi della stessa natura derivanti da coscienze simili, vissute magari secoli fa. Così, suppongo, potrebbe accadere con Kant. Non escludo che fra vent'anni potrei trovare il suo lavoro del tutto accessibile. Peraltro "Critica della ragion pura" è del 1871. E' stato scritto quando l'autore aveva quasi sessant'anni. Io sono intorno ai quaranta, per un effetto mistico legato alla maturazione psichica di un individuo, probabilmente, sarò pronto per Kant fra una ventina d'anni.
Può sembrare un'idiozia, visto che Kant viene studiato anche al liceo, tuttavia sono quasi convinto che certe cose vengono assimilate meglio se per imprescindibili meccaniche neurologiche il nostro cervello viene a trovarsi in sintonia con paradigmi cerebrali appannaggio di altri mondi e tempi. Lo dimostra, per esempio, l'amore che oggi provo per Manzoni. Quando lessi i "Promessi Sposi" alle superiori mi sembrava un testo noiosissimo, incomprensibile, verboso, assurdo. Oggi lo trovo invece meraviglioso, leggero, con un intreccio straordinario, quanto di meglio possa concedermi quando ho voglia di leggere qualcosa. Kant… ci vediamo fra qualche anno.

La prima notte con Laila

Laila abitava in un camper, isolato, da lontano sembrava un bugigattolo sperso fra le polveri di una radura texana. Mi vennero in mente alcuni film western visti da ragazzino, con indiani e cowboy che si inseguono per infiniti cortei di piante rinsecchite e animali alieni. Era davvero surreale e atemporale, appunto, come in un lungometraggio alla Leone. Non mi parve possibile che qualcuno, ormai prossimi al Duemila, potesse vivere in una dimora del genere. Non le feci domande per non metterla in imbarazzo e darle l'impressione di volere indagare la sua apparente indigenza, anche se poi, conoscendola meglio, avrei saputo che non avrebbe provato imbarazzo per nulla.
«Ti piace?», mi domandò bruciapelo, come se fosse normalissimo abitare in un buco del genere.
Rimasi interdetto per qualche secondo, osservando lo strano silenzio che ci circondava, un paradiso in confronto al terrore che si respirava dove Laila vendeva hamburger e hot dog. Di primo acchito mi chiesi dove e come potesse procurarsi l'energia per far funzionare la casa, gli elettrodomestici, la luce, i termosifoni. Sembrava un fungo spuntato dal nulla, dopo una rocambolesca notte di pioggia. Aggrottai le sopracciglia e le risposi di sì, ma tutt'altro che convinto.
«D'estate rimango fuori, tiro la tenda e si sta al fresco. Capirai, al suo interno, con il solleone non è una bella avventura…».
Aveva uno straordinario sorriso sulle labbra, come se stesse giocando, divertendosi un mondo, dimentica degli affanni che probabilmente la perseguitavano. La sua allegria era contagiosa e finì per stuzzicare anche il mio umore, vagamente immalinconito dal senso di straniamento patito innanzi a quel mezzo rudere appannaggio di una campagna con passaporto straniero. Mi prese per  mano, indicandomi il punto in cui era solita concedersi la pennichella prima di riprendere col lavoro al botteghino, che poteva proseguire fino alle ore piccole. Era una specie di brandina, rialzata da terra di una ventina di centimetri, affiancata da un improbabile comodino sormontato da una pila di libri. C'era anche una piccola e originale abatjour: in qualche modo, quindi, la corrente elettrica doveva arrivare, riflettei. Certo, era una sistemazione alquanto spartana, molto più indicata per un militare in missione che non una bella e suadente ragazza come lei.
«Non fare caso al disordine, io vivo nel disordine. E' il mio ordine mentale».
Sembrava parlasse per ossimori. A volte i suoi discorsi erano delicati e imprevedibili. Non capivo mai dove volesse andare a parare e se fosse del tutto conscia di ciò che diceva. Ancora una volta vissi un senso di atemporalità, che mi fece perdere l'orientamento e supporre di avere a che fare con una specie di sibilla dai poteri occulti. Mi mollò la mano rientrando nella normalità.
«Di cosa ti occupi?».
Me lo chiese senza un reale interessamento, come se avesse bisogno di un pretesto per organizzare la sua prossima imprevedibile mossa. Me lo dimostrò, infatti, non lasciandomi nemmeno il tempo per rispondere, esordendo con un quesito quantomeno provocante.
«Ti va di restare qui a dormire con me?».
Deglutii imbarazzato, non potendo credere alle mie orecchie. Ci conoscevamo solo da qualche ora e già mi chiedeva se volevo dormire con lei. Mai prima d'ora mi era capitato di vivere un'avventura del genere, su due piedi, con un corpo femminile a me totalmente estraneo. Non seppi cosa pensare. Temporeggiai, guardandomi attorno come una falena all'imbrunire che danza intorno alle prime luci di un lampione. Da un lato ero super eccitato, ma dall'altro… dall'altro era come se percepissi un freno, come se quel respiro carico d'angoscia che già mi aveva attanagliato conoscendola, stesse tornando a ordire il suo pegno. Era di nuovo quel sorriso così elettrizzante e quelle guance da ragazzina bramosa di vita che celavano un oscuro, imprevedibile e bieco presagio. Ma non mi feci intimorire dalle apparenze; mi lasciai tranquillamente incantare dall'idea che una ragazza tanto affascinante potesse invocare la mia presenza e andai oltre, riprendendo a gloriarmi di una frenesia sentimentale senza eguali. La guardai con un sorriso idiota, belligerante; e alla fine non potei che risponderle affermativamente:
«E dove mi sistemeresti?».
Mi regalò un'espressione così buffa che non trovo modo di spiegarla: fu come una bambinetta che si rende conto di avere compiuto una marachella.
«Dormirai nel mio letto… con me».
Fu una recita devastante, come se dal suo punto di vista fosse già stato tutto scritto e neanche il padreterno avrebbe potuto cambiare il destino. Percepii una scarica di adrenalina percorrere tutto il mio corpo a velocità supersonica. Ci misi qualche minuto a rientrare nei gangheri. Le cose si acquetarono quando una folata di vento finì per sollevare degli strani fogli che giacevano sul piccolo davanzale della finestrella del camper, alcuni ricoperti d'indecifrabili graffiti. All'improvviso divenne ombrosa e silenziosa e la magia di pochi secondi prima scemò. Ancora una volta subii il fascino dei suoi repentini cambi umorali. Ricordai molto bene l'episodio della prima volta che la vidi, quando, dopo l'euforia, la malinconia ebbe su di lei il sopravvento; come se un mantello oscuro avesse seppellito il suo cuore leggero sotto uno spesso strato di mal intenzioni. Mi disse di accomodarmi in veranda che lei avrebbe dovuto sbrigare un paio di faccende all'interno del camper; faccende di cui non potei neanche vagamente supporre l'identità.
«Ciao, ciao», nicchiò, sparendo oltre l'uscio.
Mi lasciò solo, concedendomi tutto il tempo che volevo per guardarmi intorno come una marmotta appena nata, che spinge per la prima volta gli occhi al di là della tana. Era davvero un caos infernale, come se un temporale di immani proporzioni fosse appena passato. Non mi sembrava possibile vivere in uno scompiglio del genere. Su un tavolino traballante c'erano cartoni del latte e bottiglie di acqua mezze vuote; per terra un cumulo di giornali, alcuni che non avevo mai visto, in lingua inglese e francese; le pareti erano addobbate da foto di cani e gatti e disegni di esserini simili agli elfi; su quella alle mie spalle c'era una foto che la ritraeva con un ragazzo dalla carnagione scura e le labbra carnose, con uno sguardo profondo e misterioso come il suo. Mi domandai con forza chi fosse, punto da un'indecifrabile gelosia.
Non riuscii a razionalizzare e giustificare un pandemonio del genere, per cui nuovi quesiti cominciarono a frullarmi per la testa. Domande che mi posi per cercare di capire con chi stavo avendo a che fare; perché mi suonava così strana questa ragazza? Il suo esotismo? Il suo esoterismo? Dov'erano e chi erano i suoi genitori? Da dove venivano? Il Libano? Perché viveva in modo così sciatto? Si nascondeva da qualcuno? Non seppi rispondere a nessuna di queste domande, tuttavia mi sopravvenne il peggiore dei pensieri; che si trattasse di una ragazza che viveva di espedienti, senza nessuna regola sociale, morale, venuta al mondo per sbaglio, per uno scherzo del destino, abbandonata a se stessa in tenera età. Nel nostro immaginario tradizionale sarebbe stato possibile associarla a una zingara, benché non avesse nulla delle fattezze rom; ma aveva la loro stessa passione, quel senso di perenne precarietà che contraddistingue l'etnia di origine indiana, rendendola, però, uno dei popoli più affascinanti e straordinari della terra. Non potei altrimenti spiegarmi tutta questa smania di volere raggiungere l'intimità e darsi l'uno all'altro in modo così spregiudicato, senza prima avere voluto discernere le rispettive intenzioni di vita, progetti, suoni, emozioni, profumi della pelle. Non che io fossi particolarmente devoto a qualche dogma universale; semplicemente avevo sempre trovato perlomeno utile conoscere un po’ più a fondo una donna prima di poter raggiungere certi traguardi. Sarò anche all'antica, ma il sesso mordi e fuggi è un concetto che mi è sempre sfuggito. Con una donna desidero avere innanzitutto uno scambio intellettuale, spirituale, solo così trovo che abbia senso tutto il resto. Non è una questione morale o religiosa. Ho sempre avuto bisogno di studiare le situazioni, confrontarmi con realtà diverse dalle mie, ma in qualche modo a me simili per lunghezza d'onda, prima di lasciarmi andare; parametri per me essenziali per un dialogo completo con una potenziale partner. Per altri motivi, in fondo, c'erano, ci sono le prostitute. Si sa dove trovarle, paghi e il gioco è fatto. Perché perdere tempo con una di cui non interessa altro che la sorca? Perché bruciare tutto in un istante, privando le nostre intenzioni di mete ancor più gratificanti? Mi dissi, precipitando nello sconforto, che si era forse comportata allo stesso modo con moltissime altre persone e che io ero solo uno dei tanti; e come se non bastasse iniziai a pensare che potesse non essere così lontana dal suo mondo l'ipotesi di poter guadagnare qualcosa vendendo se stessa. Mi vennero i brividi. Ma subito dopo mi acquietai, quando mi sovvennero le sue vecchie parole, che, in qualche modo, mi rendevano unico:
«La verità è che ti stavo aspettando».
Tornò da me dopo un quarto d'ora, vestita di rosso, un completino elegante, ma allo stesso tempo casual, mi sorrise e mi diede un bacio sulla guancia; aveva le labbra calde e morbide. Avrei voluto farle mille domande - il perché di tutto quel disordine, le sue origini, i suoi rapporti affettivi - ma come al solito fu lei per prima a mettermi alle corde.
«Ti piaccio?», me lo chiese girando su se stessa come una trottola, facendo volare la gonna oltre il senso del pudore.  
Vinsi l'imbarazzo e le risposi che la trovavo incantevole; a ben vedere penso che i miei occhi parlassero da soli. Mi fissò sopraffatta dalla gioia, con un luccichio che sfiorava le lacrime. Mi prese le mani e m'invitò ad alzarmi, trastullandomi un po’, smuovendo le mie membra irrigidite: era ora di decidere cosa fare insieme.  
«E ora dove mi porti di bello?».
Era da poco passata l'ora di cena, ma nessuno dei due aveva ancora messo qualcosa sotto i denti: la fame ci stava attanagliando e la prospettiva di poter mangiare allo stesso tavolo venne di conseguenza.
«Dove vuoi», le risposi.
«Portami a mangiare in un posto dove si possono vedere le stelle».
Qualunque altra donna avrebbe potuto avanzare mille richieste, riflettei, partendo da un ristorante specializzato in piatti sfiziosi, magari col sottofondo di un po’ di musica. Solo Laila poteva pensare a una cosa del genere: all'idea di cenare illuminati dal chiarore degli astri, come se da essi potesse scaturire una polverina magica in grado di renderci tutti immortali o almeno invincibili ed eroici come i grandi protagonisti della Magna Grecia. Lo trovai romantico e disperato allo stesso tempo.
«Dovrei pensarci. Così su due piedi…».
Mi liquidò in un istante, dimostrando la sua insofferenza di fronte a un uomo incapace di prendere una decisione immediata e palesando un'intenzione che forse andava già covando da un po’.
«Ok, allora lascia fare a me».
Mi guidò per strade che non avevo mai percorso, circondate da quelli che parevano fitti boschi, benché non fossi al corrente che in zona esistessero spazi verdi tanto rigogliosi. Il camminamento era buio e pareva appannaggio del mondo selvaggio, ostile all'uomo comune, lontano dalle nostre giurisdizioni. Non mi sarei stupito di vedere spuntare dal nulla, dal ciglio della strada, un lupo, un cinghiale… o un vampiro. All'improvviso cominciò una salita impervia, contrassegnata da spigolosi tornanti, simili a quelli che avevo percorso pochi mesi prima con Filomena durante una gita nel parco d'Abruzzo. Mi chiesi dove stessimo andando, ma senza interpellarla, non volendo passare per un pusillanime accompagnatore. In realtà mi stava piacendo tantissimo questa corsa verso l'ignoto.
«Eccoci», mi disse euforica.
Le ombre della sera erano ormai calate e per aria volavano alcuni misteriosi uccelli dal canto stonato. Smontammo dalla macchina in un parcheggio molto approssimativo, ricoperto di ghiaia, ritrovandoci avvolti dal metallico fischio dei grilli e delle cicale; una consuetudine che avevo sempre amato e che mi portava inevitabilmente con piacere alla stagione più calda e desiderata dell'anno.
«Dove diamine mi hai portato?», domandai ridacchiando.
L'oscurità non permetteva di indagare adeguatamente i dintorni e non vedendo praticamente nulla di simile a un posto dove poter andare a mangiare, pensai che Laila volesse digiunare al chiarore delle stelle. Ma non fu così. Mi accorsi quasi subito, dopo avere percorso pochi passi verso una collinetta asimmetrica, le luci di un edificio piccolo e dimesso, affiancato da una radura ammantata di tavolini illuminati dai ceri.
«Ti piace?».
Rimasi titubante.
«Credo di sì».
«Lo sai che questo è il più bel posto del mondo?».
«Non ci sono mai stato. Non potrei saperlo…».
«Tu credi alle fate?».
Risi di gusto. Le sue domande incalzanti erano assolutamente divertenti, ma anche difficili da gestire. Ogni volta che apriva bocca era come un fulmine a ciel sereno.  
«Alle fate?».
Stava parlando di fate?
«Vuoi dire che non conosci le fate?».
«Non dico questo».
«Solo gli uomini cattivi non conoscono le fate».
Fui sul punto di parlarle delle creature delle pozzanghere, a modo loro anch'esse ascrivibili al fantomatico mondo fatato. Ma evitai per non cadere nel banale, apparire ridicolo, se non altro a me stesso.
«Allora?».
«Beh, non posso dire di conoscerle…». Riflettei un attimo. «Ma non significa che non esistano».
Mi compatii. Come poteva un mezzo scienziato arrivare a proferire simili scemenze? Mi discolpai pensando che fosse doveroso assecondare la sua insistenza o dirle quello che supponevo volesse sentirsi dire. Non volevo rovinare un momento così idilliaco. In fondo mi costava ben poco, ed ero stuzzicato dall'idea di avere a che fare con una persona adulta che credeva nelle fate. Avevo sempre amato le persone un po’ fuori della norma, che non si fermavano alle apparenze, ma andavano oltre, interrogando realtà dissacranti. Anche se il rischio era quello di scivolare lentamente nell'idiozia.
«Eppure mi dai l'aria di uno che se ne intende…».
«Di cosa?».
«Di queste cose».
Ancora una volta colpì nel segno, dandomi idea di conoscermi più di quanto chiunque avrebbe potuto mostrare dopo così poco tempo dal primo incontro, obbligandomi a lasciarmi andare.
«Io credo nelle creature delle pozzanghere».
Mi sorrise, come se avesse saputo fin dapprincipio quel che le tenevo in serbo.
«Mi dici qualcosa di loro?».
«Non so se ne vale la pena».
«Ne vale sempre la pena».
«Forse sono solo creazioni della mia mente».
«Non c'è differenza fra ciò che vediamo con i nostri occhi e quello che celano le nostre menti».
«Sarebbe bello se fosse così, però non ne sarei tanto sicuro».
Rise.
«Dovresti credermi. E' questa reticenza a rendere molti uomini tristi, inconcludenti, spesso amareggiati, lamentosi... Solo chi crede anche in ciò che non si vede conosce la verità».
«La verità…», bofonchiai pensieroso, «cosa sarà mai la verità?».
«La verità siamo noi, io e te, e miriadi di esserini di altri mondi che ci circondano e che qualche persona, come per magia, ha l'onore di poter incontrare e intrattenere».
Arrivammo al ristorantino, molto frugale; da una specie di balaustra si poteva rimirare un ottimo panorama, e sopra alle nostre teste brillavano le stelle. Proprio come desiderava Laila.
«Ci sediamo qui?».
Era il tavolino più esterno di tutti, oltre il quale le tenebre toglievano il respiro. Si intravedevano i limiti di alcuni monti che con le loro creste aguzze sembravano messi lì per la scenografia di un film. Ci accomodammo sereni come due innamorati di compassato menage e subito ordinammo da bere e mangiare. Mi stupii notando che Laila non prese quasi nulla. Si limitò a un misero secondo piatto a base di verdure e formaggini locali. Osservai di riflesso la sua magrezza; se mangiava sempre porzioni così risicate… capivo perché non metteva su chili. Ma a me andava bene comunque, aveva un fascino irresistibile, era oltre il concetto di corporatura e fisicità, era… spirito. Per stare al suo passo e non mostrarmi troppo venale, un famelico abitante delle caverne, nonostante l'appetito, ordinai un tradizionalissimo e mestissimo piatto di spaghetti. Laila chiuse gli occhi e mi dette l'impressione di volare in un altro mondo. La lasciai fare. Quando li riaprì, mi regalò un sorriso stupefacente, dopodiché cercò la mia gamba con un piede, tirandomi una specie di calcio negli stinchi. Mi fissò mettendomi in agitazione. Non riuscivo a prevedere le sue mosse. Appena ne giocava una, ce n'era subito un'altra da decifrare pronta a mandarmi definitivamente in crisi. Era un sortilegio. Che, però, cominciava a piacermi tantissimo.
Alle pietanze ci accompagnammo con una bottiglia di vino rosso che bevemmo con grande disinvoltura. Era un vino della casa, non buonissimo, piuttosto acido, ma perfettamente in linea con gli atomi di ossigeno e azoto che andavano inebriando le nostre narici. Al termine della cena ci prendemmo per mano, guadagnando un sentiero impervio che Laila mi dette l'impressione di conoscere molto bene.
«Hai intenzione di farmi scalare una montagna?».
Non rispose, ma era evidente che aveva in programma un bel po’ di strada. Da una sporgenza dell'altura che stavamo circumnavigando, potemmo vedere le luci del ristoro far risplendere il buio sottostante, che si era definitivamente nutrito della nostra automobile, ormai indecifrabile.
Alla fine, con il fiatone, raggiungemmo una specie di terrazzamento, dove coltivavano la vite e anticamente, forse, conducevano riti propiziatori: lo supposi dalla presenza di un grosso monolite che indirizzava la sua punta verso la costellazione di Orione.
«Ti piace?».
«Moltissimo».
«Hai mai visto un posto migliore per vedere le stelle?».
La guardai conturbato dalla sua leggiadria.
«Non credo», bofonchiai, rimbambito da una pericolosa beatitudine.
«Io vengo dalle stelle».
Francesco al mio posto avrebbe prontamente ribattuto "e io da Marte", ma l'incantevole momento mi suggerì di non ironizzare. C'era qualcosa di vero nelle sue assurde parole.
«Ecco perché mi piace venire quassù».
Sorrisi.
«Ti capisco».

Ci sedemmo e in pochi secondi ci ritrovammo sdraiati l'uno di fianco all'altro, per mano, l'erba umida sotto le nostre schiene che emanava un respiro atavico e ancestrale. Poi ci incontrammo davvero per la prima volta nel calderone dell'estate.   

giovedì 20 giugno 2013

quadri settecenteschi


brutto ceffo
drogato di letteratura
canta storie del settecento
convinto che non ci siano barriere
fra l'uomo e dio
vigliacco il tempo
che non appartiene a nessuno
se non alle spezie
che si usano per condire
quotidianità malate

lunedì 17 giugno 2013

Avanti Marsch


AVANTI MARSCH

Freddo cane porco mondo, giraci intorno, giraci intorno
Freddo cane porco mondo, forse nessuno si salverà

Freddo cane porco schifo, non un amico, non un amico
Freddo cane alla malora, non un sole mi basterà

Cala la nebbia alla frontiera, non ho paura, non ho paura
Cala la notte all'improvviso, ecco il cecchino la benedirà

Suona suona anche  l'orchestra, ma non a festa, ma non a festa
Suonan suonan le campane per chi il domani non lo vedrà

RIT. Vita, morte e girasoli, forte tuonano i cannoni
Neanche Dio ci fermerà, reggimento avanti marsch

Suona suona cornamusa, non una musa, non una musa
suona suona indiavolata, quando l'orchestra si fermerà

Campanile di San Pancrazio, San Nicola, san Nicola
Presbiterio, Precenicco, Campacavallo che passerà

Cartoline dall'inferno, dalla radura, dalla radura
Cartoline e in paradiso forse qualcuno ci arriverà

Sentimenti allo sbaraglio, dov'è lo sbaglio, dov'è lo sbaglio
Sentimenti alla deriva e pensierino a mamma e a papà

RIT. Vita, morte e girasoli, forte tuonano i cannoni
Neanche Dio ci fermerà, reggimento avanti marsch

Tallonati dalla fame, baionetta al contrattacco
C'è un somaro, c'è un somaro che qualcuno divorerà

Napo, Napo, Napoleone, non un buffone, non un buffone
Napo, Napo, Napoleone, sull'attenti che passerà

Scartamento un po’ ridotto, scartamento di confine
Mi si gela anche il colbacco, come a casa ci tornerò

Santa Madre che voi fate, che le piaghe del Signore
Che le piaghe del Signore siano impresse nei nostri cuor

RIT. Vita, morte e girasoli, forte tuonano i cannoni
Neanche Dio ci fermerà, reggimento avanti marsch

2013

La pittura di Zdenka


Di lei dicevano che fosse una donna straordinaria, divertente, educata e genuina, dotata di grande intelletto e fascino. Zdenka Braunerova nasce nel 1858 a Praga e muore nella stessa città nel 1934. Inizialmente attratta da musica e pittura, alla fine decide di consacrarsi definitivamente al culto dei pennelli. La influenza nella scelta un altro grande artista del tempo, Anthony Chitussi, di cui si innamorò. Trascorre molti mesi a Parigi, fra il 1881 e il 1893, affascinata dai bistrò e dagli angoli più remoti della metropoli.

giovedì 13 giugno 2013

io & clarence


una volta ho tentato di raccontare la foto di clarence hudson white una foto che ritraeva dio seduto su una panchina a fumare il sigaro poi è cambiato è uscita una femmina completamente dimenticata con una cipria assurda e si era messa a cantare una canzone di un brasiliano, tal caetano veloso, veniva pioggia che sembrava grandine, grandine che sembrava neve e poi faceva caldo da anima arrosto così tutto cambiò in un battibaleno finii per farmi un goccetto con clarence sempre più convinto di essere dio e di avere fotografato il suo sigaro certe cose non si spiegano nemmeno a distanza di secoli così così si fa la storia

Laila # 7


7.

Il concerto di Bruce

Partii per New York il 3 agosto del 1978. Era un giorno caldo e afoso. Presi l'aereo a Malpensa e volai per una decina d'ore fino all'aeroporto Kennedy della Grande Mela. Mi rimasero impressi i dintorni della mastodontica e rinomata città. Mi dissi che forse non era valsa la pena volare tutti quei chilometri per poi trovarsi di fronte a una periferia che sembrava in tutto e per tutto simile a quella di una qualunque metropoli italiana. Dominava il grigio; quello dei capannoni industriali e delle arterie periferiche, i cartelli stradali manomessi, la sporcizia, il verde degli alberi ammansito dallo smog: insomma, l'Italia. Pensai di avere preso un granchio. In realtà cambiai quasi subito opinione dopo aver assalito un taxi per dirigermi verso il cuore della city, dove avevo pernottato in un affascinante albergo. A Manhattan, di fatto, mi congratulai con me stesso, convinto di avere fatto la scelta giusta: "eccomi a New York, questa è la vera New York", mi dissi… ecco la città che desideravo visitare, Manhattan, il resto poteva anche essere dimenticato; parere che, in fin dei conti, chiunque avrebbe condiviso con me; la Grande Mela era ed è (lo penso ancora oggi) Manhattan; le cartoline ritraggono l'Empire State Building, Time Square, il Greenwich e non di certo i dintorni del JFK o qualche sperduto angolo del Queens.
Il taxista si chiamava Antonio ed era di origine italiana; era grassoccio e mezzo pelato; cercai di instaurare con lui una conversazione, ma non ricordava mezza parola di italiano, a parte "pizza" e così ce la intendemmo in inglese, per quanto il mio lessico mi consentisse di fare. Mi disse che i suoi avi provenivano dall'Abruzzo. Gli risposi che almeno un personaggio famoso aveva le sue stesse origini. Nicchiò, supponendo di non sapere a cosa e a chi mi stessi riferendo. Non aveva, del resto, mai sentito parlare di John Fante né del suo libro più celebre, "Chiedi alla polvere". Sbriciolò il mio tentativo di mettermi a parlare di autori americani figli dello Stivale, commentando la foto di una bellezza statunitense in bikini appiccicata a un gigantesco cartellone pubblicitario che anticipava di poco le indicazioni per il ponte di Brooklyn. Commentai con vago sarcasmo, dicendo che in America le ragazze pareva che crescessero più robuste e floride che in altre parti del mondo. Rise compiaciuto, sottolineando che per lui le donne migliori erano quelle del Kentucky.
«Come mai?», gli chiesi. «Che hanno quelle del Kentucky, che le altre non possiedono?».
Si trattenne, ma dalla smorfia del volto supposi che volesse dirmi che lì ci sono le ragazze con le tette più grosse, chissà per quale particolare retaggio evolutivo. Si limitò a ondeggiare la mano sul torace, facendomi appunto intendere che certi parabrezza si potevano rimirare solo in quello Stato, del paradiso statunitense. Poi si fece più serio indicandomi che a Hodgenville, una piccola città nella contea di LaRue, era nato Abramo Lincoln.
«Il presidente Lincoln», commentai a voce alta, come se stessi parlando di un mio connazionale.
Ci salutammo davanti all'hotel, sulla 39esima strada, a pochi passi dal Grand Central Terminal, la stazione ferroviaria più grande del mondo per numero di banchine; così avevo letto su una guida del Touring. La stanza era lussuosa ed elegante, con alle spalle del letto una gigantografia dello skyline newyorkese in piena notte. Mi avventai sul frigo per sorseggiare una birra gelata che per un attimo mi provocò spasmi allo stomaco. Ma mi compiacqui di tanta lungimiranza, ricchezza, abbondanza. Mi sentii un dio. Scaricai i bagagli senza troppi complimenti e benché completamente rimbambito dal fuso orario, me ne andai a fare un giro. Visitai il Central Park, non molto distante, e percorsi qualche chilometro lungo la 42esima. Ero come una specie di bimbo che vede per la prima volta la mamma dopo tanto tempo. I miei occhi zampillavano di entusiasmo e il cuore mi batteva di gioia. Al Central Park mi accomodai su una panchina e fumai due sigarette di fila, compiaciuto come non mai di trovarmi in un posto così meraviglioso. Il centro del mondo, pensai. Fui colto dall'ipotesi di mandare tutto a quel paese e trasferirmi a New York, ma capii presto che sarebbe stata una pazzia. Per la prima volta immaginavo il mio futuro al di là della Vian, senza sapere che un giorno la multinazionale sarebbe davvero divenuta un lontano ricordo. 
Notai con stupore le innumerevoli persone che facevano jogging, alcune abbigliate in modo incredibilmente buffo, con colori sgargianti che spesso non avevano nulla a che fare fra loro. Era la fine degli anni Settanta e Francesco mi aveva detto che in America si respirava un'aria nuova: la gente era spensierata e desiderosa di divertirsi e il nuovo presidente americano, Jimmy Carter, sconosciutissimo e ancora lontano dalla rivoluzione iraniana del '79, sembrava un pezzo di pane. Anche la musica, su cui andava sempre a parare, non era più quella di una volta, sosteneva, aveva molta più energia… era nata la disco music e c'erano in giro rocker di tutto riguardo. Probabilmente erano cambiate anche le droghe, con l'lsd in caduta libera e il sopravvento di nuovi sballi chimici. Si dimenticava che il sottoscritto aveva dimestichezza solo con la classica e che non aveva mai provato nemmeno uno spinello; ma tant'è. Mi diede una serie d'indirizzi che non avrei potuto saltare per nessun motivo al mondo, previo il rischio di ritrovarmi con un amico in meno (e visto che non ne avevo molti…). Mi rimase impresso il Bottom Line e il Caffè Wha? perché diceva che ci avevano suonato dei pezzi da novanta, come Bob Dylan e John Lee Hooker. Ma li considerai solo fino a un certo punto, tant'è vero che l'unico vero grande concerto di cui porto memoria con piacere fu quello di un tipo che non avevo mai sentito nominare, e che neppure Francesco mi aveva mai menzionato, ma che diede prova di una bravura fuori dal normale: Bruce Springsteen. 
Veniva dal New Jersey e non aveva nemmeno trent'anni. Le sue canzoni erano un perfetto incrocio fra i folk singer degli anni Sessanta e i gruppi rock dei Settanta. Lo andai a sentire il 22 agosto al Madison Square Garden. Mi ritrovai in fila, stupito dal fatto che un nome a me così sconosciuto potesse attirare tanta gente. Mi accodai con davanti una donna di colore di proporzioni gigantesche, con un decolleté sul quale mi sarei potuto comodamente sedere, e a un americano sui vent'anni che masticava continuamente gomme al mentolo. All'interno si stava comodi, ma cominciai presto a sudare come un beduino in pieno deserto. Sventolavano bandiere americane e benché mancasse ancora un'ora abbondante all'inizio del concerto, molti inneggiavano al loro beniamino come se lo avessero appena sentito suonare la loro canzone preferita. Erano davvero scalmanati e gridavano all'impazzata. Confesso che alcuni di essi mi dettero fastidio al punto di aver pensato di alzarmi e tiragli un dritto per farli tacere: nemmeno se si fosse presentato Dio in persona si sarebbero comportati così selvaggiamente, riflettei.
Bruce Springsteen comparve intorno alle 21.00 con una pronunciata mascella e un sorriso da reduce del Vietnam. Vestito di scuro, sembrava già pezzato ancor prima di iniziare. Partì con "Good rockin' tonight", un brano tipicamente rock 'n' roll, che immediatamente dette ragione all'enfasi dei fan: non avevo mai visto una furia simile sul palco, si muoveva con la disinvoltura di chi si trova a passeggiare nel proprio giardino di casa, totalmente preso dai decibel sprigionati con cattiveria da torri di altoparlanti che toccavano il cielo. Ed era solo il primo brano. Scolai la birra che avevo fra le mani prima che finisse il secondo pezzo, ma la serata prometteva troppo bene per stare a centellinare i sorsi e pensare a mantenere la sobrietà. Accennai a un venditore ambulante che avevo finito di consumare la mia bevanda all'orzo e che ne volevo un'altra. L'uomo mi guardò felice come cerbiatto al suo primo salto. Tornai su Springsteen, dimenticandomi del resto, e notando l'eccezionale accento americano che lo contraddistingueva, fra una parlata e l'altra; almeno alle mie orecchie da italiano medio, al confronto mi risultò straniero perfino il tipo che mi sedeva accanto con il berretto dei Boston Red Socks.
Poi arrivò una di quelle canzoni che sarebbe presto diventata fra le mie preferite di sempre e che mi avrebbe portato per la prima volta a guardare oltre i pentagrammi del romanticismo viennese e, finalmente, a darmi alla musica rock, per la gioia di Francesco (anche se non avrei mai abdicato agli Stooges). "Badlands" fu un vero e proprio pugno nello stomaco, l'adrenalina mi percorse da cima a fondo, non credevo che un brano musicale potesse infiammare così tanto una folla e soprattutto il freddo e gelido sottoscritto, abituato alla compostezza sinfonica. Per la prima volta in vita mia mi ritrovai a saltare su me stesso, felice come un liceale alla sua prima uscita con una ragazza, puntando il dito verso il cielo, urlando parole che nemmeno io sapevo cosa volessero dire. Mi piacquero moltissimo anche "Darkness on the edge of town" e "Born to run". Quella notte non chiusi occhio. Ero troppo eccitato per dormire. Nelle orecchie continuavano a risuonarmi le note incandescenti del Boss. Sicché il giorno dopo, anziché andare a visitare la città come avevo fatto fino a quel momento - mi mancava ancora la Statua della Libertà e tutta la zona sud di Manhattan, senza contare le capatine che avrei voluto fare al Bronx e a Brooklyn - mi prodigai per recuperare tutti i dischi del cantante proveniente dal New Jersey. Così scoprii che non era un novellino - peraltro originario anche lui (come John Fante) dall'Italia - e che aveva già dato alle stampe ben quattro 33 giri. Li acquistai in un negozietto molto caratteristico del Greenwich Village, intriso dall'odore misto umidità e carta marcescente, specializzato in prodotti legati alla musica folk e al rock tipicamente americano. Scambiai due chiacchiere con il commesso, un pingue personaggio sulla cinquantina, assolutamente convinto della validità di Springsteen, ma da sempre ancorato all'idea che non ci fosse niente di meglio della musica folk e del mondo perfettamente decantato da un suo coetaneo a me estraneo di nome Pete Seeger. Era anche un esperto etnomusicologo e uno studioso dei canti provenienti dagli Appalachi, catena montuosa che caratterizza alcuni stati orientali degli USA. Mi suggerì l'acquisto di un disco contenente vari brani tradizionali, ed io accettai di buon grado. Alla fine me ne andai con un borsone di 33 giri, metà dei quali scritti e composti dal genio del New Jersey. Comunque si voglia mettere, da quel momento ebbi un amico in più. Laila lo potrebbe confermare.

Vita da bar

Ormai lo chiamo il circolino, anche se non ho ancora capito bene di cosa si tratti. Non ci andavo da un paio di settimane, che ho dedicato all'ozio più puro. Lo insegnavano anche i greci del resto: oziare rende liberi e aiuta il pensiero. L'ozio, padre dei vizi, giunge molto più tardi quando anche la filosofia assume sfaccettature diverse. E si comprende che non porti a granché se non… allo psicanalista. Anche la religione, in particolare, il cattolicesimo non è mai andato molto d'accordo con l'ozio; s'è sempre predicato ora et labora, relegando il suo culto a una bizzarria per sfaccendati. Evidentemente la chiesa è stata brava a fare solo una cosa: convincere l'uomo del suo antropocentrismo malato e creando un mucchio di presupposti per costruire un'umanità dedita all'aggressività e alla competizione. Insomma ho dormito, mangiato, scritto pochissimo, ascoltato parecchia musica, classica naturalmente, ma anche "The River", disco del Boss del 1980, un doppio album davvero intrigante; (ormai sono tutti intriganti i dischi del Boss).
A destinazione ho incontrato le persone viste la volta precedente, come un film già raccomandato, ma felicemente ritrovato, perse nel loro agonizzante presente, intuendo che non abbiano molti altri posti dove andare e dove trovarsi a loro agio. Il loro guscio di tartaruga. Uscendo imbacuccato per il freddo, che da un po’ di giorni comincio anch'io a patire come un comune mortale, sono inciampato nel mio vicino, dimentico delle tante creature delle pozzanghere felici di rivedermi dopo giorni di oblio. Ci siamo salutati cordialmente, ma entrambi desiderosi di risolverci nel minor tempo possibile:
«Buonasera a lei».
«Sempre di fretta?».
«Non proprio».
«Il tempo non ne vuol sapere di aggiustarsi».
«Mi piace la pioggia».
«Serve la pioggia».
«Eccome».
«Ok, arrivederci».
«Arrivederci».
Era dall'episodio della torta che non scambiavano due chiacchiere; ma non mi ero dimenticato dei vicini. Avevo in più occasioni squadrato la loro macchina in attesa di nuovi arrivi e partenze, un modo come un altro di assistere a una specie di telenovela in diretta, per chi proprio non ne vuole sapere di mettere piede fuori di casa, ancorato alle proprie paturnie. Credo che molte casalinghe amino assistere a spettacoli di questo genere, un po’ come accade ai pensionati che si fermano per ore davanti al becco d'acciaio di una ruspa intenta a deflagrare nuove superfici argillose. Un giorno è stato più interessante del solito. Nel compiere l'inane operazione ho, infatti, notato che le cose non stavano andando come avrebbero dovuto. Forze estranee stavano intrappolando la quotidianità dietro alle tende del salotto che presero a muoversi con intensità, come se fossero state colpite da una forte raffica di vento. M'incuriosii, cercando di indagarne la natura, alla Cary Grant ne La finestra sul cortile. Intravidi la sagoma della moglie finire contro la finestra. Qualcuno, forse, l'aveva spinta. Cosa stava succedendo? L'adrenalina percorse rapidamente i miei distretti anatomici riportandomi a fantasie che avevo sopito. Non mi piacque per nulla l'idea che qualcosa stesse facendo del male a quella signora, antipatica quanto si vuole, ma pur sempre una signora. Era suo marito che gliele stava dando? Elucubrai per vari minuti, preso da una passione che non avevo ancora vissuto da quando ero giunto a Concorezzo, ma per fortuna il calvario della mia mente non proseguì per molto. Alla fine mi calmai quando vidi che, contrariamente alle mie funeree previsioni, la vicina stava uscendo tranquilla dalla propria casa: salutava dalla strada il marito ancora in pigiama, con un sorriso gaudente. Lui le mandava dei bacini al volo. Non avevo capito nulla? Forse. Forse era stata tutta suggestione…
Al circolino Orso mi guardò con fare circospetto, con l'aria stralunata e un diavolo per capello; ma mi sentii ben disposto nei suoi confronti, e lieto di assecondare le sue subliminali richieste. Mi stava chiedendo qualcosa sul mio passato e sul mio futuro.
«Niente di che, la mia vita non è così interessante».
Capì che non ci sarebbe stata trippa per gatti, come dicono da queste parti, ma fondamentalmente non gliene importò granché. Desiderava solo scambiare due parole con qualcuno che non fossero i soliti due noiosi amici con cui si trovava a gestire l'esistenza. Fui io, quindi, a farmi avanti tentando di accomodarmi al suo tavolo. Mi disse che era a casa in ferie, dopodiché gli chiesi della sua professione. Mi rispose che faceva lo stesso lavoro da decenni:
«Sono in una pescheria, pulisco il pesce prima di venderlo».
Mi stupì il fatto che si lavorasse il pesce anche in Brianza. Per un attimo andai con la mente al mio paese natale, dove la gente da millenni vive di pesca. Provai un vago senso di nostalgia per qualcosa che, in fondo, non avevo mai amato con particolare romanticismo. Non ho mai rivissuto con contentezza la mia infanzia. L'idea del pesce, però, che metteva in moto animi e futuri, mi aveva sempre suggestionato, come la lettura di un vecchio libro di Verne, fra le mie prime avventure letterarie. I tramonti e le reti da pesca, l'odore dell'alba e il rumore del mare… Ma la passione di Orso era ben altra, l'architettura d'interni.  
«L'architettura d'interni?».
Lo trovai decisamente disallineato con le interiora della fauna ittica, la salsedine e i disegni rocamboleschi delle conchiglie.
«Mi sono diplomato alle serali di Monza, sono un geometra».
Lo disse come se stesse parlando di un traguardo che in pochi sono in grado di raggiungere, appannaggio di chi è evidentemente più dotato degli altri, aperto e meritevole di occupare alti livelli nella società. In realtà non era mai riuscito a fare il geometra, e tantomeno l'architetto di interni, perché aveva preso il diploma troppo tardi, e perché probabilmente nessuno si sarebbe fidato di mollargli il destino del proprio salotto. Ma in casa aveva comunque un tavolo da disegno con cui si esercitava, inseguendo un sogno che non si sarebbe mai realizzato, ma che in qualche modo continuava a tenerlo in vita, rendendolo un po’ meno sciatto di chi frequentava abitualmente.  
«Cosa disegni?».
Gli diedi definitivamente del tu.
«In questo momento sto progettando la casa per un mio amico. Dovrei finire per il prossimo mese. Sto perdendo un sacco di tempo con la cucina che il mio cliente vorrebbe trasformare in una specie di acquario».
Avevo sentito bene: aveva detto acquario.
«In che senso?».
«Vuole circondare le pareti con delle vasche pieni di pesci».
Rimasi basito, ma feci finta di nulla e continuai a indagare sulla natura dei suoi interessi, convincendomi di non avere mai conosciuto un tipo così eccentrico. Ma la nostra conversazione fu bruscamente interrotta da Giorgio che sopraggiunse trafelato, dandomi l'impressione di essere piuttosto brillo. Aveva le guance rosse come quelle di un bimbo che ha appena finito di giocare una partita di pallone. Mostrandosi fin da subito logorroico e su di giri, prese a vorticare intorno ai tavoli come una trottola, cercando qualcuno che potesse dargli retta o ridere delle sue battute.
«Ciao a tutti, belli e brutti», si mise a urlare, prima di prendersela direttamente con la capetta del bar, abituata alle sue scaramucce e come al solito poco propensa a dargli spago.  
«Ciao Ginevra, sai che ho fatto oggi?».
Ginevra lo guardò con l'aria stanca.
«Sentiamo».
Giorgio rise abbandonandosi a un'espressione beota.
«Ho portato la mia bella a comprarsi un paio di scarpe».
«Bravo».
«Se ti va, un giorno, accompagno anche te».
La ragazza lo liquidò senza tanti giri di parole, persa in pensieri tutti suoi.   
«Vediamo, magari l'anno prossimo».
Giorgio non comprese l'insofferenza della giovane e completamente rimbambito dall'euforia andò avanti imperterrito con la sua pantomima.
«Ti porto in un posto che conoscono in pochi, a Milano, è una piccola traversa di corso Vittorio Emanuele. Sai…».
«So dov'è corso Vittorio Emanuele».
Giorgio non si arrese.
«E' un negozietto carino, dove vanno anche Trussardi e sua moglie».
L'Orso lo squadrò come si compatisce un venditore ambulante di chincaglierie, anche lui ormai stanco del suo sermone, e lo liquidò in men che non si dica:
«Hai finito di romperle i coglioni?».
Giorgio sorrise come un ebete, ma dopo l'uscita di Orso smise di accanirsi su Ginevra.
Trascorremmo in compagnia mezz'oretta, in cui riuscii a rilassarmi e a non pensare a niente, chiacchierando soprattutto di sport e politica. Orso ce l'aveva con Amintore Fanfani. Diceva che era troppo vecchio per comandare il paese. La verità è che non sopportava gli esponenti della Democrazia Cristiana, che riteneva più mafiosi di tutti gli altri. Gli dissi che Dario Fo aveva scritto una commedia su di lui, ma non mi diede soddisfazione: dall'espressione del volto capii che forse non sapeva nemmeno chi fosse Dario Fo.
In seguito si unirono alla nostra combriccola Delfino - così si chiamava l'ultimo del brillante trio che avevo avuto modo di conoscere una quindicina di giorni prima - e un bellimbusto a me sconosciuto, con una sottile cresta bionda e gli occhi azzurrissimi: Ivo. La sua passione era il modellismo. Ultimamente s'era messo a trafficare coi fiammiferi per riprodurre fedelmente alcuni fra i più importanti monumenti del mondo. Disse che nessuno sarebbe stato in grado come lui di rappresentare così bene la cattedrale di Notre Dame e il Buckingam Palace. Non aveva tutti i torti, io stesso, probabilmente, non avrei saputo da che parte iniziare. Tuttavia non mi diede l'impressione di una persona particolarmente equilibrata. Oltre il suo sguardo febbricitante si celava il desiderio bramoso di combinare qualcosa nella vita, senza però avere i mezzi concreti per realizzarlo.  Vedendo il mio luccichio perplesso, Orso mi si avvicinò all'orecchio dicendomi che da giovane ci aveva dato dentro pesantemente con l'lsd, e che un pomeriggio d'estate dei primi anni Settanta aveva esagerato compiendo una sorta di viaggio senza ritorno, popolato di mostri e streghe. Per sei mesi non fu più nemmeno in grado di riconoscere il proprio nome e il volto della madre. Ivo estrasse dal soprabito la foto del suo ultimo capolavoro: la sfinge. Orso lo guardò con sufficienza, abituato alle sue rocambolesche proposte artistiche.
«Bella», disse Giorgio, benché non fosse stato interpellato, «dovresti venderla al mercato di Imbersago».
Ivo non gli diede retta, cercando soprattutto l'approvazione di Ginevra, che da tutt'altra parte riordinava un po’ di giornali vecchi.
«Vuole qualcosa?», mi chiese pochi istanti dopo, vedendomi abbandonare il tavolo dei miei improvvisati amici, voglioso di sgranchirmi le gambe.
La trovai graziosa e suadente, e con qualche anno in più di quel che avevo supposto di primo acchito. Doveva avere trenta, trentacinque anni. Notai che non portava la fede al dito e ne rimasi colpito. Mi chiesi come potesse non essere sposata, una figura così attraente. Pensai che potesse essere fidanzata. E immaginai il tipo che l'avrebbe potuta affiancare; un tipino elegante e fascinoso, o un ragazzotto come gli ospiti del circolino coi quali cominciavo a fare amicizia? Non ci misi molto a rispondermi. Doveva essere per forza vera la seconda ipotesi. Bastava il suo nome: una che si chiamava Ginevra non poteva di certo stare con un Ivo o un Delfino. 
«Prendo un caffè, grazie».
Mi sorrise avviandosi al balcone. La seguii con garbo. Notai lo svolazzare della gonna e la robustezza dei suoi capelli, difficili da organizzare in una capigliatura prestabilita. Mi piacque quel suo stile vagamente anticonformista. Per un attimo mi venne in mente Laila, e la prima volta che la incontrai. Aveva la sua stessa grazia e il suo stesso modo di muoversi e atteggiarsi. Anche se non aveva certo la profondità dei suoi occhi e quel suo modo di essere al di sopra di tutto e tutti, lontana da qualunque concetto di spazio e tempo. Non era Laila, ma a modo suo le assomigliava.
«Lei è di qui?», mi chiese.
Era la terza volta in poco tempo che mi veniva posta la stessa domanda, ma con lei fui molto più disponibile:
«No, sono qui per espiare una colpa».
Lo dissi senza pensare, con un ghigno sul volto, malcelando la volontà di esprimermi con una boutade, e mostrando quindi fin da subito la veridicità della mia storia, e l'intensità della mia pena. Mi sorpresi scoprendo che per la prima volta stavo parlando di Laila a un perfetto sconosciuto; a una sconosciuta. Ginevra capì al volo che non stavo scherzando:
«Dice davvero?».
Mi feci scuro in volto, intuendo che forse avevo esagerato a espormi tanto. Ero scappato dalla Vian e dal mio vecchio mondo per eclissarmi, sparire, e ora mi trovavo dopo neanche un mese a giustificare me stesso a una ragazza di cui a malapena sapevo il nome. 
«Purtroppo sì».
La mia interlocutrice mi servì il caffè con delicatezza, appoggiando la tazzina al balcone, dando per scontato che l'avrei consumato lì. Mi fissò stranita come si inquadra un personaggio interessante, ma anche vagamente morboso. Da tempo, forse, non veniva solleticata da un argomento altrettanto affascinante. Toccava a lei ribattere, ma fu chiaro a entrambi che qualunque nuovo quesito, avrebbe innescato i presupposti per una lunga e personale conversazione, che evidentemente non si sarebbe potuta svolgere nel luogo in cui ci trovavamo. Ginevra giocò d'astuzia e tacque, obbligando me alla contromossa: se avessi insistito sull'argomento, avrei anche dovuto tenere conto del fatto di trovarmi a offrirle tutti i buoni motivi per poter continuare a indagare sulla mia anima. Alla fine, dunque, preferii muovermi su un terreno più sicuro, deviando altrove le mie argomentazioni. Trascorsi un paio di minuti buoni di silenzio, feci finta di niente e mi misi a parlare a vanvera.  
«Lavora qui da tanto?».
«Se le va possiamo darci del tu».
Ne fui felice. Non aveva preso male il mio mezzo passo falso.
«D'accordo».
«Da quando sono nata», mi disse con una punta d'insoddisfazione. «Questo posto l'ha fondato mio padre con altri soci. Da quando mio padre non c'è più, porto avanti io la baracca».
Puliva il lavandino tenendo gli occhi bassi. L'odore di detersivo inondò piacevolmente le mie narici.
«La mattina lavora mia madre, il pomeriggio e la sera toccano a me».
«E' un bel posto».
«Lo penso anch'io, ma c'è sempre un sacco di lavoro da fare. Fuori abbiamo anche le bocce, hai visto?».
Annuii, ma non potei proseguire nella conversazione; Giorgio mi richiamò perentoriamente all'ordine:
«Vieni a farti con noi l'ultimo bicchiere?».

Non era certo l'ora del vino, ma non potei non accettare. La semplicità e la schiettezza di quegli uomini, andava premiata.