giovedì 29 marzo 2012

Calzini anacronistici


oggi conosco vinicio nel suo covo che dà sulla stazione situazione surreale fra rebetiko si parla rebetiko e morna ci sono le maschere che punzecchiano come venti anni fa e si beve tè giapponese amarissimo non si fuma se non narghilè il pomeriggio avanza tentoni per una cartella stampa e le canzoni che si sentono così vivaci così greche così salonicco le chitarre appese alla parete quante cose si possono dire e non dire lima a un tiro di schioppo la milano più pulsante vitale vivace solo lì poteva vivere vinicio con la scritta drogheria ma come si fanno le cose come scorre il tempo e le musiche dell'assenza non dirgli niente tanto non serve ma ho notato il suo calzino anacronistico mi ha anche offerto il caffè o toccava a me chi lo sa nessuno lo sa ma ho in mano il suo nuovo disco che chissà gli altri quando ascolteranno sono passate così tre ore come monete gettate al vento e lui che si diceva non si facesse intervistare da alcunché e lui che invece mi racconta un mucchio di faccende e mi dà un paio di pacche sulla spalla a me scappa una parola in milanese che lo fa ridere sì ridere ridere di polentaggine o sano provincialismo tipo snobismo ci scambiamo i rispettivi libri (e telefoni) lui prende il mio io il suo lui… ma va bene così il mondo sono anche i tombini di via tadino che abbiamo attraversato milioni di volte e la feltrinelli della stazione dove mio nonno girava con me treenne che avrei fatto il direttore di un giornale nei paraggi come passa strano il pomeriggio come tira il vento che sa di epoche lontanissime cose già provate nulla di nuovo e torno a casa e riabbraccio il mio cane e i miei gerani e un bacio a testa ai miei colibrì poi tutti a nanna con la musica dell'assenza e il buon dio

lunedì 26 marzo 2012

Senza retorica: "Buggiolo"


Buggiolo non è un paese è terra di confine
Se passa Mussolini somministro anfetamine

Lunga vita al cardinale figlio bavarese
Se arriveranno di notte lascerò le luci accese

RIT. E mi fermerò a pensare per Dio
E mi fermerò a pisciare anch'io
E mi guarderò alle spalle oddio
E se non sarò qui per sera addio

Buggiolo, la Svizzera, cagnara di cortile
Se arriveranno all'alba starò pronto col fucile

Strade di montagna reggimento bersaglieri
Comandi comandante son qui pronto già da ieri

RIT: E mi fermerò a pensare per Dio
E mi fermerò a pisciare anch'io
E mi guarderò alle spalle oddio
E se non sarò qui per sera addio

Mai, mai, mai più 
Parlerò con te
Canterò per chi
Non ha voce
Non ha pace
Non ha un'anima

Cirrocumuli nell'aria muli per la via
File di Gestapo fantomatici messia

Nino non sa leggere non compra mai un giornale
Le parodie del bene, le parodie del male

RIT: E mi fermerò a pensare per Dio
E mi fermerò a pisciare anch'io
E mi guarderò alle spalle oddio
E se non sarò qui per sera addio

2012

domenica 25 marzo 2012

Affari condominiali: quarto piano, appartamento B


Dopo la morte della moglie non era stato più lo stesso. S'era spento come una candela al termine del suo brillantare e non c'era stato più nulla che potesse veramente interessarlo. Più che vivere, insomma, sopravviveva. Sopravviveva soprattutto al dolore, con una forza grandiosa. Ma non era sempre stato così. Una volta era stato felice. Anche lui aveva gioito e s'era invaghito della vita e delle sue molteplici opportunità. Molto prima, però, che la moglie si ammalasse e se ne andasse per un male incurabile in meno di due anni. Molto prima che se ne andasse anche il primogenito, a causa di un incidente stradale nel lodigiano. Ora non gli rimaneva che un unico figlio che, però, viveva lontano, dalle parti di Ancona, e vedeva se andava bene una volta al mese. «Per me la vita è finita con la fine di Marco», soleva ripetere. Viveva la sua anzianità con totale rassegnazione, ma in modo distaccato, senza particolari ansie, come se le tristezze dell'esistenza gli avessero paradossalmente fornito un'arma in più per fronteggiare il domani, di qualunque domani si trattasse. Non gli importava più nulla né della vita, né della morte, un po' come dovrebbe accadere a ogni essere umano che, maturando, assimila come il sapore del pane, la precarietà del divenire, fino a superarne l'angoscia che spesso lo contraddistingue, percependo il respiro come un fenomeno naturale senza tanti se e ma. Era un fantasma: il fantasma di se stesso. Viveva la sua vita come un paradosso. Aveva suo malgrado la mente lucida e dopo la scomparsa della moglie aveva iniziato a porsi serie domande sul destino dell'uomo; come un filosofo. Non aveva una grande istruzione, ma trovava affascinanti alcune filosofie di pensiero incontrate per caso, negli anni, leggendo con rigore e meticolosità la Terza pagina del Corriere della Sera. Un qualcosa gli suggeriva che il suo pensiero fosse riconducibile agli esistenzialisti come Camus e Sartre. C'era qualcosa anche di Berdjaev ed Heidegger. I primi due li menzionava accuratamente, meno l'altra coppia di capostipiti del movimento, peraltro variegato e diversificato. E c'era un figura incontrata di recente, un tal Rudolf Steiner, padre della cosiddetta antroposofia che aveva solleticato non poco le sue meningi. In fondo l'uomo cos'è?, si domandava, cos'era?, che ci sta a fare in questo mondo a mo' di un semino gettato al vento? La verità è che non si capacitava del fatto che due fra i suoi più grandi amori di sempre – la moglie e il primogenito - se ne fossero andati; non sopportava che molti suoi amici non ci fossero più; e che, ormai, non avesse quasi più parenti, anche solo da contattare a Natale per fargli gli auguri. La verità è che era solo come un cane o, perlomeno, era lui a sentirsi tale. Ma quando il mondo non gli sembrava ancora così grigio e insignificante, si era attaccato a tutte le più grandi scemenze della terra, pur di sentirsi parte di qualcosa o qualcuno. Bastava che un condomino parcheggiasse la bicicletta in malomodo, o che le briciole di un vicino finissero sul suo balcone per escogitare le trame esistenziali più inusitate da vomitare addosso al primo malcapitato. Un giorno che aveva bevuto un po' più del solito se l'era presa perfino con la nebbia. S'era messo a parlare al cielo dicendo che la nebbia impediva di vedere la madonnina incastonata nel muro della corte del Forno, risalente a un centinaio di anni prima. Non si capacitava del fatto che quella statutetta prendesse tanta umidità. Qualcuno aveva pensato che fosse così solo, che perfino l'idea di poter parlare con un disegno di gesso potesse in qualche modo resuscitarlo dal torpore nel quale era precipitato. E andava avanti a chiedersi: perché erano morti tutti e lui no? Perché lui aveva avuto la fortuna (o la sfortuna) di campare a lungo, mentre i suoi cari erano scomparsi? Perché? Perché al posto del suo figliolo non se n'era andato lui? Suo figlio avrebbe avuto ancora tante cose da fare, lui, invece, la sua vita l'aveva vissuta... Qual era la logica di questa trovata meschina? Non ci credeva, non ci voleva credere. Spesso si fermava per strada a fissare il nulla, domandandogli ancora una volta: perché? Era o non era crudele il distaccamento definitivo da chi si ama e da chi ci ha amato? Ma, ovunque andasse a cercare, non c'erano spiegazioni. E neanche l'antroposofia poteva fare molto. E anche adesso che viveva in una sorta di limbo esistenziale, i perché rimanevano, benché facessero meno male. Sparire per sempre era un concetto che, alla fine, aveva incredibilmente metabolizzato. Senza contare che, ironia della sorte, lui stava benissimo di salute e sembrava una beffa tutto quel che intorno gli era capitato. Aveva appena ritirato le analisi dalle quali emergeva che era sano come un pesce. Fosse stato per lui gli esami non li avrebbe neanche fatti, ma aveva un conoscente dottore, che di tanto in tanto lo sollecitava a fare una visita. «Ruggero», gli diceva il medico. «È un po' che non ti fai dare una controllatina. Dai, passa dal mio studio appena puoi». Risultato. Sanissimo. Per uno della sua età, ormai prossimo agli ottant'anni, sembrava un miracolo. «Non ce ne sono tanti come te, dovresti ritenerti fortunato». «Mi riterrei fortunato di avere qualcuno con cui trascorrere il giorno e la notte; qualcuno con cui parlare veramente, con cui dividere un letto, ma basterebbe anche solo un nipote da prendere in braccio...». Un tempo aveva avuto qualche problema col colesterolo e i trigliceridi, proprio come sua madre, che a causa di un eccesso di grassi nel sangue soffriva costantemente di attacchi di angina pectoris, ma ora sembrava che anche quei parametri fossero andati a posto; benché da un elettrocardiogramma sotto sforzo effettuato due anni prima fossero emerse delle coronarie non del tutto pulite. Ma ora che i lipidi erano ok, non c'era proprio più nulla di che preoccuparsi. S'erano rimessi in carreggiata forse perché la sua alimentazione non era più quella di un tempo. Si offriva esclusivamente a pranzetti e cene frettolose, per cui la pinguetudine, nemica giurata del cuore, non avrebbe avuto senso di esistere. Non valeva la pena darsi da fare per preparare chissà quali piatti per una sola persona; peraltro fra i fornelli era sempre stato una frana. S'era sempre occupata sua moglie della cucina e della preparazione di succulenti pietanze ereditate dalla saporitissima cultura culinaria della Basilicata, da cui proveniva. Prendeva cibi preconfezionati, proprio quelli che mandano in tilt il metabolismo e che la medicina sconsigliava vivamente, anche se – nel 1986 - non si viveva nel salutismo esasperante dei giorni nostri, dove, stando a quel che dicono i medici, ogni dì ci si dovrebbe sottoporre a una visita di controllo per verificare questo o quell'altro “indice vitale”. Così non aveva di che dannarsi. In dieci minuti era già a posto. Poi si sedeva sul divano e sonnecchiava. Se non sonnecchiava, guardava la televisione, con, però, sempre meno convinzione. La seguiva, in pratica, passivamente, come passivamente si assiste alla fila di persone che si muove per ricevere l'eucarestia. I varietà lo annoiavano; la politica l'annoiava; i telegiornali lo annoiavano. L'unica cosa che gli andava a genio, il che rasenta la fantascienza, erano le previsioni del tempo. Aveva un debole per le previsioni del tempo. Duravano pochi minuti ed era come se ogni volta assistesse all'ultimo film di un regista di grido. Aveva provato a dire di preferirle addirittura ai lavori di John Ford, il suo cineasta preferito. Cosa ci trovasse nelle previsioni del tempo era un mistero per tutti coloro che lo avevano conosciuto. In ogni caso la cosa andava avanti fin dal giorno in cui, negli anni Sessanta, era venuto in possesso della sua prima televisione. Curiosamente, però, non era interessato al fatto che potesse o meno piovere, nevicare, far caldo o freddo, ma era attratto dalle dinamiche fisico-chimiche che innescano le perturbazioni, le ondate di gelo o siccità. Era una specie di metereologo mancato. Si struggeva davanti all'ipotesi che l'aria siberiana potesse in poche ore raggiungere l'Italia, o lo scirocco invadere la pianura padana scaldando anzitempo atmosfere e intenzioni. Per lui era come leggere una poesia di Montale o Carducci. In parte si spiegava questa sua passione col fatto che fosse un segno di aria: apparteneva al segno dei Gemelli e, per quanto razionale potesse essere, era convinto che in qualche modo l'astrologia potesse segnare il cammino dell'uomo. E influenzare le passioni e il modo di pensare. Se uno, quindi, nasceva Gemelli non poteva non amare l'aria, il vento, le correnti cicloniche e anticicloniche. Quando ancora leggeva il giornale tutti i giorni dedicava sempre un certo tempo ad esaminare con attenzione le isobare, le temperature medie, l'ora di levata e tramonto del sole. Era affascinato da tutte queste cose. Era. Perché ormai anche questa attitudine s'era affievolita. Era troppo stanco e non leggeva più il giornale da tempo. Nemmeno il vento più forte e misterioso o l'isobara più curvilinea lo rincuorava. Se proprio doveva dire cosa lo facesse in qualche modo stare bene, si riferiva ai tempi andati. A prima di conoscere l'amata moglie e mettere al mondo le sue due creature. I bei tempi andati. A come il tempo, in fondo, era trascorso in un battibaleno; nonostante le fatiche e le sofferenze del cuore. Ma poi tornava ai suoi soliti insormontabili interrogativi filosofici. «A cosa serve il dolore? Qual è il retroscena evolutivo in grado di spiegare il dolore?». Osservava che molti di quelli che conosceva e che si ponevano simili quesiti trovavano conforto nella religione, super specializzata nel dare risposte a questo tipo di problematiche esistenziali. Ma non lui, che non era mai stato un grande frequentatore di templi e chiese e che ultimamente si era del tutto distaccato da crocefissi e madonne. Riconosceva qualcosa di superiore, ma l'idea che ci fosse un Dio buono e magnanimo pronto a prendersi cura dell'uomo e che ascolta le sue preghiere, gli sembrava un'assurda scemenza. Quanta gente aveva conosciuto che pregava Dio in tutti i modi possibili, per poi trovarsi a patire le pene dell'inferno e perire come tutti gli altri, giustificando la propria sofferenza come una parafrasi della crocefissione. Sull'argomento era vivacemente tornato dopo aver incontrato Steiner, con le sue teorie sul Golgota e la figura di Cristo. Scemenze, erano tutte delle grandi scemenze. «Se c'è un Dio non vive in mezzo agli uomini», filosofeggiava senza tanti giri di parole. Nei momenti più felici ripensava a quando era giovane e viveva con la sua numerosa famiglia in Puglia. Era un bambino. Vivevano in una quarantina di persone in una gigantesca struttura dove calore, amore, e passione troneggiavano incondizionatamente. Era una casa d'altri tempi, un microcosmo perfettamente autosufficiente. Si lavoravano i campi. E tutto ciò che veniva consumato derivava direttamente dal lavoro manuale, giornaliero. «Eravamo poveri, non avevamo niente, ma non sono mai stato così bene come a quei tempi», raccontava ai suoi figli quand'erano piccini. «Avevamo tantissimi animali: le mucche, i conigli, i maiali, e perfino le api. Si faceva un miele davvero speciale che poi vendevamo ai mercatini in città». Col dopoguerra, però, le opportunità offerte dal lavoro agricolo erano calate, cosa che aveva spinto persone come il padre di Ruggero a fare i bagagli e puntare le prue verso nord, per conquistare l'agognato settentrione freddo e cinico, ma pieno di chance per chi aveva voglia di fare. Là sorgevano le fantomatiche fabbriche dove andare a proporsi per un posto al caldo di otto ore, non di più. C'era un paese chiamato Sesto San Giovanni che pareva la terra promessa. Sembrava un'idea meravigliosa. Il padre di Ruggero era partito con un entusiasmo che aveva contagiato l'intera famiglia, e con l'intenzione di tornare da signore al paese natio. Aveva ancora i genitori che l'avevano salutato come una matricola che parte per il fronte e non si sa se rivedrà mai la luce del proprio borgo. Era un uomo tuttofare, disposto anche ai lavori più umili e pesanti pur di regalare una dignità alla propria famiglia. Ed era una persona sempre gioiosa e speranzosa, il contrario di quella che sarebbe diventata suo figlio. Al nord, prima a Milano, poi in Brianza, Ruggero, s'era, dunque, fatto uomo, frequentando le ultime classi delle medie e in seguito prestandosi come apprendista in una cartiera di Muggiò. Gli andava bene perché guadagnava, ma il lavoro non era granché, al punto che aveva provato a rimpiangere le ore passate in campagna da bambino, anche sotto la pioggia o il vento che sferzava dallo Ionio. Passava quasi tutto il tempo a tagliuzzare cellulosa e a impiastrarsi le mani di un liquido colloso e puzzolente. Molti colleghi erano maldisposti nei suoi confronti. Un giorno che s'era vestito con un paio di pantaloni marroni e una giacchettina giallognola, un tal Brambilla non c'aveva messo molto a prenderlo spudoratamente per i fondelli: «Di giallo e marrone si veste solo il terrone». Dopo pochi mesi, però, aveva completamente cambiato mestiere impiegandosi nella Croce Rossa di Vimercate e infine divenendo il bidello della scuola elementare di Agrate Brianza. Non avrebbe mai immaginato di poter fare, un giorno, il bidello, ma contro ogni previsione s'era rivelato proprio il lavoro che faceva per lui. Seguiva il suo tran tran e non doveva rendere conto (quasi) a nessuno. Aveva le sue classi da curare e tenere pulite e buona parte del pomeriggio a disposizione per farsi gli affari suoi, tipo andare a pesca o soddisfare qualche paturnia della moglie. A scuola gli volevano tutti bene, era d'altronde sempre cordiale e disponibile. Con i ragazzi e con le maestre, non faceva distinzione: per lui erano tutte persone adulte e mature, persone a cui portare rispetto. Ci mancava che desse del lei anche ai bimbi di quinta elementare. Se c'era bisogno di qualcosa, tutti andavano a chiedere a Ruggero. Anche la preside. Pioveva? Dov'era Ruggero? C'era troppo caldo? Ruggero? Fa troppo freddo? Ruggero? Non importa se la scuola era piena di bidelli che potessero assolvere le sue stesse mansioni: c'era in Ruggero qualcosa di più, qualcosa di amorevole e famigliare tale per cui era sempre il custode più richiesto e benvoluto. Qualche ragazzino approfittava della sua tolleranza e lo prendeva in giro facendogli scherzi anche cattivi come tiragli addosso i bussolotti o i gessetti della lavagna ridotti a moccini di mezzo centimetro. Ma lui non ci faceva caso, nemmeno se ne rendeva conto. Per lui erano solo ragazzi, comprensibilmente bramosi di vita, scalmanati, desiderosi di divertirsi. Durante i primi anni di attività aveva incontrato Carmelina: s'erano visti per la prima volta davanti al Duomo di Monza e non si erano più mollati; entrambi a spasso per via di una gita organizzata dalla leva dei rispettivi paesi. Lei abitava a Rovello Porro, un budello del varesotto, con un fratello alcolizzato e una mamma che li aveva abbandonati da piccoli per riprenderseli ormai maggiorenni, quando probabilmente non aveva più nessuno a cui far riferimento. Una condizione famigliare piuttosto complicata che non aveva tardato a lasciarsi alle spalle, per andare a vivere con Ruggero nel supercondominio omatese. Erano stati fra i primi a prendere possesso di un appartamento del palazzone. Avevano scelto di comune accordo di andare ad abitare al quarto piano. Desideravano il terzo, ma essendo già tutto occupato, non s'erano certo dannati di poter rimirare la landa prospiciente due metri più in alto. L'importante era non abitare al primo, che attirava l'immondizia di tutti quelli che stanno di sopra ed era una specie di invito a banchettare per i topi di appartamento. Uno dopo l'altro erano poi nati i due figli della coppia, come un copione già scritto. Il primo, Marco, quello più taciturno e con l'aria sempre malinconica, simile al padre; il secondo, Giannantonio, quello più casinaro, che assomigliava alla madre e al nonno paterno. I primi anni a Omate erano stati belli, spensierati, goderecci. Vivevano pacificamente, senza patemi, ansie, non gli mancava niente, anche se c'era il mutuo da pagare, un conto che avrebbero risolto nel giro di circa quindici anni. Ma era la norma. Come si soleva dire (e ancor oggi si suol dire), mal comune mezzo gaudio; su per giù tutti quelli del supercondominio s'erano accollati una spesa simile per poter avere una casa propria. Per poter ambire a una proprietà personale, concetto in voga non da molti decenni, figlio del boom economico che aveva permesso a un numero sempre più alto di famiglie di abbracciare il paradigma del benessere. In una bassissima percentuale avevano potuto acquistare al volo il proprio nido; erano quasi tutte giovani coppie che non avevano sicuramente da parte chissà quali risparmi, ma che la continuità lavorativa e l'idea della pensione avevano dato loro un grande sostegno se non altro di natura psicologica. Dopo la scomparsa di moglie e figlio, e la partenza per Ancona di Giannantonio, Ruggero de Santis aveva avuto ben poche altre gioie. Una sola, per la verità: quella legata agli incontri settimanali con la signora Tresoldi del terzo piano, la madre di Marina. Provava del sentimento per quella signora, anche se non le aveva mai praticamente parlato; forse l'unica del palazzone, con la quale sentiva di potersi aprire, come raramente gli era capitato di supporre una volta rimasto solo. Erano i suoi occhi, la sua aria bonaria e al contempo un po' svampita a rinverdire le sue intenzioni. C'era, però, bisogno di un buon pretesto per attaccare bottone. S'era, dunque, messo ad aspettarla di nascosto in cantina, spiando il suo sopraggiungere da una piccola fessura; conosceva bene o male i suoi spostamenti e sapeva che poteva anticiparla per affiancarla in ascensore tutte le volte che rientrava dal panettiere, verso mezzogiorno, così da cogliere l'occasione per accendere qualche discorso. Prima erano stati solo dei timidi e cordiali “come sta?” e “come va?”, ma poi la signora Tresoldi, accortesi delle dolci e premurose attenzioni del vedovo, e percependo il compassionevole senso di trasporto nei suoi confronti, aveva provato a invitarlo per un tè. Da quel momento Ruggero era montato in groppa a un'astronave pronta per raggiungere la luna. Non si sentiva così pimpante da decenni. Ruggero s'era presentato in casa Tresoldi con un completo grigio, i capelli pieni di brillantina e una scatola di cioccolatini. Gli sembrava un sogno; provare qualcosa per qualcuno che non fosse un suo familiare non gli pareva possibile. Era come il primo incontro intimo della sua vita, benché di intimo non ci fosse nulla e benché nessuno dei due auspicasse a una simile evenienza, tanto scandalosa, quanto impensabile e decisamente fuori luogo. Non era solo il suo bene, ma anche quello della signora Tresoldi: pensava che tutti gli uomini avessero bisogno di essere amati, anche in tarda età e specialmente quando la solitudine diviene un mostro impossibile da placare; era solito ripetersi il monito di Thomas Merton, di cui aveva letto sempre sul Corsera, riferendosi alla sua morte assurda, per una scintilla scaturita da un ventilatore difettoso: diceva che “nessun un uomo è un'isola” e aveva ragione. Nessuno può vivere solo per sé e senza ricevere amore. Aveva anche pensato che la signora Tresoldi potesse provare per lui un sentimento vicino alla pena; in ogni caso era un sentimento assolutamente degno di essere corrisposto, assecondato e, perché no, lodato. Andava bene così. Alla prima visita Ruggero sudavano le mani, e non era stato molto loquace. Aveva mugugnato qualcosa sui vicini, sulla madonnina della corte del Forno, ma aveva soprattutto lasciato che fosse la sua interlocutrice a farsi avanti, a indovinare i suoi sogni infranti. Era una donna molto gentile, ora lo poteva dire con certezza. Lo sentiva fin dentro le ossa. Per certi aspetti le ricordava la sua amata moglie, anche se a livello fisico non aveva niente di lei. Era una donna molto religiosa, cosa che lui, come è noto, condivideva fino a un certo punto. Nelle intenzioni della signora Tresoldi c'era, dunque, far comprendere al vicino di casa il valore della fede, della compassione divina, del progetto divino che vuole tutti figli e protagonisti di un'unica luce eterna. Sentiva di doverlo catechizzare. Ma di fronte a simili argomenti scanditi con tanta enfasi, Ruggero si opponeva con un sorriso sardonico, tipico di chi intende pur subdolamente mostrare di avere già approfondito un dato argomento e di non avere, quindi, più nulla da dire a riguardo, perché semplicemente non c'è più nulla da dire; perché quando la vita ti riserva dei dolori impossibili da gestire, non c'è santo o benedizione che possa giustificare lo sbocciare di un nuovo fiore. Ma la lasciava fare, godendo sempre e in ogni caso del suo canticchiare dolce e persuasivo. «La nostra fortuna si chiama Gesù. Lui ha patito le pene dell'inferno, ma poi è risorto a nuova vita. Anche noi risorgeremo a nuova vita, vedrà, caro de Santis, vedrà...». Con un atteggiamento del genere avrebbe anche potuto sentirsi dire che era un coglione, il più grande coglione di questa terra, e non si sarebbe accorto di niente. Poteva solo esserle grato. Dopo il primo incontro le cose erano andate meglio. Ruggero s'era reso più sciolto e disinvolto. Non trattavano più solo temi amari, tristi e angosciosi, ma anche argomenti divertenti e leggeri. Per esempio, un pomeriggio, s'erano messi a discutere di una puntata della Corrida di Corrado, che seguivano entrambi da anni, dai rispettivi appartamenti. Il soggetto in esame era un tale in grado di fischiare in una ventina di modi diversi: con le mani, con le dita, senza dita, con i denti in fuori... La sua abilità andava di pari passo con la ridicolaggine suscitata dalle facce che faceva per soffiare aria attraverso la bocca. In una sembrava che imitasse un babbuino, in un'altra un destriero ubriaco, in un'altra ancora un cammello con qualche assurda protesi boccale. Ricordandola s'erano messi a ridere come accade solo fra chi s'è instaurato un affiatamento raro e puro. Ruggero de Santis aveva più volte supposto che la Tresoldi sarebbe potuta essere la donna giusta per lui; se solo l'avesse incontrata in un altro momento... peraltro la riteneva inadatta al marito con cui si accompagnava, rigido, quadrato, privo di ogni estemporaneità, alle prese con dogmi religiosi vetusti e i soliti quattro antipaticissimi amici altrettanto stereotipati del bar dell'oratorio, manco fosse una sotto-congrega di templari. Erano andati avanti a vedersi per un paio di anni, raggiungendo una grande confidenza e solidarietà. Avevano perfino battibeccato in un paio di occasioni, confermando – come accade nella maggior parte delle coppie – un rapporto più che rodato. Poi, però, di punto in bianco, senza una valida motivazione, Ruggero aveva iniziato a bigiare gli appuntamenti con la Tresoldi, incapace di dare una spiegazione al suo nuovo incomprensibile atteggiamento. La Tresoldi all'inizio non ci aveva fatto caso, ma dopo l'ennesima bidonata dell'amico, s'era allarmata; magari l'aveva ferito senza accorgersene. Poi, un giorno, incontrandosi per puro caso in ascensore – e non come le altre volte per un preciso disegno progettuale di Ruggero - aveva capito che il vecchio compagno di merende, se così si poteva chiamare, non era più lui: era come se si fosse spento definitivamente, con più nulla che potesse davvero allietarlo, tantomeno un pomeriggio con la sua confidente per eccellenza. Era come sefosse volato via, in altro tempo, in un'altra dimensione. Lui era stato vago, non sapeva nemmeno lui cosa dire. «Non so, da un po' non sto tanto bene. Non mi riconosco nemmeno io». «Cosa ti senti Ruggero? Forse è il caso che tu vada a farti visitare da un medico…». Ruggero aveva fatto una mezza smorfia. «I dottori non sono dei santi». «Ma non vieni più a bere il tè da me? Sono settimane che non ti fai vedere... Ho temuto di averti detto qualcosa che non andava...». Ruggero s'era immalinconito ancora di più. «Ma no, figurati, cosa c'entri tu? È che ormai...». «Ormai cosa? Non ti piace più chiacchierare con la tua vicina?». Ruggero aveva tirato un sospiro profondo. «Ormai sono troppo vecchio». E qui che la signora Tresoldi s'era laconicamente resa conto che lei non c'entrava proprio nulla con il cambiamento di Ruggero. La realtà era un'altra. Era come se avesse deciso di punto in bianco di rinunciare alla vita, compreso l'ultimo dileggio che gli era rimasto: spendere con lei settimanalmente qualche parola e in qualche modo affidarsi a una sorta di psicanalista che potesse sradicarlo da un cammino esistenziale impervio e assai poco indulgente. Il punto è che alla fine si era affezionata sinceramente a Ruggero e ora, vederlo così remissivo, gli provocava una sofferenza mal definita, ma cocciuta. Lo aveva, peraltro, trovato invecchiato dall'ultima volta che le aveva fatto visita, come se non fossero passate settimane dal loro ultimo tè, ma anni. Anche il colorito non era più lo stesso di un tempo: pareva cenerognolo, come chi sta patendo qualche severo malanno. «Non sei troppo vecchio Ruggero. Ma chi ti dice queste cose? Sei ancora in gamba, come te non ce ne sono molti». Ruggero aveva taciuto. «Dai, passa settimana prossima... Ho voglia di scambiare con te qualche parola...». «Va bene, va bene, verrò». Due giorni dopo l'incontro avuto in ascensore, scoppiava il reattore di Chernobyl. Ruggero come al solito era stato leggero, e all'ora del telegiornale aveva già finito di mangiare e di sistemare la cucina. S'era fatto un brodino senza tante pretese, con un dado che non sapeva bene da quanti giorni aveva nel frigo. Non guardava più le scadenze da quando era rimasto vedovo, ritenendo un cibo nutriente e innocuo finché il suo sapore non diveniva disgustoso. Non aveva tutti i torti, anche perché più volte aveva sentito dire che le date di scadenza erano ben poco attendibili, esibite più per facilitare il commercio di un prodotto che non per salvaguardare la salute delle persone. Ormai aveva una certa età, e non ci cascava più: giudicava il commercio e la medicina pilastri delle fandonie, macchine da guerra intenzionate solo a far soldi a discapito di ignari e stolti. Di secondo aveva mandato giù un paio di fette di prosciutto cotto. C'era parecchio grasso, non per caso: quando gli chiedevano che prosciutto volesse, rispondeva sempre quello che costava meno. Non aveva problemi economici, prendeva una bella pensione, ma al risparmio era abituato; per educazione, etica, puntava sempre a ciò che costava meno. Bastava poco, del resto, a dargli la sensazione di pienezza, comprese pietanze per nulla prelibate. Anche la frutta era un'optional in casa de Santis. Poteva stare settimane senza mangiare un frutto, ancora una volta in barba alle raccomandazioni dei medici che consigliavano vivamente il loro consumo giornaliero, per la gran quantità di vitamine e antiossidanti presenti. Dopo la frugale cena era per un attimo uscito sul balcone, dove fino a qualche anno prima amava rilassarsi fumando una sigaretta e soffermarsi sul via vai delle persone: gli piaceva fotografare l'andirivieni della gente, sopraffatto da un sentimento di amore universale, un magico momento in cui gli sembrava che tutti gli esseri umani si amassero e si volessero bene, senza rancori e prepotenze. Niente a che vedere con le ipotesi di Sartre. Il balcone era spoglio e misero. Da anni non coltivava più campanule e gerani, da anni non era profumato dagli aromi dei vasi di salvia e rosmarino; essenze che voleva la moglie, per insaporire i piatti, secondo le ricette imparate da bambina. Quella sera, però, la sera dell'emergenza nucleare di Chernobyl, dalla sua posizione di controllo sembrava che il mondo si fosse fermato: non aveva visto anima viva aggirarsi ai piedi del palazzone omatese, e ancora una volta era stato sopraffatto da un'acuta malinconia. Era rientrato in casa dopo una decina di minuti, sollecitato da un brivido di freddo; si era alzato un vento improvviso, anche se le foglie degli alberi parevano assolutamente immobili, come in un film di fantascienza. Sul divano aveva acceso la tv, con il solito fare passivo e rassegnato. Quello che compiva per sintonizzarsi sul telegiornale di Rai Uno era un movimento meccanico, quasi robotico; dopo dieci minuti di news era con il pensiero già da tutt'altra parte, sconvolto da un senso di solitudine opprimente e da uno strano formicolio al braccio. Per un istante aveva pensato alla signora Tresoldi e all'ultimo incontro avuto in ascensore; aveva riflettuto sulla promessa fatta che, sapeva bene, non avrebbe mantenuto. Non si trattava di volere o non volere compiere un'azione che fino a qualche settimana prima era assoluta routine; era un problema anche di natura metabolico: ogni cosa da fare gli pareva di una fatica insormontabile. Gli pesava tutto. In certi momenti gli pareva che anche il respiro potesse essergli di peso. Ma come si faceva a vivere senza respirare? Lo speaker blaterava di mondi e pericoli a lui totalmente estranei. L'Ucraina era un'idea di geografia che non comprendeva; a scuola non ne aveva mai sentito parlare, e sui libri o i giornali l'aveva incontrata di rado. Peraltro era un tipo che aveva viaggiato pochissimo. Aveva visto solo la Svizzera e la Francia. Si può quasi dire, quindi, che non sapesse nemmeno cosa fosse l'Ucraina. Così come l'energia nucleare. Per lui energia era la luce che illuminava la stanza in cui dormiva o il neon dei sotterranei delle scuole dove aveva lavorato per anni. Quella era l'energia luminosa, gli bastava, cosa si nascondesse dietro all'energia non era affar suo; teoremi appannaggio di altre generazioni, delle nuove generazioni. Il telecronista s'era messo poi a parlare di una fantomatica nube radioattiva diretta verso l'Italia. C'era la seria possibilità che potesse contaminare le falde acquifere, i campi e avvelenare boschi e radure. Ma ormai Ruggero era altrove, con un sorriso che da tempo non gli apparteneva.

venerdì 23 marzo 2012

a bouquet of flowers


a type
with camera
trying postcards
to be sent to the beloved
but not finding anything
was content
a bouquet of flowers
found along the river
a bouquet of wildflowers
such as its identity

giovedì 22 marzo 2012

Sotto i cieli berlinesi


Io vivo a Berlino
Sono fradicio
Penso banane
E artigli s'infliggono
Pacifici sentimenti
A Berlino
Io vivo a Berlino
Io vivo in Germania
E sono un nazionale
Ho la testa pelata
Ho il cranio pieno di stronzate
E suono la divisa dei pompieri
Vieni a trovarmi quando vuoi
Ho una farmacia e spaccio matite
Non mi fare domande inutili
Vivo a Berlino
Mica a Berlino
Vivo con una ragazza di Berlino
Con le occhiaie
E il viso da angelo
Ogni tanto mi suona qualcosa
Con il mitra
Mi suona la balalaika
Che ha ereditato da sua nonna
Russa come me
Artigli che s'infliggono
Bovidi stanchi di marciare sul catrame
A Berlino
Sotto i cieli berlinesi
Dove piove smalto per le unghie
Dove ho visto tuo padre
Mangiare locuste vive
Per sfamare la sua anima da mentecatto
Sai chi vive a Berlino?
Io vivo a Berlino
Con un figlio di cane
Con il figlio di cane di tuo padre
E provo a bere assenzio
E provo a bere assenzio
Con Bertolt Brecht
Io vado a vivere a Berlino
Con tua madre

«Le strade diventino una festa dell'arte per tutti»

Il decreto Per la democratizzazione delle arti, pubblicato da Majakovskij, Burljuk e Kamenskij nell'URSS nel 1918, auspicava: «Le strade diventino una festa dell'arte per tutti», appartiene alle radici della street art mondiale... 

lunedì 19 marzo 2012

Come Emmanuel Guibert

Disegnare così... come Emmanuel Guibert


Emmanuel Guibert has written a great many graphic novels for readers young and old, among them the Sardine in Outer Space series and The Professor’s Daughter with Joann Sfar. In 1994, a chance encounter with an American World War II veteran named Alan Cope marked the beginning of a deep friendship and the birth of a great biographical epic.Another of Guibert's recent works is The Photographer. Showered with awards, translated around the world and soon to come from First Second books, it relates a Doctors Without Borders mission in 1980’s Afghanistan through the eyes of a great reporter, the late Didier Lefèvre. Guibert lives in Paris with his wife and daughter.

venerdì 16 marzo 2012

American Book Company


... quelle erano sere, e ce n'erano state centinaia, forse migliaia, in cui nulla di così traumatico da lasciare il segno era accaduto al nucleo famigliare. Sere di semplice intimità alla vaniglia sulla poltrona di pelle nera; dolci sere di dubbio fra notti di squallida certezza. Gli venivano in mente adesso, quei controesempi dimenticati, perché alla fine, quando si stava cadendo in acqua, l'unica cosa solida a cui aggrapparsi erano i figli... 

domenica 11 marzo 2012

Affari condominiali: quarto piano, appartamento A


Antonello Grasso, vent'anni, per tutti semplicemente Nino. Era uno dei più screanzati fenomeni degli anni Ottanta omatesi. Alto, magro, con i nervi che parevano uscirgli anche dalla bocca e dagli occhi, la bionda coda dei capelli, raccolta come quella di un levriero, sapeva a malapena leggere e scrivere. Era cresciuto in una famiglia a dir poco disastrata, che abitava l'appartamento A, quarto piano, del palazzone omatese, sporco e immondo come poteva esserlo solo quello dei Vismara del primo piano. Viveva con la mamma, la sorellastra, Anita, il piccolo Mauro. La madre era una poco di buono che in gioventù si accompagnava ai primi che le capitavano per strada, finendo a letto con sconosciuti con una frequenza a dir poco esagerata e, dunque, rimanendo incinta senza sapere chi fosse di volta in volta il padre del nuovo nascituro. Altri due figli erano stati affidati dai servizi sociali a una famiglia adottiva, e un paio le erano mancati in tenerissima età per malattie del tutto banali. Sicché il destino di Antonello era un po' lo stesso che contraddistingueva Maurizio Meroni, del secondo piano, che, però, poteva contare su un imprinting affettivo ed educativo decisamente più consistente. Anche lui non aveva mai conosciuto il padre e non avrebbe avuto modo di sapere chi fosse: probabilmente non se lo immaginava nemmeno la madre. Antonello era da sempre stato abbandonato a se stesso, già a quattro anni girovagava per il paese con una bici malandata, le forcelle traballanti, alcuni raggi delle ruote trasformati in pericolosi uncini; sfilava, noncurante delle macchine che passavano, davanti agli occhi allibiti dei paesani, che non si capacitavano del fatto che ci fosse qualcuno che potesse mandare a spasso da solo un bimbo così piccolo. Il rendimento scolastico era stato tragico fin dall'inizio. I primi tentativi di lettura e scrittura li aveva consolidati solo in terza elementare, quando, ormai, tutti i suoi coetanei potevano dirsi gran maestri. Non si sa come, quindi, fosse riuscito ad arrivare alla fine delle medie, anche se aveva già compiuto sedici anni. Dopo la scuola era finito in un cantiere edile a lavorare come apprendista muratore. Non era stata una vita facile. A causa della sua giovane età, veniva obbligato ad assolvere tutti i compiti più umili e pesanti e alla fine rincasava devastato dalla stanchezza, con le mani rugose di un vecchio, ma anche con una rabbia che giorno dopo giorno si accumulava sempre più e prometteva di materializzarsi nell'ennesima bravata. Era la stessa rabbia e lo stesso disagio sociale che contraddistingueva anche i suoi comprimari, le uniche persone con le quali riusciva in qualche modo a sentirsi a suo agio: Flavio Galbiati e Roberto Musci. I tre rappresentavano la feccia di Omate e, verosimilmente, dell'intero vimercatese. Li conoscevano tutti per la loro aria da sbruffoni e per il timore che incutevano non solo alle nuove generazioni: potevano anche prendersela con uomini ben più grandi di loro, forti di una cattiveria che li portava a menare come degli ossessi, quasi indifferenti al dolore fisico. Recentemente avevano spaccato una bottiglia in testa a un pensionato che bazzicava al centro Aldo Moro di Agrate, e che aveva avuto l'insana idea di ridere della coda capelluta di Antonello:
«Sembri una donna», gli aveva detto, del tutto inconsapevole del rischio che stesse correndo.
Antonello s'era tuffato oltre il bancone del bar, impugnando una bottiglia di vetro, e blaterando al cameriere attonito di non spaventarsi se avesse visto un po' di sangue. Poi era corso dietro al vecchietto e l'aveva ammonito dicendogli che la prossima volta avrebbe dovuto farsi gli affari propri. L'uomo s'era abbandonato a una fragorosa risata, mentre il ragazzo gli frantumava sulla fronte l'oggetto vetroso. Una cascata di sangue aveva inondato il pavimento del bar, mentre la vittima crollava su se stessa e sotto i calci infuriati di Roberto Musci, che incurante dell'emorragia in corso e della già evidente sofferenza del malcapitato, godeva come una scimmia con un casco di banane fra le mani, all'idea di frantumare le costole del poveraccio. Non era servito a molto l'intervento delle forze dell'ordine, che, in buona sostanza, erano mezzi complici di Antonello e della sua banda; più che complici, si può dire che anch'essi, in qualche modo, temessero la furia del trio e preferissero, quindi, non infierire più di tanto sulla loro condotta (finché non ci scappava il morto... tutto era passabile); una strizzata d'occhio e la farsa dell'ammanettamento avevano messo tutti a tacere nel breve volgere di un quarto d'ora, mentre il disgraziato di turno raggiungeva a sirene spiegate il nosocomio di Vimercate.
Sicché, l'ultima smargiassata in ordine di tempo, i tre dell'Ave Maria l'avevano tenuta in serbo proprio per la sera di Chernobyl, in concomitanza con la notizia del disastro nucleare diffusa da tutti i telegiornali. Non sapevano alcunché della catastrofe ucraina, e non ne avrebbero saputo neanche nei giorni a venire - non gliene fregava niente, come non gliene fregava niente di tutto ciò che accadeva al di là delle loro scorribande – e se anche l'avessero saputo, l'avrebbero dimenticato nel giro di qualche minuto. Da ciò si intuisce quanto fosse piatta e povera la loro esistenza. Non c'era argomento sul quale amassero soffermarsi. Il punto è che non avevano argomenti. Le parole, i verbi, qualunque tipo di riflessione, sfuggiva alla loro quotidianità. Il loro QI poteva anche essere sufficientemente adeguato alla media nazionale, ma le faccende del mondo parevano non essere di loro competenza, qualunque cosa fossero. Al massimo potevano disquisire su qualche bella ragazza, soffermandosi pesantemente su affascinanti anatomie e ipotetici scenari erotici, aventi come protagonisti i loro stessi attributi. L'unica cosa di cui erano veri specialisti era la bestemmia. Sostituiva perfettamente qualunque concetto volessero esprimere. Con un bel porco D risolvevano ogni tentennamento. Non si fermavano davanti a nulla, tantomeno alle sacre scritture. Un giorno Antonello aveva letto su un foglietto inspiegabilmente finito su un tavolo del Ragno Verde, riportante il passo del Levitino che dice “chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare”. Era scoppiato a ridere, sfoderando una raffica di bestemmie, a dimostrare che, davvero, non ci fosse niente di più divertente che prendersi gioco della religiosità locale. Anche la famiglia di Antonello era poco interessata alle vicissitudini del mondo, tuttavia la mamma, la sorellastra e il fratellino di Antonello per l'ora di cena, erano sintonizzati proprio su Rai Uno, mentre lo speaker comunicava del disastro. In realtà seguivano con totale passività l'escalation sensazionalistica del notiziario, come se stessero raccontando di una crema per spianare le rughe. In fondo, alla famiglia Grasso non sarebbe importato di nulla, sennonché dell'ipotesi di poter vincere un bel gruzzolo di soldi canticchiando per qualche minuto un brano di un giovanissimo che si stava facendo strada nel mondo della canzone italiano, un tal Eros Ramazzotti.
La notte del patatrac di Chernobyl Antonello e i suoi due compari, tanto per cambiare, erano in giro per il paese a seminare zizzania; un bel po' alticci, dopo essersi riforniti di alcol al bar Passoni di Agrate, suscitando le ire del proprietario stanco di dargli credito. Lasciato il locale, s'erano incamminati verso via Ferrario, dove avrebbero dovuto incontrare Johnny Canela, un tipo strano, col quale s'erano messi in affare da qualche mese, spacciando quantità più o meno considerevoli di hashish e marijuana. Raggiunto il punto di incontro, davanti al vecchio ciclista, nella piazzetta Santa Maria, avevano preso a calci la cabina del telefono, vedendo che di Johnny non c'era traccia.
«Dove è finito quel figlio di puttana?», s'era messo a urlare Roberto, obbligando la Severina Brambilla della finestra di fronte ad abbassare anzitempo le tapparelle.
Saziatesi con una nuova raffica di bestemmie, avevano puntato la loro attenzione a una Fiat Ritmo parcheggiata col motore acceso poco più avanti, di fronte all'ingresso del fruttivendolo di Cira Amalfi. Al suo interno c'era Calogero Bellavia, un ventenne da poco inscrittosi alla facoltà di lettere antiche a Milano, elegantemente abbigliato con una giacchetta blu, la camicia bianca, un paio di jeans lindi e stirati e le mocassino della Timberland, acquistate da poco più di una settimana in un negozio dalle parti di Busnago, il cui proprietario era un amico di famiglia. I tre guappi avevano circondato l'automobile e s'erano messi a fissare con aria spiritata il giovanotto col chiaro intento di spaventarlo. Calogero conosceva di fama i tre disgraziati e aveva saputo di non trovarsi in una bella situazione, ma essendo in centro paese, s'era in qualche modo autoconvinto, rasserenandosi, che non avrebbe corso chissà quali pericoli. Quando Flavio, però, aveva tirato un violento pugno sul cofano s'era preso un colpo: il suo cuore aveva cominciato a sbatacchiare all'impazzata, mentre due dita della mano sinistra si incrociavano, sollecitando Dio o chi per esso a prendersi cura di lui. Ma gli spiriti, probabilmente, in quel frangente, avevano ben altro a cui pensare.
«Apri!», gli aveva intimato Antonello.
«Come?», aveva ribattuto Calogero, fingendosi su un altro pianeta.
«Apri, porco...».
Calogero era rabbrividito. Che cosa volevano da lui? Perché non lo lasciavano in pace? Aveva sentito dire in giro che quei tre erano capaci di tutto, compreso accanirsi contro qualcuno con un cricket in mano. Si diceva, infatti, che avessero aperto il cranio di un giovane, con il cricket. Con il cricket! Cose che sfuggivano al suo raziocinio, ma che ora gli facevano una dannata paura. E se avessero aperto anche il suo cranio? Le sue povere meningi... Il panico era dietro l'angolo.
«Apri Dio c...», aveva gridato come un pazzo Roberto Musci, con gli occhi iniettati di sangue.
Calogero aveva tirato giù il finestrino credendo, per un attimo, che potesse essere sufficiente a sedare la rabbia dei tre.
«Ti ho detto di aprire questa cazzo di porta!», gli aveva intimato Antonello, con fare ancora più aggressivo.
Calogero aveva tirato la leva della portiera, divaricando lo sportello e consentendo ad Antonello di insinuarsi fra la porta e il posto del guidatore; quest'ultimo aveva, quindi, afferrato per il bavero della giacca la vittima, scaraventandolo giù dal mezzo come un sacco di letame.
«Adesso guido io».
Calogero era passato nelle mani di Roberto, che lo aveva rialzato da terra, per poi obbligarlo a sedersi dietro, tallonato a vista da Flavio che per presentarsi gli aveva tirato uno sberlone sul coppino. Calogero era basito e angosciato. Non riusciva a capacitarsi di quello che stava avvenendo, si guardava intorno, sperando di intravedere qualche volto amico che potesse lanciare l'allarme. Ma nei paraggi tutto sembrava morto e deserto: proprio come il suo animo. Solo al semaforo di fronte alla STAR era riuscito a esprimere un mezzo verso per tentare di venire a capo dell'impasse.
«Sto aspettando la mia ragazza, vi prego...».
«Vi prego? Stai zitto merda», aveva detto Flavio.
Non aveva capito che ogni sua supplica sarebbe stata vana.
«Stai zitto, porco D...», aveva rincarato la dose Roberto, contorcendosi su se stesso per tirargli un altro ceffone. «Stai zitto, hai capito? Se apri ancora la bocca ti sfondo il muso».
Calogero tremava, mentre Antonello imboccava la via Lecco a tutta velocità, a quell'ora silenziosa come una radura sperduta delle pampa sudamericane. Stretto dal suo aguzzino aveva cominciato a sudare freddo, prima di ritrovare il coraggio di riformulare qualche parola:
«Portatemi a casa. Mi aspetta la mia tipa».
«La mia chi?». E via un altro ceffone sulla nuca. «La tua chi?», aveva insistito Flavio con un accanimento maniacale.
Arrivati a Vimercate, Antonello aveva curvato per raggiungere il centro, sorvolando come un missile su piazza Marconi. Il Termine li guardava con la sua aria sorniona, mentre dalla cima del suo terrazzo, una coppia di fidanzatini fumacchiava nascosta dai rispettivi genitori, dabbasso alle prese con il dessert. Erano le otto e mezza di sera e l'aria sapeva di estate, anche se mancavano ancora parecchi giorni alla bella stagione. Venere brillava sopra l'orizzonte, benedicendo il passaggio dell'ennesimo pullman mezzo vuoto che riguadagnava i filari della rimessa.
«Andiamo dal Riccio?», aveva blaterato Flavio, stordito da una canna che aveva, praticamente, divorato in cinque minuti, rischiando più volte di ustionare la cavia che stringeva al suo fianco.
Il Riccio era un locale che sorgeva in via Cavour, una delle contrade più antiche della città, nel cuore di Vimercate. Era riconoscibile dall'esterno per via di un'insegna luminosa che inondava mezza strada, e da una serie di vasi di fiori rinsecchiti. Ci andavano i poco di buono del circondario, in qualche modo assecondati dal proprietario, un napoletano con trascorsi nel campo della malavita campana, quand'era ancora un pischello alle prime armi desideroso di trasformarsi in un boss da servire e riverire. Le voci che circolavano intorno al locale erano piuttosto brutte. Si diceva che lo spaccio regnasse sovrano, ma non solo. Il riferimento era anche al gioco d'azzardo, al traffico d'armi e alla prostituzione. Ce n'era di tutti i colori e non passava mese senza che qualche ceffo del Riccio finisse fra le mani delle forze dell'ordine, dopo mesi di tallonamenti silenziosi. Era una routine di cui la cronaca locale non poteva che andare a nozze, tenuto conto del fatto che, nel vimercatese, le notizie bomba erano frequenti tanto quanto l'impatto di un asteroide con la Terra. All'interno era confusionario, disordinato, e sporco. Per terra potevano trovarsi le cicche delle sigarette, come le carte del gelato, o qualche avanzo di cibo. Non c'erano ancora dei controlli rigidi, tali per cui alcuni bar potessero non essere ritenuti idonei ad ospitare una propria clientela. Sicché, dal Riccio, la possibilità di beccarsi qualche epatite non era affatto scongiurabile. Personaggi come Antonello e i suoi amici erano i perfetti frequentatori del locale, dove trovavano tutto ciò di cui avevano bisogno e potevano sentirsi a casa loro, più che in ogni altra parte del mondo, comprese le proprie quattro mura.
Il Riccio era un uomo burbero e possente, che difficilmente dava confidenza; perfino i suoi più fedeli clienti non erano immuni da questa sua attitudine. Gestiva il locale da lontano, lasciando alla moglie Patrizia e alla figlia Carmela l'amministrazione del bancone. Lui si può dire che regnasse dall'alto, senza scendere a patti con i comuni mortali; ma fotografava ogni cosa: il Riccio vedeva tutti, senza essere visto da nessuno. Conosceva benissimo i tre scalmanati omatesi, benché non avesse praticamente mai scambiato con loro mezza parola. Li trovava, però, in qualche modo simpatici, per quanto la simpatia potesse essere un concetto ascrivibile alle sue corde sentimentali, ed era lieto di averli nel suo locale: dei delinquenti come lui, fatti della sua stessa pasta. Non escludeva un giorno di poterli assoldare per qualche sporco affare. La sera dell'esplosione di Chernobyl erano arrivati con un giovanotto col volto stravolto, con l'aria di voler essere da tutt'altra parte; e invece era lì, rapito da un'agonia inimmaginata, fra i tre più loschi ragazzi del vimercatese, in attesa di chissà quale sacrificio.
«Ciao Carmela», aveva blaterato Flavio, accomodandosi a uno dei tavoli del locale, seguito da Antonello e Roberto.
«Ciao belli. Siete in compagnia?».
«Abbiamo un ospite di riguardo... Si chiama Calogero. Calloggero, sembra sfigato, ma è un duro Calloggero».
«Dalla faccia non mi sembra tanto un duro...».
Erano scoppiati a ridere in coro, umiliando la povera vittima, sempre più persa in se stessa.
«Allora per festeggiare Calloggero oggi berremo il miglior vino della casa».
«Siete sicuri di avere i soldi?».
«Certo che li abbiamo: ce li ha Calloggero», aveva mugugnato Roberto. «Non è vero Calloggero?».
Calogero era sbiancato. Essendo un universitario sapeva la fatica che occorreva per racimolare qualche quattrino e ora l'idea di dover far fuori tutti i suoi risparmi per questa banda di scalmanati lo inquietava da morire. I tre guappi avevano cominciato a bere con foga, accendendosi e spegnendosi una sigaretta dopo l'altra.
«Bevi merda», aveva detto Flavio a Calogero, riempendogli il bicchiere fino all'orlo.
«No grazie, sono astemio», aveva detto il ragazzo con un filo di voce.
«Bevi merda, sennò ti uccido».
«Vi prego, lasciatemi in pace».
Calogero stava per avere una crisi di nervi. Gli veniva da piangere. Sentiva un groppo in gola come non gli succedeva dal primo giorno di scuola, alle elementari. Per un attimo aveva pensato alla fuga, ma si rendeva conto con tre dobermann alle calcagna non sarebbe andato tanto lontano.
«Hai sentito cos'ha detto il mio amico?», aveva domandato Antonello. «Nessuno può rifiutarsi di bere con noi. Se noi ti offriamo da bere, tu devi bere, capito?».
«Bevi merda!», aveva ribadito Roberto.
Calogero, sempre più piegato su se stesso, con un colorito cadaverico, aveva avvicinato il bicchiere alle labbra, mandando giù un piccolo sorso, frenato dalla netta sensazione di avere qualcosa in gola che gli impediva di deglutire comodamente: era l'ansia.
«Bevilo tutto, muoviti, bastardo», aveva rincarato la dose Flavio.
A questo punto Calogero non aveva più retto ed era scoppiato in un pianto liberatorio.
«Vi prego, portatemi a casa», aveva mugugnato.
«Ah, ah, piange la checca», aveva detto Flavio. «Vuoi la mammina?».
«Prima devi finire il tuo vino», aveva detto Roberto.
Calogero s'era fatto coraggio e con un guizzo aveva mandato giù tutto il contenuto del bicchiere. Intorno ad essi scalpitavano dei vecchiardi con le carte in mano, dall'accento meridionale. Il più grosso aveva una lunga cicatrice che gli copriva mezza faccia, incutendo ai consimili un timore reverenziale. Bevevano un alcolico casereccio, qualcosa di contrabbando, sui 40 gradi, probabilmente di origine orientale. Erano tutti piuttosto alticci. C'era un baccano assoluto. Al termine della bottiglia i tre desaparecidos ne avevano ordinata un'altra, obbligando, ancora una volta, il malcapitato a consumare la sua razione. Dopo mezz'ora Calogero aveva sentito i fumi dell'alcol sconvolgergli le meningi. Non era abituato ed era una sensazione che lo faceva stare malissimo: con la testa che girava, anche lo stomaco s'era messo a borbottare stranamente, provocandogli degli inusuali spasmi addominali. Anche i suoi aguzzini erano ormai oltre la soglia del bere moderato, ma evidentemente reggevano il vino con molta più disinvoltura e non si preoccupavano certo di un po' di sbandamenti. Dopo un paio d'ore era giunto il momento di cambiare aria: Antonello aveva preso sottobraccio Calogero sussurrandogli che Carmela lo stava aspettando alla cassa con le gambe aperte.
«Poi, magari, ti fai anche una bella scopata», gli aveva detto dolcemente.
«Non so se ho i soldi, davvero», aveva tartagliato Calogero, disperato davanti a questa calamità. Peraltro la nausea stava per avere il sopravvento.
«Falli saltare fuori in due minuti, sennò ti faccio vedere i sorci amari».
«Ma io studio all'università. Non ho la possibilità di saldare...».
«Ci siamo capiti».
Calogero non aveva avuto la forza di opporsi al comando del vessatore ed era, dunque, finito ai piedi del bancone con la faccia stravolta, per saldare il debito: 20mila lire.
«Ciao bellino», l'aveva salutato Carmela.
Aveva poi ripreso a supplicare i suoi torturatori di lasciarlo andare: era in uno stato a dir poco pietoso, lui, per natura, così precisino, sembrava che gli fossero passati sopra cinque camion della nettezza urbana. Gli si contorceva lo stomaco e non avrebbe voluto altro che potersi sdraiare su un letto e dimenticare la peggiore avventura della sua vita. Ma l'avventura non era affatto finita.
«Vi prego... vi prego... portatemi a casa», li supplicava. Ma i tre carnefici erano di tutt'altro avviso.
«Quanti soldi hai ancora?», gli aveva domandato Flavio.
«Non ho più nulla, vi scongiuro...».
«Tira fuori il portafogli, merda», gli aveva intimato Roberto.
Davanti alla titubanza di Calogero, Flavio lo aveva abbracciato, alitandogli in faccia e, palpeggiandogli in pratica il sedere, gli aveva strappato dalla tasca dei pantaloni il portafoglio: al suo interno c'erano ancora ottanta mila lire; pronte per essere spese.
«Adesso andiamo dal Principe, Dio c... Andiamo a divertirci con qualche puttana», aveva esultato Flavio.
Il Principe sorgeva a Concorezzo, di fronte al cimitero, lungo l'arteria che conduce a Monza e a Vimercate. Era un'altra location tipica degli scappati di casa della zona. Ospitava fra le sue mura parecchie donne consenzienti che venivano pagate per strusciarsi sui presenti, inducendoli a non esitare con le ordinazioni. Di fatto era una specie di night, nonché uno dei locali più frequentati in assoluto della realtà anni Ottanta brianzola. Non mancavano, anche qui, le retate delle forze dell'ordine, che di volta in volta si ritrovavano a imporre il rispetto della normativa che regolamentava il confine fra lo show piccante e l'indecenza più bieca. Per legge, le ragazze che prendevano parte agli spettacolini osé, non dovevano andare oltre certi limiti: non dovevano scoprire le parti intime, e tantomeno rimorchiare. Tuttavia al Principe ogni cosa era plausibile, comprese scenette pornografiche con relativo scambio di indirizzi per proseguire in un ambiente più intimo l'alcova. Sicché la prostituzione era di casa, lo sapevano tutti, ma l'omertà aveva la meglio sempre e comunque. Dal Riccio al Principe, Calogero aveva pregato, inneggiando a Maria e ai Santi del paradiso, perché potessero prendersi cura di lui, strappandolo da quell'agonia infernale. Stava pensando a un voto da fare alla Madonna, ma la sensazione di smarrimento era così penosa da impedirgli di ragionare efficacemente. Osservando la leva della portiera, gli era venuto in mente dell'amico che gli aveva raccontato di una ragazza che per fuggire a uno stupro s'era tuffata dalla macchina in movimento. Una bella idea, ma lui questo coraggio non l'aveva; peraltro sarebbe stata, forse, un'azione vana, visto che Flavio lo teneva immobilizzato come un'ascidia ancorata al substrato marino. Avrebbe voluto sparire. Ma come? E dove? La cenere della sigaretta di Flavio era caduta sul sedile provocando uno squarcio nel tessuto, circostanza che aveva mandato ulteriormente in tilt il povero studente di lettere, conscio del fatto che suo padre non gliel'avrebbe fatta passare liscia. Calogero stava seriamente per vomitare.
«Porco D... se mi vomiti addosso ti taglio la gola», aveva blaterato Flavio.
L'aguzzino gli aveva tirato un altro sberlone, facendolo sussultare e in qualche modo, incredibilmente, arrestandogli lo stimolo nauseabondo. A destinazione avevano parcheggiato nei pressi del cimitero. Calogero, a malapena, si reggeva in piedi.
«Sorridi pezzo di merda. Devi sorridere, hai capito? Stiamo andando a una festa, non a un funerale».
La porta del locale era semiaperta per il continuo via vai di clienti e per la necessità di far cambiare aria all'ambiente, saturo di fumo e anidride carbonica. S'erano imbattuti in una ragazza di pelle nera, in bikini, che strusciava il suo voluminoso seno sul volto di un ragazzetto imbarazzato. Calogero aveva avuto un mancamento, ma prontamente l'ennesimo ceffone di Flavio l'aveva rimesso in pista.
«Voglio andare a casa», aveva sussurrato.
«Stai zitto cacasotto», gli aveva detto Roberto. «La serata è appena iniziata».
«Che si ordina da bere?», aveva domandato Antonello.
«Facciamo ordinare al cacasotto», aveva blaterato Flavio.
«Dai, cacasotto, ordina una media a testa», aveva ribattuto Antonello.
Calogero, totalmente sotto sopra, s'era rivolto alla prima cameriera che gli era passata di fianco, una tipa secca come un'acciuga, col volto profondamente butterato, che lo aveva guardato come se avesse davanti un extraterrestre: con tutti i clienti che le passavano per le mani, non ne aveva mai visto uno così messo male. Aveva intuito che potesse essere stato soggetto alle angherie di qualche teppista locale, non sarebbe stata la prima volta, e quasi aveva provato per lui un sentimento di pietà; ma non avrebbe potuto fare molto, in un ambiente del genere, altruismo e carità erano concetti alquanto illusori. Arrivate le birre, una suadente moretta con un timido tanga azzurrognolo, e una treccia lunga fino al sedere, aveva preso ad accarezzare i pettorali di Antonello, felice come una Pasqua di poter tastare con le sue manone il fondoschiena dell'improvvisata amica.
«Sei la mia puttana», le aveva detto, facendo sì che la ragazza si gongolasse davanti ai numerosi occhi che la squadravano viscidamente.
«Sei bello, sei forte, sei il mio uomo».
Gli era venuta l'idea di portare a compimento l'opera altrove, soffiando spudoratamente agli amici i soldi rimasti nelle tasche di Calogero: per un servizio completo, lo sapeva per esperienza, bastavano 50mila lire; più volte aveva dedicato le sue serate a qualche avventura voyeuristica, in locali come il Principe, ma anche lungo il vialone delle Industrie. Ma alla fine, anche per via di un fastidioso mal di testa che lo stava attanagliando da una mezz'oretta, s'era limitato a soddisfare la sua libidine lasciando semplicemente che l'atipica e disponibile inserviente continuasse a giochicchiare come aveva fatto fino a quel momento. Anche questa volta avevano obbligato Calogero a bere controvoglia, costringendolo al senso di nausea patito fino a pochi istanti prima. Erano rimasti al Principe per un paio d'ore, lasciandosi rimbambire del tutto dalla musica assordante e dall'andirivieni di volti più o meno conosciuti, del tutto inconsapevoli della nube radioattiva che aveva cominciato la sua corsa verso l'Italia. Poi, verso l'una, con alle spalle almeno sei ore ininterrotte di baldoria, ritrovandosi con le pile scariche, avevano deciso che era ora di dare un taglio all'ennesima bravata, e disfarsi della cavia martoriata fin lì: Calogero Bellavia. L'avevano abbandonato nel parcheggio delle scuole medie, dopo una rabbrividente curva effettuata alla fine di via don Luigi Cantini, che per poco non li aveva fatti finire col muso nella vetrina della latteria dei Nava. Antonello lo aveva salutato con una spietatezza assoluta:
«Se dici a qualcuno quello che t'è successo stasera... ti uccido. Lo giuro».
E s'era avviato senza salutare nessuno, verso la sua squallida abitazione. Flavio e Roberto erano, invece, rimasti ancora un po' a tormentarlo. Flavio, in particolare, per fargli passare qualunque voglia di spifferare in giro ciò che gli era capitato, aveva estratto dalla tasca dei pantaloni un serramanico e gliel'aveva puntato alla carotide:
«Ti infilo questa lama nel collo la prossima volta che ti vedo... Hai capito brutta checca del cazzo?».
Calogero stava svenendo. Sentiva la puntura della lama sulla pelle che, affondando un po' di più, lo avrebbe potuto mandare al Creatore in pochi istanti. Gli sembrava il triste epilogo di un film horror.
«Ah, dimenticavo», aveva detto Roberto. «Che numero di scarpe hai?».
Calogero non era nemmeno riuscito a rispondere dal tanto che stava male.
«Che numero di scarpe hai?, ti ho chiesto, checca!».
Il sequestrato era riuscito a mugugnare «42».
Sicché Roberto lo aveva scaraventato a terra e con rabbia s'era impossessato delle sue scarpe.
«Sono belle e costano un mucchio di soldi. Tanto tu te ne puoi comprare un altro paio, brutta checca».
I due se n'erano andati ansimando come bestie in calore, salutandosi con una manata all'inizio di via Ugo Foscolo. Calogero era rimasto per almeno un'ora, immobile, accomodato al sedile di guida in stato di shock. Doveva metabolizzare... Ma era successo proprio a lui tutto ciò che era successo? O c'era la remota possibilità che per qualche strano gioco del destino si fosse sognato tutto? Brillava la pallida luce dei lampioni di fronte alle scuole, e l'aria s'era fatta frizzante; non c'era in giro un'anima viva e una parte di lui avrebbe voluto solo chiudere gli occhi e svegliarsi in un'altra dimensione. L'atmosfera lugubre era ulteriormente messa in risalto dalle facciate diroccate della Rosier, che da un paio di decenni spiavano il via vai frenetico di via Cesare Battisti. La macchina era un disastro. Puzzava di sudore e di fumo, sui sedili sembrava che fossero appena passati i maiali; il cambio ballava, e la frizione dava strani scatti. La cicca di una sigaretta era stata infilata nel mangiacassette. Erano cose che non sarebbero sfuggite al padre l'indomani, che di sicuro gli avrebbe chiesto cosa fosse accaduto. Ma lui non poteva spiaccicare parola; non aveva alternativa, se non quella di finire anzitempo all'inferno con un coltello infilato nella gola, un'idea che gli metteva, a dir poco, i brividi. Gli avrebbe detto che aveva fatto casino con la sua ragazza, per festeggiare qualcosa, qualcosa ancora da decifrare... ma se poi Anita fosse saltata fuori a dire che non si erano visti? E se già Anita aveva contattato i genitori per chiedere che fine avesse fatto il figlio? E se già i genitori avevano chiamato gli sbirri per comunicare la scomparsa di un giovane? La sua mente era andata in subbuglio totale, senza giungere a una soluzione convincente; il buio della mente e il buio della notte si erano fusi insieme, parafrasando la fine di un sogno, la fine della giovinezza, la vittoria del male sul bene. C'era il serio rischio che la cosa potesse venire a galla, ma quelli non erano né il luogo né il tempo per superare il problema. Chissà quando sarebbe arrivato il momento propizio. Alla fine solo le lacrime e l'amara consapevolezza di trovarsi a piedi nudi in pieno centro erano riusciti a farlo sfogare quel tanto da riuscire a rimettere mano al volante e proseguire fino a casa peggio di un cane bastonato a sangue. Non sapeva ancora nulla dell'esplosione di Chernobyl, ma la notte dell'esplosione del reattore di Chernobyl, non l'avrebbe dimenticata per il resto dei suoi giorni.