domenica 29 luglio 2012

Live!


prima del concerto alla morosina
con il tecnico a un passo
e il batterista a un altro
e mauro beretta che richiama in vita i morti
e la geologia di pastina
e il cielo estivo bluastro, nerastro, rossastro
vicine sedie blu

giovedì 26 luglio 2012

Umori stravaganti

«Forse sono un uomo di umore stravagante. Non so fino a che punto ciò che provo sia condiviso da altri. A volte soffro del più strano senso di distacco da me stesso e dal mondo che mi circonda; mi sembra di osservare tutto dall'esterno, da un punto inconcepibilmente remoto, fuori dal tempo e dallo spazio, fuori della tragica tensione di tutto». 

Herbert George Wells, La guerra dei mondi 

mercoledì 25 luglio 2012

les vaches


le guitariste
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Boris Vian
Triple-Alliance
observer les étoiles
en regardant les vaches
passer

martedì 24 luglio 2012

Rapsodia gitana # 8


71.

«Via libera», disse Radu.
«Aspetta», ordinò Teschio. «Lasciamo che se ne vadano del tutto…».
Radu non stava più nella pelle: ancora una volta, forte della tipica impazienza giovanile, e dell'ardore che lo consumava legato alla speranza di poter presto rivendicare la mamma, avrebbe voluto forzare i tempi per risolvere definitivamente il caso.
«Dobbiamo muoverci».
Teschio lo guardò divertito, trovandolo per un istante più grande e maturo della sua età. Pensò che non gli sarebbe dispiaciuto se fosse stato suo figlio. Avrebbe, infatti, sotto sotto, desiderato un figlio, ma il destino, evidentemente, non era stato dello stesso avviso: l'ultima storia importante, degna di poter creare i presupposti per una prole, l'aveva avuta dieci anni prima con una donna che, senza preavviso, l'aveva lasciato per un dirigente dell'Esselunga, divorziato con già due pargoli da mantenere. Da allora non ne aveva più voluto sapere di relazioni serie.
Nonostante le apparenze da macho che non deve chiedere mai, era un sentimentale, un romantico; una persona contraddistinta da sentimenti profondi, che se venivano disillusi, la portavano a chiudersi a riccio e a soffrire come un leone costretto a morire dietro alle sbarre di uno zoo cittadino, intriso di smog e umidità. Era fatto così. Di tanto in tanto si concedeva qualche donnetta senza troppe pretese, ma badava bene di non farsi coinvolgere troppo sul piano emotivo. Erano storie da una notte e via, per nulla struggenti, tristemente meccaniche, come meccanico è un qualunque gesto che si compie senza pensare, tipo timbrare il biglietto della metropolitana.
Razionalizzava lo squallore di certe situazioni, ma alla fine si convinceva che gli andava bene così. Sicché, negli ultimi tempi, solo una donna era riuscita a stimolarlo un po’ più del normale, ridandogli quel sapore di conquista che aveva perduto da millenni: Nadia. Proprio lei, la moglie di Cinghiale... non l'avrebbe mai potuto immaginare che in questa storia assurda ci potesse anche essere spazio per un vivido e onnisciente scombussolamento del cuore. E invece...
Pensò a lei anche mentre si accingeva a conquistare la roulotte di Aicha, con il suo beniamino; e più passavano le ore da quel felice primo incontro in casa Schilef, dopo la sortita di Rafael, più percepiva il suo animo sussultare. Ora, poi, che aveva trovato perfino il coraggio di invitarla fuori, si sentiva al settimo cielo, riuscendo a vedere le cose con un ottimismo esagerato.   
«Sei pronto?», domandò a Radu.
«Lo sono da un pezzo».
«Però conviene organizzarci un attimo…».
Sul volto di Radu si materializzò un gigantesco punto interrogativo.
Teschio tentò di tranquillizzarlo.
«Tu farai il palo, mentre io, nella roulotte, cercherò prove dell'assassinio di tua madre…».
Il piccolo parve contrariato.
«Voglio essere io a scoprire chi ha ucciso mia madre».
«Sarai, infatti, tu a scoprirlo. Ma per prima cosa è indispensabile non farci beccare…».
«Cosa vuoi dire?».
«Io m'intrufolo nella roulotte e tu vai avanti e indietro lungo il marciapiede, come una sentinella, con fare disinteressato, avvertendomi se dovessi vedere qualcuno puntare da queste parti. Nessuno può farlo meglio di te...».
«Scuse. Voglio salire anch'io sulla roulotte».
Teschio s'indispose.
«Radu, non fare il bambino dell'asilo. Per portare a termine con successo una missione è necessario essere compatti e…».
Radu non insistette. 
«Va bene, facciamo come vuoi. Basta che ci muoviamo».
Con fare circospetto lasciarono la radura del parco e si portarono sulla ciclabile che affiancava la roulotte di Aicha. Passò a gran velocità un tipo con un casco mastodontico e un paio di pantaloncini da hawaiano; Teschio lo mandò mentalmente a quel paese.
Di fronte all'ingresso della roulotte, i due detective si regalarono un gesto di intesa con gli occhi, dopodichè il più anziano si avvicinò scaltramente all’abitazione rom, facendo forza sulla serratura con una specie di chiavistello. Radu gli fece cenno di sì col capo: la via era libera e si poteva procedere con l'ispezione.

72.

Le cose sull'altro fronte andarono, invece, un po’ più a rilento; ma quando Benzina terminò con l'operazione di pulizia, con Giacinta a pochi centimetri nauseata dal tanfo opprimente delle feci canine impiastrate sotto la suola dell'amico, si sentì Fatima ruotare la serratura della porta del camper e uscire con in mano due voluminosi sacchetti di iuta. Non fu possibile intuire ciò che potessero nascondere, tuttavia i due che la osservavano a sua insaputa, compresero che la donna stesse per lasciare la roulotte, in barba ai suoi buoni propositi di preparare un succulento piatto tradizionale.
Benzina fu sopraffatto da una scena horror, con la donna che s’incamminava per liberarsi dei brandelli di qualche nemico fatto a pezzi la sera prima con una mannaia. Controllò il fondo delle sacche per vedere se colavano gocce di sangue. Da qualche giorno, di fatto, era vittima di disegni onirici lugubri e pesti di questo tipo, sortilegi che lo lasciavano con l'amaro in bocca, incredulo di fronte alla capacità della sua mente di elaborare simili romanzate, degne del miglior esordio alla Edgar Allan Poe.
Si rallegrarono, in ogni caso, all'idea che avrebbero presto avuto modo di passare al setaccio la casa ambulante, senza pericoli. Giacinta regalò all'amico un sorriso privo di ogni rancore, mandandolo in sollucchero: anche per loro era ufficialmente via libera.
«Forza», disse Benzina.
Uscirono allo scoperto, sincerandosi che Fatima si fosse finalmente dileguata. La strada era stracolma di mezzi che andavano e venivano, ma non ci fu il rischio di essere colti in fragrante: l'uscio della roulotte dava, infatti, sul marciapiedi, stretto fra la ciclabile e l'area verde destinata ai quattrozampe, dove il traffico era meno imponente.
Giacinta si appoggiò alla rete della zona cani, e si guardò intorno con grande attenzione. Lasciò passare una mamma in compagnia del proprio piccolo nel passeggino, dopodichè fece cenno a Benzina che poteva entrare in azione. L'uomo si avvicinò al camper con una leggiadria da ippopotamo imbolsito, e cercò di fare leva sulla serratura, impugnando uno strumento analogo a quello di Teschio, ma non ottenendo lo stesso risultato: del resto era la prima volta che cercava di violare l'ingranaggio di una porta, a mo' di uno dei tanti esperti scassinatori visti e rivisti al cinema o in tv. Vedendolo in difficoltà, Giacinta dondolò la testa sconsolata. Gli si avvicinò con garbo:
«Che succede?».
«Non riesco a far girare la serratura».
«Sei una sega. Dai a me».
La ragazza si mise a trafficare con il punteruolo e in meno di cinque minuti fu un in grado di vincere la soglia dell'abitazione di Fatima. Fu sopraffatta dall'odore pungente di una spezia indefinita, che più volte, però, aveva respirato venendo a contatto con qualche famiglia rom. Le ricordava quand'era piccola, piccola, e con mamma e papà andavano a fare visita a una famiglia sinti che abitava dalle parti di Cinisello. Ogni volta che salivano a bordo del loro camper, era come fare un salto in un paese lontano, esotico, forse proprio nell'India dell'undicesimo secolo, da dove l'etnia che li rappresentava aveva iniziato il suo lungo e rocambolesco pellegrinaggio.
Giacinta non sapeva quasi nulla delle origini del suo popolo, ma più volte s'era soffermata sulla sua pelle più scura, ambrata, in antitesi con i colori pallidi dei ragazzi della sua età che vedeva correre per le strade di Sesto San Giovanni. Capiva che era diversa dagli altri non solo per il fatto di vivere in un roulotte e di non avere altro da fare che industriarsi per poter involare qualcosa di nuovo e bello in qualche negozio o abitazione, ma anche, appunto, per una carnagione che non trovava degna corrispondenza fra le tante persone che la circondavano. Si voltò per guardare Benzina. L'uomo le indicò di iniziare a perlustrare.
A Giacinta cominciò a battere forte il cuore.

73.

Teschio trovò una roulotte disordinatissima, con panni sporchi da tutte le parti, e stoviglie piene di pezzi avanzati di cibo. E un odore nauseabondo. Anche il caldo la diceva lunga. Si respirava a fatica, un po’ come era accaduto nella roulotte di Radu all'indomani dell'omicidio di Slagena. Non ebbe modo di muoversi con grande agilità, in mezzo a tutto quel putiferio, ma con coraggio si mise in testa di sindacare con accortezza maniacale ogni angolo della casa ambulante. Partì dal cucinino. Spostò il lerciume dei piatti per indagare lo stato delle posate, e magari riscontrare la presenza di un coltello sospetto. Ma non trovò nulla di tutto ciò. Erano semplici e comuni forchette e cucchiai, alcuni con ancora appiccicati chicchi di riso. Subì un conato di vomito, ma proseguì con stoicismo per la sua strada. Osservò un bicchiere mezzo pieno di vino puzzolente. Si chiese come si potesse vivere in un simile immondezzaio. Anche lui non era un campione di pulizia e igiene, ma qui, davvero, constatò che fosse peggio che trovarsi in una porcilaia. Un posto ideale per una dimora animale, non umana. Ma tant'è. S'avvide che evidentemente non tutti dovessero vivere la sporcizia e il disordine allo stesso modo. Forse, in certi casi, per alcuni astrusi paradigmi esistenziali, anche il caos più assoluto poteva essere contemplato come un sorriso gaudente. Non andò comunque avanti a elucubrare più di tanto e passò a indagare le secrete del cucinino. C'era la spazzatura colma, con lo strato superiore dei rifiuti completamente coperto da bucce nerastre di banana, che contribuivano pesantemente a rendere ancora più micidiale l'odore stantio del camper.
«Hei!».
Radu non stava più nella pelle. Si avvicinò alla porticina, richiamando l'attenzione del grande capo. Teschio barcollò.
«Che fai lì? Torna al tuo posto».
«Volevo sapere…».
«Torna al tuo posto! Se arriva qualcuno stiamo freschi! Muoviti!».
Era un ordine al quale Radu non poté non obbedire. Con il cuore in gola e la consapevolezza di avere fatto una stupidata, tornò a passeggiare lungo il marciapiede, sincerandosi che non ci fossero rom nei dintorni. Sospirò, quando s'accorse che era tutto sotto controllo. Passò un pensionato al quale sorrise astutamente. L’uomo, colpito dalla trasandatezza del piccolo, lo rimproverò con una smorfia.
«Sparisci merda», bofonchiò il ragazzino.
Teschio, intanto, con un'agitazione che gli corrompeva sempre più l'animo, continuava a cercare. Giunse al letto. C'erano quattro cuscini, uno sopra all'altro e un lenzuolo sudicio, pieno di briciole e peli. Provò un altro conato di vomito, pensando a quel che dovesse essere accaduto di recente in quell'alcova.
«Che schifo», sibilò, finendo con lo sguardo ai piedi del mobiletto che affiancava il giaciglio di Aicha.
Individuò un mucchio di vestiti gettati alla rinfusa, coperti da un piccolo cesto di vimini. Lo tolse e si mise a rovistare fra i panni sporchi. Fu colto da un brivido gelido, quando notò un fazzoletto macchiato di sangue. Lo studiò con particolare attenzione, cercando di capire quale fosse la sua provenienza. Sembrava un fazzoletto comune, femminile, con il bordino disegnato da piccoli ricami. Non seppe dargli una spiegazione; sarebbe potuto essere il sangue di chiunque, pensò all'epistassi di uno dei figli di Aicha... Non c'era motivo di credere che dovesse essere quello di Slagena… Troppo avventata e ottimistica come supposizione. Ma i dubbi crollarono definitivamente quando scorse, nel punto più basso del montone di abiti, una camicetta da donna con un frammento di manica pesantemente impregnata di liquido ematico. Qualcosa non tornava.  

74.

Teschio la fissò con grande coinvolgimento, riflettendo sul fatto che potesse benissimo essere una camicetta di Aicha. Quello che però non tornava era come potesse essersi macchiata in quel modo. Non era il segno di una banale ferita: il sangue, infatti, pareva assai copioso, corposo, e colorava gran parte del vestito. Quel che doveva aver provocato quel disastro poteva essere stato solo un taglio profondo, una lesione ben più importante di una banale perdita di sangue dal naso o di un ematoma provocato da una caduta accidentale. Gli si accese una lampadina in testa e per la prima volta azzardò che potesse, dunque, essere proprio quella la prova dell'assassinio di Slagena. Solo una violenta accoltellata poteva, di fatto, spiegare quello scempio impresso sulla camicetta come un’immagine su una lastra fotografica.
Tuttavia si sorprese pensando ad Aicha e alla sua scarsa intelligenza; tutti sanno, infatti, che la prima cosa da fare quando si commette volutamente un omicidio, è far sparire completamente le tracce. Perché lei non l'aveva fatto? Perché il marito non le aveva dato consigli a riguardo? E se il marito fosse ancora all'oscuro di tutto? E' vero, il montone di vestiti pareva sorto apposta per nascondere l'indumento più compromettente… ma ci sarebbero stati mille altri modi ben più efficaci per far sparire la prova di un assassinio; senza andare tanto lontani, i dintorni della stazione erano pieni di angoli remoti, dove rifilare qualunque cosa pregiudizievole. Teschio fu di nuovo preda della desolazione. E tornò a pensare che quel sangue non fosse quello di Slagena, ma di chissà chi…
Pensò alle galline che aveva visto sgozzare da sua nonna quand'era piccino. Aveva visto litri di sangue andando a trovare i nonni in campagna. Se lo ricordava come fosse ieri. La nonna afferrava i pennuti con le sue possenti manone e gli tranciava il collo con un taglio netto o un'incisione profonda. In pochi secondi si rovesciavano al suolo cascate di rosso vivo. Non era un bello spettacolo. Ma è così che facevano i contadini dalla notte dei tempi. S'immaginò, dunque, che anche Aicha avesse potuto far fuori un pollo da qualche parte, per poi ritrovarsi col vestito completamente impiastrato. Guardò più da vicino la camicetta, per capire se fosse possibile distinguere a una sola occhiata il sangue umano da quello di un uccello. Ma ci rise sopra scoprendosi di fronte a un'impresa a dir poco insormontabile. Si sarebbe seduto sul letto se non fosse che, ancora con l'indumento di Aicha fra le mani, notò una specie di adesivo appiccicato, in mezzo ad altri di difficile interpretazione, alla porticina del bagno.
Si avvicinò con curiosità e notò che riprendeva in tutto e per tutto l'effige presente sulla medaglietta scoperta nei pressi della roulotte di Radu. L'agitazione lo pervase: era il simbolo dei Dionisio. Deglutì con un'ansia parossistica e, dopo aver mollato la camicetta incriminata in cima al provvidenziale montone di vestiti, saltò all'esterno per richiamare l'attenzione di Radu. Il piccolo si guardò intorno come un furetto, prima di catapultarsi al servizio del grande capo.
«Che c'è?», domandò, mostrandogli un'esagerata riverenza.
«Sali un attimo», disse Teschio.
«Ma…».
«Non fiatare e datti una mossa».
Teschio, con un cenno nervoso del mento, indicò a Radu l'adesivo incollato all'uscio del wc. E non fu necessario porgli domande in merito alla sua autenticità.
«Puttana, puttana… questo è il marchio dei Dionisio».
Teschio lo guardò, fra l'eccitazione e lo sconvolgimento.
«Nessun dubbio, vero?».
Radu bestemmiò sotto voce.
«E' identico a quello della medaglietta».

75.

Scesero di corsa dal camper e si diressero alla stazione, cercando di dissimulare il più possibile i loro intendimenti. Riuscirono senza problemi nell'impresa, camuffandosi fra l’andirivieni dei pendolari e i vivacissimi colori delle bancarelle dei marocchini che vendevano vestiti e scarpe a prezzi stracciati. Si ritrovarono alla fine del parcheggio libero ansimanti, come cavalli da corsa, dopo una lunga galoppata fra le praterie del centro America. Si guardarono con gli occhi stralunati consapevoli di avere in mano la situazione: le due prove raccolte bastavano e avanzavano per librare il colpo di grazia e incastrare una volta per tutte l’assassino di Slagena.
«Aicha, è stata Aicha», disse Radu, con l'aria trafelata.
Teschio non ribatté: la sua testa era in completo subbuglio.
«Voglio essere io a ucciderla».
L’uomo s’incupì.
«Ragazzo, non correre. Abbiamo fatto una scoperta importante, ma non dobbiamo essere precipitosi. Potremmo rovinare tutto…».
«Ha ucciso mia madre… voglio essere io a vendicarla».
Teschio comprese benissimo la furia del piccolo, ma dovette trovare un modo per calmare i suoi bollenti spiriti, prima che facesse qualche pazzia.
«Sarai tu a risolvere il caso», gli disse, cercando di ammansirlo con eleganza. «Ma adesso andiamo con ordine, non facciamoci prendere dalla foga...».
«Cosa si fa, quindi?», domandò Radu, irrequieto.  
Teschio si fece meditabondo, percependo che con le loro sole forze non avrebbero potuto fare molto, se non rischiare di finire in un mare di guai. Si autoconvinse, pertanto, della necessità di doversi affidare a qualche figura competente, in gamba, con mezzi reali per poter completare l’opera in modo degno e risoluto. Ci ragionò per un po’, senza giungere, però, a conclusioni particolarmente vantaggiose. Non conosceva nessuno, del resto, di un certo calibro, che potesse realmente sfilare gli ultimi fili della matassa e chiudere abilmente la faccenda. Non aveva mai avuto a che fare con le forze dell'ordine, se non per casini da lui vissuti in prima persona. 
«Ci pensiamo con calma...», tagliò corto Teschio, «andiamo, intanto, a vedere cosa stanno combinando quei due. Sperando che non li abbiano beccati».
«Magari c'è di mezzo anche Fatima».
«Ho i miei dubbi. Una pazza basta e avanza».
Abbandonarono il trambusto della stazione e raggiunsero la roulotte di Fatima. Scorsero Benzina che brancolava avanti e indietro di fronte alla casa ambulante della donna; ma non videro Giacinta.
«Sarà dentro a cercare indizi…», blaterò Radu.
Teschio si scaldò pensando a Benzina che, a quanto sembrava, aveva lasciato alla ragazzina l'arduo compito di setacciare la roulotte di Fatima, per rivelare tracce dell'assassino.
«Ciao ragazzi, già qua?», esordì Benzina al loro sopraggiungere.
«Vedo che ti sei dato da fare», ironizzò Teschio.
«Lei mi sembrava più scaltra e… più sveglia».
«E tu sei un cacasotto», disse Radu.
Benzina fece finta di nulla, essendo ormai abituato alle bastonate dei partner.
Teschio introdusse la testa nella roulotte di Fatima, intimando a Giacinta di venire fuori che avevano ormai in pugno il caso. 
«Che succede?», domandò la ragazza, con apprensione.
Teschio non aprì bocca, ma con un segnale del capo, ordinò a tutti di seguirlo senza fare storie. Fra via Bellini e via Loduvico Ariosto c'era un altro parchetto preso spesso d'assalto da rom ed extracomunitari, dove conquistarono una panchina; e dove Teschio rivelò a Benzina e Giacinta il frutto delle ultime scoperte.
«Dio mio», disse Giacinta, allibita.
«Porca troia», corresse il tiro Benzina.
«Allora è stata lei…».
«Le prove sembrerebbero incastrarla alla grande», disse Teschio. «Ma ora dobbiamo capire come muoverci, come proseguire nelle indagini. Mica possiamo catturarla come si cattura un cane fuggito dal canile, infilarle le manette e…».
«Anche perché non ne abbiamo… di manette», disse ridacchiando Benzina, guadagnandosi l'ennesima smorfia di sufficienza da parte del gruppo.
«Come procediamo, quindi?», incalzò Giacinta.
«Tanto per iniziare ci converrebbe far sapere a Rafael quel che abbiamo scoperto. E sentire se può darci qualche consiglio su come andare avanti».
Nessuno obiettò. Di fatto, nessuno aveva proposte alternative da fare.

76.

I quattro si diressero al bar di Rafael, con passo sostenuto, rischiarati da un cielo lindo e profumato d’estate.
«Dobbiamo darci una mossa, se non vogliamo che Aicha sparisca», disse Giacinta.
«Se non è sparita fino a oggi, non sparisce più», disse Teschio.
«Se ha lasciato sparsi per la roulotte i vestiti macchiati del sangue di Slagena, significa proprio che non ha alcun timore di essere beccata», sottolineò Benzina.
«Non capisco da dove derivi tutta questa sua sicurezza», disse Teschio.
«Probabilmente dalle droghe che usa. Secondo me i Dionisio l'hanno rimbambita ben bene...».
«Mi suona strano», replicò Teschio. «Come farebbe il marito a volerla ancora con sé? Se fosse come dici non avrebbe nemmeno la testa per badare ai figli. E invece non mi sembra messa così male. Io e Radu l'abbiamo vista bene. Sembrava tranquillissima. S'è imbarcata coi figli e via...».
Passò una autoambulanza a sirene spiegate. Radu la seguì fino al punto in cui intraprese una curva a gomito. Sognò che potesse esserci a bordo sua madre, che veniva trasportata d'urgenza all'ospedale, per poi essere curata e guarire completamente. Gli vennero le lacrime agli occhi pensando che stava svanendo sotto mezzo metro di terra, ma cercò di non mostrare il momento di difficoltà, fissando il marciapiede, come si fissa cogitabondi il titolo di un articolo di giornale.
«In ogni caso, non è del tutto vero che non abbia nascosto le tracce», disse Giacinta. «Il fatto che abbia sommerso i vestiti sotto una pila di indumenti sporchi, indica la sua intenzione di volersi proteggere. Teniamo, inoltre, presente che nessuno di noi ha trovato l'arma del delitto. Sicuramente il coltello che ha usato per uccidere Slagena l’ha fatto sparire velocemente».
«Parli come un detective», disse Benzina, stupefatto.
«Non hai tutti i torti. Certo, se avessimo individuato il coltello dell'assassino...», puntualizzò Teschio.
«Magari con ancora le tracce del sangue di Slagena... dai, non esageriamo», disse Benzina.
Trovarono Rafael alle prese con la macchina del caffé, che faceva le bizze dal giorno prima; aveva un problema con il filtro dell'acqua. A un signore aveva praticamente servito un caffé vomitevole che il cliente s'era rifiutato di pagare.
Rafael aveva le mani ricoperte di grasso e i capelli arruffati, ma fu ben disposto a servire i bisogni degli amici. Li vide e mollò al volo il trabiccolo della Faema per accoglierli gentilmente.  
«Allora?», disse.
Il volto di Teschio si irrigidì.
«Ho capito», disse Rafael. «Andiamo sul retro».
Li guidò oltre la porticina che sorgeva alle spalle del bancone, allontanandosi da orecchie indiscrete, lasciando all'inserviente il compito di soddisfare la clientela.  
«Sputa il rospo», disse Rafael.
Teschio gli raccontò tutto per filo e per segno, dal momento in cui avevano lasciato Nadia, all’epilogo della mattinata. Gli disse della visita ai Dionisio, della terribile atmosfera patita in quell’androne infernale, dell'incontro con Cinghiale, della perlustrazione delle case ambulanti di Aicha e Fatima...
Rafael li guardò incredulo. Non avrebbe mai immaginato tanta efficienza da parte di un gruppo così improvvisato; benché provasse per loro rispetto e in un certo senso anche affetto, li riteneva sostanzialmente una masnada di poveri cristi, che non sarebbero nemmeno stati in grado di scovare i bagni della stazione di Sesto, figuriamoci un assassino. Per qualche secondo non fiatò, dopodichè  si fece avanti con l'unica cosa che gli pareva davvero sensata, anche se sapeva che i due giovani sinti avrebbero potuto passare qualche guaio, soprattutto Radu che era ormai orfano.
«Dobbiamo avvertire la polizia».
Giacinta tracollò.
«Scordatelo».
Benzina e Teschio la guardarono allibiti.
Lei li affrontò con altrettanta risolutezza.  
«Toglietevelo dalla testa. Avevamo detto di no agli sbirri».
«È vero», disse Teschio, «ma non sapevamo che piega avrebbero preso le cose».
«Teschio non mi deludere», disse Radu.
«Ragazzi... guardiamo in faccia la realtà... la situazione è troppo grande per le nostre umili capacità investigative. È un giro troppo grande per noi. Credo che Rafael abbia ragione. Arrivati a questo punto solo le forze dell'ordine sarebbero in grado di chiudere definitivamente il caso, dando un degno epilogo alla vicenda».
Giacinta lo guardò affranta.
«Non ci voglio credere».  
«Non ti preoccupare... vedrai che saranno clementi anche con te e Radu...».
«In effetti, dovessimo pensare di eliminare noi Aicha... poi finiremmo dalla parte dei colpevoli», disse Benzina.
Radu lo fissò stranito, consapevole che il suo sogno di poter vendicare la mamma con le sue stesse mani fosse ormai del tutto tramontato.   
«Io finirò in un orfanotrofio», disse sconsolato.


77.

Arrivarono alla caserma dei carabinieri con la faccia stravolta dalla spossatezza e con l’ansia disegnata fra le pieghe delle bocche contratte. Con loro c'era anche Rafael che, ormai totalmente rapito dalla vicenda, aveva preferito disertare il lavoro: qualche ora di assenza non gli avrebbe stravolto gli incassi, pensò.
Li accolse il comandante Saverio Nazaro, un burbero membro delle forze dell'ordine, con un gigantesco naso a patata e due orecchie da Dumbo.
«Venite».
Li indirizzò a una stanza privata, dove furono fatti accomodare. Radu rimase colpito dall'austerità dell'ambiente e provò una specie di attacco di claustrofobia: gli sudarono le mani e sentì il cuore battere strani colpi.
Giacinta lo rassicurò con un sorriso dolce.
«Stai tranquillo».
«Sono tranquillo».
Al comandante si affiancò un subalterno smilzo, con il labbro inferiore mangiucchiato dalla furia di un herpes tignoso, che chiese al gruppo le generalità. Risposero in coro all'appello, ma il brigadiere fece intendere che la questione rom, l'avrebbero dovuta affrontare in separata sede.
«Dite, dunque, che è stato commesso un omicidio e che la vittima è la mamma del ragazzino», riattaccò il comandante.
«Esattamente», disse Teschio. «Non c'è tempo da perdere se vogliamo incastrare l'assassino…».
Il comandante s'infastidì.
«Signor?».
«Sanvito Franco, detto Teschio».
«Signor Sanvito», disse il comandante, «la prego di contenersi».
Teschio strabuzzò gli occhi. Per un attimo aveva pensato che il comandante si volesse complementare con lui per la sua sagacia.  
«Siamo noi a dirigere le operazioni. Lei ci deve solo dire quello che sa…». 
Teschio non replicò e si diede una calmata.
«Vada avanti».
Il capobanda chiarì nei dettagli ciò che era accaduto. Parlò meticolosamente della setta dei Figli di Dionisio e di quelle che si presumeva dovessero essere state nel tempo le loro principali malefatte. Gli riferì di Radu e della scoperta del corpo della madre, riverso su se stesso, in una pozza di sangue; della tumulazione del cadavere; del giro nelle roulotte dei presunti colpevoli e della finale e inevitabile decisione di rivolgersi ai carabinieri, con il coinvolgimento di Rafael.
Lo smilzo prese nota di tutte le sue dichiarazioni, alzando di tanto in tanto gli occhi per guardare in faccia il curioso interlocutore.
«Perché non ci avete avvertiti subito?», domandò Nazaro.
Cadde il silenzio.
«Volevamo dare una mano a Radu e… ci siamo trovati in mezzo a una vicenda che non avremmo mai potuto immaginare, molto più grande di quella che avevamo prospettato», disse Benzina, temendo di poter essere accusati di occultamento di cadavere e chissà che altro.
«Anche la vostra posizione non è delle migliori…», sospirò il comandante, «ma con voi la vediamo dopo. Chi vi ha indirizzato ai Figli di Dionisio?».
«Un'amica», disse Teschio, guardando Rafael, col timore di dire qualcosa di inopportuno.
«Quale amica?».
«Si chiama Nadia Schilef, intervenne Rafael. Per la precisione è una mia amica. Frequenta il mio locale…».
«Come mai conosce la setta?».
Ci fu un altro attimo di silenzio.
«Non me l'ha mai detto. Me ne parlava senza spiegarmi da dove derivassero le sue informazioni».
Il comandante non abboccò.
«Torneremo ad affrontare questi punti che non mi sembrano per nulla chiari…».
Teschio e Benzina deglutirono amaramente.
«Adesso è necessario andare in cerca di questa…».
«Aicha», intervenne Giacinta.
«Bene», disse il comandante.
Si alzarono simultaneamente dalle rispettive comode, pronti a guadagnare l'uscita, ma l'estemporanea banda fu immediatamente redarguita da Nazaro. 
«I ragazzini rimangono qui».
Radu, per poco, non scoppiò in lacrime.
«Non possono venire con noi?», chiese Teschio.
«Direi proprio di no», affermò con veemenza il comandante. «Temo che, per colpa vostra, abbiano già visto fin troppo».
«Loro non c'entrano», disse Giacinta. «Siamo stati noi a coinvolgerli. Ci lasci venire».
Il comandante dondolò il mento, indicando al brigadiere di prendersi cura dei due giovani, e di trattenerli in caserma fino al loro rientro. Nazaro, con Teschio, Benzina e Rafael, partirono alla ricerca di Aicha.

78.

La trovarono sdraiata sul prato, intenta a mangiucchiare un legnetto di liquirizia, con gote alla Battisti e le sopracciglia pitturate di fresco.
«Eccola», disse Teschio.
Sembrava la donna più felice del mondo, come se aver ammazzato un essere umano non avesse minimamente scalfito la sua coscienza, regalandole una sorta di gioia metafisica. Davanti a tanto menefreghismo, Teschio fu colto da un attacco di rabbia: se pensava al dolore che aveva passato e a quello che stava passando Radu… a dir poco gli prudevano le mani. Ora più che mai intuiva il peso delle parole del piccolo, quando reclamava di non desiderare altro che uccidere personalmente l'assassino di sua madre; se si passano certi limiti, diventa davvero difficile domare le pulsioni, pensò, anche se il riferimento è a un giovincello con un’intera vita davanti.
Il comandante si accorse del momento critico dell'uomo e lo rassicurò con parola bonarie.
«Stia calmo, ormai ce l'abbiamo in pugno...».
Era in compagnia dei due figli e di altre donne rom che né Teschio né Benzina avevano mai visto. C'era una donna anziana, con una folta chioma grigia, che faceva giocare i piccoli con il copertone di un'automobile mezzo sfasciato, recuperato ai piedi della muraglia che dava sulla ferrovia. I bimbi ridevano come matti, come se avessero fra le mani il più bel gioco della loro vita.
«Dividiamoci», disse il comandante.
Nazaro e Teschio entrarono dal cancello di via Gramsci; il brigadiere, Benzina e Rafael, da quello di via Monte Santo. Tutti si mossero con cautela, per non dare nell'occhio e sollevare un inutile putiferio che, senz’altro, avrebbe reso più difficili le operazioni di cattura. Per il parco, ignari di ogni cosa, bighellonavano sereni e tranquilli alcuni corridori, e gruppetti di anziani con il cagnolino al guinzaglio.  
I primi a raggiungere Aicha furono il comandante e Teschio.
La donna li vide e li riconobbe all’istante, come individui che non erano certamente lì per caso: glielo si leggeva in faccia che la stavano cercando. Non ci mise molto, pertanto, a capire che doveva darsela a gambe. Si alzò di scatto e si mise a correre senza criterio, verso lo spazio riservato alle bocce; la sua condanna a morte.
«Non ci sarà molto tempo da sprecare con gli interrogatori», cincischiò il comandante, sottintendendo che il comportamento dell’assassina fosse stato fin troppo eloquente.
Aicha, cercando di fuggire alle grinfie di Nazaro e Teschio, finì dritta fra le braccia del brigadiere, di Benzina e di Rafael. Oppose resistenza con delle grandi manate, cominciando a urlare frasi sconnesse come una posseduta. Il comandante seguì la prassi e la costrinse alle manette, attirando l'attenzione dei giocatori di bocce che allibiti, si chiedevano che diamine stesse succedendo in quel caldo e anonimo pomeriggio sestese.
«Io non c'entro niente!», prese a gridare.
«Adesso lo vedremo», disse il membro delle forze dell’ordine.
«La figlia del destino non c'entra niente!».
«Sicuramente».
«Lasciatemi tornare dai miei figli! Non possono stare senza di me!».
Il comandante non le dette retta, ansimando come un cane da corsa.
La donna controbatté, sempre più disperata:   
«Allora vi colpirò con la maledizione di Dionisio!».
«Forza signora. Collabori che sennò peggiora le cose».
«Il santone vi ucciderà tutti quanti!».
«Signora, non dica scemenze».
«Voi non sapete con chi avete a che fare!».
Comandante e brigadiere la sollevarono di forza e la trasportarono sulla camionetta parcheggiata in via Gramsci, pronta a ingabbiare sedicenti assassini e truffatori di ogni sorta.
Le donne rom seguirono la scena sbigottite, come se tutto ciò che stesse accadendo fosse privo di qualunque logica. Osservandole, Teschio pensò che forse nemmeno loro erano al corrente dell'omicidio di Slagena; e per un istante provò pena per quei piccoli che, inconsapevoli del trambusto generale, continuavano imperterriti a correre dietro al pneumatico marcescente, convinti che la madre si fosse messa a giocare a guardie e ladri.
Di ritorno in caserma, il comandante dispose all’unanimità di non muoversi fino a nuovo ordine.
Giacinta e Radu non stettero più nella pelle e vedendo passare in manette l'assassina di Slagena, dimentichi di ogni preoccupazione, si abbandonarono a un abbraccio fraterno.
«Hai visto?», disse Giacinta.
«Voglio vederla marcire all'inferno», fece Radu.
Aicha sparì con il comandante e per due ore gli improvvisati detective furono presi in ostaggio dal  brigadiere, interrogandosi stupiti su tutta una serie di passaggi poco chiari, desiderosi di capire il momento in cui l'incredibile avventura avrebbe finalmente avuto il suo epilogo.  
Benzina chiese di potersi recare in bagno, per risolvere un generico, ma impellente bisogno: ancora una volta fu vinto da una violenta colica addominale, che a questo punto, fu evidente a tutti, dovesse sopraggiungere tutte le volte che si trovava a dover affrontare compiti particolarmente ardui. Giacinta e Radu risero di gusto.
Compilarono numerosi documenti per mettere regolarmente a verbale tutto ciò che era successo e per assicurare alle forze dell'ordine il loro ritorno in caserma per il lunedì successivo, necessario a risolvere le posizioni dei due sinti e a chiudere la pendenza legale relativa all'occultamento del cadavere. Rafael cercò di spiegare che lui non c'entrava niente, che si era unito alla combriccola solo per la far visita ai carabinieri e che doveva tornare al più presto al suo bar; ma ogni suo lamento fu vano.
«Finché non ricevo l'ordine del comandante, dovrò trattenervi. Compreso lei, signore».
Il brigadiere li lasciò liberi nel primo pomeriggio, comunicandogli che, se non avessero rispettato gli impegni presi, avrebbero passato un mare di guai.
Appena fuori tirarono un grosso respiro di sollievo: nessuno poté credere a quel che era accaduto; a parte Radu, forse, al quale brillarono gli occhi gioia.

79.

Il giorno successivo, un caldo e afoso sabato di luglio, si ritrovarono al bar di Rafael per festeggiare: alle ventuno il padrone di casa serrò le saracinesche e stappò le tre bottiglie di vino più pregiate che aveva, che conservava in cantina per le occasioni più importanti, deciso, con i suoi ospiti, a isolarsi dal mondo.
«Ci voleva!», esultò Benzina.
Rifocillò i ragazzi con due panini super farciti e chiamò al telefono Nadia per proporle di unirsi alla combriccola.  
«Il caso è finalmente risolto», le disse.
Nadia arrivò dopo un quarto d'ora, ansiosa di sapere come erano andate nei dettagli le cose, in che modo avevano catturato Aicha, ma anche per poter guardare ancora negli occhi Teschio, quell’uomo che aveva appena conosciuto, ma che aveva già avuto così tanto da darle.
Sopraggiungendo, il capobanda, non riuscì a domare l’imbarazzo e arrossì come un peperone stagionato, mettendo a nudo tutta la sua sensibilità, troppe volte tenuta nascosta da atteggiamenti da superman.
«Benvenuta», fu l'unica cosa che riuscì a dirle, dando a Nadia l'impressione di trovarsi di fronte a un uomo diverso da quello con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento e che, addirittura, l'aveva chiamata per un'uscita intima.
«Non siamo qui a festeggiare?», gli domandò, percependo il disagio dell’uomo e cercando di metterlo, cinicamente, ancor più in difficoltà.
«Infatti», blaterò Teschio.
«Dalla tua faccia non si direbbe».
Teschio cercò di ricomporsi, riacquisendo la sua solita statura, sollecitato dalla volontà di poter presto buttarsi a capofitto in quella che si prospettava una storia d'amore coi fiocchi, come non ne viveva da tempo immemore. Fece accomodare la donna vicino a sé e le spiegò precisamente come s’erano snodati i fatti, com'era avvenuta la cattura della donna rom e delle rocambolesche ore trascorse in caserma.
«E i ragazzi?», domandò la moglie di Cinghiale. 
«Lunedì abbiamo un altro incontro con i carabinieri. Dobbiamo risolvere il problema dei documenti, non sono nemmeno registrati all’anagrafe...».
«Dio».
«Ma non escludo l'ipotesi di poter prendermi cura di Radu in prima persona…».
Nadia si mostrò sorpresa.
«Lo faresti davvero?».
«Già».
«E' una bellissima notizia».
Teschio le sorrise dolcemente.
«Lui lo sa?».
«Non ancora. Anche perché, per il momento, nulla è deciso… non vorrei offrirgli false speranze».
«Sei un uomo di cuore, Teschio…».
Teschio arrossì di nuovo.
«Considerando che ha paura di finire in orfanotrofio…», tagliò corto.
Radu e Giacinta non dettero retta a nessuno e presero a stuzzicarsi come il giorno della gita in riva al Villoresi. Giacinta gli morsicò il braccio come una piccola cannibale.
«Brutta stronza».
Radu rideva concitato, provando un sentimento sempre più vivo e percependo una vaga eccitazione che poco aveva a che vedere con il semplice e innocuo gusto di divertirsi fanciullescamente. Era la prima volta che gli capitava e non gli dispiaceva affatto. Per un istante avrebbe voluto baciare sulla bocca Giacinta, assaporare il gusto delle sue labbra, il miele del suo corpo, per poi impossessarsi del suo respiro. Ma tremava all'idea di arrivare a tanto, benché si rendesse conto di averne già avuto occasione, quando avevano dormito insieme e lui s'era ritratto da qualunque smaliziata azione dell'amica. Il piccolo non sapeva nulla del suo destino, e della seria possibilità che, d'ora innanzi, gli avrebbe potuto fare da padre l'amato Teschio. Era talmente felice di avere vendicato la mamma che non pativa più alcun dolore e anche il presentimento di finire in un orfanotrofio s'era fatto piccolo e impalpabile. 
«Alla salute di Radu!», gridò Benzina, alzando al cielo il suo quarto calice.
Risposero in coro tutti gli altri. 
«E adesso musica!», vociò Rafael.
Il proprietario del locale si avvicinò alla radio che partì con un vecchio brano di Cat Stevens cantato da Rod Stewart. Giacinta si avvicinò a Radu per invitarlo a ballare e così fece Nadia con Teschio. Tutti e due, rimbambiti dall'euforica atmosfera, accettarono di buon grado.
Benzina guardò Rafael con aria tremebonda: restavano solo loro due, ma fu chiaro a entrambi che non fosse il caso di unirsi alle danze.

80.

Al termine dei festeggiamenti, ben oltre la mezzanotte, Benzina era completamente ubriaco; anche Rafael non era in condizioni ottimali e continuava a saltare per aria come un bambino al gioco della corda.
I primi ad andarsene furono Teschio e Nadia, desiderosi di aprire una nuova parentesi sul loro divenire. Fuori dal locale si guardarono con aria tesa, anche se i fumi dell'alcol avevano ormai sciolto ogni inibizione.
«Ti va di fare due passi?», si fece avanti Teschio.
«È tardi, ma non ho nessuna voglia di rincasare».
Si incamminarono lungo via Gramsci, entrambi fiduciosi di poter presto imboccare la strada per la casa di Nadia.
Radu e Giacinta si divertivano, intanto, a tenere sveglio Benzina che barcollava, prendendolo apertamente per i fondelli.
«Hai sonno Benzina? Non ti va di fare un partitina a carte?».
«Che giorno è oggi?», domandò l'uomo, mostrando tutta la sua alienazione.
«Oggi? Oggi è domenica... sei scemo, per caso?».
Giacinta fu la più perfida.
Radu rise compiaciuto, tirandogli in testa delle briciole di pane.
«Ragazzi, non avete sonno?», chiese Rafael, auspicando l'imminente congedo dei più giovani.
«Sonno? Cos'è il sonno? Il nome di un nuovo panino?», chiese Giacinta, facendosi beffa anche del proprietario dell’esercizio che li ospitava.  
Rafael la guardò disgustato, incapace di organizzare una replica. Si limitò a grattarsi i baffi.
«Dai andiamo, la festa è durata abbastanza», mugugnò Radu, fattosi serio all'improvviso. «C'è una cosa che vorrei fare adesso...».
Giacinta lo fissò stupita, chiedendosi il senso di tutta quella foga: in pochi secondi aveva cambiato totalmente espressione. Radu le fece intendere che aveva una certa premura, e che avrebbe contato su di lei per poter risolvere l'impellenza scaturita così frettolosamente fra i suoi neuroni.
Rafael li congedò con un sorriso sincero.
«Arrivederci ragazzi».
Inquadrò Benzina, curvo sul tavolo, privo di sensi.
«Questo lo tengo qui con me a dormire. Non mi sembra nelle condizioni di tornare a casa da solo».
«Auguri», disse Giacinta.
«Ciao Rafael, ci vediamo», disse Radu.
All’esterno, Radu si mise a correre all'impazzata, come se stesse fuggendo da un calabrone infervorato.  
«Dove scappi? Sei ubriaco anche tu?».
Radu non rispose e proseguì nella sua danza forsennata.
Giacinta lo inseguì e, forte di una falcata più potente della sua, con il cuore che batteva come un tamburo, in pochi istanti lo raggiunse.
«Sei impazzito?».
Si fermarono contro un muro, dove c'era scritto una frase con lo spray, che nessuno dei due si preoccupò di leggere: “Tu mi rubi l'amore”.
«Vieni con me?».
«Dove?».
«Voglio andare alla fabbrica a salutare la mamma».
Giacinta tracollò.
«A piedi fino a là?».
«Io vado, tu fai come vuoi».
Si rimisero in marcia silenziosamente, uno di fianco all'altro, come scolaretti in gita; rivolgendosi la parola, solo quando i silenzi e le angosce della notte erano calati su tutto il sestese e furono, ormai, in procinto di attraversare il confine con Brugherio. Scorsero il cartello che indicava l'inizio del nuovo paese e finalmente si sentirono più tranquilli. Dopo una decina di minuti intrapresero la strada che dava sulla fabbrica abbandonata.
Individuarono il buco dal quale s'erano introdotti con Teschio e Benzina, trovandolo ancora più sconquassato della volta prima, come se, nel frattempo, l’avessero vinto altri disperati. A Radu venne il magone, ripensando a quella sera maledetta. Quante cose erano cambiate, però...
«Prima tu», disse Giacinta.
Il piccolo varcò la soglia agilmente e si diresse come una scheggia verso il punto in cui avevano seppellito Slagena; ricordando bene ogni angolo, ogni piega, ogni sasso, di quel brullo e insignificante appezzamento di terreno, compreso l’attrezzo arrugginito che spuntava come un dente avvelenato dall'aia antistante l'ingresso principale della fabbrica.
Si fermarono in religioso silenzio dinanzi al giaciglio di Slagena, un tutt'uno con l'ambiente circostante, pregando ognuno per conto proprio. La luna brillava alta nel cielo e nell’aria trionfava l'odore penetrante e tonificante del sambuco. 

Vendite autorizzate


bei tempi andati
fregati
fumo di sigarette
e sigari
brillantine
e cappelli grigi
e capelli bianchi
e ricci di mare
aguzzini
aguzzano l'ingegno
di questo trafiletto 
vetusto 

lunedì 23 luglio 2012

Rapsodia gitana # 7


61.

«Dove è finito quel gran figlio di puttana?», si domandò Teschio.
Pensò che fosse sparito oltre l'unica porta che contraddistingueva il locale, quella sormontata dal misterioso scalpo che sembrava osservare i presenti pronti a scagliarsi su di essi con piglio assatanato. Non poteva esserci altra spiegazione, visto che non c’erano altri varchi altrettanto appetibili. Ne ebbe, dunque, conferma nel momento in cui ordinarono alla donna con gli abiti succinti di prepararsi per entrare in scena. Era arrivato il suo turno. Teschio seguì sgomento l'avvicendarsi dei fatti, con il cuore in gola, timoroso di dover assistere a qualche scena splatter, o cose del genere, con cui non aveva alcuna familiarità.
Due donne che prima non aveva notato, si affiancarono alla prescelta obbligandola a indossare una specie di saio, bianco e trasparente, dal quale fu perfettamente leggibile l’anatomia sottostante, esaltata da un seno da maggiorata, di cui anche l’occhio di Teschio godette.  
La malcapitata obbedì senza remore, dando l'impressione di essere già stata preparata da tempo alla serata e a tutto ciò che di infelice avrebbe potuto comportare. Con l'ingombrante vestito raggiunse la porta dalla quale il santone era sprofondato chissà dove, e varcò l’uscio, sparendo nei meandri di un mondo misterioso.  
Gli adepti zittirono completamente, lasciando Teschio a bocca aperta:
«Che succede?», chiese Benzina.
Teschio non seppe che dire.
«Non ne ho idea», sussurrò. «Sono tutti immobili... come statue di cera».
Arretrò di qualche metro per raggiungere gli altri della banda, che lo fissarono con aria stravolta.
«Non so cosa stia accadendo. Il santone è sparito con una donna al di là di una porta... gli altri si sono acquietati; non parla più nessuno».
«Fa vedere anche a me», disse all'improvviso Radu.
Il piccolo si avvicinò all'entrata del covo e, con affanno, prese a sbirciare con spirito indagatore.
«Stai indietro!», gli ordinò Giacinta, temendo che il piccolo potesse sporgersi oltremisura, mostrandosi al pubblico di malavitosi.
Radu osservò i vari seguaci della setta, come assorti in un sonno profondo e pervasi dalla sensazione di non fare più parte di questo universo: gran parte di essi teneva gli occhi chiusi, apparentemente catapultati in un'altra dimensione. L'unico che dette l’impressione di mantenere un atteggiamento normale e vigile, fu il presunto braccio destro del santone, che di tanto in tanto ruotava la testa per sincerarsi che tutto andasse secondo programma.
Trascorsero dieci minuti di silenzio, finché il mingherlino in forza del grande capo, non si alzò per dirigersi verso un mobile basso, contenente un sfilza di bicchieri già riempiti con un liquido giallognolo, simile al limoncello. Radu strabuzzò gli occhi, chiedendo l'intervento di Teschio.  Capendolo al volo, quest’ultimo, lo sostituì precipitosamente, facendo appena in tempo a scorgere il braccio destro del santone posare ai piedi di ogni adepto un singolo bicchierino colmo dell'enigmatico liquido. Teschio pensò all'assenzio, benché non sapesse minimamente cosa fosse: semplicemente aveva visto da poco tempo su un giornale la foto di un poeta, tal Paul Verlaine, accomodato a un tavolo parigino con davanti il prodigioso distillato; che da quel che diceva la didascalia, era in grado di regalare i prati del paradiso a ogni provvidenziale sorso.
Terminata l’operazione, il seguace dei Dionisio schioccò le dita, ridando vita all’assemblea.  
«E’ giunta l’ora».
I primi a rispondere furono i tre giganti, che quasi buffamente agguantarono il proprio calice, bevendo come bufali disorientati da una lunga arsura. Fecero lo stesso, nel giro di pochi istanti, tutti gli altri, che bevvero alla goccia, senza alcuna esitazione, evidentemente abituati a un simile passaggio iniziatico.
Teschio seguitò a fissarli allibito, pervaso da un proverbiale dubbio: si stavano drogando? Ritornò a quel che gli aveva raccontato Nadia e, dunque, all'ipotesi che quell'intruglio potesse contenere qualcosa di ben più potente di una normale lemonsoda. Il suo pensiero si dimostrò fondato. Non passò molto, infatti, dal momento in cui gli adepti cominciarono a ridere come pazzi, dandosi pacche sulle spalle e arrivando perfino a schiaffeggiarsi. Si domandò dove sarebbero arrivati, avanti di questo passo...
La riunione si trasformò in un putiferio di grida e schiamazzi.

62.

Anche gli altri della banda furono sopraffatti dal clamore, disponendosi uno sopra all'altro per vedere cosa stava succedendo. Benzina rimase sconcertato.
«Sembrano tutti ubriachi».
«Hanno bevuto una specie di liquore...», spiegò Teschio.
«Potessi assaggiarne un po' anch'io...», disse Benzina.
Giacinta gli tirò uno scappellotto sulla nuca, con fare bonario.
«Il solito coglione...».
Benzina trovò il coraggio di sorridere. E per un attimo si sentirono tutti un po' più rilassati. Ma la quiete non durò a lungo. All'improvviso, Teschio sentì qualcosa di freddo premere sulla fronte, dandogli l’idea di un attrezzo medico pronto a testare la sua precaria salute. Niente di tutto ciò: erano le canne di una pistola. L’uomo non volle crederci e in un istante si sentì cadavere.
Impugnava l'arma un barbuto con i capelli bianchi, unti e puzzolenti, la faccia rossiccia, con tanti capillari che ricamavano sul naso una specie di cartina geografica e due canini sproporzionati. Nessuno fiatò, impietriti dalla paura. Giacinta pensò che fosse stato troppo bello essersela cavata fin lì. Ora, quella pistola, era il chiaro segno che erano stati beccati, che le cose non erano andate secondo i piani, e che la missione era già al tramonto. Fu sopraffatta dall’idea di tirare un calcione sull'avambraccio al nuovo venuto, ma dalla posizione in cui si trovava, mezzo incancrenita, intuì facilmente che non avrebbe avuto molte chance di ottenere ciò che voleva. Si rassegnò al silenzio, aspettando che qualcuno compisse la prima mossa.
«Non muovetevi e non fiatate».
Fu lapidario, lasciando intendere che non fosse uno sprovveduto, ma uno avvezzo a certi retaggi della malavita. Teschio si irrigidì al punto di rischiare di farsi venire un crampo alle gambe; percepì  i muscoli del polpaccio destro divenire duri come l'acciaio, incapaci di reggere il suo peso e l'angoscia di un incontro che avrebbe potuto segnare la fine della sua compassata esistenza. Ma non ci rimase male più di tanto, riflettendo sul fatto che, tutto sommato, sarebbe stato contento di morire per una buona causa. L’aveva già messo in conto... la vita, in fondo, non aveva più granché da dirgli, e l’idea di andarsene come un eroe gli rese d'un tratto quasi piacevole quell'assurda incombenza.
Chissà perché gli venne in mente la madre, e le tante volte che, da piccino, andavano a fare il bagno a Varazze. Era stato il periodo più bello della sua vita; da quel momento, infatti, le cose sarebbero andate sempre peggio. La mamma avrebbe desiderato mandarlo all'università, ma era già tanto che avesse conseguito la terza media. Solo ora, in quel frangente disperato, si rese conto di quanto tempo avesse buttato alle ortiche, percependo la stupidità di non avere voluto dar retta al genitore. Erano state le cosiddette cattive compagnie a traviarlo, facendogli credere in un futuro fittizio, governato dall'idea del soldo facile.
Tentò di riacquistare la postura eretta, ma venne bloccato dall’aggressore, che spinse con ulteriore foga la pistola sulla fronte del capobanda.
«Non ti muovere. Sennò salti all'aria tu... e io».
Si riferì al fatto che una baruffa avrebbe di certo attirato l'attenzione dei Dionisio, mandando in crisi qualunque tentativo di passare inosservati e poter seguire le vicende dei membri della setta. Questa inaspettata uscita indusse Teschio e Benzina a pensare che, evidentemente, l'uomo armato non fosse della stessa parrocchia dei delinquenti che avevano a pochi metri di distanza e che, quindi, c’era ancora qualche speranza di cavarsela. Ma allora chi era? E perché li teneva sotto tiro?
Si fecero queste domande, mentre l'assalitore allentava la presa, alleggerendo il pungiglione d'acciaio sulla fronte della vittima.

63.

Lo chiamavano il Cinghiale e finalmente anche Teschio poté capire il perché: aveva due canini giganteschi, che venivano messi in grande evidenza ogni volta che l'uomo divaricava le labbra. Non ci fu, dunque, la necessità di una presentazione ufficiale: la persona che stava puntando la pistola alla testa di Teschio era il marito di Nadia Schilef. Era uscito dai Dionisio da tempo e da tempo s'era ripromesso di accumulare prove per poter incastrare una volta per tutte colui che credeva il più grande farabutto della Terra: il santone. Con le sue parole e i suoi raggiri era di fatto riuscito a devastare la mente di centinaia di persone e sul suo collo pendevano decine di omicidi. Assassini in piena regola, eseguiti solo per poter incrementare il suo potere e il peso del suo portafoglio. Il carcere a vita non gliel'avrebbe tolto nessuno. Era lì che voleva arrivare il Cinghiale, conoscendo ormai tutte le mosse del grande capo e l'odio profondo provato per un personaggio privo di qualunque scrupolo, che, peraltro, anche a lui, aveva spillato un bel po' di quattrini. Ma non era stato facile far perdere le tracce di sé. Chi entrava nella setta, infatti, difficilmente riusciva a uscirne... se non in una bara.
Ma Cinghiale non era uno stupido e per un po' di mesi era riuscito a sparire completamente dalla circolazione, abitando in un appartamentino anonimo nel cuore di Bologna, e vivacchiando di espedienti, compresa la professione di tutto fare in un alberghetto della città. Aveva ereditato il bilocale da un vecchio zio rimasto senza parenti diretti, poco tempo prima di abbandonare i Dionisio. Non ne sapeva nulla nemmeno la moglie. Voleva tutelarla: se le avesse rivelato qualcosa, infatti, qualcuno avrebbe potuto prenderla di mira. C'era finito da solo in quel giro di scapestrati, dando retta alla sottana di una donna che s'era venuta per caso a trovare sul suo cammino. Era una donna misteriosa e affascinante, di cui non aveva mai saputo il vero nome, né le origini. Benché la fisionomia del volto tradisse lineamenti che in qualche modo rimandavano al Medio Oriente. Faceva parte dei Figli di Dionisio da diversi anni, ed era una delle predilette dal santone: era forse la beniamina di cui si serviva per raccogliere nuovi adepti. Cinghiale non aveva saputo resisterle.
S'incontravano di nascosto e insieme si dedicavano ai divertimenti più assurdi, come due adolescenti. Avevano perfino trascorso una serata intera al Luna Park che sorge nei pressi di Linate. E negli stessi paraggi avevano fatto l'amore per la prima volta. Con la nuova conoscente gli sembrava di vivere in un perenne stato di euforia. Il marito di Nadia si trasformava, divenendo un'altra persona, e perdendo qualunque senso di responsabilità nei confronti di se stesso e della moglie. Qualcosa aveva raccontato a Rafael, nei momenti in cui i fumi dell'alcol prendevano il sopravvento, ma senza entrare troppo nei dettagli: i movimenti della setta dovevano rimanere segreti. Dopo poco tempo era comparsa la droga. E fu proprio in occasione di una sera davvero al di sopra delle righe che il Cinghiale finì per la prima volta al cospetto dei Dionisio. Assistette a una specie di orgia, in un'atmosfera da girone infernale. Non aveva saputo se ridere o piangere. Uomini e donne sembravano dei robot, addestrati per compiere operazioni che da sani di mente non avrebbero mai preso in considerazione. Non riusciva a togliersi dalla mente il tipo che s'era fatto tagliuzzare mezzo corpo in nome di chissà quale arcana creatura degli inferi, dando l'impressione di non patire alcun dolore. Sicché gli era bastato poco per capire che non era quello il mondo che aveva sempre sognato.
La donna misteriosa che l'aveva introdotto nel circolo del male, sparì all'improvviso senza fargli più sapere nulla e lasciandolo nella desolazione più cupa. Trovò la forza di dire basta una sera che s'era ritrovato a dieci centimetri di distanza dalla moglie che dormiva, con un coltello in mano, convinto che dovesse scotennarla perché altrimenti avrebbe rivelato alla BBC la sua tresca con la paladina del santone. Era troppo, era davvero troppo. Da quel momento dichiarò guerra ai Figli di Dionisio.

64.

Teschio e Cinghiale si guardarono negli occhi raccontandosi un avvenire diverso da quello sospettato trovandosi per la prima volta a tu per tu. Fu, infatti, evidente a entrambi che fossero più o meno lì per lo stesso motivo: contrastare le cattive intenzioni dei Figli di Dionisio. Cinghiale mosse la testa indicando alla sua vittima di seguirlo. Lo fece con uno scatto nervoso e tremebondo, come in preda a una convulsione epilettica. Stessa cosa fece Teschio con il resto della banda. Cinghiale si mise a capo del gruppo e nel silenzio più assoluto riguadagnò i colori sbiaditi dell'uscita.
Ripercorsero le scale pericolanti, e la prima rampa direttamente collegata all'uscio principale, godendo di una felice atmosfera, ben diversa da quella angustiante patita all'andata. Ora conoscevano la loro meta, benché fossero guidati da un tipo che ancora non avevano capito chi fosse. L'uomo si muoveva scaltramente, dando l'impressione di conoscere perfettamente l'ambiente, girando di tanto in tanto il capo per sincerarsi che i nuovi amici lo stessero seguendo.
Muovendosi verso l'alto fu, per tutti, più facile respirare: all'unanimità supposero felicemente di poter disporre di una quantità maggiore di ossigeno, come se fino a quel momento avessero respirato catrame. Benzina fu rapito da un pensiero rocambolesco, inerente la possibilità che in quel maledetto antro, si fossero appositamente disperse tossine velenose in grado di anestetizzare cuori e cervelli. Era un'ulteriore spiegazione al delirio collettivo che pareva contraddistinguere tutti coloro che si inchinavano agli sguardi funerei del santone. Ogni passo era un tassello in più verso la libertà; anche la luce dette l'impressione di essere meno recalcitrante nei confronti del quintetto. All'esterno Teschio e Cinghiale si consultarono con un rapido su e giù delle ciglia: dovevano levarsi di torno al più presto, avendo già rischiato abbastanza.
Finirono per strada, sì e no nel punto in cui il camionista aveva chiesto indicazioni a Benzina, per ritrovare il cammino maestro. Si disposero in cerchio, colmi di curiosità.
«Adesso ci vuole dire chi è?», domandò Giacinta, bruciapelo.
Cinghiale la guardò con distacco.  
«Sono un fuoriuscito… un ex dei Dionisio».
La banda ammutolì.
«Sto dando la caccia a quei bastardi che hanno rovinato me e moltissime altre persone...».
«Ci spieghi meglio», disse Teschio.
«Non sto a elencarvi i presupposti che mi hanno portato fin qui, ma ormai ho deciso di andare fino in fondo, a costo di rimetterci le penne. Cerco delle prove per poterli definitivamente incastrare...».
«Wow», blaterò Radu entusiasta.
«So tutto di voi, ma non preoccupatevi, non ho nessuna intenzione di compromettere le vostre ricerche, anzi… voglio, però, dirvi che stasera avete corso un grossissimo pericolo: se vi avessero scoperto non sareste andati lontani…».  
«Addirittura», disse Benzina, con un sorriso sardonico.  
«Hanno compiuto decine e decine di omicidi, senza mai essere scoperti. Sono protetti da qualche pezzo grosso del governo o da qualche servizio segreto. Con loro nessuno l'ha mai passata liscia…».
«Tu però te la stai cavando egregiamente…», gli disse Benzina.
«Mi sa che sono l'unico... ma solo perché ho avuto la possibilità di sparire per un po’. E in ogni caso bisognerà vedere come andrà a finire».
A Giacinta venne un'illuminazione, intuita dall'amico di sempre, che fissava Cinghiale con gli occhi sgranati. Ora tutto tornava. E anche l’autore del biglietto trovato all’ingresso del camper aveva finalmente un nome.
«Lei… lei è il marito di Nadia?».
L'uomo tacque per qualche istante, inarcando le sopracciglia e riflettendo sul fatto che ormai tanto valeva svuotare completamente il sacco.
«Sì, sono io».
«E' stata sua moglie a darci le indicazioni per arrivare fin qui», disse Teschio, preceduto di un soffio dalla perspicacia di Giacinta.
«Lo so. Come sta?».
«Credo che la stia aspettando».
«Lo sto facendo per lei…».
«Mi rendo conto», chiuse Teschio. «Non deve essere facile».

65.

Allontanandosi ulteriormente dal covo dei Dionisio, si inoltrarono nel cuore della città. Sostarono di fronte a una tabaccheria con le saracinesche abbassate, illuminata, all'interno, da una debole luce al neon. Cinghiale si guardò intorno con fare circospetto, dando l'impressione di temere di essere spiato: viveva con questa angoscia da mesi. Passarono diverse macchine, ma la situazione sembrava tranquilla. Fu allora che prese di nuovo la parola.
«So perché siete arrivati ai Dionisio», disse corrugando la fronte. «E, forse, potrei esservi d'aiuto...».
Ai quattro si rizzarono le antenne, come se avessero appena saputo di aver vinto alla lotteria. Radu, col petto all’infuori, si interpose fra Cinghiale e Teschio, marcando la sua presenza e sottintendendo  che le spiegazioni spettassero soprattutto a lui. Il marito di Nadia lo guardò con avidità, non capendo quale storia avesse alle spalle, quel che gli pareva poco più di uno scricciolo indifeso.   
«Cosa può dirci?», incalzò Teschio, con garbo e quell’atteggiamento mansueto, quasi di sottomissione, riservato solo a chi, davvero, è in grado di offrire valide opportunità per tirarsi fuori da qualche impiccio.
«Non so come siano andate le cose di preciso, dopo la mia dipartita dal gruppo, ma c'ero ancora quando il santone ordinò a una donna rom di esaudire l'ennesimo sacrificio. E immagino che voi siate qui proprio per questo...».
«Esattamente», disse Benzina, concitato, con le guance fiammeggianti.
«Posso, dunque, sospettare che l'assassinio sia già avvenuto....».
«Qualcuno ha pugnalato a morte la mamma di Radu», disse Teschio, indicando con un cenno del mento il piccolo che aveva sotto gli occhi.
A Cinghiale fu tutto più chiaro. Osservò Radu e gli regalò un'espressione solidale, contorcendo le labbra e socchiudendo le palpebre.  
«Vogliamo risalire all'assassino. I Dionisio non avranno vita facile finché non avremo raggiunto il nostro scopo», sentenziò Benzina, con caparbietà.
«È in grado di darci qualche informazione in più?», domandò Teschio. «Non ha qualche nome?».
«Purtroppo no», disse Cinghiale. «Ma suppongo che la comunità rom locale sia più volte stata coinvolta dai Dionisio. Non so se hanno un debole per gli zingari o se il modo di vivere dei nomadi sposi, per qualche strana dinamica, le esigenze della setta...».
«Di fatto anche stasera abbiamo visto alcuni rom partecipare alla seduta».
«Li conoscevate?».
«No», rispose Giacinta. «Ma ne passano così tanti da Sesto che i responsabili potrebbero esserci sfuggiti. Peraltro la mia famiglia e quella di Radu, di origine sinti, non hanno mai fatto parte attivamente della comunità locale».
«Potrebbe essere un buon elemento da cui partire per le vostre indagini», dichiarò Cinghiale. «Se i Dionisio hanno commissionato a una donna rom un assassinio, è facile supporre che la donna sia andata a pescare nel suo paniere...».
Giacinta e Radu si guardarono conturbati, non avendo quasi capito nulla dell'ultima enigmatica affermazione di Cinghiale. Ma l'avevano compresa bene i due adulti, che mettendo insieme un po’ tutti gli elementi raccolti fino a quel momento, si sentirono, in qualche modo, un po' più vicini alla soluzione del caso.
«Ritiene, quindi, che l’assassino possa essere una rom di Sesto?».
«Che dirvi... se è morta una donna rom per mano di un'altra donna rom... è altamente probabile che le due si conoscessero. O... si odiassero».
Giacinta e Radu si fissarono sgomenti, messaggiandosi telepaticamente che c'erano dei validi presupposti per pensare che qualcuno potesse odiare Slagena.
Teschio e Benzina notarono questo loro scambio di intenti, intuendo a loro volta che, forse, non erano del tutto al corrente delle vicissitudini dei vari clan familiari che rappresentavano la realtà nomade sestese. E fecero centro.

66.

«C'è qualcosa che non ci avete detto?», gli domandò Teschio.
«Non so...», rivelò Giacinta, titubante.
«Lo sai tu, Radu?».
Benzina scorse il ragazzo in difficoltà e gli pose una mano sulla spalla in segno di affetto.
«Puoi parlarne apertamente, non c'è nulla di cui ti devi preoccupare… ormai... siamo una sola famiglia…».
«Me l'hai già detto mille volte che siamo una sola famiglia. Non serve che me li ricordi in ogni istante!».
Radu, sopraffatto dalla rabbia, allontanò sgarbatamente la mano di Benzina e si rifugiò in un piccolo anfratto di muro del palazzone che li sovrastava, con le mani conserte e lo sguardo muto. Teschio e Benzina si interrogarono affranti, non comprendendo questo suo attacco improvviso. Forse gli era sfuggito qualcosa? Non erano stati sufficientemente accorti? Giacinta nicchiò.
«Cosa c'è sotto?», domandò Teschio.
Giacinta tirò un bel respiro e rivelò che le cose fra i nomadi del circondario erano molto più difficili di quanto avevano lasciato trapelare dai loro racconti iniziali. In particolare, le famiglie di Giacinta e Radu, erano vivamente tenute a debita distanza da tutte le altre, perché giudicate più fortunate degli altri clan: essendosi dedicate per anni alle giostre, molti pensavano che conservassero da qualche parte gruzzoli di denaro che al più presto avrebbero utilizzato per cambiare aria e soprattutto vita. E c'era anche il problema religioso. Molti rom locali seguivano, infatti, una specie di rito cristiano ortodosso, ereditato da un vecchio capo tribù, che proprio a Sesto aveva fatto la storia, ma che non era apprezzato e condiviso dai sinti. Più volte erano sorte incomprensioni proprio per questo motivo, spingendo alcuni nomadi a emarginare pubblicamente le due famiglie cugine. Una volta Slagena era corsa via in lacrime da un gruppo rom che l’aveva schernita per la catenella che portava al collo, raffigurante una vergine sconosciuta alla tradizionale iconografia dell'est.
«Tutti i nodi vengono al pettine», disse Cinghiale. «Come vedete c'è più di un valido motivo per credere che la mamma del piccolo possa essere stata fatta fuori da qualcuno… qualcuna che la odiava».
Teschio e Benzina annuirono simultaneamente.  
«Pensateci bene», proseguì Cinghiale, con fare fraterno, sollecitato da una folata di vento ristoratore. «Potreste non essere lontani dalla soluzione…».
L'uomo si acquietò, scoprendosi sazio di atteggiamenti altruistici, che nel vivere quotidiano raramente lo contraddistinguevano. Rifletté altresì sul fatto che era da ben tre giorni che rincorreva come un cane segugio le mosse perfide e sadiche dei Dionisio: era evidentemente arrivato il momento di fare nuovamente perdere le proprie tracce.
«Ora vi devo salutare», disse con aria avvilita. «Credo di essermi fermato abbastanza. Ma almeno possiedo numerosi dettagli in più sui quali ragionare, per stanare una volta per tutti quei cani bastardi… tornerò per il colpo di grazia».
Teschio e Benzina lo ringraziarono di cuore.
«Il suo intervento è stato provvidenziale», disse il capobanda.
«Non ho fatto nulla».
«Ha fatto molto», continuò teschio. «Senza di lei staremmo ancora brancolando nel buio. E invece, finalmente, sappiamo come andare avanti…».
«Spero riusciate a risolvere il caso...».
«Ce la faremo», disse Benzina, pervaso da una ventata di ottimismo. 
Cinghiale esibì una faccia strana, tipica di chi sta per dire qualcosa, ma non trova le parole giuste per farlo. Si limitò, pertanto, a intimarli di tacere con chiunque, benché fosse chiaro a tutti che si riferisse soprattutto alla moglie.
«Stai tranquillo, non le diremo niente...», blaterò Benzina.
Teschio lo salutò con un cenno della mano, sopraffatto da un sentimento malinconico, e dall’ipotesi che questa sorta di amicizia in divenire, avrebbe potuto non avere seguito.   
Cinghiale, in pochi secondi, scomparve dai loro orizzonti come un fantasma, nel momento in cui Radu, guarito dall'improvvisato broncio, riprese la marcia verso casa.

67.

Al camper si raccolsero in un cerchio silenzioso, nel punto in cui avevano individuato la medaglietta dei Dionisio. Avevano le facce devastate dalla stanchezza ed erano privi della forza necessaria a intavolare un nuovo discorso. Non badarono neanche al frastuono provocato dal passaggio di un treno merci, diretto chissà dove, che in un'altra circostanza li avrebbe portati a imprecare malamente. Decisero così di rimandare ogni decisione all'indomani, prevedendo di avere menti più fresche e scattanti.
Radu dette l’impressione di essere il più esausto della compagnia, raccolto in un’espressione dura e arcigna. Il suo rammarico era dovuto al fatto che si sarebbe aspettato qualcosa di più dal raid di perlustrazione presso il covo nemico. S'era infatti convinto che avrebbe finalmente potuto mettere le mani addosso all'assassino di sua madre, per fargli patire le pene dell’inferno; mentre non erano andati oltre un semplice e banale appostamento, tipo quelli che aveva visto fare dai cowboy o dall’esercito nordista in qualche film western. Gli altri lo guardarono con l'aria assonnata, comprendendo la sua scontentezza e la sua incapacità a valutare l'importanza dell'operazione da poco conclusasi, ma anche rendendosi conto che non avrebbero saputo dove andare a pescare nuove rassicurazioni.
«Che facciamo adesso?», domandò Giacinta.
Teschio la osservò pensoso.
«Direi di rivederci qui domani mattina per organizzare le prossime mosse. Adesso siamo troppo stanchi per ogni cosa. Magari potremmo telefonare a Nadia, per avere qualche consiglio utile...».
Benzina non metabolizzò al volo, era troppo devastato. Nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe desiderato altro che sdraiarsi per riposare una decina di ore di fila. Sarebbe andato bene di tutto, anche un giaciglio improvvisato nell'androne della stazione di Sesto, dove molti suoi amici, da tempo, campeggiavano più o meno indisturbati. Non gli sfuggì, in ogni caso, il riferimento a Nadia, il cui intervento non gli pareva così indispensabile per il prosieguo delle indagini. Suppose, pertanto, che l’amico fraterno potesse davvero essersi invaghito della moglie di Cinghiale e stesse, dunque, cercando ogni buon motivo per poterla contattare; lo aveva, in fondo, già sospettato il giorno in cui l’avevano conosciuta, dopo la sortita di Rafael. Sicché finì per stuzzicarlo con garbo, anche se a malapena riusciva a tenere aperte le palpebre.
«Da quando in qua ti affidi al parere di una donna per decidere cosa fare?».
Anche Giacinta osservò con stupore e ironia il grande capo, comunque rallegrandosi del fatto che perfino un duro come lui potesse provare dei sentimenti. Ma Teschio non soccombette al tiro mancino del duo. Stette al gioco, fece finta di niente, dribblando magistralmente la situazione.
«Volete insinuare che Nadia non ci sia stata di aiuto fino a questo momento?».
«Nessuno dice questo», blaterò Giacinta.
«Ha saputo indicarci la sede dei Dionisio... senza di lei, probabilmente, staremmo ancora girando intorno al camper».
«Ne sei così sicuro?», domandò Benzina, ridacchiando.
Teschio non gli diede alcuna soddisfazione.
«Ogni sua dritta potrebbe essere utile. Mi sembra che in questa faccenda ci siano di mezzo un bel po’ di donne... dunque, una donna in più, non potrà fare che bene...».
Giacinta e Benzina risero sotto i baffi, auspicando un sensazionale futuro per la coppia, in barba al sentimentalismo di Cinghiale, apparentemente più innamorato di Bologna che non della donna con cui aveva diviso il letto per molti anni.
«Va beh, con questa direi che è arrivato anche per noi il momento di andare a dormire... che dite?».
La proposta della ragazza venne accolta con gioia dai due adulti, visibilmente tramortiti dall'ansia patita nelle ultime ore.
«Tu ti fermi ancora qui?», le chiese Benzina, con un tiro impercettibilmente malizioso.
Giacinta fece una smorfia per sottolineare che la sua domanda era alquanto fuori luogo: ormai era evidente che il camper di Radu fosse diventato anche il suo. Si sentì offesa e non lo degnò di alcuna risposta. Sorrise a Teschio e riguadagnò l'ingresso della roulotte. Trovò Radu rannicchiato su se stesso, in posizione fetale, come un ghiro in letargo. Si mosse con cautela per non svegliarlo, trovandolo ancora più piccolo e indifeso del solito.

68.

Radu si svegliò con le tenebre in pompa magna e il cuore in gola: aveva appena sognato la mamma che camminava per la roulotte grondante di sangue, con un coltello in mano e una sigaretta marcia fra le labbra. Riaprendo gli occhi se la vide davanti e fu travolto dal terrore. Rimase per qualche istante immobile, accecato dall'angoscia, cercando di nascondersi con un lembo di lenzuolo, incredulo dinanzi alla possibilità che lo zombie di Slagena potesse fargli del male. Nemmeno le lacrime riuscirono a dargli sollievo. Si alzò per coccolarsi con un bicchiere d'acqua e si calmò solo quando, osservando la strada dal piccolo oblò sopra al lavandino, illuminata dai puntini gialli dei lampioni della ferrovia, si rese conto che era stato semplicemente un brutto sogno e che non c'era nulla di cui preoccuparsi. Giacinta non si accorse di nulla.
Al risveglio, la ragazza, allungò il braccio destro per stirarsi e senza accorgersi finì col tirare una specie di schiaffo all’amico. Radu non fece una piega: con le prime luci dell'alba e i primi via vai forsennati dei pendolari era sprofondato in un sonno profondo, catartico, dimentico dei patemi subiti durante la terrificante veglia notturna. Giacinta non lo volle disturbare. Si arrangiò in silenzio, mangiucchiando un paio di grissini scaduti e lavandosi ben bene la faccia.
Scese dalla roulotte e prese a pitturarsi le unghie, con uno smalto recuperato dal cassetto personale di Slagena. Andò avanti per pochi minuti, finché un'ombra non le oscurò volutamente la visuale. Era Benzina, in perfetto orario.
«Non c'è Teschio?».
«Arriva anche lui…».
Giacinta rimase sulle sue, stufa degli occhi languidi e viscidi dell’adulto.  
«Radu?».
«Dorme ancora».
«E tu? Dormito bene?».
Benzina non ricevette risposta e percependo l'insofferenza dell'amica, girò al largo, andando a fare due passi nel parco Gramsci, dove spesso si rintanava per godersi un po’ di frescura. La ragazza apprezzò. Non aveva nessuna voglia di dargli retta e anche se sapeva che non le avrebbe mai fatto del male, era piuttosto infastidita dalle sue attenzioni vagamente morbose: lo sguardo di Benzina troppe volte le ricordava quello bavoso di qualche vecchio incontrato sul metrò, ipnotizzato dalle sue forme. Di lì a poco arrivò anche Teschio.
«Buongiorno signorina».
Con Teschio fu tutto un altro mondo, trovandolo, ormai, una specie di secondo padre.
«Bene arrivato. Ti piacciono le mie unghie?».
«Non potevi farle di un altro colore?».
«Il nero è il mio colore preferito».
Fece capolino anche Radu, con gli occhi ancora imburrati di sonno.
«Buongiorno».
«Buongiorno a voi».
Vedendo che mancava all’appello ancora Benzina, Teschio impugnò il telefonino e chiamò Nadia. Lo fece allontanandosi di qualche passo dalla roulotte, lasciando che Giacinta e Radu lo seguissero con i loro sguardi civettuoli.  
«Sono Teschio, ciao Nadia…».
La moglie di Cinghiale rispose con garbo, felice di poter scambiare due chiacchiere con un uomo che trovava simpatico e intelligente, nonostante il precario status sociale che lo contraddistingueva. Teschio le spiegò l'accaduto e se aveva qualche suggerimento da dargli su come affrontare le prossime tappe della missione.
Giacinta e Radu si scambiarono un sorriso ironico, vedendo Teschio allontanarsi ulteriormente, dando l’impressione di voler affrontare un discorso troppo personale per essere condiviso anche con degli amici fidati, finendo per mimetizzarsi con il muro di cinta che divideva la strada dalla ferrovia. Tornò dopo dieci minuti.
«Allora? Che ti ha raccontato di bello?», domandò Giacinta, con sarcasmo.   
Teschio ebbe un attimo di esitazione: non divenne rosso, ma poco ci mancò. Di fatto, con le varie considerazioni fatte, relative all’uccisione di Slagena, aveva anche colto l’occasione per proporsi  a Nadia per un'uscita intima; e la donna gli aveva risposto affermativamente, non appena le cose si fossero sistemate.
Teschio era su di giri, e non sapendo come contenere la sua gioia, redarguì senza motivo Benzina, ricomparso all'orizzonte.
«Sei in ritardo».
«In realtà sono arrivato prima di te».
«Io sono qui da dieci minuti».
«Io da venti…».
«Se vogliamo risolvere il caso dobbiamo essere puntuali…».
La finirono lì, consci del fatto che fosse una conversazione priva di ogni senso, intavolata solo per sedare un momentaneo imbarazzo. Se ne accorsero anche i due giovani che dondolarono la testa, convincendosi del fatto che, in fondo, fra adulti e ragazzi non ci fosse una così grande differenza: un adulto era solo un bimbo un po’ cresciuto.

69.

«Che si fa, allora?», domandò Giacinta, rimirandosi le unghie come una modella.
«Radu, abbiamo bisogno di te», disse Teschio.
Il piccolo si avvicinò al gruppo, ancora visibilmente assonnato e con la mente annebbiata dalle immagini non ancora del tutto tramontate di Slagena che camminava come uno zombie. Fissò Teschio con aria di sfida.
«Cosa volete sapere?».
«Chi odiava tua madre», disse Teschio, con grande autorevolezza. «Adesso è arrivato il momento di sapere come stavano davvero le cose fra tua madre e le altre rom del circondario... adesso è arrivato il momento di agire veramente».
Giacinta guardò Radu con compassione, sapendo quanto fosse doloroso dover rispolverare un passato infingardo e meschino. Anche lei, di fatto, aveva passato le stesse angherie della famiglia di del piccolo, vicissitudini dovute all'ostracismo dei rom locali. Ma ci teneva che fosse per primo lui a dare qualche ragguaglio in più agli amici. 
«Fatima e Aicha», sibilò Radu. «Le hanno fatto il malocchio...».
Si illuminarono gli occhi di Teschio e Benzina; e i due uomini si resero conto che la matassa di un caso apparentemente irrisolvibile stava srotolandosi definitivamente.  
«Sono due donne rom che abitano lungo la via Gramsci», precisò Giacinta.
«Praticamente a due passi da qui», disse Benzina.
«Esattamente», disse la ragazza.
Teschio si fece meditabondo. Era necessario un piano.
«Come sono organizzate?», chiese.
«In che senso?», domandò Giacinta.
«Vivono insieme?», chiese Benzina.
«No», sentenziò Radu. «Vivono ognuna nella propria roulotte».
«Coi rispettivi mariti», sottolineò Giacinta.
«Ma i mariti durante la mattinata sono sempre in giro...», disse Benzina.
«Di solito è così...», disse Radu. «Suonano entrambi la fisarmonica».
«Quindi?», incalzò Giacinta.
«Dobbiamo dividerci», replicò Teschio. «La miglior cosa da fare è questa: due vanno da una parte e due dall'altra. Proviamo a stargli addosso, studiando le loro mosse, ma senza farci beccare. Se avessimo dei cannocchiali...».
«E dove li troviamo, adesso, dei cannocchiali?», domandò Benzina, sorridendo.
Il capobanda crucciò la fronte, dinanzi al fatto che, obiettivamente, non ci fossero molte possibilità di trovare al volo oggetti così particolari: nessuno di essi, del resto, ne aveva mai posseduto uno. Dovettero rinunciare per fare unicamente affidamento sulle proprie retine, spoglie di ogni accessorio.
«Per ora possiamo farne a meno», disse Teschio. «Accontentiamoci di sondare la situazione. In un secondo momento potremmo intervenire con un'attrezzatura più adatta...».
«Più che altro... noi due rischiamo di essere riconosciuti», disse Giacinta. «Se ci vedono nei dintorni delle loro roulotte di sicuro si insospettiscono... sanno bene che preferiamo stargli alla larga...».
«Hai ragione», disse Teschio. «Avete qualcosa per camuffarvi?».
«Camu che?», disse Radu, ridendo.
«Mascherarvi, truccarvi, con un cappello, una sciarpa, un...».
«Una sciarpa in pieno luglio... mi sembra un'ottima idea», lo ridicolizzò Giacinta.
«Su, era tanto per dire...», si difese Benzina. «Radu, c'è qualcosa sul vostro camper che possa aiutarvi a passare inosservati?».
Radu non aspettò un minuto a salire a bordo della sua casa ambulante per verificare che c'era tutto l'occorrente per travestirsi al meglio: c'erano altresì degli indumenti assurdi che aveva provato a indossare per qualche show in piazza Duomo, potenzialmente in grado di mimetizzare anche un rinoceronte. Giacinta lo seguì. Sparirono per una decina di minuti. E quando si ripresentarono al cospetto dei due adulti non erano più loro: Radu vestiva un cappello da giocatore di baseball, un paio di occhiali da metalmeccanico, e una specie di mantello nero che gli copriva tutto il corpo; Giacinta una parrucca nera, un fondotinta così scuro da farla sembrare un’abissina, e una camicia bianca di una taglia esageratamente voluminosa per le sue forme comunque contenute. Teschio e Benzina gioirono come bimbi in gita con l'oratorio.
«Siete fantastici», disse Benzina.
«A dir poco fantastici».
Teschio mosse su e giù la testa approvando con enfasi la trovata dei ragazzi: conciati in quella maniera non li avrebbero riconosciuti nemmeno i parenti più stretti.

70.

«Come ci dividiamo?», domandò Giacinta.
Teschio rifletté per una frazione di secondi.
«Io vado con Radu, tu con Benzina».
Giacinta non ne fu felice, ma non ribatté: comprese che non ci fossero molte alternative. In fondo, era giusto che il più piccolo andasse con il più grande, potendo in qualche modo beneficiare di una maggiore protezione.
«Bene, allora… mettiamoci al lavoro», disse Benzina, tutto allegro, convinto che non gli avrebbe potuto fare che bene, trascorrere qualche ora da solo con Giacinta, per la quale provava un desiderio sempre più spiccato, benché fosse conscio del fatto che se solo l'avesse sfiorata con un dito gli avrebbero fatto saltare le budella; Teschio per primo.
La roulotte di Aicha e del marito si trovava a circa mezzo chilometro dalla stazione dei treni di Sesto, lungo via Gramsci, in direzione Milano. Fra tutti i rom della zona, erano quelli che abitavano più vicini all'ingresso principale della ferrovia, a pochissimi passi dal parcheggio a pagamento e dall'ingresso del Palasesto. Vivevano in un camper trasandato, ancora più sporco e maltenuto di quello di Slagena. Vi dormivano in quattro: madre, padre e i due figli piccini. Al suo interno si respirava un odore pungente e asfissiante.
La casa ambulante di Fatima si trovava, invece, dall'altra parte della strada, e volgeva il suo sguardo al monzese, verso nord, forse il motivo per cui, in inverno, pareva fare più fredda di tutte le altre roulotte. Anch'essa non era in buone condizioni, ma l'innato buon gusto di Fatima per l'arredamento, e la mancanza di bimbi che lasciassero in giro ogni cosa, riusciva sempre a fornirle un appeal particolare.
Le operazioni dei singoli gruppi si svolsero quasi in contemporanea: Radu e Teschio si sistemarono dietro un cespuglio rigoglioso, di fronte al camper di Aicha; Benzina e Giacinta si appollaiarono alle spalle di un arbusto nel parchetto, dove venivano portati a spasso i cani.
"Porca puttana, iniziamo bene".
Fu l'esclamazione di Benzina, quando si accorse di avere calpestato la poltiglia intestinale di qualche quattrozampe che se avesse avuto fra le mani, avrebbe come minimo stritolato. Giacinta rise di gusto, strofinandosi il naso per vincere l'improvviso effluvio molesto.
«Che schifo!», blaterò.
Nello stesso momento, i mariti di Aicha e Fatima imbracciarono la fisarmonica e lasciarono le rispettive roulotte per correre a prendere il metro e iniziare la quotidiana attività di musicisti erranti: lo facevano da anni, raccattando quasi ogni giorno monete a sufficienza per sfamarsi e pure concedersi qualche vizio. Incontrandosi a pochi metri di distanza dall'occhio indiscreto delle due vedette, parlottarono con vigore, esprimendosi con ampi gesti delle braccia e dando l'impressione di avere qualche affare in corso o di non vedersi da decenni.
Dopo pochi minuti fu la volta di Aicha e dei suoi due piccoli: la donna sistemò il più giovane in un passeggino divorato dall'incuria, lasciando che l'altro le camminasse al fianco e guidasse la carovana verso la pompa dell'acqua nei pressi del mercatone dell'usato, oltre i confini della Smeg.
Teschio e Radu drizzarono le orecchie: non avrebbero mai immaginato di trovare la strada spianata dopo appena una decina di minuti dal loro arrivo. 
Sull'altro fronte, invece, le cose non andarono altrettanto bene. Fatima sembrò, infatti, non avere alcuna intenzione di muoversi, asserragliata nel camper, presa dall'idea di cucinare un piatto di bolapé, tipico della sua gente, a base di pollo, peperoni e datteri. Ai due non rimase che trovare la sistemazione migliore, cercando di non cancrenarsi le gambe. Benzina raccolse un legnetto più robusto degli altri e iniziò a ripulirsi la cacca delle scarpe.