giovedì 30 giugno 2011

Se lo dice anche il bassista dei Sonic Youth...


Perfetto
Un disco perfetto
Per l'estate 2011
Per chi fa avanti e indietro da Milano
Poi
Meglio di un volo su Marte


About him:

Kurt Vile is a guitarist and singer from Philadelphia. He was signed by Matador Records as a solo artist in May 2009. His music has been likened to that of Bruce Springsteen, Bob Seger and Tom Petty. His first album for Matador Records is titled Childish Prodigy. In an interview with Women's Wear Daily, Sonic Youth bassist and singer Kim Gordon was asked, "Your guilty pleasure right now?" Gordon replied, "Listening to Kurt Vile's latest CD, Childish Prodigy. Guilty because I listen to it too much..."

Affari condominiali: primo piano, appartamento B


Si era fermato in chiesa per almeno un’ora a riflettere, per rendersi effettivamente conto che non s’era dimenticato di nulla. La campagna di Russia era ancora viva e presente nella sua mente, qualcosa che – sapeva bene - si sarebbe portato nel cuore fino alla tomba, benché risalisse a quaranta anni prima. Certe cose non si dimenticano, non possono essere dimenticate. Certe cose finiscono per fare parte del dna di una persona, anche se non c’è nulla di genetico in esse, come se il pensiero più struggente avesse in qualche modo il potere di sindacare le geometrie infinitesimali degli acidi nucleici, interferendo con il loro progredire. Nelle due piccole cassettine di legno, coperte dalla bandiera italiana, riposavano due suoi vecchi amici, con cui aveva combattuto nel corso della seconda guerra mondiale. Dopo i trattati di Parigi del '47 erano finiti in un misero cimitero di guerra, insieme a parecchi altri scheletri, molti privi della provvidenziale targhetta nominale; gli sfortunati militi ignoti, perduti per sempre nell'oblio, erano la maggior parte, non solo di origine italiana. Nei due scrigni non c’era granché: resti ossei anneriti dalle muffe, qualche brandello di vestito, un paio di medaglie ossidate. Non era stato facile farli tornare in Italia. La burocrazia aveva impedito di risolvere la cosa in breve tempo, e tra un procrastinare e l'altro, erano passati quasi quattro decenni.
Avevano poco più di vent’anni. A lui era andata bene, a loro no. Loro non ce l’avevano fatta, non avevano avuto una moglie, né figli, i loro sogni non avevano visto la luce, nessuna delle primavere assegnategli alla nascita. Troppo freddo, troppa fame, troppo niente. Troppi alberi congelati, intirizziti, troppe distese erbose senza un briciolo di selvaggina, senza un briciolo di accondiscendenza, con un vento gelido e devastante che avrebbe immobilizzato e ucciso anche l’animale più vigoroso e potente. In quelle cassettine riposavano Giuliano Pozzi e Mario Gaviraghi, due leoni di un tempo tramontato.
Se le ricordava ancora molto bene le loro facce: quella lunga e triste di Giuliano e quella tonda e sorniona di Mario. Entrambe sghembe, emaciate, sofferenti. Poi c’era la sua, più simile a quella di Mario che non a quella di Giuliano, ma con lo sguardo decisamente più arrabbiato. Doveva ringraziarla questa prerogativa del suo carattere, che aveva senz'altro contribuito a tenerlo in vita, a stringere i denti più degli altri, inseguendo un’idea di rivincita che non ci sarebbe mai stata, ma che nella sua immaginazione ci sarebbe potuta essere, conferendogli un’animosità rara, il coraggio per andare avanti a testa alta, nonostante le terribili avversità. Così, d'altronde, bisognava essere per la campagna di Russia, sennò non c’era alcun verso di cavarsela. In pochissimi, infatti, erano riusciti a far ritorno a casa. Un numero mostruosamente esiguo di relitti umani senza più un barlume di speranza. Giuliano era nato nella corte attigua alla chiesa, una delle più antiche del paese, con ancora il disegno lastricato del percorso seguito, fino a qualche decennio prima, dalle carrozze nobiliari. La sua famiglia viveva lì da generazioni e generazioni. Lavoravano i campi. E parlavano poco. Anche Giuliano era così. Parlava poco. Ma parlavano per lui e i suoi pensieri i suoi occhi, vividi, e malinconici. Luigi Vismara li rammentava benone. Aveva anche provato a prenderlo in giro, per le sue iridi luccicanti, bollandolo come “quello con gli occhi da donnetta”. Ma si volevano bene, dovevano volersi bene, per non finire uccisi prima del tempo. Per non finire divorati dall'angoscia di un vivere a dir poco terrificante che nessuno di essi aveva chiesto in regalo. Mario veniva da Agrate, abitava in una corte decentrata rispetto al cuore del villaggio, sulla strada per Concorezzo. Una cascina risalente al 1830, circondata da alti pioppi. C’erano maiali, mucche, capre, oche, anatre, fagiani, galline… L’allevamento di questi animali consentiva alla famiglia del militare di vivere più che dignitosamente. Avevano anche dei terreni destinati alla coltivazione dei principali prodotti cerealicoli: non erano di loro proprietà, ma gli offrivano tutto ciò che cui avevano bisogno per tirare a campare. Mario suonava la fisarmonica. L’aveva imparata a suonare da uno zio. In guerra diceva che gli mancava più della ragazza, per questo non si prendeva mai la briga di lanciare le bombe a mano: temeva che potessero saltargli gli arti, compromettendogli per sempre il suo talento. Amava la musica più di ogni altra cosa. I suoi occhi, quando parlava di qualche melodia popolare, si illuminavano come quelli di un bambino la notte di Natale. Qualche volta tentava di intonare un canto, ma senza andare oltre la prima strofa. Non era quello il clima ideale per abbandonarsi a una felice cantata collettiva. Ogni momento era buono per dire addio a qualunque idea di futuro.
Una delle ultime notti passate insieme erano rimasti in quattro, prima di raggiungere un avamposto a pochi chilometri di distanza da un minuscolo borgo sulle rive del Dnepr, teatro di uno degli scontri più sanguinosi e sfortunati. Il freddo gli attanagliava le ossa e una fame immonda aveva cominciato a provocargli assurdi crampi allo stomaco. Avanzare in mezzo alla neve presupponeva un buon pasto caldo, dal quale ricavare un po’ di energia, ma di pasti caldi non ce ne sarebbero stati per almeno quarantotto ore. Lungo il tragitto avevano, però, notato un paio di capanne di legno, apparentemente disabitate, circondate da campi assiderati e un bugigattolo nel quale agonizzava un asino scheletrico con la bava alla bocca. Non avevano nemmeno avuto il tempo di confrontarsi: quello sarebbe stato il pasto più succulento da vari mesi a quella parte. Non era stato difficile uccidere l’animale, era praticamente già morto, di stenti e forse di qualche malattia, un colpetto alla testa col calcio di una pistola ed era crollato come un sacco di patate. Ma anche se fosse stato malato, anche se avesse avuto la lebbra, l’avrebbero comunque divorato. La fame li aveva completamente rimbambiti, al punto che la morte non era più vista come una condanna, ma una benedizione.
Ricavato un fuocherello con della paglia conservatesi all’interno delle baracche, avevano cominciato a strappare a morsi tutto ciò che si poteva, il poco di carne presente e qualche osso croccante. Quindi s’erano rimessi in marcia per la salvezza.
Strada facendo avevano incontrato altri sbandati diretti verso sud, con le divise lacere e gli occhi pieni di sangue, in cerca di un clima più favorevole e confini amici. Si erano guardati in cagnesco per qualche minuto, prima di proseguire ognuno per la sua strada. Ma Giuliano non ce la faceva proprio più. Anche l’asino mangiato avidamente non aveva migliorato le cose: in poche ore la sua temperatura corporea era cresciuta a dismisura. Era stato lo stesso Luigi a misurargliela ponendo la sua mano sulla fronte del compagno: era bollente. Evidentemente s'era beccato un'infezione da qualche parte, da un po' di giorni lamentava un pulsante dolore retrosternale. Dopo un paio d’ore dalla prima misurazione aveva cominciato ad avere le allucinazioni: diceva di vedere la Madonna, circondata da fate vestite d’azzurro. Per tutti era stato chiaro che se ne sarebbe andato in pochissimo tempo. L’avevano trasportato fino al primo distaccamento alleato, allestendo una barella improvvisata, con un paio di assi di legno e delle cinghie ricavate da brandelli di stoffa raccattati qua e là. Dopo due giorni di semi incoscienza s’era spento con un sorriso immacolato. Il quarto della comitiva, un soldato di cui Luigi non ricorda più il nome, aveva proseguito con altri compagni, convinto di poter arrivare prima a casa degli altri seguendo un percorso alternativo, lasciando soli i due con i quali era giunto fin lì.
Luigi e Mario erano così andati avanti in tandem, sfidando ancora una volta uno di fianco all’altro il gelo paradossale e il vento ghiacciato della steppa russa. Ripensando al freddo patito in Italia, durante gli inverni più infingardi, capivano che non ci fosse davvero nulla di simile a quello che stavano provando in quel momento:
“In Italia non fa freddo, semmai potrà esserci un po' di umidità”, aveva azzardato Luigi. “Chi si lamenta di un po' di gelo in Italia, non ha la più pallida idea di cosa significhi patire il vero freddo”.
Non avevano più accennato a Giuliano, ormai appannaggio di un altro mondo, se non il mondo delle tenebre, un paradiso lontano e impercettibile. Una bufera gli aveva fatto perdere la strada nei pressi di una fitta boscaglia, non lontana da un centro chiamato Bucha. All’improvviso s’erano sentiti degli spari: provenivano da un bassopiano, quasi completamente avvolto dalla nebbia. Mario s’era afflosciato in un secondo, pietrificando Luigi, che aveva cominciato a chiamarlo a squarciagola, implorando Dio di lasciargli almeno lui. Ma Mario non rispondeva più, e un fiotto di sangue gli sgorgava copioso da un buco nello stomaco: anche per lui non c’era più nulla da fare. Poi la beffa. La risposta dei cecchini: italiani come lui che avevano scambiato i due fantasmi per dei nemici da accoppare in fretta e furia. Luigi era crollato sulle sue stesse ginocchia bestemmiando Dio come non aveva mai fatto in vita sua.
“Vi rendete conto di ciò che avete fatto?”, gridava come un pazzo nella notte. “Avete ucciso Mario, un italiano come voi!”.
I soldati non avevano potuto fare granché, se non rincrescersi per l’accaduto, ma in guerra succedono anche di queste cose, di avventarsi assurdamente su giocatori della stessa squadra, senza minimamente rendersi conto. Benché in questo specifico caso il nemico da combattere non fosse una divisa malevole, ma una nebbia vigliacca e putrida, di quelle che nessun soldato vorrebbe mai incontrare sul suo cammino. Luigi, volente o nolente, si era unito a loro e con loro aveva camminato come uno spettro per altri sei giorni prima di giungere, finalmente, alle porte della Svizzera e rientrare in patria, dove avevano fatto fatica a riconoscerlo anche i parenti più stretti.
“Uno scheletro”, diceva sua madre, “me lo hanno ridotto a uno scheletro”.
Mentre la tv trasmetteva le immagini di Chernobyl, Luigi fissava lo schermo come inebetito. Non aveva mai sentito parlare di Chernobyl, ma comprendeva che era esattamente da quelle parti che aveva combattuto con una foga irrazionale durante il secondo conflitto mondiale. Più o meno da quelle parti, verso nord est, non è che ne sapesse molto di geografia. Ma Chernobyl sembrava davvero un nome russo, simile, in tutto e per tutto, a uno di quegli improbabili nomi di città dove aveva buttato via parte della sua giovinezza. S'era, quindi, stupito del fatto che il patatrac nucleare in Bielorussia fosse coinciso proprio con il richiamo dell'amministrazione. L'avviso era giunto in casa Vismara con una lettera battuta a macchina, tre mesi prima. Era il sindaco in persona a interpellarlo. Lo sollecitava a presentarsi in municipio per accettare l'importante incarico. Come avrebbe potuto rispondere no? Aveva, infatti, accettato senza tentennamenti, anzi, s'era perfino pavoneggiato subito dopo, fra parenti e amici, per l'importante compito da assolvere.
“Io, io, dovrò accogliere le salme...”, e cominciava a singhiozzare.
“Ci vorrà l'abito giusto”, aveva mugugnato qualche amico della piazzetta della chiesa.
“Ci vorrà l'abito di un presidente”, aveva detto Pasqualino Brambillasca, giovanotto con qualche venerdì in meno, sempre in apprensione ogni volta che in paese stava per accadere qualcosa di importante.
Le immagini erano fin troppo eloquenti: mostravano una centrale nucleare con un ampio squarcio in corrispondenza di un reattore, contenitore supersigillato nel quale avvenivano misteriose reazioni chimiche. All'inizio non aveva dato peso alle parole dello speaker. S'era reso conto della gravità della situazione solo a metà del servizio del telegiornale, quando dalla finestra aveva udito il frastuono di un camion che passava, contemporaneamente alla comparsa in video del volto avvilito di un bimbo con la faccia ricoperta di bolle, e di vigili del fuoco, o presunti tali, con le maschere antigas.
“Cos'è un reattore?”, aveva domandato la moglie, grattandosi una caviglia che da un po' di giorni le dava qualche problema ambulatorio.
La moglie era donna grezza e grossolana. Aveva solo la quinta elementare e solo un'idea vaga della distribuzione delle nazioni nel mondo. Anche lei come il marito, quindi, udendo la parola Chernobyl, non era stata in grado di collocarla in un punto preciso del pianeta, se non in un'imprecisata area a destra dell'Italia. Ma era già qualcosa. Era anche lei del '20, come il suo Luigi, sposatolo senza quasi avergli rivolto la parola. A quei tempi succedeva così. Si inquadrava un partner più o meno della stessa età e bastava una serata fra le rispettive famiglie a sancire l'unione coniugale. Vivevano a un passo l'uno dall'altro. Le porte dei genitori guardavano una in faccia all'altra. Le mamme erano addirittura cugine di secondo grado. Il platonico fidanzamento era proseguito fino alla guerra, s'erano sposati poco dopo la Liberazione, quando Luigi aveva già ripreso parte dei chili persi sul fronte. Una cerimonia mesta, con pochi invitati e nessun viaggio di nozze. I tempi per certi vezzi non erano ancora maturi. I primi anni erano stati piuttosto burrascosi. Luigi aveva un carattere burbero e austero, che mal s'accordava non solo con la moglie, ma anche con chiunque altro avesse a che fare con lui, compresi gli amici più cari. Molti asserivano che fosse per colpa della guerra, che la tensione accumulata durante il conflitto gli avesse drasticamente cambiato il carattere, fino a fargli provare un disagio simile a quel che oggi si potrebbe definire disturbo post-traumatico da stress. Aveva degli scatti d'ira che non riusciva a gestire, facendolo passare per un pazzo scatenato. Pretendeva dalla donna tutti i servigi del mondo: pulizia delle scarpe, sistemazione dei vestiti, preparazione del mangiare, accensione della radio tutte le mattine alla stessa ora, raccolta della verdura solo su sua indicazione... Ma lei non era certo il tipo di assoggettarsi senza remore al marito, così scoppiavano delle litigate furibonde, coinvolgenti anche il vicinato.
“C'è aria di tempesta in casa Vismara”, dicevano i Sangalli della porta accanto, temendo l'ennesima notte in bianco.
“Prima o poi verranno fuori i carabinieri”, commentavano i Meroni, del piano di sopra. “Non si può andare avanti così”.
Talvolta volavano piatti o qualunque altro oggetto potesse capitare loro fra le mani. Era la donna, soprattutto, ad avere questo particolare feeling con una disciplina sportiva quantomeno inappropriata al microcosmo condominiale. Peraltro i muscoli non le mancavano. Con gli anni, però, le cose erano migliorate. Non era vero amore, ma solo una serena rassegnazione. Non era più il caso di litigare come prima, l'avevano capito entrambi. Troppa fatica, eccessivo spreco di energie. Forse s'erano semplicemente riappacificati con loro stessi. Forse stavano solo invecchiando. Forse era per via dell'arrivo della loro unica figlia, Amanda, una ragazzona alta un metro e ottanta, con le spalle da culturista, la pelle trasparente e una folta chioma rossiccia, poco prima del trasloco nel condominio di Omate. Con i figli certe coppie scoppiano, altre, misteriosamente, si legano indissolubilmente. Così era capitato ai Vismara.
Nel 1986 Amanda aveva 36 anni. Viveva ancora con i genitori, con i ragazzi era sempre stata una frana. Non erano in molti quelli che avevano tentato un'avventura con lei. Non era solo la sua mancanza di grazia a tenerli lontani, ma anche un atteggiamento nei confronti della vita totalmente banale e sciatto. Aveva avuto una sola storia relativamente importante: quella con Francesco Scaccabarozzi. Il tipo viveva a Melzo e lavorava in un'officina meccanica. Era una specie di energumeno. Un gigante di due metri, erculeo anche senza aver mai fatto palestra, scuro di carnagione, quasi totalmente pelato, con un mucchio di tatuaggi. L'unica cosa che funzionava fra i due era il sesso. Si regalavano amplessi degni di una coppia di neandertaliani, con una foga animalesca fuori da qualunque prerogativa sentimentale. Andava avanti così da sempre, senza alternative; ma ad entrambi pareva che, davvero, non ci fosse un modo migliore per vivere onestamente la loro giovinezza, qualcosa di un po' più approfondito del solito mettersi in gioco dando sfoggio delle proprie potenzialità erotiche. Per il resto, c'era poco altro. La conversazione era un'accozzaglia di frasi senza senso e bestemmie. Le rispettive bocche, d'altronde, si trovavano molto più a loro agio con qualcosa da fumare, che non con degli aggettivi da formulare. O qualcosa da bere. A entrambi piaceva bere, vino rosso in primis. Poi birra e superalcolici. Facevano razzie nei supermercati, per scolarsene il più possibile, anche in una sola sera, abbarbicati a qualche parcheggio anonimo, ascoltando musica di scarsissimo valore, sputacchiata da insignificanti e stantie stazioni radio.
La storia era finita senza un reale perché, quando gli amplessi animaleschi avevano ormai perso l'ardore degli inizi. Le telefonate s'erano diradate e così gli incontri, finché non s'erano più sentiti. Ma nessuno dei due aveva sofferto. Vivevano l'amore e gli affetti senza il minimo trasporto, come degli esseri viventi privi di intelletto ed emozioni. Gli affetti e le smancerie erano solo una rottura di scatole, legate a sentimentalismi da romantici senza carattere. Così la pensavano, anche se nessuno dei due era mai riuscito a esprimere verbalmente il concetto. Molto meglio vivere alla giornata, senza progetti, tantomeno iniziative legate all'ipotesi di mettere su famiglia.
“I marmocchi sono solo delle dannate scocciature”, diceva Amanda, ogni volta che qualcuno le chiedeva quando si sarebbe decisa a diventare mamma. “Piuttosto che mettere al mondo un figlio mi faccio monaca”.
I marmocchi erano creature inconciliabili con il loro mondo adulto. I loro pianti uno strazio infinito. Quando poi se la facevano addosso... Non vedevano un minimo di poesia in essi, il miracolo della procreazione era pura astrazione. Una volta avevano perfino ironizzato su una mamma di Lodi che aveva abbandonato il suo bambino sulle scale della chiesa principale. Con ciò stavano benissimo anche da soli, ognuno per i fatti suoi, con i rispettivi, monotoni e allucinanti lavori.
Amanda lavorava come donna delle pulizie in un hotel a Vimercate, poco dopo il curvone dell'ospedale. Era un hotel a due stelle e mezzo, frequentato più che altro da uomini d'affari che non trovavano sistemazioni migliori o che all'ultimo momento erano costretti a pernottare fuori casa. Risaliva a una decina di anni prima, in concomitanza con la nascita dei primi quartieri popolari, sorti per accogliere i tanti immigrati provenienti dal sud. Esternamente non era granché, ma all'interno le camere erano comode e confortevoli. La moquette, la tappezzeria, i fiori sui tavoli, conferivano alle stanze un'aria molto rilassante e vacanziera. Molti lo frequentavano anche per le scappatelle con l'amante. I bordelli erano chiusi da tempo e chi desiderava affaccendarsi con qualche squillo, non aveva molte altre chance in Brianza, se non andare a tampinare sfatte donne di strada nei luoghi più imboscati della regione.
Occupata durante la mattina, aveva quasi tutti i pomeriggi liberi, che trascorreva bighellonando in bicicletta e guardando la tv nella propria camera. Le piacevano i programmi più scontati, quelli preferiti dalle casalinghe, sceneggiati di serie b, con attori improvvisati, o giochi a premi senza tante pretese. Comunque sia, amava il suo lavoro: intellettualmente alienante e per nulla impegnativo. Al massimo poteva dimenticarsi di rifornire di carta igienica una delle numerose stanze, negligenza riparabile senza grosse conseguenze. Solo un giorno il capo, tal Maurizio Bestetti, riccioluto monzese con l'aria da sbruffone, l'aveva vivacemente ripresa quella volta che s'era fermata in una camera a farsi una doccia, rischiando un tu per tu imbarazzante con un cliente assai esigente.
“Non ci vedo nulla di male”, aveva risposto al principale.
“Allora non ci vedrà nulla di male se anch'io stasera vengo a farmi la doccia a casa sua, ciondolando poi nudo per il suo soggiorno”.
I rapporti con i colleghi non potevano che essere scialbi, per non dire inesistenti, nessuno amava darle particolare confidenza, e anche lei, comunque, era poco interessata ad aprirsi agli altri. Ogni tanto scambiava due parole con la centralinista, una signorotta sui 55 anni, carente d'affetto e con un cuore che da non molto aveva cominciato a fare le bizze; ma niente di troppo personale. Si limitavano a raccontarsi quel che avevano mangiato la sera prima, del tempo eccessivamente caldo o freddo, o qualche cattiveria sui capoccia. La pochezza dei rapporti interpersonali era, però, controbilanciata dalla frequenza con cui faceva ritorno a casa con qualche vestito, oggetto personale o gadget dimenticato da uno dei tanti ospiti dell'hotel. Era una gratificazione concettualmente ben lontana da quella derivante da sani e costruttivi rapporti umani, ma in qualche modo perfetta per lei, sempre più convinta del vantaggio di starsene sulle sue. Le erano capitati anche dei gioielli, su tutti un braccialetto d'oro e una collana di brillantini, che non aveva perso tempo a vendere tramite un cugino di Barlassina, da sempre immischiato in giri loschi, figli della microcriminalità locale, già a quei tempi particolarmente florida.
La casa dei Vismara era fra le più disastrate del condominio omatese. Non c'era nulla che potesse renderla un nido caldo e confortevole. C'erano un paio di quadri alle pareti, ma di pessimo gusto: uno dei due raffigurava una natura morta con lo scalpo di un cervo con gli occhi aperti. Dirlo lugubre sarebbe stato un eufemismo. Luigi s'era battuto per inchiodarlo in mezzo al locale, considerandolo un pezzo di grande valore. C'era un qualcosa di macabro nel suo modo di percepire l'arte. Per quanto il suo buongusto potesse offrirgli l'opportunità reale di discernere correttamente un'opera artistica degna di riguardo, da una schifezza abominevole. Per il resto era una desolazione disumana. In soggiorno troneggiava un ampio divano ampio, sgualcito, sfondato, un televisore dotato di grande schermo, una mensola con un solo soprammobile in ferro battuto, rappresentante un ciclista durante una tappa del Giro: il ciclista doveva essere Fausto Coppi, ma di lui non aveva proprio nulla, se non il naso vagamente aguzzo. Era una patacca che girava per casa da tempo immemore, recuperata chissà dove.
Da una porta divelta, con alcuni fili elettrici che spuntavano dal muro, si finiva in cucina, una cucina bianca, povera e spoglia. I fornelli, in compenso, erano lindi e splendenti, la moglie ci teneva a lustrarli anche quando non era necessario, trascurando macroscopiche aree della casa, dove si circolava meno e la sporcizia signoreggiava. Comprendeva lei stessa l'anomalia di questo suo comportamento, di questa sua attitudine morbosa al particolare, tuttavia non riusciva a venirne a capo, come se negli anfratti del piano cottura potessero realmente nascondersi i bacilli di un morbo pestilenziale.
La desolazione di casa Vismara proseguiva per la minianticamera e per le camere, due sarcofagi dell'anteguerra, con letti alti e massicci, divorati dai tarli, e dei comodini con le ante fracassate e i cardini arrugginiti. La camera di Amanda oltre a essere angusta era anche disordinata e sporca. Gli infissi erano pieni di polvere, e la base degli infissi quasi sempre disegnati da matasse informi di natura organica, probabilmente i resti defecatori del passaggio di qualche animaletto. Ma il disordine più totale era soprattutto una prerogativa del bagno, nel quale non si capiva, quasi, dove finissero gli accessori, per dare aria alla spazzatura: giornali vecchi, scatole vuote degli assorbenti, trucchi rinsecchiti, fazzoletti di carta, si mischiavano con una logica malata a saponi ancora incartati, bagnoschiuma sigillati, profumi a metà...
“Una scatola con dentro l'energia”, aveva risposto Luigi alla domanda della moglie.
“Cosa ci fa l'energia in una scatola?”.
“Ma cosa vuoi saperne te?”.
In effetti, mai prima d'ora la signora Vismara aveva sentito parlare di un reattore. Semmai aveva sentito parlare di una sciagurata coi capelli ossigenati che cantava “Dammi una lametta che mi taglio le vene”, di nome Rettore. L'aveva appena vista anche a Sanremo col brano “Amore stella”. Ma evidentemente era tutto un'altro mondo, il mondo dell'industria discografica, non esattamente in linea con le potenzialità delle particelle subatomiche. Poi le cose si erano ulteriormente complicate, quando lo speaker televisivo aveva cominciato a blaterare relativamente a concetti fisici sibillini anche per una famiglia super acculturata. Atomi, fisica nucleare, fusione e fissione, attività solare, stellare, erano per i due coniugi termini ai limiti della fantascienza lessicale. Alla fine Luigi aveva spento la tv, mentre la moglie gli serviva il secondo: una coscia di pollo con il condimento che riempiva mezzo piatto.
“Perché hai spento? Lascia acceso che devo vedere il tempo…”.
Ma Luigi aveva fatto finta di niente, e s'era avventato sulla carne, lasciando alla moglie il compito di riattivare il tubo catodico, non senza uno sbuffo di risentimento.
La figlia non era ancora rientrata. Da qualche giorno faceva tardi la sera, temporeggiando in un bar di Villasanta, dove aveva conosciuto un'amica molto simile a lei, per atteggiamento e stile di vita. Si chiamava Giovanna Malaguti. Anche lei non era molto aggraziata e anche lei non nutriva più grandi interessi per il genere maschile. Troppe delusioni. Entrambe erano così state accarezzate - pur senza confessarselo reciprocamente - dall'idea di un'avventura omosessuale; ma ancora il pensiero non aveva preso la piega giusta, e nessuna delle due, di fatto, s'era fatta avanti per tentare un primo approccio carnale. Ma non era forse nemmeno quello l'orizzonte che perseguivano, essendo una sorta di indefinita disperazione a portarle a certi ragionamenti, privi di quella sessualità spiccata che dovrebbe contraddistinguere chi davvero ha intenzione di provare esperienze libidinose al di là del senso comune. Alcuni ragazzi del bar vedendole ciangottare appartate, con gonnoni volgari, le prendevano un po' in giro, ridendo sotto i baffi e additandole fin da subito come lesbiche patentate. Perfino il gestore, a scapito dei suoi interessi, si lasciava andare a battute provocatorie, muovendo il mento con disappunto.
Dopo cena Luigi era sceso in cortile per prendere una boccata d'aria. Aveva voglia di parlare con qualcuno, ma tutt'intorno regnava il silenzio più assoluto: erano tutti in casa a seguire le vicende di Chernobyl? Si era così messo a fissare il cielo, ritornando malinconicamente al pensiero degli amici morti durante la guerra. E per un attimo meditando sul fatto che i giorni della guerra, incredibilmente, gli mancavano. Erano stati giorni orribili, tristissimi, dolorosissimi, eppure in qualche modo degni di essere vissuti, più dei tanti giorni insignificanti e anonimi che si susseguivano nella sua quotidianità. Almeno al fronte c'era da salvare l'onore, dimostrare il coraggio, sfidare la morte, tutte prerogative che rendono grande e inestimabile una vita; altroché le vite come la sua nel 1986, quando nemmeno lo scoppio di una centrale nucleare era in grado di dargli un po' di pepe. Ma in fondo era giusto così, in fondo una spiegazione ce l'aveva. Chi torna dalla guerra non può più rimanere lo stesso e, soprattutto, non può più avere paura. Non ha più diritto di avere paura. Chi ha visto la morte in faccia, a pochi millimetri da sé, nelle profondità del cuore e dell'anima, chi s'è visto portare via in un soffio compagni di una vita, non potrà mai più avere timore di qualcosa. Era anche per questo che lo scoppio della centrale di Chernobyl non gli aveva procurato alcun turbamento. Che effetto avrebbero potuto fargli degli uomini morti per una sciocchezza del genere? Ma la gente lo sa cosa significa marciare a piedi nudi a trenta gradi sottozero, con i cecchini nascosti nella nebbia, pronti a fare fuoco? Lo sa cosa significa sognare per una vita, per poi vedere i propri sogni nebulizzare nel giro di un giorno, una sera, una notte? No, la gente non lo poteva sapere, sennò non avrebbero dato così importanza a una notizia del genere e forse adesso ci sarebbe stato qualcuno disposto a parlare con lui in cortile. E poi che diamine erano queste radiazioni? Non ce n'erano già state abbastanza di radiazioni con le bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki? Perché, ora, tutto questo chiasso?
C'era un gatto appollaiato su un muretto che divideva la strada principale dallo scivolo dei box. Sonnecchiava. Era uno dei tanti gatti che circondavano il palazzone omatese, dove sapevano di trovare sempre qualche scarto, e qualche cantuccio caldo dove appisolarsi senza pericolo; una gattaia di randagi ormai familiare a tutti e perfettamente calata nel grigio habitat trivulziano. Era grassoccio, bianco, con ampie macchie scure, nerognole, e sembrava godere profondamente della situazione che s'era venuta a creare: clima mite, silenzio, serenità. Ma per Luigi non era così. Per Luigi era una sera tutt'altro che mesta, l'ennesima serata da gettare alle ortiche. Il Vismara s'era quindi piegato per raccogliere un sasso ai suoi piedi e, senza pensarci due volte, con la stessa grinta con cui si avventava sui nemici durante la guerra, l'aveva lanciato contro l'animale innocente. Non credeva di avere una mira così buona: il sasso aveva centrato in pieno il muso del felino, facendogli tirare un miagolio di angoscia, e portandolo a rifugiarsi in fretta e furia su un acero lì vicino con un bernoccolo sanguinante. Così Luigi credeva di avere pareggiato i conti. Così anche il gatto avrebbe patito la sua pena. Una pena in qualche modo simile alla sua, benché non sapesse inquadrare bene di che dolore si trattasse.

mercoledì 29 giugno 2011

martedì 28 giugno 2011

Senza retorica: "Notte"


Ci sono cose che non si capiscono
Ci sono storie che non si rammentano
Ci sono mamme che piuttosto piangono
Ci sono padri che semmai si assentano

Ci sono luci che non si riaccendono
Ci son dolori che si riacutizzano
Ci sono vizi che non si guariscono
Ci sono frasi che non si ripetono

RIT. E ci sei tu con quel sorriso lì
E ci sei tu che mi guardi così
E chissà cosa vuoi da me
Chissà quando e perché
Questa notte passerà anche per te

Ci sono inverni che non si rimpiangono
Ci sono estati che mai più ritornano
Ci sono nuvole che non trascorrono
Ci sono occhi che non si confondono

Ci sono case che non si riaffittano
Ci sono pazzi che poi rinsaviscono
Ci sono cerchi che non si richiudono
Ci sono macchine che poi ripartono

RIT. E ci sei tu con quel sorriso lì
E ci sei tu che mi guardi così
E chissà cosa vuoi da me
Chissà quando e perché
Questa notte passerà anche per te

2011

lunedì 27 giugno 2011

A caccia di spiriti


ammesso che valga
davvero la pena
vivere su un altro pianeta
a caccia di spiriti
con una chioma di donna
obbligata alla nuca
e un uomo gigantesco
che canta con voce flebile
le rive irlandesi
il vento e il venticello
e tutto ciò che c'è
di così incredibilmente
grande

domenica 26 giugno 2011

In cerca di Samson


In Africa
Tornato ieri
In Tanzania
Sposato ieri
In cima a un minareto
Con la cicca in bocca
A guardare le stelle
In cerca, in realtà
Di Samson

mercoledì 22 giugno 2011

Sulle orme di Rana Dasgupta


libri così non sono tanto frequenti
peraltro l'autore ha la mia età
e ambienta il tutto a sofia
una regione che da sempre mi intriga
si parla di chimica
e nitroglicerina (forse)
e di una centrale nucleare
l'unica della bulgaria
vale la pena leggerlo
non solo perché è scritto bene
ma anche perché è scritto
con...
la giusta passione

martedì 21 giugno 2011

Stregate dalla luna


Troppo facile diffidare
Delle donne che parlano d'arte
Ma quando una donna parla di danza
Allora tutto cambia
Perché solo la donna conosce
L'arte propria della danza
La donna balla con la luna
Come nessun uomo potrà mai fare

venerdì 17 giugno 2011

A very drunk man


I meet Dylan Thomas
In Guatemala
Many years ago
Many years ago
Dylan Thomas was a Welsh poet
And writer
A VERY DRUNK MAN
Was born in the seaport town Swansea
Yes, Swansea
Tonight is here with me
And my guitar
And my music
And my religion
And my conscience
I love him
And his hair
And his stupidity

mercoledì 15 giugno 2011

Dalla mia postazione di lavoro


Dalla mia postazione di lavoro
Il carapace di una tartaruga
Assume forme inusuali
La metafisica diviene fisica
La fisica si trasforma in musica
La musica in geometria
La geometria in aramaico antico
Dalla mia postazione di lavoro
Non si vedono limiti
Se non quelli dello schermo del Mac

venerdì 10 giugno 2011

Les chats de gouttière


gatti rifatti
disfatti
poco soddisfatti
rimbrottano
imprecano
ciangottano
fra una grondaia e l'altra
fra un comignolo e l'altro
fra un raggio di sole
e un'eclisse di luna
fra un'opportunità (in)decente
e un sorriso indulgente
dall'alba al tramonto
dall'oggi al domani
come se niente fosse

giovedì 9 giugno 2011

Affari condominiali: primo piano, appartamento A


Basso, grassoccio, pelato, con le sopracciglia foltissime e una tipica andatura, assimilabile a quella di un militare durante la marcia. Lo caratterizzavano, inoltre, degli ingombranti occhiali contro l'astigmatismo, un orologio d'oro, elegante, benché esageratamente voluminoso, una collanina d'argento riportante la Santa Vergine, una brevissima prece e la sua data di nascita: 5 marzo 1940, il giorno del massacro di Katyn, operato da Stalin nei confronti di oltre ventimila polacchi. Era il biglietto da visita di Andrea Canali, per tutti il Cana, omatese d'adozione, figlio del fu Mario proveniente da Legnano e della bergamasca Lisetta Cornolti. Non era certo quel che si può dire un bell'uomo, ma aveva un suo fascino, dovuto verosimilmente alla sua imprenditorialità, al suo modo di fare deciso e convincente, per nulla intimorito dalle avversità della vita. Era cresciuto con un padre burbero e severo, che gli aveva conferito le armi giuste per farsi strada nel mondo e vincere qualunque pusillanime tendenza. Era riuscito a mettere in piedi una piccola azienda che produceva oggetti in metallo destinati ai negozi vinicoli di mezza Italia, perlopiù portabottiglie o accessori per anonimi mobiletti da cucina. Quando il telegiornale aveva dato la notizia dell'esplosione del reattore di Chernobyl, e del rischio di contaminazione per l'intera Europa, aveva appena finito di sistemare la seconda valigia. Era un bagaglio rigido e robusto, grigiastro, senza particolari caratteristiche concernenti le mode del momento, ricevuto a Natale da un collega col quale era solito giocare a tennis, uno degli ultimi doni avuti in vita sua.
Con la moglie, ormai, le cose erano precipitate. E si rendeva conto che gli rimaneva un solo modo per non correre il rischio di peggiorare ulteriormente la situazione: andarsene. L'alternativa non la voleva nemmeno ponderare. L'alternativa era solo vagamente metaforica: accoltellare la donna che aveva sposato quasi vent'anni prima. Eliminarla dal suo background esistenziale. Era un'idea assolutamente irrazionale, indefinita, sfocata, che però, da troppi giorni si insinuava con rinnovato vigore nella sua testa e cominciava a preoccuparlo. È vero, non era il tipo, lui non avrebbe fatto del male a una mosca, ma gli accoltellamenti lo affascinavano da sempre, forse per via dei numerosi gialli letti; e in ogni caso non è detto che le persone più pacifiche fossero anche quelle meno disposte a scatenarsi su anime indifese. Peraltro percepiva che i presupposti comuni a molti fatti di cronaca aventi come protagonisti serramanici e affini, scagliati senza pietà su antichi amori e rancori, e romantiche idee di proficue convivenze, cominciavano a contraddistinguere sempre più da vicino la sua umile esistenza.
“Si inizia sempre così, con una moglie che prende a dare i numeri. E il marito che, esasperato, la elimina senza tanti fronzoli”, si raccontava sconsolato.
Era, dunque, il pensiero di un raptus a scombussolarlo, non tanto la consapevole volontà di accanirsi con ferocia sulla moglie; benché non fosse la rabbia a scaturire dal suo animo innanzi a certi ragionamenti, bensì un misto fra angoscia e noia. Noia soprattutto, una morbosa e vigliacca noia.
Calzini, mutande, canottiere, cinture; compresa la cinghia più conciata che aveva, deflagrata da anni di strappi dovuti al su e giù periodico della pancia, ma dalla quale non riusciva proprio a staccarsi, come afflitto da una perversione feticista. L'intimo, insomma, più qualche accessorio fra cui spazzolino, rasoio e dopobarba... I vestiti importanti li aveva già sistemati nell'altra valigia, la più capiente, benché meno elegante. Da giorni aveva programmato ogni cosa. Ormai non ce la faceva davvero più. Era scaduta ogni speranza. Prima di fare i bagagli, però, aveva contattato un amico per chiedergli di affittargli per un tempo indefinito la sua roulotte, parcheggiata in uno squallido camping di Monza, nei pressi della ferrovia, coronato da sterpaglie e da un bugigattolo che sfornava ottimi panini al catrame, conditi dal piombo rilasciato da una fabbrica vicina. Silvio Canosa, l'amico in questione, non usava più la sua casa ambulante da quando era rimasto vittima di un incidente in montagna e aveva deciso che non sarebbe mai più andato in vacanza, per passare il resto dei suoi giorni fra le insignificanti quattro mura di Monza che lo ospitavano da più di trent'anni. La roulotte non era il massimo, ma era comunque l'ideale per passare un certo periodo di tempo in totale libertà, in attesa di trovare una sistemazione un po' più accattivante.
Andrea aveva inaugurato la roulotte nel corso di una notte infima, calda e umida, in compagnia di una bellezza cubana, conosciuta dopo una sera bagorda in un losco ristorante milanese, dalle parti di piazzale Loreto. Era una specie di ritrovo per uomini in cerca di amori facili e per donne ansiose di incontrare bassi, grassocci e pelati da spennare. Avevano fatto l'amore senza badare alle romanticherie e gli ansimi di lei s'erano uditi anche per strada, attirando l'attenzione di vari passanti, tentati di rivolgersi alle forze dell'ordine per schiamazzi notturni e atti osceni in luogo pubblico. Lui le aveva tirato un pizzicotto dalle parti dell'ombelico, un ombelico stranamente accartocciato su se stesso, ridendo come una iena, e la cosa era finita lì. Ma non era la prima volta che faceva le corna alla moglie. Prima della suadente ragazza del centro America, infatti, c'era stata un'ecuadoregna che parlava come Paperino e ancor prima di lei una brianzola alcolizzata, con un figlio a carico avuto da chissà chi. Ma non era da biasimare. Da anni la moglie aveva optato per una castità forzata, indipendente da tutto e da tutti, e soprattutto completamente incondizionata dalle onestissime esigenze fisiologiche del marito. Lui aveva anche provato a buttargliela lì.
“Se continui per questa strada andrò a puttane. Giuro, andrò a puttane”.
Ma la moglie non si era nemmeno presa la briga di rispondergli. La decadenza sentimentale che da tempo colonizzava impavida le meningi dei due coniugi, aveva già raggiunto livelli tali che anche mandarsi barbaramente a quel paese non suscitava più alcuna soddisfazione. Non era mica come all'inizio, con i primi litigi, in un certo senso quasi commoventi, se rapportati allo squallore attuale, quando sfogarsi in modo turpe e incivile, con tutta l'energia che avevano in corpo, aveva davvero il potere di creare un subliminale piacere psichico: il buon sapore derivante dalla consapevolezza di aver giocato l'ultima parola, quella decisiva, in grado di annichilire definitivamente l'avversario, umiliandolo per l'eternità. A che punto erano arrivati... Al punto che, ormai, restava solo il peggio del peggio: vomitarsi addosso o, appunto, accoltellarsi senza pietà.
Il Cana aveva le lacrime agli occhi e gli si contorceva lo stomaco, per un motivo ben preciso: i figli. Era desolato per Cristina e Raul, che lasciava per sempre. Cristina, la maggiore, frequentava la seconda superiore e nonostante la feroce miopia che la contraddistingueva, si ostinava a voler fare a meno degli occhiali. Era una quindicenne piena di lentiggini, i capelli sani e forti, la bocca carnosa e un seno che, negli ultimi mesi, era strabordato, creandole qualche complesso. Da poco s'era messa con un ragazzo, Alberto Bosetti, un compagno di classe spilungone con un ciuffo alla Elvis Presley, col quale aveva perso la verginità, col quale aveva voluto forzatamente perdere la verginità: ormai era ora. In realtà non le era piaciuto più di tanto, lui spingeva troppo nel suo antro immacolato, ansimando come un pastore tedesco dopo una corsa estiva. Ma il gioco, almeno, era valso la candela. Così, infatti poteva finalmente dirsi donna a tutti gli effetti, al pari delle sue coetanee - specialmente Marina Tresoldi - a sentir loro, sessualmente super esperte, con un lungo corredo di performance sessuali alle spalle, degne del migliore film porno in circolazione. Raul era il fratello più piccolo, l'ultimo dei Canali, bassetto con gli occhi scuri e un'aria indolente. Frequentava la seconda media, senza nemmeno un po' di voglia di studiare. Ma almeno un interesse ce l'aveva: i videogame. Passava ore e ore davanti al monitor televisivo, solo, o con qualche amico di scuola, a massacrare senza pietà nemici alieni, fantasmini con gli occhi romboidali, scimmiette con la faccia ridanciana. Erano i primissimi videogame in commercio, attesi da tempo come una manna dal cielo, dopo l'egemonia massmediatica dei robot e dei cartoni giapponesi.
Con i figli, del resto, aveva sempre avuto un ottimo rapporto. Dedicava loro con gioia tutto il tempo libero che aveva a disposizione. Spesso andavano insieme in giro in bicicletta; qualche volta, col camioncino dell'azienda, li portava a visitare una città vicina, mostrandogli le bellezze artistiche che la contraddistinguevano, benché di arte non ci capisse granché. Una volta a Pavia s'erano soffermati più di un'ora intorno alla chiesa principale e al rossore dei suoi mattoni, prima di dirigersi verso un'area campestre, dove avevano pranzato sotto le fronde di una lussureggiante farnia. Non gli faceva mancare niente, né faceva pesare loro i suoi turbamenti. Si chiedeva, pertanto, come avrebbe fatto a vivere senza le sue due creature. Come avrebbe fatto a dormire sereno la notte. Erano la sua aria. Senza retorica. Ma non c'erano alternative. Il matrimonio era inesorabilmente naufragato e ora non riusciva a far altro che chiedersi laconicamente di chi fosse la colpa. Ma non riusciva ad assumersi tutte le responsabilità del naufragio. Anzi. A ben vedere percepiva di essere stato l'unico dei due a tentare di salvaguardare il rapporto. Di tenere a galla la piroga. Era lei, col suo maledetto carattere ansiogeno, impossibile da soddisfare, ad aver mandato tutto all'aria. Era lei che non sapeva mai che diamine di pesci pigliare, cosa volesse o cosa non volesse dalla vita, da lui e dal mondo intero. Un sospetto, però, ce l'aveva. Per Andrea la moglie era semplicemente depressa, patologicamente depressa, mica una crisi passeggera, c'era qualcosa che non funzionava per il verso giusto nei suoi neuroni; a livello organico, endogeno. Aveva probabilmente bisogno di uno psicologo, di un sostegno, di un aiuto, insomma di un qualcuno che riuscisse a far luce nei meandri della sua testa ripiegata su se stessa, immalinconita di disillusioni dall'alba al tramonto, cosa che lui, francamente, non avrebbe mai saputo, potuto fare. Ma come dirglielo? Dirle che aveva bisogno dello strizzacervelli sarebbe stato come comunicarle che non aveva un minimo di sale in zucca e che praticamente era una paraplegica mentale. Non l'avrebbe presa tanto bene. Aveva, dunque, provato con le rose, con i viaggi a sorpresa, con i regali improvvisati, cene, braccialetti, foulard di lino. Ma niente. Buio totale.
Pochi mesi prima il patatrac finale. Era rientrato stanco e provato dal lavoro, dopo un battibecco avuto con il socio, Firmino Pandolfi, anonimo personaggio da poco guarito da una tignosa influenza: s'erano fatti scappare un appalto che avrebbe garantito all'azienda ritorni eccellenti, proiettandoli nel gotha degli imprenditori lombardi. Imperizia del collega che non aveva saputo chiudere l'affare al momento opportuno, in seguito a un incontro informale avuto un pomeriggio uggioso a Como, con dei pezzi grossi della Comedini Spa. S'era seduto a tavola in attesa che la moglie gli servisse qualcosa. Anche se le cose andavano già male, almeno una coscia di pollo, pur fredda e gelata o insipida, la trovava sempre ad aspettarlo. In fin dei conti era lui e soltanto lui a tirare avanti la baracca. La moglie con la scusa dell'imprenditorialità del marito non s'era mai presa la briga di lavorare. E forse anche per questo pativa quella sorta di male oscuro che la faceva sentire inutile, brutta e irrealizzata. Era dunque il minimo che potesse aspettarsi, rincasare e godere della cena pronta. Ma la tavola, quella sera, era sparecchiata, se si esclude il solito striminzito vassoio pieno di caramelle ammuffite, provenienti dai più misteriosi lidi. In casa, in compenso, c'era la moglie devastata da una delle sue paturnie esistenziali: accovacciata sul divano piangeva a dirotto, libera di esprimersi al meglio, sapendo che i figli sarebbero restati fuori casa per un po', per via della festa di compleanno di un amico di quartiere.
“Amore, non si mangia stasera?”.
Nessuna risposta.
“Tesoro non c'è nulla da mangiare?”.
“Arrangiati”.
Il Cana non ci aveva visto più. Ne aveva mandate giù troppe. Se anche le carinerie non servivano più a niente, voleva proprio dire che era arrivato il momento di darci un taglio: definitivo. Lì, infatti, aveva preso la decisione di andarsene; sparire per sempre dallo sguardo vuoto di una donna ormai priva di ogni volontà di conseguire un sogno, un avvenire, concretizzare una banale carezza su un volto amico: era l'ultima chance. Il problema era come comunicarlo ai figli. Cosa avrebbe detto ai figli? Nel 1986, peraltro, le separazioni e i divorzi erano tutt'altro che frequenti, mogli e mariti, piuttosto che dirsi addio, tiravano avanti a campare anche a costo di sacrifici inauditi. Si era disposti a tutto pur di non dare scandalo. Così era scritto nelle sacre scritture, così si erano giurati durante il corso fidanzati presso la parrocchia San Zenone, sotto la supervisione del sempiterno don Felice Matassa. Chi si separava era un disadattato, un povero Cristo, qualcuno da bollare come un depravato fino alla fine dei suoi giorni. E chi andava a vivere in una roulotte, figuriamoci, un autentico fuori di testa, un barbone. Ma tant'è.
Andrea aveva comunicato ai figli la sua decisione un paio di sere prima del disastro di Chernobyl, con una luce strana che filtrava dalle finestre, come quando sta per scoppiare un violento temporale. Un paio di sere prima di ritrovarsi come un ebete con le lacrime agli occhi a riempire di vestiti due valigie delle quali fino a quel momento s'era servito esclusivamente per andare al mare, in montagna, qualche volta al lago. Cristina e Raul stavano guardando la tv: un episodio de “Il mio amico Ricky”, sitcom statunitense andata in onda in Italia dal 1982, comparsa per la prima volta nel 1984 su canale Cinque. Andrea s'era seduto in mezzo a loro. Cristina lo aveva squadrato con aria stupita.
“Papà, stai bene?”.
Andrea aveva riso amaramente.
“Potrei star meglio. E voi?”.
“Noi stiamo bene”.
Anche Raul s'era accorto che c'era qualcosa che non andava.
“Dov'è la mamma?”, aveva domandato, mandando ulteriormente in crisi il genitore.
“Non so, ma è proprio della mamma che vorrei parlarvi”.
“Che c'è? Che è successo a mamma?”, aveva chiesto il più piccolo della famiglia.
“Nulla. Non è successo nulla a mamma, solo che, io e mamma abbiamo deciso di vivere per un po' separati”.
“Cosa vuol dire?”, aveva chiesto Raul. “Mamme e papà possono vivere separati?”.
Andrea aveva deglutito con forza, cercando di neutralizzare il magone, senza aggiungere altro. Ma Cristina aveva già capito tutto. S'era, infatti, alzata dal divano con il viso imbronciato ed era corsa in camera. Niente lacrime, ma solo la conferma di ciò che aveva sempre sospettato: i suoi genitori avrebbero fatto la fine di quelli della sua amica Gigliola Cozzi, cresciuta solo con il padre, dopo l'addio della madre, innamoratosi di un tipo facinoroso, con l'abitudine di depilarsi i pettorali. Aveva avuto questo presentimento dopo quella volta che, per un paio di giorni, i genitori non si erano rivolti la parola solo perché la vicina di casa non s'era preoccupata di sbattere la tovaglia curandosi di non far finire le briciole sul loro balcone. Il padre aveva fatto spallucce, la madre s'era imbestialita al punto di scarnificarsi con un morso mezzo dito dalla rabbia, poi il silenzio. Cristina non aveva alcuna intenzione di buttare dell'altro tempo per ascoltare papà. Ma in camera aveva indagato un po' di più su se stessa, scoprendosi stranamente indifferente alla cosa. Mettendo meglio a fuoco il problema, poteva tranquillamente dire che non gliene fregasse nulla. Anzi. Quasi ne era contenta. Adesso in casa avrebbe avuto molto più spazio e un genitore in meno nei dintorni da sopportare con le sue prediche. Ma forse era solo una reazione inconscia al problema, i casini esistenziali sarebbero sorti più avanti, in concomitanza con qualche avversità della vita. Anche a questo era arrivata.
Per Raul era diverso. Non credeva, infatti, possibile che due grandi, una mamma e un papà, potessero decidere di non stare più insieme, non riusciva a concettualizzare la cosa, perciò non aveva dato grande importanza all'uscita del genitore, continuando a guardare la tv, come se niente fosse accaduto.
Il Cana s'era alzato per andare in bagno a bere un bicchiere d'acqua. Aveva la gola riarsa. S'era guardato con pena allo specchio sopra al lavandino, scoprendosi decisamente invecchiato, brutto e acciaccato. Erano comparse delle rughe intorno agli occhi; anche la fronte era rugosa e bucherellata e l'espressione del viso, quella di una persona in seria combutta con se stessa. I capelli intorno alle tempie s'erano incredibilmente ingrigiti. La moglie, in cucina, era sprofondata nel suo solito torpore mezzo catatonico. Ci passava le ore a sfogliare il manuale di cucina comprato con la sorella in una libreria di Milano, dopo una specie di gita improvvisata dai rispettivi mariti: chissà cosa lo leggeva a fare, pensava Andrea, se poi non gli preparava mai nulla di buono da mangiare. Il Cana l'aveva guardata con amarezza dall'uscio semiaperto, prima di infilarsi le scarpe e uscire a prendere una boccata d'aria, conscio del fatto che quella sarebbe stata una delle ultime sere trascorse in casa con la propria famiglia.
Per strada aveva bighellonato senza meta per un paio d'ore, nella solitudine più assoluta. Erano le sue strade, i suoi sentieri, le sue storie da ragazzo, ma in quel frangente non provava alcunché per essi. Erano diventati mondi estranei. Era una strana paura ad avere il sopravvento, a gelargli le emozioni, a fargli sembrare tutto così diverso da ciò che era ed era stato. Gli mancava perfino la forza di elucubrare, di compiere su se stesso del sano terrorismo psicologico. Ma in questa assenza di tempo era comunque quasi arrivato a Cavenago, avvolto da una sera tiepida e serena. Un contadino seduto su una panca disastrata, dalle parti di cascina Trivulzina, l'aveva coinvolto nei suoi pensieri, sottolineando l'irrispettosità delle nuove generazioni che tutto vogliono senza dare nulla in cambio. Gli aveva raccontato, come se lui fosse lì unicamente per ascoltare le sue paranoie, che la notte precedente degli zingari avevano fatto irruzione nel suo cascinotto, facendo piazza pulita di tutto ciò che avevano incontrato, compreso un bellissimo rastrello appena comprato e pagato una fortuna.
“Maledetti strolig”, aveva blaterato, in un accesso d'ira.
Le cose, in effetti, erano cambiate dal dopoguerra. Erano arrivati a Omate e in tutto il circondario un mucchio di “forestieri”, con filosofie di vita troppo diverse dai brianzoli, tutti casa, chiesa e lavoro. Anche i cani, compresi quelli più assatanati, e i cancelli spinati, non servivano più a niente. Il deterrente era un concetto da riqualificare negli anni Ottanta. Non c'era più l'amabilità di un tempo, in cui – almeno apparentemente – ci si sentiva un po' tutti fratelli, abbarbicati allo stesso focolare, in attesa di un nuovo santo da festeggiare. I cani venivano avvelenati senza tanti convenevoli e i cancelli superati sfondando le serrature o fracassando i lucchetti con martellate selvagge. C'era un grosso accampamento gitano al di là dello sterrato principale che porta a Cavenago, dal quale partivano vere e proprie retate punitive ai danni degli ignari contadini che con fare puntiglioso proteggevano i loro raccolti e il loro sparuto bestiame. Ma nessuno aveva il coraggio di avventurarsi fin là per dettare legge.
“Ma se ne trovo uno nella mia proprietà, lo uccido con le mie mani”, aveva continuato il contadino.
Il Cana aveva riso per non piangere, tornando a pensare all'ipotesi dell'accoltellamento, che avrebbe fatto comodo, in questo caso, al suo interlocutore, inorridito dalla mancanza di rispetto degli zingari. Adesso stava davvero male. Il senso di estraniamento se n'era andato, ma aveva lasciato il posto all'angoscia pura. Ancora peggio. Il punto è che dopo aver peregrinato per un po', e aver dato retta a uno sconosciuto alle prese con la sua quotidianità malata, le cose s'erano brutalmente e improvvisamente fatte chiare e lampanti. Non si poteva più fuggire. L'ennesimo orizzonte l'avrebbe solo e banalmente condotto a un nuovo orizzonte, e così via, senza possibilità di replica: tutte le strade, insomma, l'avrebbero riportato a un edificio a sei piani nel cuore di Omate, covo di amore e odio. Riconosceva razionalmente che se ne sarebbe dovuto andare, come un mentecatto, e questa presa di coscienza gli procurava un dolore sordo, acuto, pungente, senza respiro. Per un istante avrebbe preferito essere morto stecchito, fulminato da una saetta, sbriciolato da un meteorite, catapultato in un altro mondo da un'esplosione nucleare, tipo quella della quale avrebbe sentito parlare due giorni dopo al telegiornale, piuttosto che essere alle prese con gli ultimi bagagli per il definitivo congedo. A una cabina del telefono aveva chiamato casa. Un gesto inconsulto, per nulla premeditato. Non sapeva neanche lui perché l'avesse fatto. Aveva risposto Cristina.
“Pronto”.
“...”.
“Pronto”.
“...”.
“Chi parla?”.
“...”.
“Ma vaffanculo”.
Era rimasto per altri due minuti con la cornetta in mano, immaginando tutte le altre volte che, da quel momento in poi, per ironia del destino, avrebbe dovuto chiamare casa per potere parlare con il sangue del suo sangue, su appuntamento, su programmazione, su tutto ciò che in una famiglia normale non aveva senso di esistere. Era rimasto con la cornetta in mano, assimilandola a un mitra, pronto a far fuoco per stendere tutti quelli che gli passavano davanti, un buon modo per scaricare le proprie farneticazioni, indeciso se telefonare o meno a sua madre. Gli rimaneva soltanto lei. Colei che l'aveva messo al mondo: la piacevole idea del placido e inattaccabile ventre materno. Il padre se ne era andato poco dopo le sue nozze, nel 1969. Se l'era portato via una misteriosa malattia, come un missile. C'era qualcosa che non andava al cuore, i trigliceridi troppo alti, le piastrine troppo basse. Si era parlato di istoplasmosi, patologia veicolata da microrganismi particolari che va a lenire inesorabilmente le valvole cardiache, compromettendo la salute vascolare e predisponendo al cosiddetto scompenso cardiaco. In ogni caso non gli era mai mancato, e forse anche per questo si sentiva un po' in colpa. Come avrebbe reagito il padre alla notizia che se ne sarebbe andato di casa? Era un uomo all'antica. Senza mezze misure.
La mamma stava a Vimercate, in un bilocale striminzito, ma curato, pieno di gingilli kitsch un po' in tutti i locali; proseguendo sulla strada per Burago, costeggiando la cinta del parco Trivulzio, avrebbe potuto raggiungerla a piedi. Ma alla fine aveva desistito. Sentire mamma, in fondo, avrebbe solo peggiorato ulteriormente le cose. Si sarebbe sentito dare, come al solito, del coglione: la donna non aveva peli sulla lingua e aveva sempre remato contro il suo matrimonio, giudicando fin dal primo momento la sua donna una squilibrata, frustrata e inconcludente.
“Te l'avevo detto io”, avrebbe detto la madre.
Anche di continuare a girovagare senza meta non gli era sembrata una saggia idea. Alla fine, perciò, aveva optato per la scelta più logica e scontata: rincasare e tirar mattina sul solito divano che da un numero indescrivibile di mesi lo accoglieva fra le sue braccia, raggomitolato su se stesso come un onisco.
Sentendo dell'esplosione di Chernobyl s'era ridestato come da un lungo sonno. Lo speaker televisivo blaterava in una lingua incomprensibile. Parlava di uranio, di fusione nucleare, di stoccaggio, e un discreto, ma assolutamente impreciso, numero di morti e feriti. I pompieri accorsi sul luogo dell'incidente non erano tornati a casa felicemente; molti erano finiti in ospedale senza conoscere le conseguenze dei quintali di radioattività assorbiti. Nessuno, ancora, sapeva quali sarebbero state le reali conseguenze. Non esistevano studi approfonditi sugli effetti delle fughe radioattive, se non quelli elaborati dai coniugi Courie. Si parlava inoltre della necessità di evacuare i paesi vicini alla centrale, centri che Andrea non aveva mai sentito; a parte Kiev, che però distava più di cento chilometri dal luogo dell'apocalisse. Le valigie erano pronte. Ma questa notizia gli aveva provocato un sussulto dell'anima, rimettendolo temerariamente in gioco. L'evento gli aveva restituito un coraggio che sembrava smarrito. Il suo ragionamento era schietto e preciso: se c'era gente che era morta per l'esplosione di un reattore nucleare significava che il suo dramma, in fondo, non era che un piccolo dramma, del tutto insignificante rispetto alla tragedia che stava compiendosi in Ucraina. Aveva fatto un salto, un saltino, chiudendo anche la seconda valigia e posizionandola vicino all'altra, già sulla soglia di casa.
“Ci credo, ci devo credere”.
E infatti ci credeva. Adesso però rimaneva il passaggio più drastico: salutare per l'ultima volta il suo mondo e andare a rintanarsi nella roulotte di Canosa. La sua prima notte fuori casa, dopo così tanti anni. Se si escludono le vacanze estive...
La casa non aveva molto da dirgli. Era la solita casa mogia del primo piano, appartamento a sinistra dell'ascensore, quello che precedeva di un paio di metri la rampa di scale. C'era un mobiletto sulla destra, subito dopo l'entrata, con il telefono e il camino in fondo alla sala. Il divano contro la parete est e un tavolo in mezzo al locale per i pranzi e le cene importanti. Gli altri pasti si consumavano in cucina, una cucina tipicamente anni Ottanta, acquistata fortunosamente poco dopo le nozze: tavolo, quattro sedie, ante e antine, frigo, forno. Qua e là le pareti ospitavano quadri da poche lire, recuperati al supermercato, raffiguranti tristi e anonimi paesaggi. Sul muro per entrare in cucina c'era una fotografia del Papa, preso di profilo, su uno sfondo verdognolo. Di là, bagno e camere. La camera dei ragazzi rappresentava il quartiere più vibrante dell'appartamento. Un numero considerevole di poster abbellivano le spoglie pareti. Manifesti di cantanti per teenager: Bon Jovi, Wham!, Zucchero, Eros Ramazzotti. I rispettivi comodini e l'unica scrivania della casa erano coperti di libri, quaderni e tagli di giornale. C'era un portamatite colmo di biro, pastelli e pennarelli.
Il Cana aveva fatto un ultimo giro per casa. Cristina era alla scrivania e stava disegnando, Raul era sdraiato sul letto con in mano un fumetto di Topolino.
“Ciao ragazzi”.
Nessuna reazione.
“Ciao ragazzi”.
“Dove vai papà?”, aveva domandato Raul.
“Stai zitto e non rompere”, era intervenuta Cristina.
Al Cana era tornato il magone.
“Vado via per un pò”.
“Ma poi torni?”.
Andrea non aveva risposto. Aveva dato un bacio sulla testa a Cristina e regalato un abbraccio a Raul. E dopo aver tirato un respiro lungo come una vita, s'era alzato e se ne era andato con la testa piegata da un macigno pesantissimo. La moglie era chiusa in bagno da un'ora, non voleva né vederlo, né sentirlo, nemmeno per il saluto estremo. Ma al Cana, in fondo, andava bene così. Lui stesso non avrebbe saputo che dirle. Non aveva nulla da dirle e non voleva dirle niente. Adesso, però, sentiva di odiarla con tutte le sue forze; calibrando per la prima volta con lucidità cosa dovevano provare gli assassini che stanno per compiere un delitto a sfondo sentimentale. Capiva, insomma, quelli che arrivavano a tanto, era comprensibile, in certi casi: in casi come il suo. Non si può vivere con una persona che non si sopporta nel misero spazio offerto da un comunissimo appartamento, negli anni Ottanta... all'indomani di una esplosione atomica.
Tuttavia, nel varcare la soglia di casa per tuffarsi verso un domani inimmaginabile, aveva ripensato all'amore che li aveva arricchiti all'inizio del cammino, quando erano molto più giovani e speranzosi; quando la vita non sembrava altro che un'infinita corsa fra le spighe di grano, sotto montagne di nuvole di panna montata; quando l'unica preoccupazione era quella di tirar sera giocando e divertendosi, respirando l'aria grassa della notte, zeppa di micromolecole misteriose in grado di effondere sensazioni magiche; quando c'era solo da andare al cinema, affogarsi di popcorn, fumare, bere, baciarsi con ardore, inventarsi il domani più sensazionale. Si era, dunque, domandato come potessero aver vissuto certe cose assieme, adesso che non desideravano altro che violentarsi e non vedersi mai più. Come lui avesse potuto leccarle i piedi e le sue parti intime, indifferente a ogni leziosità comportamentale.
“Ho voglia di fare cose sconce”, le aveva detto in più occasioni.
“Del tipo?”.
“Vieni che te lo sussurro nelle orecchie”.
“Ma sei matto? Certe cose preferirei non farle, sai com'è...”.
“Non lo so, dimmelo”.
Finché lei non cedeva alle sue lusinghe perverse, concedendogli tutto ciò che voleva e scoprendosi immensamente felice di assecondarlo; devastati da voglie animalesche, nel pieno del fervore giovanile, ancora tutto da assaporare, prima di sposarsi e richiamare più o meno consapevolmente cicogne al loro nido: sarebbero stati giorni irripetibili. Si sbizzarrivano ovunque capitasse, ovunque la chimica dei loro corpi cercasse uno spunto per dar vita a nuove fiammanti reazioni. Si erano abbandonati a una performance lussuriosa perfino nel parcheggio dell'Esselunga di Vimercate, quello sopraelevato, semicoperti da un camioncino abbandonato. Per anni il sesso era andato meravigliosamente, non avevano nemmeno bisogno di proporsi l'un l'altro, veniva automaticamente, sembravano vivere il desiderio in simbiosi, con un'empatia rara. Fino alla nascita di Raul. Poi era saltato tutto. La moglie del Cana aveva perso all'improvviso la voglia di lasciarsi andare, di godere di un rapporto fisico che fino a quel momento aveva caratterizzato e cementato la coppia come raramente si vedeva in giro. Il Cana era sceso dal pero. Aveva sempre apprezzato la carica erotica della moglie e perfino adesso che stava abbandonando per sempre il nido domestico e che una recondita parte di lui avrebbe voluto addirittura eliminarla fisicamente, non avrebbe disdegnato l'idea di poterla possedere come aveva fatto tante volte in passato. Ma ormai la frittata era fatta. La moglie non s'era spenta solo sessualmente, ma anche cerebralmente. Non aveva più voglia di fare nulla, di divertirsi, di dedicarsi con gioia ai figli. Era diventata un fantasma. Il fantasma di se stessa.