martedì 29 novembre 2011

Senza retorica: "Rapito dagli UFO"

C'era una volta ad Agrate un professore delle medie assai originale: si chiamava Giuseppe Villa. La sua passione per l'insegnamento andava di pari passo con una materia alquanto insolita, l'ufologia. Giuseppe trascorreva molte ore in biblioteca per documentarsi su tutto ciò che di misterioso si verificava nei cieli del mondo, e spesso raccontava ai suoi alunni il frutto delle sue scoperte. Secondo alcune testimonianze il professore diceva di essere addirittura stato catturato dagli UFO, un'esperienza, affermano le statistiche, condivisa da almeno 3milioni di persone, solo in USA (in Italia non esistono dati a proposito). Fino agli anni Ottanta le persone come Giuseppe venivano bollate con frasi del tipo “è solo un tipo un po’ particolare”. Ma ora si scopre che chi dice di avere relazioni con gli alieni potrebbe soffrire di un disturbo vero e proprio, recentemente introdotto nel Dsm4, il manuale che illustra i principali disordini mentali: il fenomeno degli IR4, incontri ravvicinati del IV tipo. 


Dicono che arrivano da molto lontano
Dicono che parlano francese e bantù
Dicono che parlano il linguaggio dei segni
Dicono che sognano

Dicono che sembrano giganti del mare
Dicono che mangiano di tutto e di più
Dicono che vivono di tutto e di niente
Dicono che pensano

RIT. E dicono cose spettacolari
Pianeti di diamanti e stelle con le ali
E dicono cieli dell'altro mondo
Strade di luci nello spazio più profondo

Dicono che il tempo non è vero che passa
Dicono che possono volare qua e là
Dicono che riescono a cambiare sembianza
Dicono che piangono

RIT. E dicono cose spettacolari
Pianeti di diamanti e stelle con le ali
E dicono cieli dell'altro mondo
Strade di luci nello spazio più profondo

Io lo so bene quello che dico, con tutte le volte che mi hanno rapito
Io non mi sbaglio, qui non si scherza, con certa gente c'è da perderci la testa

Dicono di voler conquistare la Terra
Dicono che lo faranno presto perché
Dicono la loro medicina è la guerra
Dicono che ammazzano

RIT. E dicono cose spettacolari
Pianeti di diamanti e stelle con le ali
E dicono cieli dell'altro mondo
Strade di luci nello spazio più profondo

2011

domenica 27 novembre 2011

Affari condominiali: secondo piano, appartamento C


Beh, sì, tutto sommato non gli dispiaceva. Anzi. Si potrebbe tranquillamente dire che gli piacesse, con quel fare riservato, la corporatura minuta, i suoi silenzi meditabondi e la sua area da santerellina. Non le aveva mai parlato, però, e di lei non sapeva nulla, sennonché abitasse al primo piano, di fianco ai Sangalli, in un appartamento che pensava curato nei minimi particolari, con tanti gingilli e coloratissime scematine di donne mai cresciute veramente. Tuttavia sapeva bene il suo nome: Cinzia Gariboldi. Un nome e cognome che volente o nolente lo rimandava al grande condottiero che guidò l'unità nazionale, un'unità nella quale credeva con tutto se stesso, benché sapesse che l'argomento interessava a pochissimi, così terribilmente anacronistico e fuori moda. Si portava dentro questo piccolo grande tarlo, senza aver mai avuto il coraggio di confidarlo a chicchessia. A chi, poi? I genitori non li aveva più da una decina d'anni e l'unico fratello rimastogli, il più piccolo della famiglia, era da almeno tre anni che non lo vedeva, essendosi trasferito a Miami, al seguito di un improbabile lavoro e di una sedicente biondona che impazziva per il suo umorismo trash. L'ultima volta l'aveva sentito per via di una missiva ricevuta in occasione del Natale più recente: diceva che stava diventando ricco, dopo aver rilevato un locale nei pressi di Miami Springs. Era felicissimo della scelta fatta, di lasciare un paese dove le prospettive nel campo della ristorazione non valevano granché.
“Ciao fratellone, vieni presto a trovarmi, qua la vita è tutta un'altra cosa: si guadagna che è un piacere e ci sono donne da capogiro. Ti voglio bene fratellone”, chiudeva l'esuberante parente.
Gli amici, i colleghi... ma quali amici e colleghi? Non è che avesse tutte queste grandi amicizie; le ultime vere risalivano alle scuole medie, e ora, in ogni caso, non avrebbe saputo dove andarle a ripescare. C'era stato Massimiliano Baresi col quale si divertiva a girare la Brianza in bicicletta, avanti e indietro lungo lo stradone che unisce Vimercate a Trezzo, ma l'aveva perso di vista subito dopo gli anni del liceo. Forse s'era addirittura trasferito in un'altra regione: i suoi venivano dalla Puglia, e da sempre desideravano tornare al paese natio. Mentre i colleghi, in fondo, non erano dei veri colleghi, ma subalterni molto più giovani di lui, addestrati a obbedirgli senza fare tante storie. Lavorava con molti di essi gomito a gomito, ma non s'era mai preso la briga di rivelare qualche suo intendimento, interesse, volontà, che non riguardasse aspetti legati alla professione. C'era solo Luca Pirovano, quarantenne dall'aria sorniona, al quale, una volta, aveva confidato di soffrire da un po' di tempo di bruciore allo stomaco, probabilmente frutto dello stress. Era una mattina in cui il malessere s'era accentuato a tal punto da fargli abbandonare la postazione di lavoro per rincasare e infilarsi sotto le coperte in attesa di un miglioramento sostanziale che non sarebbe sopraggiunto prima di un paio di giorni. Avrebbe potuto inventare una balla qualsiasi, ma alla fine aveva preferito dire la verità, mostrandosi per un attimo umano come tutti. Con gli altri, al massimo, arrivava a chiacchierare di sport, specie il lunedì mattina, all'indomani dei risultati domenicali. Lui era un milanista convinto; convinto soprattutto del fatto che la propria squadra del cuore, dopo anni di oblio (nell'82 era in serie B), avrebbe presto trionfato in Italia e nel mondo. In realtà, era soprattutto una speranza, la sua speranza. Il 21 febbraio, un paio di mesi prima del patatrac di Chernobyl, un tal Silvio Berlusconi aveva acquistato il club, spendendo parole di grande entusiasmo:
“Dobbiamo diventare la squadra più forte del mondo, con un gioco spettacolare”, diceva il misterioso imprenditore.
Non si sbagliava: sarebbero, infatti, arrivati presto nuovi acquisti, grandi campioni, di nome e di fatto, tali da ridare lustro al vecchio e compassato Milan: figure come Donadoni, Van Basten, Gullit, guidati dall'allenatore più innovativo di tutti, Mr. Arrigo Sacchi. Preludio a un successo calcistico dopo l'altro, culminato con le due Coppe Campioni, vinte sul finire degli anni Ottanta e dal ritorno al trionfo in campionato. In seguito, però, non avrebbe gradito più di tanto il presidente del Milan, per via delle sue posizioni politiche e per l'amicizia che nutriva per Craxi, un socialista che non aveva mai amato, e fondamentalmente lontano dalla sua filosofia di pensiero. Lui, in buona sostanza, era un comunista vecchia maniera, fino a pochi anni prima decisamente a favore di qualunque iniziativa puramente marxista-leninista. Solo negli ultimi anni s'era un poco addolcito, simpatizzando addirittura per qualche democristiano. A Milano negli anni Settanta aveva perfino appoggiato movimenti come Avanguardia operaia. Si ritrovava in zona Città Studi, centro operativo dell'associazione, in corrispondenza delle facoltà di medicina e agraria e con altri soci spendeva parole ed energie per una lotta attiva al sistema e ben poco coscienziosa. Lui era uno dei responsabili del volantinaggio. E uno dei pochi a sapere gestire adeguatamente l'umida copisteria dove venivano prodotti i manifesti da affiggere ai muri, nello scantinato di un laboratorio di fisica, tappezzato di muffe e tubi delle acque di scarico. Tirava spesso l'alba con i suoi lavori, convinto di una rivoluzione che avrebbe cambiato le sorti del pianeta. Il 13 marzo 1975 era in casa a sorseggiare un vinello appena acquistato in un'enoteca di recente apertura nel cuore di Missaglia, in piena Brianza lecchese, ma sapeva bene chi erano coloro che avevano appena fracassato il cranio di Sergio Ramelli, studente di destra di diciotto anni: con uno di loro era andato in vacanza l'anno prima in Croazia e con un altro aveva deciso di farsi crescere la barba in onore dei grandi capi del comunismo sovietico.
La scrivania di Daniele Bettini era staccata da tutte le altre, perciò poteva comodamente isolarsi dal mondo e farsi gli affaracci suoi. Guidava una rivista di politica estera, dedicata ai paesi europei. Il suo interesse era rivolto soprattutto ai paesi dell'est Europa, soggetti all'egemonia di sinistra. All'inizio del 1986 c'erano state un bel po' di faccende che lo avevano impensierito non poco. In Jugoslavia era cominciata una grossa crisi economica che aveva portato la nazione ad avere l'inflazione più alta d'Europa; negli ultimi tre anni il potere di acquisto dei salari era calato del 18%. Gli operai erano sul lastrico, molte famiglie facevano fatica ad arrivare a fine mese. Le cose erano iniziate a cambiare sensibilmente con la morte di Tito nel 1980. Con la fine del capo supremo tutte le magagne tenute per anni nascoste erano emerse in tutto il loro splendore, mostrando un paese che in realtà non era un paese, ma l'accozzaglia di tante individualità regionali, rappresentate da etnie fra loro sconosciute e in perenne conflitto. In pratica Tito, nel bene e nel male, aveva tenuto insieme un paese che era vivo solo sulla carta geografica. Ma sotto era un tormento d'idee, tradizioni, convinzioni, che s'accordavano fra loro come l'acqua e il fuoco. L'argomento lo assillava, così come lo assillava il tema inerente il recentissimo attentato terroristico verificatosi a Berlino, costato la vita a tre persone e causa di duecento feriti. A Berlino, peraltro, c'era stato da poco, per qualche giorno di vacanza, fantasticando sull'omonimo Muro e sulla Cortina di ferro. In Italia, invece, era alle prese con la faccenda di Sindona, morto avvelenato dopo aver sorseggiato un caffè al cianuro. Chi gli aveva consegnato il veleno? E in che modo si sarebbe messo in moto il meccanismo istituzionale per consentirgli l'estradizione negli USA? Il mondo era in subbuglio, si profilava una svolta, e tutte queste vicende lo dimostravano; ne era straconvinto. Un pensiero che arrivava a tenergli testa anche la sera prima di coricarsi. I totalitarismi cominciavano a suonare anacronistici come l'unità d'Italia, ma a lui, evidentemente, erano proprio gli stessi anacronismi a conferirgli nuova linfa per proseguire felicemente nel suo lavoro.
“Presto il comunismo si estinguerà come una bolla di sapone”, aveva iniziato a dire, prevedendo la fine imminente dell'URSS, innescata da nuovi movimenti sociali dal suono quantomeno raccapricciante come glasnost; sembrava la marca di una nuova lega metallica, qualcosa che avrebbe trasformato l'acciaio in un materiale ancora più resistente.  
In parte, però, la difficoltà ad aprirsi al prossimo, l'imputava all'età. A gennaio era entrato nei cinquanta e si sentiva pressoché estraneo alla consuetudine tipicamente umana di confrontarsi con gli altri, rendendo note le proprie esperienze di vita e le proprie vicissitudini; benché riconoscesse nel dialogo e nel concetto di reciprocità, capisaldi su cui basare un corretto rapporto fra persone; fra persone civili. Nei momenti di maggiore disillusione si guardava allo specchio, stuzzicandosi il pizzetto e chiedendosi, in fondo, a cosa servisse parlare, considerato che, oggettivamente, nel novanta percento dei casi non si fa che raccontarsi frottole o baggianate. All'improvviso tutto gli era diventato superfluo, inutile e scontato. Per la prima volta in vita sua sentiva il peso degli anni; o della maturità, astrusa nozione di cui aveva sentito parlare fin dalla prima superiore. Percepiva un senso di smarrimento, legato alla consapevolezza che i sogni non esistono, né domani diversi, pieni di luce e speranze. La vita vera… era quella delle disillusioni. Era tutto un bluff. Anche la sua intramontabile fiducia nella lotta politica era completamente svanita, in favore di uno sbiadito “viversi addosso”. Le cose, insomma, andavano come dovevano andare, con o senza bombe molotov: era il destino a governare la vita degli uomini e qualunque proposta o lampo geniale, in questo o quell'altro ambito, sarebbero stati vani. Era diventato terribilmente fatalista.
Era nato nel 1936 in una cascina del novarese, una struttura risalente al Settecento, costruita a sua volta su un edificio di stampo medievale, forse utilizzato da qualche corporazione ecclesiale. Sembravano passati millenni da allora. Tutto s'era trasformato con una velocità inaudita. C'erano i servizi igienici all'esterno delle case, e d'inverno, era assai dura per le natiche. Si andava in bagno solo nei momenti di estrema necessità. L'acqua potabile veniva recuperata da un pozzo profondo una quarantina di metri, servendosi di una carrucola che anni prima aveva quasi causato la morte di un'anziana, che non era stata capace di controbilanciare il peso del secchio colmo della preziosa materia prima. Anche col mangiare non c'era da stare allegri. Se si escludono gli ortaggi dell'orto e la frutta degli alberi che crescevano spontanei nella rigogliosa tenuta, bisognava accontentarsi di quello che passava il convento. Daniele si può dire che fosse cresciuto a pane e burro, raramente poteva beneficiare della carne, che abbondava solo all'indomani di qualche macellazione. Tuttavia aveva avuto un'infanzia serena, benché governata dall'atteggiamento severo di entrambi i genitori che, sicuramente senza volerlo, avevano fatto di lui un soggetto taciturno, introverso e riflessivo. Un atteggiamento che aveva mantenuto anche durante l'età adulta, al punto che qualcuno aveva presto iniziato a dubitare della sua serenità interiore. Ma non era così. A modo suo Bettini amava la vita, ma più che viverla di petto, sembrava preferisse osservarla, partecipando un po' di nascosto agli eventi e agli scombussolamenti del quotidiano. Era un tipo silenzioso. Semplicemente un tipo al quale la cagnara non era congegnale. C'era, però, un retroscena sociale che rabbuiava le sue miti intenzioni, ed era quello relativo al fatto che, anche sforzandosi, non comprendeva l'ostentata vivacità di molti suoi simili, che credeva stupidi, come bambini infantili che si infervorano per quisquilie. Ma in fondo poteva essere perché invidiava chi era capace di gioire, appassionarsi, ardire per un progetto, pur banale che fosse. Era, dunque, soprattutto per questa attitudine seriosa, che non aveva mai trovato il coraggio di farsi avanti con Cinzia, né, del resto, con le altre donne venute prima di lei; la Gariboldi di anni ne aveva dieci in meno, avrebbero potuto formare una coppia ideale, ma lui, al solo pensiero, benché stimolante sotto vari aspetti, rabbrividiva di angoscia. Pensava che, nel caso di un incontro formale, non avrebbe saputo come comportarsi, cosa dirle, come invitarla per un appuntamento successivo. Non aveva mai dormito in vita sua con un'altra persona. Anche quando da piccino veniva spedito in una colonia sull'Adriatico, viveva come una specie di eremita, isolato dai coetanei, felici quantomai di prenderlo per i fondelli, per la sua ritrosia nei confronti del mondo. Dormire con un'altra persona? Era un concetto che gli sfuggiva. Pensava, peraltro, come pensavano nell'antichità, che a due corpi non convenisse riposare sullo stesso giaciglio, fra le stesse lenzuola, previo il rischio di beccarsi assurde malattie. Si credeva in fantomatiche spore che potessero veicolare veleni e altre scelleratezze microscopiche. Pura fantasia, ma lui, nonostante l'immensa cultura che lo contraddistingueva, seppur conscio della sua irrazionalità, credeva ancora in queste sinistre panzanate. Per fortuna l'aspetto sessuale non era mai stato per lui prioritario. Parrà strano per un uomo normale, con tutti gli attributi al loro posto, ma in questo senso non aveva particolari esigenze, poteva tranquillamente vivere senza fare l'amore, senza il bisogno di sfogare la sua carica testosteronica. S'era documentato sulla faccenda arrivando a supporre che potesse rientrare in quella rara categoria di persone definita col termine di asessuali. Ora sapeva bene che non si trattava di una brutta parola, ma semplicemente dell'originale peculiarità di chi non ambisce ad avere rapporti sessuali, per il semplice fatto che non ne sente il bisogno. Non era, dunque, una questione legata alla volontà di astenersi sessualmente per via di precise convinzioni religiose o psicologiche, tipiche per esempio dei sacerdoti e delle suore. Molto più banalmente in lui aveva il sopravvento un triviale, per quanto incomprensibile, disinteresse per tutto ciò che riguardava il dio sesso. Approfondendo la questione era poi arrivato a scoprire che anche nel regno animale esiste un fenomeno simile, tale per cui, maschi di specie diverse come pecore, topi e criceti, in una discreta percentuale di casi sono completamente indifferenti all'accoppiamento. Una tara evolutiva? Forse.
Sicché, al momento dell'esplosione del reattore di Chernobyl, Daniele Bettini era affossato nella sua poltrona preferita, sulla quale si accomodava tutte le sere, dopo aver cenato, per seguire il telegiornale con il massimo coinvolgimento. Non era la più bella poltrona della casa, ma era quella sulla quale stava più comodo, lambendo i confini metafisici del feticismo. Faceva parte del suo lavoro informarsi; tuttavia amava questa ricorrenza quotidiana soprattutto perché gli sembrava quella in cui riusciva a sentirsi più a suo agio, che lo faceva stare più tranquillo, in pace con se stesso, forse per via della mancanza di relazioni con gli altri, che gli creavano sempre un po' di ansia. Rincasando non aveva incrociato nessuno, tantomeno Cinzia. La cosa, in realtà, non l'aveva stupito più di tanto: s'incontravano di rado, e quelle rare volte che accadeva, si comportava come un burbero contadino dell'Ottocento, tenendo la testa bassa e riuscendo a salutarla a malapena. Così Cinzia non poteva che considerarlo un selvaggio zoticone, col quale non avrebbe speso nemmeno un minuto del suo tempo. Con la notizia dipanata dallo speaker, però, non s'era meravigliato granché. Nonostante il terribile susseguirsi di aggiornamenti sensazionali, non si era scomposto più di tanto. Sarebbe stato lo stesso se lo speaker fosse stato alle prese con una notizia gossippara. Era patologicamente monotematico, interessandogli solo la politica, tutto il resto, fosse anche la più grande catastrofe umanitaria, non lo stuzzicava minimamente. Era anche per via del suo cinismo. Del suo essere, una specie di non-uomo, con la puzza sotto il naso. Era scoppiato un reattore in Ucraina, e allora? Chissà quanti reattori scoppiano nel mondo senza che se ne sappia niente. La Francia è piena di reattori, e anche noi ce ne abbiamo uno vicino, nel piacentino. E, in ogni caso, l'intero mondo, domani, ne sarà pieno. Questa era la sua sentenza.
“Dobbiamo imparare a diffidare di tutte le stronzate che spara la televisione”, aveva più volte ripetuto ai suoi giornalisti; un giorno che era di luna buona e si sentiva particolarmente loquace.
Insomma, non aveva minimamente dato peso al problema (come non avrebbe dato peso al fatto che da un momento all'altro potesse saltare all'aria la vicina SGS) e durante l'intero servizio dedicato al disastro - e precedente, dunque, le consuete notizie politiche ed economiche, a cui non avrebbe mai rinunciato - s'era eclissato, ripensando a uno dei pochi giorni della sua vita trascorsi da solo con suo padre. Uno dei giorni che ricordava con più piacere e nostalgia.  
Erano gli ultimi giorni di agosto. Aveva da poco compiuto quindici anni e si trovava in vacanza con i genitori e il fratello, presso un'isolata località delle Alpi bellunesi. Le Dolomiti bellunesi non godevano di grande fama, ma erano fra le più belle delle Alpi orientali. Il padre di Daniele le aveva scoperte una ventina di anni prima, nel corso di una visita a un collega di lavoro, originario di quelle parti. Avevano trascorso la mattinata e il primo pomeriggio sdraiati fra i prati di Madonnina, radura a circa 1200 metri di altezza, una meta fra le più gettonate della zona. Mamma e papà si erano dedicati alla lettura – la madre era alle prese con un magazine femminile, il padre con un libro di Tolstoj che tentava di finire da vari mesi - lui alla costruzione di casette di legno, utilizzando rametti e schegge di ardesia; s'era da tempo impratichito in questo diletto, ereditato dal nonno paterno, da sempre affascinato dalle scienze delle costruzioni, benché fosse un umile muratore. Gli aveva dato una mano il fratello, obbligato dal capomastro a ripetute ricognizioni fra gli alberi vicini, in cerca dei rametti più idonei al completamento dell'opera architettonica. Verso le 15.00, però, aveva preferito staccare e andare a fare un giretto. C'erano un mucchio di passeggiate che potevano essere intraprese, pellegrinaggi di pochi minuti, ma anche di ore e ore; alcune delle quali non proprio alla portata di tutti: in zona si potevano, infatti, affrontare anche varie ferrate, e raggiungere cime di diversa natura, alcune decisamente solitarie e impervie. Daniele ne aveva scelta una non tanto difficile, ma piuttosto lunghetta, percorribile anche in seggiovia; in ogni caso, non era intenzionato a raggiungere la meta, ma solo instradarsi per un po' prima di tornare all'ovile, una volta sopraggiunta la stanchezza.
“Ti scoccia se vengo anch'io?", gli aveva chiesto il padre, stanco di leggere il Grande russo.
Daniele era sceso dal pero. Non era tipico di suo padre farsi avanti per accompagnarlo da qualche parte. Dacché era venuto al mondo erano state assai rare le occasioni in cui l'aveva affiancato per compiere qualche giro o commissione. Era sempre la madre a farsi carico di ciò: il primo giorno di scuola, la prima lezione di nuoto, le prime partite di pallone all'oratorio… A onor del vero, ora che era cresciuto, nemmeno lei si scomodava più di tanto. Ma al ragazzo andava bene così. Con il padre – e un poco anche con la madre - provava sempre un vago senso di soggezione. Si sentiva inibito dalla loro presenza. Quando doveva fare qualcosa con amici e compagni, pregava, addirittura, perché non ci fosse di mezzo qualche parente che lo osservasse; sennò andava in tilt, perdeva la forza d'animo, temendo il rischio di sfigurare. Poteva al massimo essere uno zio, un nonno, ma non un genitore… Era forse per la paura di sbagliare, di subire un rimprovero, di non rispondere alle aspettative di coloro che l'avevano messo al mondo. Mah. Capiva, in ogni caso, nonostante la tenera età, che ciò potesse dipendere anche da sé, da qualche sua turba interiore; dal fatto di non essere riuscito a risolvere alcuni complessi emozionali, circoscrivendoli ad amici immaginari o progetti fantastici. Amava, infatti, fantasticare a più non posso, vestendo frequentemente i panni di personaggi inesistenti, dotati di super poteri. Poteva essere anche dovuto alla sua oggettiva mancanza di empatia, tale per cui non riusciva a comprendere fino in fondo le espressioni dei genitori, arrivando, per esempio, a confondere un sorriso, con un pianto liberatorio. Un po' come accade ai bimbi sofferenti di particolari sindromi comportamentali, individui che riescono perfettamente a parlare e a farsi strada nel mondo, anche se con qualche difficoltà e qualche sofferenza in più. Intuiva, comunque, che certe incongruenze affettive poi si sarebbero dovute pagare e che anche da grande sarebbero tornate a battere cassa. Per certi veri era dunque un ragazzo molto più maturo e serioso rispetto ai coetanei, con un'attitudine alle rimuginazioni molto più spiccata. Daniele aveva, pertanto, risposto al genitore con un filo di voce, come quando si risponde a un burbero maestro, percependo l'assurdo timore di non trovarsi più a suo agio, in un'azione che avrebbe voluto affrontare in solitaria, in completa disinvoltura e serenità.
“No, vieni pure”.
Era una giornata stupenda. Di quelle che in montagna accadono come è frequente un acquazzone in pieno deserto. Dalla mattina non s'era ancora vista mezza nuvola, il sole aveva brillato intensamente per tutta la giornata, illuminando e riscaldando angoli alpestri a dir poco idilliaci: le cime dei larici, i capolini delle scabiose, i tetti aguzzi di casupole per raccogliere il fieno… La famiglia di Daniele amava questo tipo di costruzioni, riflettenti epoche passate in cui l'uomo dipendeva strettamente dalla natura, beneficiando dei suoi prodotti e relegando il proprio incedere ai capricci delle stagioni. Una vita, forse, più tranquilla e più romantica. Da simili discussioni scaturiva spesso la figura di Stalin, e delle dacie russe. Non era escluso che, un giorno, se gli fossero girati per le mani dei soldi in più, si sarebbero fatti avanti per comprarne una. Ogni tanto si alzava un leggero venticello, a rendere ancora più affascinante la giornata. Per un primo tratto nessuno dei due aveva parlato. Papà marciava un paio di metri dietro il figlio, con le mani raccolte dietro la schiena, gli occhi puntati a terra e le gote brucianti per via dei raggi ultravioletti patiti le ore precedenti; Daniele camminava spedito, con la testa alta, il passo ben disteso e sicuro. Solo dopo una ventina di minuti di marcia, il capofamiglia s'era pronunciato dicendo che forse sarebbe stato il caso di compiere una piccola sosta; o, meglio ancora, riorganizzarsi per il rientro, soffermandosi su qualche angolo più pittoresco degli altri, prima trascurato. Era una mezza scusa, ma tant'è. I raggi del sole scorrevano obliqui lungo il sentiero, disegnando fantasiose opere futuristiche, che preannunciavano l'incombere della sera.
“Comincio ad avere il fiatone...”.
“Come?”.
“Non ho mica la tua età…”.
Daniele aveva nicchiato. E facendo finta di niente aveva proseguito per la sua strada. Nella sua mente s'era a questo punto fatta larga l'ipotesi di poter raggiungere la cima del Monte Nero, a 2000 metri, 800 metri più in alto rispetto al punto di partenza; un tragitto che di solito si compie in mattinata, per consentire il rientro prima delle ombre serali. Era una gita che la famiglia aveva già intrapreso in altre occasioni, fermandosi qualche volta a pranzare in un piccolo rifugio ai piedi della cresta. Facevano delle grandi scorpacciate di panada, piatto tipico bellunese, a base di pane raffermo con aggiunta di olio di oliva, sale e salvia. E non disdegnavano altre prelibatezze come minestre con fagioli e ortiche, o gnocchi di zucca con ricotta affumicata. Ci sapevano fare i cuochi di lassù. Da leccarsi i baffi ogni volta che si puntavano gli occhi sulla cima del Monte Nero. Il padre s'era reso conto della sua voglia di proseguire e, nonostante l'affaticamento e un inaspettato senso di nausea, non se l'era sentita di contraddire l'iniziativa del figlio: avrebbe fatto un sacrificio, accompagnandolo fino a destinazione: lo avrebbe fatto più che volentieri. Quando Daniele aveva, dunque, intuito che il padre l'avrebbe assecondato, per lui una specie di miracolo, gli era montata una gioia sopraffina, come può essere solo quella che scaturisce rivedendo senza preavviso una persona cara. Daniele era al settimo cielo, ma non avrebbe fatto nulla per dimostrarlo al genitore. Dopo un ripido curvone, la vegetazione aveva cominciato a diradare per via dell'altitudine. I pini mugo, con la loro preziosa colla resinosa, s'erano fatti minuscoli come cespugli di rododendro. Non mancava molto ai duemila metri e gli alberi a queste quote rimpiccioliscono, prima di sparire completamente e lasciare spazio ai muschi, licheni, e minuscoli fiorellini capaci di sfidare anche il gelo più estremo.
“Spero che tua madre non stia in pensiero”, aveva detto il padre all'improvviso.
“Perché dovrebbe? È ancora presto”, aveva prontamente ribattuto il ragazzo, con una grinta insospettata. “In ogni caso se dovesse cominciare ad avere freddo, può rintanarsi a casa della signora Stella”.
La signora Stella era una vecchia amica di famiglia, che abitava in una casetta a una decina di minuti dal punto in cui avevano deciso di trascorrere la giornata. Era un'abitazione molto tradizionale, quasi completamente rivestita di legno, con all'interno un grosso camino e le pareti ricoperte di foto ricordo. All'esterno risaltavano file di gerani rossi e fiori di colore violetto che in Lombardia non crescono. Si incrociavano frequentemente e non c'era bisogno di mettersi d'accordo per vedersi: ogni occasione era buona per incontrarsi e scambiare due chiacchiere. Li univa un affetto consolidato da anni. Peraltro la bellunese, se si esclude il cane Dagor, un attempato ma baldanzoso pastore tedesco, viveva sola, ed era ben contenta di poter ospitare qualcuno di tanto in tanto. Erano le cinque di pomeriggio e il cielo da blu stava pian piano arrossando: ci sarebbe stato un tramonto meraviglioso. Ormai non mancava tantissimo alla meta. Superato l'ultimo stadio ricoperto di impavide pinacee, s'erano ritrovati a tu per tu con la sommità agognata. Il vento aveva preso a soffiare con maggiore intensità, sollevando la polvere del sentiero. Potevano ora distinguere la sagoma del rifugio, la seggiovia e la grossa croce di ferro che troneggiava sul cucuzzolo. Entrambi avevano provato un senso di meraviglia, ma avevano evitato di confidarselo. Stavano ottenendo quella che per loro era un'impresa; di solito raggiungevano la cima con la seggiovia e poi scendevano a piedi, era impensabile risolvere un tragitto del genere a pomeriggio inoltrato.
“Che ne dici se poi rientriamo con la seggiovia?”.
La domanda era scontata, ma il padre l'aveva posta più che altro per riavviare la conversazione.
“Sarebbe bello, non abbiamo mai preso la seggiovia a quest'ora”.
“Mi sa che riusciamo a beccare l'ultima corsa”.
Poco prima delle 18.00 padre e figlio erano così giunti in cima al Monte Nero. Per un attimo Daniele aveva cercato gli occhi di papà per regalargli un sorriso, ma il genitore sembrava troppo preso a gestire il suo affanno per dargli retta: sentiva il cuore battere come un martello pneumatico ed era preoccupato dall'ipotesi di subire un colpetto; a una certa età, soprattutto per quelli un po' sovrappeso come lui, tutto era possibile. Ma il disagio s'era presto eclissato, nel vedere la contentezza del figlio che, con lo sguardo luccicante, rimirava il bel panorama.
“Papà, sai riconoscere qualche cima?”.
“Il nonno le sapeva bene. Io meno...”.
“Quella è la Civetta?”.
“Può darsi. E quello il Monte Pizzocco”.
“Uno di quelli dovrebbe invece essere il Monte Schiara”.
“La prossima volta dovremmo salire con una mappa”.
“Ci vorrebbe anche un bel cannocchiale”.
L'ultima corsa della seggiovia era prevista per le 19.00. Non valeva, dunque, la pena temporeggiare, ma sarebbero volentieri stati lì per un tempo infinito, mai così vicini col corpo e con lo spirito. Era anche bello osservare le valli sottostanti, quasi perse nell'oscurità, ma così dolcemente invitanti. Si intravedevano i luccichii della case, e i fanali delle automobili che a velocità irregolari cavalcavano irte salite. Mai avevano vissuto uno spettacolo così intrigante, nonostante i tanti anni trascorsi in vacanza nel bellunese. Sarebbe piaciuto anche alla donna di famiglia e al piccolo del clan Bettini, avevano pensato entrambi. Il padre di Daniele s'era rivolto a un signore annoiato, prigioniero in un gabbiotto addobbato di cartine montane, con alle spalle un paio di sci arrugginiti, per ordinare due biglietti di sola andata per la seggiovia e una coperta, da srotolare sulle gambe e sul torace, durante la discesa; a quell'ora del giorno la temperatura era bruscamente calata e i due non avevano abiti pesanti, si sarebbero facilmente potuti beccare un bel raffreddore. In seggiovia padre e figlio s'erano accomodati aiutandosi a vicenda, vincendo il movimento sussultorio del mezzo di trasporto, verificando con stupore che erano proprio gli ultimi rimasti in cima; un aspetto sul quale avevano meditato con gusto, considerandolo appannaggio di un momento davvero prezioso, da ricordare per tanti anni. Nel frattempo il tramonto era esploso in tutto il suo lussureggiare, uno spettacolo che, con le gambe abbandonate al cielo, a metri e metri da terra, poteva essere rimirato nel suo massimo splendore.
“Hai freddo?”, aveva domandato il padre.
“Per nulla”, aveva risposto il ragazzo con la stessa voce flebile della partenza.
Il genitore aveva poi allungato il braccio intorno alla sua schiena, stringendolo a sé con un affetto sincero. Daniele era scoppiato di contentezza, lasciando, senza vergogna, che una minuscola lacrima sgorgasse dai suoi occhi.

domenica 13 novembre 2011

Senza retorica: "San Bartolomeo"


RIT. San Bartolomeo scorticato è vivo (4v)

Al Duomo, al Duomo, al Duomo di Milano
Che bello, che vita, toccarlo con la mano (2v)

RIT. San Bartolomeo scorticato è vivo (4v)

Al centro, al centro, al centro della piazza
C'è un uomo che ride e un'oca che starnazza (2v)

RIT. San Bartolomeo scorticato è vivo (4v)

La peste che si sveste in un ratto silenzioso
L'untore che destino avrà
Bubbone della pelle, contagio misterioso
Nessuno sopravviverà
Paura della notte, paura di un sorriso
Paura che non passerà
Visconti non è vero, Visconti non ha peso
Nemmeno in questa società

RIT. San Bartolomeo scorticato è vivo (4v)

Nel mille, nel mille, nel Millecinquecento
Gli Sforza, la forza di un trepido momento

RIT. San Bartolomeo scorticato è vivo (4v)

2011

domenica 6 novembre 2011

Verranno altre alluvioni

La mia collega
Alle prese con un difficile passaggio
Inerente il terzo capoverso
Quello con la A maiuscola
Altri tempi
Altri tempi di danza
La mia collega parla già di divorzio
Benché non sia ancora sposata
Rivendica fasti lontani
E gioca con le parole
Non sa nemmeno lei fin dove arrivare
Fin dove arriverà
Ma va bene così
Verranno altre alluvioni

martedì 1 novembre 2011

Affari condominiali: secondo piano, appartamento B



Mamma e papà non ne erano molto felici. Tutti quei chilometri in macchina da solo, era una specie di pazzia. Peraltro le strade non erano come da noi, solide, pulite, ampie e spaziose. Spesso erano a mo' di mulattiera, piene di buche, sdrucciolevoli e chissà che altro. Circolavano ancora carretti trainati dagli asini. Ma non c'era stato verso di fargli cambiare idea. L'amore si era detto allora, e si direbbe ancora oggi, se non fosse che in molti si chiedevano onestamente se fosse vero amore, e non solo, quindi, una scusa per strappare una fanciulla al suo auspicato destino, quello di tutte le sue coetanee, anch'esse lontanissime dalla filosofia italica, perché semplicemente nate altrove, in un contesto spazio-temporale differente, con una cultura diversissima dalla nostra, pizza, Rinascimento e smandolinate; strappata al suo domani per risollevare il proprio, da troppo tempo raggomitolato su se stesso in cerca di una valida soluzione amorosa che non arrivava mai. L'Ucraina nel 1986 era un paese sostanzialmente sovietico, entrato a far parte dell'URSS nel 1922. Politiche di emancipazione venivano accarezzate fin dal dopoguerra, ma i russi facevano di tutto per mantenere la nazione sotto la propria giurisdizione, senza le sue risorse non sarebbero andati molto lontano. Le questioni economiche e gli interessi in gioco erano altissimi. Ma era una nazione rigorosissima, con un'identità a sé stante, figlia di una cultura ricca e più che dignitosa. Chi la abitava si sente più mitteleuropeo che non russo, anche in virtù di tradizioni che rimandavano frequentemente a paesi come la Polonia. Era uno stato dominato dall'agricoltura, resa facile dai numerosi fiumi che solcavano il territorio, l'irrigavano e lo fertilizzavano, conferendole peraltro la tipica aria campestre e folcloristica. Non per niente l'Ucraina veniva soprannominata il granaio d'Europa, nonché il paniere della Russia. C'erano i cosiddetti kolchoz, in favore dell'economia collettiva, termine che rimandava con un pizzico di romanticismo all'epopea staliniana, che ricevevano la terra in gestione, percepivano uno stipendio, ma dovevano coltivare ciò che decideva lo Stato. Per molti andava bene così, tanto che, successivamente, col crollo del comunismo, numerosi ucraini avevano cominciato a rimpiangere i vecchi tempi. Per il resto non è che si sapesse molto dell'Ucraina, paradossalmente il paese più esteso d'Europa. Chi erano i suoi scrittori? E i suoi cantanti? Chi era il filosofo più importante? Buio.
Ma in Ucraina abitava la bella di Domenico Ciccarelli, trentaduenne omatese, mogio e rassegnato centralinista presso una ditta di tessuti non lontano dalla Bovisa. Si erano conosciuti per via di un cugino di Domenico, Andrea, sposatosi cinque anni prima con Svitlana Tolchinsky, giovane affascinante, originaria dello stesso paese, incontrata per caso in seguito a un viaggio di affari; affari per modo di dire. In realtà il cugino di Domenico gestiva strani rapporti con altrettanto eccentrici individui provenienti dall'est, con la fedina penale piuttosto malconcia; un giorno s'era perfino beccato un proiettile nella schiena, che per poco non lo aveva mandato al creatore. Lo aveva salvato il provvidenziale istinto di gettarsi a terra, subito dopo l'innesco della sparatoria. Faceva avanti e indietro da Kiev, visitando di tanto in tanto anche i piccoli centri della steppa ucraina, distese infinite di praterie erbose, così familiari a Svitlana. Un giorno s'erano ritrovati tutti al secondo piano, appartamento B della famiglia Ciccarelli, dove avevano brindato all'acquisto di una licenza per gestire un'edicola in una piazza di Cambiago. Non si sapeva ancora bene chi l'avrebbe coordinata, ma intanto la licenza c'era, era viva e vegeta, e questo bastava a rendere euforici i Ciccarelli al gran completo, sempre ottimisti innanzi a un nuovo progetto. Era per via del loro sangue partenopeo, notoriamente legato a caratteri gioiosi e brillanti.
Con il cugino e Svitlana c'era anche una ragazzetta mora, con i capelli lisci come spaghetti, gli occhi bui e profondi, le guanciotte rosee, e un'espressione vagamente malinconica. Si vedeva lontano miglia che veniva da un paese perduto e che non aveva mai avuto a che fare con una nazione prospera e civilizzata come l'Italia. Guardava tutto come se fosse la prima volta, comprese le cabine del telefono, che nel suo paesello non erano mai arrivate. Guardava con suadente passione le automobili in circolazione, le pubblicità dei cartelloni, le pareti ben pitturate delle case… Era l'amica del cuore di Svitlana: così diceva lei, in realtà pare che fossero in qualche modo imparentate fra loro. Ci doveva, infatti, essere una specie di antenato che le riconduceva entrambe al medesimo albero genealogico, fruttificante in un'area ben precisa dell'ampia radura ucraina. Si diceva anche che questo ramo genealogico fosse in qualche modo figlio di una potente famiglia riconducibile a un misterioso paese georgiano. Con essa Domenico s'era appartato per qualche minuto in cucina, con la scusa di offrirle qualcosa da bere, aveva bofonchiato due o tre parole in inglese, sperando in un dialogo forbito. In realtà la ragazza non parlava altro che ucraino, benché cominciasse a intuire, più dai gesti che altro, qualche lemma in italiano; dal canto suo era arrivata addirittura a supporre che i due idiomi fossero per qualche assurdo retroscena lessicologico assimilabili fra loro. Chiaramente era una fesseria. Poi erano partite le presentazioni ufficiali.
Elisabetta?”.
Elizaveta”.
Elisaveta?”.
Elizaveta”.
Ah, ora ho capito e...”.
Blavatsky”.
Questo è troppo difficile”.
Ви?”.
Come?”.
Ви?”.
Ah, il mio cognome? Ciccarelli, Cic-ca-rel-li”.
Cigamelli?”.
Eh, più o meno!”.
Erano andati avanti a ridere come sciocchini, pur capendosi ben poco. Ma da lì la loro storia aveva preso il largo. S'erano scambiati i rispettivi indirizzi e numeri di telefono: così avevano proseguito per sei mesi prima di rivedersi di nuovo in quel di Omate, dove Domenico era stato assai lieto di poter ospitare quella che sarebbe diventata la sua sposa. Nel frattempo Elizaveta aveva compiuto il diciottesimo anno di età, evitando dispiaceri al partner che, alle prese con una minorenne, sarebbe potuto finire in un mare di guai. Già qualcuno aveva ironizzato con malignità sulla condotta del compaesano, benché fosse obiettivamente lontano da qualunque condotta illegale: sessualmente parlando i due si sarebbero concessi l'uno all'altro solo con la ragazza entrata ormai ufficialmente nella maggiore età; prima di allora ci sarebbe stato solo qualche sporadico e innocente bacetto. Il debutto era stato piuttosto precipitoso e imbarazzante. I genitori di Domenico erano in giro per Milano, amavano passeggiare per il capoluogo lombardo, rivendicando un affetto sincero che, nonostante gli anni, non era ancora appassito, ed Elizaveta era rimasta da sola in casa con Domenico concentrato su una partita di pallone in tv. La ragazza l'aveva raggiunto in sala completamente nuda e l'aveva affrontato con un sorriso imbronciato, dimostrando che, verosimilmente, non sarebbe voluta essere lì in quelle condizioni, se non per ringraziare a modo suo un uomo che, comunque si voglia vedere, l'aveva strappata dalla miseria. Domenico per poco non veniva meno. Più che dalle sue sinuose forme, però, era stato colpito dal candore della sua pelle, un candore che non aveva mai riscontrato sul corpo di una ragazza. Evidentemente era una prerogativa delle abitanti del nord est europeo. Ma si era ripreso velocemente, offrendo le sue braccia alla piccola, stringendola a sé prima di coricarsi con dolcezza sul divano; con l'acquolina. Elizaveta tremava. Per il freddo? Mah. Sennò cosa? Poi però era diventato tutto più chiaro, quando all'atto della penetrazione la ragazza aveva lanciato una specie di urlo, rivelando al cielo la sua illibatezza. Dopo aver fatto l'amore, Domenico non aveva saputo se ridere o piangere. Forse era stato troppo irruento. Forse avrebbe dovuto rimandare a un altro momento. Forse mille altre cose… Non l'avrebbe mai capito: Elizaveta era corsa in camera a rivestirsi, lasciando come un pesce fuor d'acqua l'amato. Ma ormai i giochi erano fatti. A tal punto era bastato davvero un niente per stabilire il convolo. Una parolina al posto giusto, al momento giusto e il matrimonio sarebbe divenuto realtà. Lui, d'altronde, non stava più nella pelle, desiderava sposarla con tutte le sue forze, da così tanto tempo digiuno di una ragazza che potesse sorridergli compiaciuta: dopo i fasti adolescenziali se l'era vista sempre piuttosto male e sembrava che i rapporti con l'altro sesso non fossero più una sua prerogativa. Peraltro quasi tutti i suoi coetanei erano ormai più o meno felicemente ammogliati e qualcuno aveva anche già messo al mondo un figlio. Lei gli aveva detto sì, ma da un'altra prospettiva, senza pensarci troppo, senza prendere troppo sul serio la faccenda, quasi fosse la triviale richiesta di un amico, concernente una serata da trascorrere al cinema o al luna-park. Ma un presupposto, per fortuna, c'era: era quello inerente Svitlana, che sembrava essere davvero felice dopo essersi accasata con un italiano. E c'era il fatto che amava a dismisura la moda del Belpaese, convincendosi che d'ora in poi si sarebbe vestita come Dio comanda, seguendo i diktat degli stilisti italiani, all'occidentale, dimenticando i fioroni vecchiardi delle sue parti, con cui venivano imbastiti foulard e gonnoni.
Sicché era stato tutto deciso, ma con un piccolo particolare: per via di complicatissime operazioni burocratiche sarebbe stato necessario che i due si sposassero in Ucraina e non in Italia, dove sarebbe stato più difficile sistemarsi. Poi sarebbero tornati insieme nel Belpaese per vivere la loro vita. Era una condizione legata anche alle rispettive religioni. Domenico era cattolico, Elizaveta ortodossa. Domenico, però, era quasi del tutto indifferente alle pratiche religiose del suo paese, era fondamentalmente un agnostico non-pensante, mentre per Elizaveta era necessario affidarsi a modo suo al Signore, per godere di certe grazie. Nello specifico si rifaceva alla chiesa ortodossa autocefala ucraiana, con riti non condivisi dalle altre liturgie. Le condizioni economiche di Domenico, però, non erano così floride da permettere la prenotazione di un aereo per due, così aveva pensato di raggiungere il granaio d'Europa con la sua macchinetta, una Fiat Ritmo dell'Ottanta, solo parzialmente conscio dell'enorme distanza che lo separava dalle pendici dell'amato Resegone. Era partito con un giorno di anticipo per avere la possibilità di visitare Budapest, che non aveva mai visto in vita sua, sì e no a metà strada del percorso prestabilito: Ternopil era la città che doveva raggiungere, una metropoli di cui non aveva mai sentito parlare prima di conoscere Elizaveta Blavatsky, non lontanissima dal confine ungherese, fondata nel 1540 e abitata perlopiù da polacchi ed ebrei. Peraltro gli avrebbe consentito di ricaricare le pile, sgranchire gambe e braccia, ridare fiato ai polmoni, dopo più di dodici ore di guida. Aveva pernottato per una sola notte in un ostello in via Rakoczi, uno stradone trafficato che tagliava in due Pest, la parte più moderna della metropoli. A riceverlo, una conturbante signora over quaranta, con un seno che protendeva senza inibizioni dalla camicetta mezzo sbottonata, sulla quale non aveva potuto non soffermarsi con piacere. Lei parlava fluidamente inglese, Domenico molto meno, ma in qualche modo era riuscito a farsi capire.
Only one night, only one night. I'm from Italy, I'm from Italy…”, continuava a ripetere meccanicamente.
L'indomani, dopo una notte incredibilmente serena e riposante, aveva trascorso la giornata a spasso per le arterie e arteriole della capitale ungherese. La prima parte del dì l'aveva dedicata a Pest, la seconda a Buda. A Pest aveva percorso avanti e indietro via Rakoczi, raggiungendo il grande parco a nord della città, nei pressi della più antica linea europea della metropolitana, ancora abbellita coi gusti tipici dell'Ottocento austro-ungarico. C'era un vasto lago e diversi monumenti dei quali, però, non conosceva minimamente la storia e il significato. Non che gli importasse granché. Uno di essi, però, l'aveva rimandato all'iconografia del castello di Dracula, pagina dell'immaginario collettivo a lui tanto cara, dopo averla fatta sua in seguito a una lettura su Stoker. Era una specie di chiesa, caratterizzata da due mini-campanili appuntiti, che terminavano contrassegnati dalle riproduzioni marmoree di animali fantastici: era vagamente possibile discernere una specie di drago e un personaggio alquanto ambiguo, facilmente assimilabile a qualche malvagia creatura degli inferi. Da qui era scivolato in via Andrassy, fra le più nobili della capitale, circondata da eleganti case di fine diciannovesimo secolo, fronteggiate da giardinetti curatissimi e da alberi maestosi. Un signore malmesso gli aveva chiesto l'elemosina: se l'era trovato all'improvviso fra le braccia e per un breve istante aveva provato un senso di smarrimento. Poi gli aveva sganciato i pochi spiccioli che erano rimasti in tasca dopo aver consumato una sbrigativa colazione con una brioche farcita di wurstel.
La sponda destra del Danubio pullulava di vita. La strada che costeggiava il fiume era trafficata all'inverosimile. I negozi continuamente presi d'assalto da turisti in cerca di souvenir. Ormai la primavera aveva fatto capolino e il clima era dolce. Domenico se ne compiaceva provando un'atavica soddisfazione, aprendo senza imbarazzo la cerniera del giubbotto che lo proteggeva, e osservando con gusto infantile il sorvolare degli uccelli. Nei pressi di una breve rientranza dell'alveo aveva osservato due chiatte salpare colme di merci sigillate all'interno di misteriosi scatoloni di legno. Si era sforzato di capire cosa potessero contenere, ma senza giungere ad alcun risultato soddisfacente. Aveva pensato anche al traffico illegale di armi. Attraversato il famoso Ponte delle catene aveva conquistato i colori e le atmosfere fiammeggianti di Buda, un vero e proprio tuffo nel passato. Nel cuore antico della città aveva indagato dall'alto l'insediamento magiaro, rimirandone le guglie e il placido trascorrere del Danubio. Aveva pensato che non gli sarebbe dispiaciuto abitare a Budapest, sicuramente meglio di Omate; ci sarebbe potuto abitare, perché no, proprio con Elizaveta: non sarebbe stata una cattiva idea proporglielo al suo arrivo…
Che ne diresti di trasferirci a Budapest?”, era una domanda che gli suonava già familiare come rispondere alle chiamate dei fornitori, che ogni tre per due lo tartassavano al suo posto di comando.
In fondo, dovevano costruirsi da zero, e un posto valeva l'altro. Di certo, però, sapeva che non gli sarebbe piaciuto abitare in una casa come quella dove viveva coi suoi, l'appartamento B del secondo piano dell'imponente palazzo omatese, prima del curvone per Caponago. Era un appartamento anonimo, le cui finestre davano su una strada grigia e insignificante. Al suo interno stava stretto, non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello spirituale. Benché non ne avesse mai avuto l'opportunità, avrebbe, infatti, da sempre voluto vivere in una casa con un po' di verde davanti, una dimora magari più brutta di quella che l'ospitava da parecchi anni, ma con almeno un piccolo giardino che potesse dargli respiro, coraggio, vincere l'ansia del dover ogni giorno recarsi a Milano, vinto da un pressante grigiore esistenziale. Amava i cani e non gli sarebbe dispiaciuto curarne uno, da lasciar libero di muoversi all'interno di una macchia verde personale. Era stato assalito da una vaga malinconia, in concomitanza con un colpo di vento più acceso degli altri; trovandosi a ragionare sulla sua vita, sui suoi traguardi, e sul fatto che, in effetti, si sarebbe aspettato qualcosa di più dai suoi sogni adolescenziali. Da piccolo, dopo la breve e affascinante parentesi dedicata all'idea di diventare un esperto benzinaio, s'era, infatti, immaginato un personaggio importante, pieno di soldi e, perché no, di donne adoranti pronte a soddisfare ogni suo desiderio. Ma le cose, evidentemente, erano andate in tutt'altro modo. L'esperienza liceale era naufragata pochi mesi dopo il debutto all'omni-comprensivo di Vimercate: non capiva la necessità di dedicare così tante ore allo studio, quando c'erano modi che parevano ben più immediati di portare a casa la pagnotta. Il primo impiego l'aveva assolto come garzone presso un meccanico di Vignate. Ma non era durato più di due settimane. La sua tragicomica abdicazione, però, non era sopraggiunta per la fatica fisica inerente il trasporto di pneumatici e radiatori, e l'avvitamento di bulloni induriti dalla ruggine inutilmente impiastrati di grasso, ma per lo stress di dover percorrere ogni giorno quindici chilometri per raggiungere l'officina, che diventavano trenta, considerato il rientro a casa. Da lì era iniziato un calvario professionale che l'avrebbe accompagnato fino all'alba dei trent'anni, con la conquista del posto di centralinista alla Bovisa, dove, perlomeno, non c'era da spezzarsi la schiena. Inoltre non era più felice dei suoi rapporti interpersonali, rapporti che, francamente, non esistevano da anni. Aveva un amico intimo fino al 1983, col quale passava le serate in un bar di Vimercate a bere birra e a fumare, ma poi il tipo era scomparso dall'oggi al domani senza dargli alcuna spiegazione. Non aveva più amici e tantomeno donne a portata di mano, e questa situazione lo faceva stare male. Aveva un desiderio ben preciso: mettere su famiglia. Ma con chi? Poi era partito con una serie di domande auto-accusatorie. Dove sbagliava? Forse era perché raccontava troppe balle, come qualcuno sosteneva? Balle che servivano, o almeno uno psicologo avrebbe creduto potessero servire, per darsi un po' di tono? Mistero. Tuttavia con l'arrivo di Elizaveta tutto era cambiato, aveva ritrovato il sorriso e la fiducia in sé: finalmente c'era qualcuno disposto ad amarlo e di cui prendersi cura.
Verso sera, ormai stanco di sgattaiolare fra un vicolo e l'altro di Buda, s'era rifugiato in un pub nei pressi del Parlamento. Era un locale minuto, con un arredamento che richiamava più design irlandesi o scozzesi, che non magiari. Al suo interno le pareti erano addobbate di immagini di musicisti heavy metal, completamente sconosciuti a Domenico, che, in ogni caso, non provava alcun interesse per l'universo delle sette note. Sul genere, però, non si poteva proprio sbagliare: che altro avrebbero potuto suonare individui con i capelli lunghi fino al sedere, la cicca in bocca, il giubbotto di pelle nero, catene e catenelle con croci e crocette? Gli erano venuti in mente i Kiss, di cui gli piaceva una canzone, che riusciva ancora a canticchiare come un beota sotto la doccia: Beth. Una foto, in particolare, era riuscita a catturare più delle altre la sua attenzione: era quella raffigurante il proprietario del bar - che aveva intuito chi fosse, per l'aria da bullo che lo contraddistingueva aggirandosi per i tavoli del locale, regalando a destra e a manca pacche sulle spalle - che rideva come un quacchero unto dallo spirito santo, davanti a una donna con due mastodontiche tette al vento. Accomodatosi su un tavolino tondo, proprio sotto la foto osé, aveva preso a sfogliare il menù, deciso a ordinare qualcosa da mangiare: lo stomaco già da qualche ora brontolava ed era, peraltro, necessario rifocillarsi come si deve per intraprendere, l'indomani, la parte finale del viaggio, forse quella più dura, lungo le strade meno agevoli. A mezzogiorno era stato un po' leggero, un sandwich al volo, e via.
Zuppa di fagioli alla Jókai, pollo alla paprica con cavoli ripieni e latte di uccello, era stato il felice esito della nuova ricerca, benché non avesse ben chiaro in mente ciò che aveva letto e quindi il tipo di piatti che gli sarebbero spettati. Dalla posizione scelta poteva vedere la tv, appesa con due sbarre metalliche al soffitto: non gli importava granché, ma così, magari, avrebbe passato meglio il tempo fra un morso e l'altro. Sicché era da poco arrivata la zuppa, quando la sala, all'improvviso, aveva smesso di fiatare e tutti, compreso il ridanciano boss, s'erano messi a fissare il tubo catodico, come se avessero davanti un extraterrestre. Domenico lì per lì non ci aveva dato troppo peso, poi, però, verificando un'attenzione dei presenti alle news a dir poco maniacale, s'era domandato se per caso non fosse accaduto qualcosa di eccezionale in qualche parte del mondo. Non capendo un'acca di ungherese e non avendo amici a cui chiedere, poteva solo affidarsi alle immagini: vedeva uno speaker che con grande enfasi raccontava un qualcosa di impossibile da comprendere, con lo sfondo la silhouette malconcia di una specie di grossa industria. Domenico non capiva proprio di cosa potesse trattarsi: osservava un torrione bislungo, colorato a strisce bianche e rosse, orizzontali, circondato da parallelepipedi in cemento dall'aria spettrale, con minuscole finestrelle. Poi era comparsa l'immagine di un trifoglio nero su fondo giallo, simile a quello che sapeva riferirsi ai rifugi antinucleari della Difesa Civile statunitense, dopo aver visto un documentario di Quark che parlava dell'ipotesi di un terzo conflitto mondiale. Così s'era reso conto che il problema potesse concernere un evento di natura nucleare. Una guerra? Un bombardamento? Un attacco alieno? Niente di tutto ciò… All'improvviso il tipo che stava seduto di fianco al suo tavolo s'era alzato di scatto, riguadagnando l'uscita a gran velocità, presto imitato da un paio di altri commensali. A Domenico era parsa una situazione assurda e surreale. Poi l'inserviente gli si era fatto vicino con le guance paonazze, rincarando la dose:
ядерної аварії!! ядерної аварії!!”, aveva gridato.  
Domenico era in seria defaillance. Sembrava che fossero tutti impazziti. Poi, foturnatamente, era comparsa sullo schermo una cartina geografica che per qualche secondo aveva preso il posto della foto-immagine del fantomatico impianto energetico, al centro del clamore suscitato: la cartina raffigurava chiaramente la distanza che separava Budapest da una cittadina sul confine fra Bielorussia e Ucraina, a uno sputo dalla sua destinazione, dove Elizaveta lo stava attendendo a braccia spalancate. Ternopil era a occhio e croce a cinquecento chilometri dal luogo menzionato dallo speaker televisivo, una distanza assai esigua se considerata in merito a sostanze che si propagano nell'aria seguendo i capricci atmosferici. Sostanze come i veleni radioattivi.
There was a nuclear accident a few miles from here! Should immediately run for cover!”.
L'allarme, in questo caso, era stato sollevato da un tale con la testa pelata, che cercava di spiegare a qualcuno al telefono quel che stava accadendo. Domenico era riuscito solo a comprendere “nuclear accident”, ma probabilmente gli era bastato. All'improvviso la fame se n'era andata: la zuppa di fagioli alla Jókai non era male, ma adesso aveva una specie di groppo alla gola che gli rendeva difficoltosa qualunque deglutizione, compresa quella di un sorso d'acqua, che fino a pochi secondi prima rincorreva come un beduino del Sahara. L'inglese aveva riattaccato, così gli era venuto in mente che, anche lui, avrebbe potuto chiamare casa per avere qualche delucidazione in più, magari s'erano fatti tutti un mega film, e non c'era nulla di cui preoccuparsi. Magari era in corso il finimondo e lui non era al corrente. Tutto era possibile, non restava che indagare. Anche per capire cosa avrebbe dovuto fare. Cosa avrebbe dovuto pensare legittimamente… Al primo tentativo di mettersi in contatto con l'Italia il telefono era risultato occupato. Poi aveva risposto la madre, incollata alla tv col marito e la madre di Giulio Sangalli del primo piano, che aveva fatto un salto fin lì per risolvere una piccola questione sui turni legati allo smaltimento della spazzatura condominiale: qualcuno aveva saltato il servizio e l'immondizia cominciava a rilasciare effluvi nauseabondi che inondavano i piani bassi.
Ciao mamma...”.
Ma la signora non aveva fatto finire la frase al proprio figliolo, che l'aveva immediatamente subissato di domande.
Domenico! Cosa fai? Dove sei?”.
E immediatamente dopo d'ordini e raccomandazioni.
Vieni subito a casa! C'è stato un grave incidente nucleare a pochi chilometri dalla casa di Elizaveta e ora le onde radioattive si stanno propagando per tutta l'Europa! Non hai idea di quello che stanno raccontando al telegiornale. La situazione è terribilmente seria: io e papà siamo molto preoccupati. Devi assolutamente scappare, se non vuoi che...”.
Poi era caduta la linea. Definitivamente. Domenico aveva cercato di rimettersi in contatto con i familiari, per avere qualche informazione più dettagliata, e non meno per cercare in qualche modo di sedare l'ansia della madre, ma senza esito: il telefono sembrava essere andato in tilt e il padrone del pub lo guardava in cagnesco, sollecitandolo a darsi una mossa, che ora toccava a lui. Tuttavia erano bastate quelle poche parole di colei che l'aveva messo al mondo a offrirgli un quadro quantomeno approssimativo della faccenda: era saltato all'aria qualcosa di grosso (forse una centrale nucleare? Ma cos'era una centrale nucleare?) e ora il mondo intero rischiava di finire contaminato da micidiali onde radioattive.
Le spore radioattive? No, queste non credo che c'entrino”, mugugnava fra sé, masticando con rabbia il pollice della mano destra, e riflettendo su un lemma che gli si era imposto apparentemente senza motivo nella sua mente febbricitante.
Doveva, in ogni caso, essere accaduto qualcosa di veramente importante; solo così, infatti, riusciva a razionalizzare l'atteggiamento di tutti coloro che s'erano trovati con lui in quel budello di Budapest, con il naso all'aria in attesa di mettere qualcosa sotto i denti. Il loro panico, la loro incredulità, non erano quelli che scaturivano per qualcosa di banale e risaputo. Al di là della teatralità della madre, una certa idea di finimondo doveva e poteva essere dietro l'angolo. Eppure, in strada, questa sensazione di sgomento non pareva sussistere, tanto che, dopo aver percorso pochi passi, gli era tornata la fame. In strada sembrava tutto normale, come se nessuno sapesse nulla, o come se, in realtà, non stesse accadendo alcunché di ciò che pareva profilarsi. La scenografia urbana non era diversa da tutti gli altri giorni, che Domenico non conosceva, ma poteva benissimo sospettare. C'era il solito traffico, le solite luci delle insegne commerciali, dei semafori, il via vai trafelato delle persone, qualche bicicletta, qualche cagnolino affamato che si aggirava nei pressi di un cestino che strabordava di immondizia. A questo punto, però, gli era sorta una giustificatissima domanda. Cosa doveva fare? Proseguire o tornarsene sui suoi passi? A cosa sarebbe andato incontro proseguendo? E rinunciando al proposito di vincere i confini dell'Ungheria per tuffarsi nel calderone ucraino? Se le sue intuizioni erano giuste - e di margini di errore, a onor del vero, a questo punto, ce n'erano ben pochi – osservando il percorso prestabilito, ossia dirigendosi verso i confini incriminati, verso l'amore della sua vita, sarebbe finito diritto nelle fauci del leone: il veleno radioattivo proveniva da est, proprio verso la direzione che intendeva intraprendere. Per sfuggire alle “spore nucleari” c'era, dunque, un solo modo: dirigersi dalla parte opposta, verso ovest, in pratica verso le arterie stradali appena percorse, in subliminale collegamento con Omate, l'amata e odiata terra natia. Ma era questo ciò che voleva? Più no, che sì…
Muovendosi a piedi verso l'ostello di via Rakoczi, presso il quale doveva passare la notte, rimuginava su ciò, in attesa di una definitiva rivelazione. C'era un lieve venticello che gli accarezzava le gote regalandogli un piacevole sollievo, le luci degli appartamenti che si affacciavano sulla via, ben più forti del luccichio di una luna piena appollaiata poco sopra l'orizzonte… E se il pallore del satellite fosse dovuto alle radiazioni? Al trifoglio giallo?
Oddio”.
All'incrocio con via Klauzal aveva, in ogni caso, già trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Sul muro scrostato di un portico c'era un cartellone raffigurante una giovane coppia a spasso con due piccole creature, una bimba biondissima, coi boccoloni, e un bimbo altrettanto biondo, ma liscio, con un ciuffo che gli ricopriva l'occhio destro, rimandandolo a certi eroi dei cartoni animati giapponesi. Fermatosi a osservarlo, mosso da un entusiasmo abbacinante, aveva pensato potesse essere un segno del destino. E s'era rimproverato di aver anche solo ipotizzato per un attimo di fare retrofront. Retrofront per dove? Per una vita indegna di essere vissuta? Per una vita vuota come quella che aveva vissuto fino a quel momento? Senza amore, senza passione, senza... Ora, per fortuna, era tutto più chiaro, lampante. Il suo domani, la sua Elizaveta era a est, nel cuore dell'inferno radioattivo. E dunque era lì che sarebbe andato, anche a costo di... di rimetterci le penne. In tal caso ce le avrebbe rimesse con il suo futuro, con la sua speranza, con la sua gioia di vivere, con colei con la quale aveva deciso di trascorrere il domani: ne sarebbe sicuramente valsa la pena.
Il vento s'era ulteriormente alzato, sospinto da un'energia misteriosa, forse “nucleare”, ma Domenico era già altrove, colto da una crescente euforia. Erano bastati pochi passi all'aria aperta per fargli tornare tutto, contro ogni sana e consapevole prospettiva esistenziale, e le preoccupazioni lontane dei genitori, le uniche due persone al mondo, comunque, ad amarlo veramente.
"Ma la vita è così che va vissuta", aveva blaterato a voce alta, convincendosi definitivamente della sciagurata scelta fatta. "Guardando avanti e non indietro, guardando al coraggio di credere in qualcosa di vero e importante, e di voler giocare anche le poche carte che si hanno a disposizione pur di ottenere il risultato sperato. La nostalgia, il passato, l'amore per chi ci ha messo al mondo, sono tutte cose belle, ma da prendere con le pinze; sono aspetti che possono ingannare, rendendoci pusillanimi, rinunciatari, debolmente inutili…". È a questo che era arrivato Domenico Ciccarelli con la notte di Budapest ormai spuntata, un monito che non lasciava dubbi: all'alba del giorno dopo sarebbe, infatti, partito per correre dal suo domani.