domenica 30 gennaio 2011

Short stories: "La bici del Fumagalli"


Il Fumagalli aveva trascorso a spasso l'intera giornata, una giornata di fine gennaio, fredda ma luminosa. Dalle parti della Vergana aveva trovato una bici tutta scassata e l'aveva portata a casa con un fine ben preciso: rimetterla in sesto, per poter al più presto sfrecciare per le strade del paese con una due ruote da fare invidia. Così s'era messo in testa. Ma una volta a casa c'era ad aspettarlo una bella sorpresa, tale da mandare all'aria tutti i suoi propositi. C'era una canzone di Mike Scott che risuonava da un altoparlante montato in cima al tetto.
In poche ore di assenza tutto era cambiato, tutto s'era trasformato. Il Fumagalli non poté credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. I vicini di casa, coi quali non parlava da anni, s'erano messi a ballare in mezzo alla strada e lo avevano costretto a scatenarsi con loro. Il Fumagalli appoggiò la bici al muro di casa e seguì i vicini nella loro danza forsennata.
Il cielo era diverso dal solito. Era rosso. Era diventato rosso senza che lui potesse accorgersi. La sera era poi scesa all'improvviso, accompagnandosi a un vento vivido e penetrante. Il Fumagalli riprese la sua bici e cominciò a sistemarla. Andò avanti tutta notte. Una ruota, due ruote, la catena, i parafanghi… Il Fumagalli non sapeva sistemare le bici, ma da quella notte si trasformò nel migliore riparatore di bici del mondo. Ancora oggi se qualcuno si trova a passare dal vimercatese e ha dei problemi con la due ruote di fiducia, ha un solo indirizzo al quale far riferimento: la rinomata bottega del Fumagalli.
Tutto grazie a una stupida e banale canzone di Mike Scott, lo scozzese.

sabato 29 gennaio 2011

Short stories: "Diario africano" (V)


22 agosto

Una mini guida che ho trovato in missione si riferisce a Bagamoyo descrivendolo come un "piccolo centro della costa che si trova a Nord di Dar Es Salaam, il cui nome significa 'lasciamo qui i nostri cuori'". Era di qui, infatti, che gli schiavi catturati all'interno del Paese venivano condotti per poi essere imbarcati verso una vita di soprusi e crudeltà.
Oggi la sveglia è suonata alle 7.00. Dopo una sbrigativa colazione siamo partiti per Bagamoyo. Una strada battuta da mezzi di ogni genere, animali, individui a piedi e in bicicletta. La terra rossa, rossa come il rosso dei campi del Roland Garros, qua e là ombrata da metri di foresta lussureggiante. In cima agli alberi volavano uccelli sconosciuti, dal canto altrettanto incomprensibile. Oltre il loro sbattere d'ali, il cielo era basso, le nuvole basse, brillava un orizzonte impossibile da decifrare. Abbiamo fatto varie soste: per far pipì e per osservare qualche piccolo villaggio caratteristico. In uno è capitato di ascoltare le grida disumane di una partoriente: si trovava all'interno di una casupola di fango, circondata da un piccolo recinto nel quale sguazzavano strani mammiferi. Alle 11.00 arriviamo a destinazione. Prima tappa, la cattedrale e il vicino museo, pieno di cimeli del periodo schiavitù.
"Quante devono averne patite i poveri africani di un tempo", mi sussurra Roberta, attenta a non farsi sentire da padre Isacco.
"Mi sembra ancora di percepire il loro pianto, il pianto degli schiavi", mugugna Alessia di fronte a quello che ha tutta l'aria di essere uno scalpo.
Non fiato. Ma anch'io percepisco l'aria opprimente del luogo e m'immedesimo nelle tante anime che in passato, in questo angolo di mondo, hanno esalato l'ultimo respiro di libertà. Ci sono ancora le manette utilizzate per immobilizzare gli schiavi.
"Anche questo è l'uomo", filosofeggia Enrico.
Padre Silvestro lo fissa con uno sguardo accondiscendente.
Altre stanze offrono l'opportunità al turista di soffermarsi sulle avventure vissute da Livingstone e Stanley. Livingstone, scozzese, scoprì le foci del Congo e le cascate Vittoria. Morì di malaria: il suo cuore è sepolto lungo le rive del Lago Bangweulu, a Chitomba, nello Zambia. Stanley incontrò Livingstone nel 1971. Quest'ultimo era un giornalista ed esploratore americano, gallese di nascita, incaricato di andare a cercare proprio Livingstone. I due divennero ottimi amici.
Pranziamo presso uno squallidissimo bugigattolo gestito da indiani. Non ci sono le posate, così proviamo anche noi l'ebbrezza di rifocillarci a mani nude: riso, polenta, fagioli e spinaci. Nel complesso un pranzo decisamente vomitevole, il colera potrebbe essere dietro l'angolo!
Durante la fase digestiva visitiamo la spiaggia di Bagamoyo, simile a quella di Kigamboni. Trovo un bel conide e un pecten.
Sulla strada del ritorno Loredana appoggia la testa sulla spalla di Enrico: se si contano anche le numerose occasioni in cui li abbiamo visti parlottare sottovoce, si può tranquillamente dedurre che l'amore fra i due sia definitivamente sbocciato. Si sforzano solo di mantenere un certo contegno. Temono di dare scandalo. Innamorarsi in Africa, in una missione, wow.
Rientriamo per le 19.00.
In questo momento abbiamo da poco finito di cenare. Oggi non ho ancora visto Samson. Sta alla larga? Perché sta alla larga? Non è venuto un minuto in missione. Non ho neanche incontrato la ragazza di ieri. E domani compio venti anni!

23 agosto

Oggi compio vent'anni. Vent'anni, cazzo, mi sto facendo grande? E il mio primo pensiero, chissà perché, corre ai miei nonni. Nonno Ambrogio e nonna Pina. Ho voglia di rivederli, sentire l'odore delle loro pelli. Ho voglia di chiacchierare con loro, piantare qualche ortaggio col nonno, osservare la nonna mentre prega...
Stamane, appena sveglio, mi sono trovato in camera Roberta, Alessia ed Eleonora con due candeline in mano, mentre con Enrico intonavano "Happy birthday".
Felicità.
Mi sono vestito e ho raggiunto la cucina per la colazione. Qui la seconda festa. Padre Silvestro mi ha stretto la mano e mi ha baciato affettuosamente. Mi ha consegnato un biglietto di auguri con scritto:
"Servi il Signore nella gioia".
Poi mi ha indicato la cuoca, Susanna, felice anche lei di abbracciarmi e baciarmi col suo sederone universale. Al mio solito posto mi attendevano cinque fette di pane, con la scritta "auguri" con la marmellata. Un "20" al centro della scritta, con pezzetti di banana. Poi sono cominciati i regali. Roberta mi ha regalato una maglietta con inciso il logo dei REM, più un braccialetto. Enrico, con Alessia ed Eleonora, mi ha donato un libro riportante tutte le canzoni di Simon & Garfunkel.
Abbiamo lavorato fino alle 12.00. Pranzo e via, in spiaggia, dove mi sono dedicato alla fotografia. Siamo rimasti al mare per almeno tre ore, parlando, nuotando, giocando, correndo. Il tramonto stasera era favoloso. C'era una palla di fuoco all'orizzonte che se chiudo gli occhi la rivedo ancora. Una magnificenza, col sottofondo delle onde… A un certo punto mi viene incontro Roberta e mi sussurra di essere fiera di avere un amico come me.
"Scherzi?", le domando.
"Per niente".
"Non mi sembra di essere un buon amico".
"Infatti, a volte sei un po’ troppo egoista".
Mi sorride con gli occhi luccicanti, sembra che voglia aggiungere qualcos'altro, ma si ferma lì.
Anche oggi Samson è rimasto alla larga. S'è fatto rivedere solo stasera. Aveva lo sguardo mogio e abbacchiato. Rivedendomi mi ha confidato di sentirsi molto male per l'accaduto, ma mi ha ribadito che lui non c'entra niente.
"Non ti preoccupare", gli ho detto.
In fondo non ci sono prove concrete che sia stato lui, potrebbe anche essere Joseph il colpevole, o entrambi: uno ha fatto il palo e l'altro ha agito. Tutto è possibile. In ogni caso, se sono stati loro a rubare i nostri soldi non posso biasimarli. Dopo un po’ mi ha detto che la ragazza dell'altro giorno vuole rivedermi. Oggi l'ho intravista di sfuggita, ma ancora una volta le sono stato alla larga. È davvero carina.
Sto ascoltando un pezzo degli Eagles. Mi fa venire in mente il mio amico Ghirardelli. Anche lui ci sa fare non poco alla chitarra. Ha una passione smodata per la west-coast. Ho fatto l'elenco delle canzoni scritte negli ultimi tempi. Sono a quota dieci, non male. Ecco i titoli:

1. My grandfather
2. In my dreams
3. Hard times in my town
4. All together
5. On the beach
6. The pilgrim
7. The long road
8. Un uomo
9. Samson
10. Gilda

Domenica arriveranno i romani da Iringa. Rientreranno in Italia un giorno prima di noi. Li ospiteremo per una notte a Kigamboni. La mia bella avventura è agli sgoccioli.

24 agosto

La giornata di oggi non è stata delle migliori. Mi ha procurato solo un vivace mal di testa, che ancora ora mi sconvolge le tempie. Abbiamo trascorso l'intera mattinata al mercato dell'ebano. Ero caput. Stanco e demotivato. Se n'è accorta subito Roberta che mi ha chiesto come stavo.
"Tutto ok, sono solo un po’ assonnato", le ho risposto.
Abbiamo pranzato al solito Agip, ormai divenuto famigliare. Con noi c'erano Charlie, Deo e Monday. Chiaramente nessuna traccia di Samson e Joseph. I due si sono volatilizzati.
Ho appena finito di giocare a pingpong con un ragazzino della missione che non avevo mai visto. È un asso.
Ieri sera, per il mio compleanno, abbiamo festeggiato con i ragazzi del posto. Le cuoche ci hanno servito piatti stracolmi di ananas e gelato. China e Deo mi hanno consegnato un biglietto con scritti i loro auguri e le rispettive firme. Con oggi al mercato dell'ebano ho esaurito tutto il mio budget. Da questo momento sono povero in canna. Mi sono rimasti solo un gruzzolo di scellini che non basterebbero nemmeno a comprare un anellino d'avorio.
Sto pian piano sistemando le varie cose che ho raccolto e mettendo da parte i vestiti e tutto ciò che lascerò in missione. Tornerò a casa più leggero: al posto degli indumenti riempirò le valigie di conchiglie e altri reperti naturalistici che spero non mi creino problemi in frontiera. La giustizia è molto severa. È necessario per tenere a bada il contrabbando.

25 agosto

Oggi non abbiamo fatto molto. Dopo la messa delle dieci ci siamo concessi una capatina al mare e abbiamo sistemato un po’ di bagagli. Fra poco ci sarà grande trambusto. Dopo pranzo abbiamo fatto un giro per il villaggio. Enrico e Loredana si tenevano per mano. Mi sa che la cosa s'è fatta ormai ufficiale. I due potranno dire di essersi innamorati in Africa. Un bel traguardo. Oggi non ho molta voglia di scrivere. Ho l'impressione che ormai non ci sia più molto da raccontare. Domani è lunedì, l'ultimo lunedì che trascorro a Kigamboni.

26 agosto

I romani hanno portato una ventata d'aria fresca, restituendoci un po’ di entusiasmo perduto. Ieri sera siamo rimasti in piedi fino alle 2.00, come i primi giorni. Il tempo è volato. C'era un via vai incredibile per la missione. Gente che andava e che veniva con asciugamani, accappatoi, carta igienica. Io ho suonato parecchio con un tale di nome Flavio. Mi ha fatto conoscere una canzone che non avevo mai sentito: "L'avvelenata" di Francesco Guccini. Mi ha esaltato. Un testo del genere, così ricco di "sfumature" lessicali, non credevo fosse possibile comporlo, soprattutto in Italia, dove vige un moralismo esasperante e troppo spesso fuori luogo. Gli ho chiesto di cantarmela almeno quattro volte. Non ne poteva più. Mi sono segnato l'album che la contiene, così saprò dove andare a recuperarla una volta a casa.
Flavio ha una decina di anni in più di me; suona davvero bene e ha anche una bella voce. È alto e magro, con due braccia esageratamente allungate. Sta insieme a una ragazza minuta e silenziosa, con una folta capigliatura.
Nel calderone della sera mi si è affiancata Roberta e mi ha cinto la vita. La sua mossa non mi è dispiaciuta, ma mi ha lasciato un po’ perplesso. Poco dopo mi ha stretto ulteriormente, provocandomi un brivido freddo. Poi me l'ha buttata lì:
"Stasera avrei voglia di fare l'amore con te".

27 agosto

The sun is sinking in the west
The cattle go down to the stream
The redwing settle in their nest
Its time for a cowboy to sing

Purple light in the canyon
That’s where I long to be
With my three good companions
Jus’ my rifle, my pony and me

Whiporwill in the willow
Sings a sweet melody
Ridin’ to Amarillo
Jus’ my rifle, my pony and me

No more cows to be ropin’
Nor more strays will I see
‘Round the bend she’ll be waitin’
For my rifle, my pony and me
For my rifle, my pony and me

I romani sono partiti.
Domani arriverà l'ultima carovana di missionari.
Flavio e gli altri hanno lasciato la missione alle 6.00. Ci siamo svegliati per salutarli, poi di nuovo sotto le coperte. Dopo colazione abbiamo lavorato: gli ultimi ritocchi alle finestre di un caseggiato ai confini del villaggio. Sulle impalcature Roberta mi guardava con aria suadente. Allo stesso modo si inseguivano Loredana ed Enrico. Alessia continua a essere un mondo a sé. È quella che, nel complesso, s'è forse divertita meno. Mi ha dato sempre l'impressione di non trovarsi a suo agio. Così taciturna, sorniona, come se avesse qualche seria difficoltà ad ambientasi pienamente, per qualche astruso motivo noto solo a lei.
Pranzo con pasta e pollo.
Per questa sera abbiamo confezionato dei pacchi regalo che consegneremo ai nostri amici di Kigamboni. Più che altro vestiti:
"C'è un bambino che indossa la stessa maglietta lurida di quando siamo arrivati", mugugna Loredana.
"È sempre la stessa ed è sempre più sporca", dice Enrico.
"Potrebbe averla lavata e indossata di nuovo", osservo.
Lo sguardo dei miei compagni di viaggio è tutt'altro che benevolo. Sarcasmo a parte, mi sento un po’ triste. Malinconico. L'idea di dover salutare le tante persone che ci hanno circondato in questo mese mi mette una certa apprensione. Mi conforta l'utopica idea che una minuscola parte di me rimarrà nel loro cuore per sempre (e viceversa).

Non vivere
Come un inquilino
Come un villeggiante
Nella natura
Vivi in questo mondo
Come fosse la casa
Di tuo padre
Credi al grano
Alla terra
Al mare
Ma prima di tutto
Credi all'uomo…

Nazim Hikmet

28 agosto

Ieri sera prima di coricarmi sono rimasto solo per un po’ a contemplare il cielo. C'era una grossa luna. Seduto, appoggiato al muro delle stanze col naso all'insù, per una buona mezz'oretta, ho salutato l'Africa a modo mio. Ho cercato il geco dell'altra volta, ma invano: al suo posto ho scorto un gigantesco ragno, che camminava saltellando.
Ho pensato e ripensato a quello che ho vissuto, a quello che mi lascio alle spalle, e a ciò che mi aspetterà. E ancora una volta ho avuto l'impressione di non trovarmi solo. Ascoltavo un disco dei 10.000 Maniacs. La cantante si chiama Natalie Merchant, ha un bel timbro. In un pezzo duetta con Michael Stipe.
Oggi ci siamo svegliati alle 8.30 e siamo stati in spiaggia fino a mezzogiorno, poi il pranzo. Ho lavato i piatti, prima di coricarmi fino alle 15.00. Roberta è venuta a svegliarmi con un bacio. Di nuovo al mare, me ne sono andato a zonzo lungo la riva per un'ora abbondante. Con me c'era Gerard, che da quando Samson è sparito, mi accompagna per ogni dove. Ieri ha addirittura dormicchiato al mio fianco, sotto le fronde di una palma che cresce in un cortiletto interno della missione.
Mi accingo a trascorrere l'ultima mia notte africana con un solo pensiero: Kigamboni.

Short stories: "Diario africano" (IV)


15 agosto

A pezzi. Ieri sera eravamo a pezzi. Scarnificati. Una giornata lunghissima, interamente dedicata al lavoro, avanti e indietro per due chilometri, con secchi pieni di acqua, estratti a mano da un pozzo esalante odori micidiali. Dicono che in passato vi abbiamo buttato anche due bimbi, albini. Da queste parti gli albini vengono bistrattati e considerati uomini di serie B. Li soprannominano "patate sbucciate", "fantasmi", "demoni". Ancora oggi hanno vita difficilissima e molti di essi - ce ne sono a migliaia - non arrivano all'età adulta. Li fanno fuori prima senza pietà. Si parla addirittura di stregoni che li cucinano. Esattamente: li fanno arrosto e se li mangiano. Cannibalismo puro. Credono così di ottenere benefici dagli dei e di diventare ricchi.
Ieri sera, alle 22.30 eravamo già tutti in orizzontale. In compenso - scusa la messa - alle 6.00 stamane tutti in piedi, pronti a saltare come grilli. Colazione e via, verso Dar Es Salaam. Al volante per la prima volta Enrico, con la jeep di padre Silvestro. Enrico è in gamba e ora che lo conosco meglio, mi piace pensare di avere di fianco una persona per bene, simpatica e attenta. A volte dorme un po’ in piedi, ma probabilmente è il suo metabolismo a fare le bizze. È il più anziano della comitiva e, nonostante tutto, sa infondere serenità e sicurezza. Con noi anche Samson e Deo. In città, ancora una volta, abbiamo provato a chiamare casa, ma di nuovo senza esito positivo. Mi sa che ormai conviene rinunciare. Spero solo che i miei non stiano in pensiero: non li sento da più di due settimane.
In banca abbiamo cambiato un po’ di dollari nella moneta locale: eravamo rimasti a secco. Altri cento dollari a testa sono partiti. Pranzo all'Agip: lasagne, patate arrosto, Coca-Cola. Occidentali? Poi una capatina alla Consolata per recuperare alcune informazioni che serviranno a padre Silvestro: prossimamente verrà a far visita alla missione un pezzo grosso del governo tanzanese ed è necessario accoglierlo nel migliore dei modi.
Visita al Kigamboni hotel e a un mercato dell'avorio situato nella periferia della città, sulla strada per Kibamba: Enrico sta facendo il giro di questi mercatini in cerca di materiale che poi porterà a casa da vendere, per ricavare denaro da inviare alla missione. Personalmente con i regali sono messo abbastanza bene. Ne ho da fare a mamma, papà, Andrea, Gilda, Greta, Silvia, Gianna, Mario, Martino, gli zii. Ma ho già acquistato tre collane, tre braccialetti, un batik, una maschera, un cestino.
Al ritorno, padre Silvestro ci comunica che andremo nuovamente a mangiare dagli italiani della misteriosa ditta petrolifera. I nostri connazionali ci accolgono ancora più calorosamente dell'altra volta, e al termine della cena, mi obbligano a imbracciare la chitarra e a cantare: "Romagna mia", "La bella la va al fosso", "Me compare Giacometo", "La tradotta", "Vengo anch'io, no tu no".
In questo momento io e Roberta stiamo scrivendo, Enrico e Loredana parlottano tra loro, Alessia sta giocando con un bimbo appena arrivato, probabilmente orfano. Cara Gilda, ieri mi sono dimenticato di dirti che anche se sei lontana, qui è come se ti conoscessero tutti. Sanno di te perfino padre Silvestro ed Enrico e Loredana sperano di conoscerti presto. Buonanotte.

16 agosto

Anche ieri sera siamo andati a letto presto. Alle 23.00 tutti caput e già sotto le coperte. Alle 7.30, stamane, la sveglia. Nessun trauma particolare. Stanotte non ho sentito nemmeno il muezzin che mi chiamava. Colazione, lavoro, pranzo, riposo fino alle 15.00, mare fino alle 17.00 con Enrico e Roberta: Alessia e Loredana hanno preferito continuare a sonnecchiare e a dedicarsi ad alcune faccende domestiche.
Oggi c'era una bassa marea incredibile. La melma proseguiva per chilometri. Impossibile fare il bagno. Così a un certo punto ho deciso di andare a farmi quattro passi in solitaria lungo la riva. È la prima volta che al mare mi sgancio dagli altri del gruppo, ma ne è valsa davvero la pena. C'era una magnifica atmosfera. Ancora ho respirato con tutta la forza dei polmoni, per trattenere nel corpo e nell'anima più Africa possibile. Ragiono in termini se non poetici, metafisici, ma tant'è. Sono lieto di poter godere di queste sensazioni (extrasensoriali?), mi danno una grande carica e mi permettono di contemplare la vita nel migliore dei modi. Ma subentrano numerosi quesiti. Per esempio: se la natura fosse davvero così affascinante e amica come sembra, qual è il senso del dolore? Perché è tanto leggiadra la corsa della gazzella, ma non l'azzannata che permette al ghepardo di sbranarla?
Ho camminato per qualche chilometro, ogni tanto correndo. Lungo il tragitto ho osservato vari aironi, una medusa, piante di agave, baobab, papaya, acacia, banana, eucalipto, ficus, croton. L'allergia? Completamente sparita.

17 agosto

La giornata di oggi è trascorsa serena e tranquilla. Placida come onde del mare durante la bonaccia. Tanto per iniziare ci siamo svegliati alle 9.00. Un buon inizio. Nessun sogno particolare. Alla fine anche il muezzin non dà più alcun fastidio. Ci si fa l'abitudine. Come diceva padre Silvestro. Un po’ come accade col tictac della sveglia. Dopo colazione, al mare, poi pranzo e pennichella fino alle 15.00. Alle 16.00 viene Roberta a svegliarmi. Si siede sul bordo del mio letto e m'infila un fuscello erboso nelle orecchie. La mossa è chiaramente preintenzionale e, dunque, doppiamente infingarda. Mi sveglio di soprassalto, mandandola a quel paese.
"Bello scherzo, cazzo".
Roberta moriva dal ridere, spalleggiata dal mio compagno di stanza, brioso come un suricato di fronte a un nido di termiti ingrassate a vitamine e omogeneizzati. Evidentemente non mi sono svegliato con la luna buona. Giù dal letto, esco per prendere aria e farmi passare il cattivo umore.
Durante il pomeriggio assistiamo a un matrimonio. La sposa è vestita di bianco, con un gigantesco turbante in testa. Una bella sposa, alta, principesca, con lo sguardo attentissimo. Lo sposo meno affascinante, con un tradizionale abito nero, molto più anziano e sornione di lei. Ma il top sono le madamigelle. Bimbe sprizzanti gioia da ogni poro, con acconciature rocambolesche, e abiti cangianti. Scatto molte foto.
Dopo il matrimonio mi apparto con Samson, per registrare altri canti africani. Domani è prevista una festa. Mi sembra di vivere in questa terra da sempre.

18 agosto

Ieri il relax, oggi la mazzata. Parlare di una giornata estenuante è un eufemismo. Appena svegli, colazione e via per un villaggio vicino, sulla strada per Mjimwema, centro di circa diecimila abitanti. Alle 10.00 siamo a destinazione, freschi come rose. Gli abitanti del posto ci accolgono con fervore, prima di ospitarci nella loro chiesa principale, addobbata di fiori, ghirlande e da un grande crocefisso in ebano sopra all'altare. Ancora non lo so del destino avverso: una messa di ben due ore e mezza. L'avessi saputo prima! Mai visto niente del genere. Certo, i canti africani continuano a essere entusiasmanti, ma l'immobilità eccessiva è un supplizio che non riesco proprio a gestire. Magari soffro di deficit di attenzione e iperattività o della sindrome delle gambe senza riposo. In effetti, sono l'unico ad avere un così difficile rapporto con le lunghe permanenze in un luogo chiuso, praticamente a guardare per aria, ma è davvero un disagio che non riesco a vincere.
"Dici che se esco a prendere una boccata d'aria si arrabbiano?", chiedo mestamente ad Alessia.
"Direi di sì".
"Non ce la faccio più".
"Dai resisti, sono passate appena due ore e siamo solo al santo".
Avrei mandato volentieri a quel paese l'amica, ma viste le circostanze, non mi è rimasta che la rassegnazione.
Dopo la messa ci accompagnano in una vasta radura, circondata da mastodontici baobab, dove assistiamo a una lunga serie di danze. Sono sempre più impressionato dall'abilità degli africani nel ballo. Ogni persona ha una leggiadria proverbiale, comprese donne dalla stazza quantomeno ragguardevole. Non è il peso che conta, evidentemente, ma l'anima, l'approccio giusto alla filosofia della danza. Sembrano in trans, rapiti da chissà quali misteriosi demoni.
Alla festa partecipano i rappresentanti di numerosi villaggi, ogni villaggio presenta il suo numero. Coreografie sublimi. Una gran bella lezione di antropologia culturale, in breve il disagio patito durante la messa si dilegua, ridandomi serenità e voglia di fare.
Alle 13.30 il pranzo, con padre Silvestro e vari altri missionari della Consolata, compreso padre Isacco. Padre Isacco mi fa sempre più ridere. È un bonaccione alto due metri e largo non saprei dire quanto, ride sempre, è sempre di buonumore, mette allegria solo guardarlo. Ho provato a pensare a come potrebbe andare il mondo se tutte le persone fossero come lui. Più volte mi ha dato una manata sulla spalla, sollecitandomi a fare un po’ di pesi che mi vede un po’ troppo gracilino. Certo raffrontato a lui…
Col pranzo provo un senso d'inadeguatezza nel verificare che noi occidentali, con i missionari, siamo accomodati a un lungo tavolo fornito di ogni ben di Dio, ognuno con il suo piatto e le sue posate. Mentre gli abitanti locali sono costretti a disegnare geometrici cerchi per terra, al centro un solo vassoio da cui attingere all'unanimità con le mani sozze un po’ di riso. La discriminazione inizia da qui? Prima di mangiare tutti in piedi per la preghiera di ringraziamento, poi il via all'abbuffata. Molti sembra che non mangino da mesi.
Dopo pranzo la festa prosegue con nuove danze, finché non arriva anche il nostro turno.
Ahia.
Noi non abbiamo nulla di spettacolare in programma, ci sentiamo un po’ in imbarazzo.
"Che facciamo?", mi domanda Enrico.
"Dobbiamo per forza fare qualcosa?".
"Sennò la prenderebbero come un'offesa".
"Facciamo ballare le nostre donne".
Enrico mi tira un'occhiata di disapprovazione.
"Dai, fai il serio una buona volta".
"Se vuoi posso andare a prendere la chitarra sulla jeep e…".
"Ecco, bravo, facciamogli sentire qualche canzone".
Con lo strumento m'infilo fra Enrico e Roberta e iniziamo a intonare "Guantanamera". Incredibilmente la sanno tutti e ci accompagnano con le loro voci, il loro calore incondizionato. In pochi istanti si leva dal cuore della savana africana un coro inaspettato, che ci riempie gli animi di soddisfazione.
"Dalle nostre parti quando uno prende in mano la chitarra sembra un imbecille, qui il portavoce della Buona novella", blatero fra me.
Samson dirige la banda, muovendo una bacchetta di fortuna, ricavata dalla fronda di un albero. Come sempre mostra la sua eccezionale disinvoltura: non conosce la timidezza, ha tutta la mia ammirazione. Mica come il sottoscritto, e chissà quanti altri di noi, troppo sofisticati, sempre pieni di paranoie comportamentali, indecisi sul da farsi, la spontaneità non sappiamo nemmeno cosa sia, solo il fatto di percorrere una navata centrale per andare a ricevere la comunione ci manda in crisi.
Dopo "Guantanamera" è la volta di "Kumbaja" e "You are my sunshine", che Enrico governa con discreta maestria vocale. Alla fine della performance applauditissima, c'è la premiazione che va avanti per un paio ore: altra agonia. Poi tutti a casa, con il rosseggiare del cielo.
La giornata di oggi ha ulteriormente messo in luce l'affiatamento che si è venuto a creare fra me e Samson. Mi piace sempre più. Non tutti però condividono il mio parere. Roberta dice che è troppo furbo per i suoi gusti; ad Alessia non sta neanche simpatico. Con lui citerei anche John, Monday, China, Joseph, UFO, Vita, Deo, George… Tra le ragazze mi piaccione Sade e Monika. Hanno espressioni incredibilmente dolci.
Roberta e Alessia preferiscono Charles, Xaveri e Gerard. Enrico e Loredana, dall'alto dei loro trent'anni, si dimostrano più maturi ed evitano di fare classifiche o rendere palesi le loro preferenze. Si vede, comunque, che stanno bene con tutti indistintamente.
Dimenticavo di dire che oggi, forse, abbiamo avuto la prima prova ufficiale che fra Enrico e Loredana c'è del tenero. Durante il ritorno con la jeep, erano seduti uno accanto all'altro, in un angolo del vano di carico, e in un paio di occasioni abbiamo avuto la netta impressione che le loro mani si sfiorassero. Si sorridevano innocentemente?

19 agosto

Le fronde delle palme disegnavano strane figure a terra, profili di streghe e stregoni, sovrastate da un cielo incandescente, la luna emanava i primi bagliori della notte, stormi di pipistrelli mi sorvolavano il capo, mentre osservavo in lontananza dei ragazzetti giocare con una palla di pezza. Stavo fumando: tabacco africano. Le sigarette che ho portato da casa sono finite da un pezzo. Questo ieri sera, poco dopo la cena. Stamane il solito: sveglia alle 7.30, messa.
Oggi abbiamo festeggiato Loredana che compie trent'anni. Tanti auguri a lei! L'abbiamo celebrata fin dalla colazione, regalandole due orecchini: li abbiamo acquistati insieme al mercato dell'avorio, ma abbiamo lasciato a Enrico il gesto di consegnarglieli fisicamente. I loro occhi zampillavano di felicità. Si sono dati un bacio sulla guancia che sarebbe tranquillamente andato oltre. Finiti i festeggiamenti, Enrico ed io, siamo andati al lavoro, c'era un alto cancello da pitturare, mentre le ragazze si sono fermate in missione per sbrigare alcune faccende gastronomiche. È bello pensare che esista ancora una suddivisione netta fra i compiti fra maschili e femminili. Non sono un maschilista, ma forse un po’ tradizionalista sì. Le donne in cucina, gli uomini col pennello in mano, non fa una piega, viceversa mi farebbe ridere.
Dopo pranzo al mare, con la pancia all'aria a prendere un po’ di sole. E una bella passeggiata con Roberta lungo la riva. Con Roberta mi trovo molto bene. Era così anche a casa, ma ora sembra che il nostro legame si sia ulteriormente rafforzato. Camminando abbiamo parlato del nostro futuro. Lei dice che vorrebbe diventare insegnante di russo, io che vorrei occuparmi di naturalismo a livello internazionale. Non saprei dire bene come.
"Mi piacerebbe girare il mondo. Fare il giro del mondo seguendo l'itinerario di Charles Darwin sarebbe il mio più grande sogno".
"Beh, allora te lo auguro di cuore".
Poi abbiamo parlato di sentimenti. Le ho spiegato che con Gilda le cose si stanno mettendo bene, e che dopo il rientro dall'Africa potremmo decidere di andare via per qualche weekend insieme. Non è mai successo. Lei mi ha regalato un'espressione felice, ma in fondo ai suoi occhi ho percepito un vago senso d'insoddisfazione. Per lei le cose sentimentalmente non vanno molto bene. S'è appena lasciata alle spalle la storia con Giovanni Barazzetta, un tale che vive a Vimercate, conosciuto durante una sagra della patata a Oreno. Si sono lasciati perché lui non ha più nulla da dirle, o forse perché non ha mai avuto nulla da dirle. Si sono detti "ciao" senza troppi tentennamenti. Oggi, ognuno per la sua strada. Roberta mi ha poi rivelato che non le dispiacerebbe un tipo come il sottoscritto: le piacciono gli artisti.
"Davvero?".
Sul suo viso è tornato a splendere il sole. A tal punto ci siamo messi a correre come due bambini per vedere chi dei due arrivava per primo a una piccola rientranza marina, dove vanno a riposare i gabbiani.
Pomeriggio tardi, con gli altri, abbiamo fatto il bagno. Enrico mi ha prestato la sua maschera subacquea. Mi sono immerso e ho potuto rimirare un paesaggio stupendo. Ho osservato da vicino due ricci di mare, con i loro pericolosi pungiglioni, una specie di murena, molti pesci di grosse dimensioni che però non ho saputo classificare. Di nuovo sul bagnasciuga mi sono goduto l'improvviso alzarsi del vento, che ha contribuito ad asciugarmi in anticipo i capelli. Una specie di fon naturale. Ho chiuso per un attimo gli occhi, lasciandomi cullare dai canti della natura. Quando li ho riaperti c'era un gabbiano che volteggiava di fronte ai miei occhi: era come se stessi volando al suo fianco, sbattendo le ali e guardando le palme di Kigamboni dall'alto. Pochi minuti e sono corso da Gerard per rubargli il pallone e sollecitarlo a seguirmi per andare a caccia di conchiglie.

20 agosto

Ieri sera, con una ventina di ragazzi della missione abbiamo cantato in coro mille canzoni, da "Kumbaja" ad "Amba" (canto africano in swahili che ormai abbiamo imparato bene anche noi). Io alla chitarra, Samson al tamburello, Samson faceva anche le seconde voci, con Alessia che - dall'alto della sua esperienza nella scuola cantorum di Vimercate - gli impartiva le indicazioni per non rischiare note all'unisono.
Stamane in piedi al solito orario, poi in spiaggia fino alle 11.00. Pranzo e un paio d'ore di lavoro. Prima di tornare al mare e godercela fino all'imbrunire.
Oggi ho avuto la possibilità di conoscere una ragazza del posto davvero molto carina. Come potrei descriverla? Vent'anni, sorriso accattivante, occhi brillanti, nasino pennellato, corpo longilineo con un seno esuberante ma non troppo, cresta di capelli riccioluti… Dio, o chi per lui, non avrebbe potuto far di meglio. Samson s'è accorto del mio interessamento e ha preteso che la baciassi in pubblico. Io, figuriamoci, sono rimasto impietrito.
"Non credo sia il caso", ho mugugnato in inglese.
"Gli piaci anche tu, dai fatti avanti", dice il mio amico.
Buonanotte.
Samson e altri ragazzi della missione, che avevano seguito la scena, ridevano come pazzi. Alla fine la ragazza - vedendo che non muovevo un passo - se n'è andata circondata da uno stuolo di amiche petulanti. Samson mi ha guardato con lo sguardo di chi ha davanti un autentico imbecille. Io ho nicchiato. Cosa avrei dovuto fare? Come si può pensare di avere a che fare con una giovinetta di belle speranze che ti guarda con gli occhi languidi, ma che probabilmente patisce la fame e vive in condizioni a dir poco deplorevoli?
Di ritorno dalla spiaggia: una doccia veloce - con un tubo dell'acqua sempre meno funzionante - e la registrazione di altri canti con Samson. Con oggi inizia il countdown. Fra dieci giorni addio Africa. Ripenso alle persone che mi aspettano a casa, a mio fratello che per settembre dovrà riparare quattro materie.

21 agosto

"Samson è furbissimo e dà l'impressione più degli altri di poterci ingannare come vuole. Non mi meraviglierei se un giorno dovessimo svegliarci con i portafogli vuoti". Questo è ciò che scrivevo il 6 agosto, un paio di settimane fa, poco dopo il nostro arrivo a Kigamboni. Lo ribadisco perché ieri è accaduto un fatto assai grave: ci hanno rubato circa diecimila scellini. Sono entrati di nascosto nella nostra camera e hanno fatto man bassa di tutti i nostri averi. Così io ed Enrico rimaniamo a secco. I sospetti? Purtroppo cadono tutti su Samson. Ma andiamo con ordine, partendo dall'inizio della vicenda.
Ieri, come ho già accennato, ci rechiamo in spiaggia accompagnati da Samson, Monday e Joseph. Appena arrivati ci tuffiamo: l'acqua è calda e le onde minuscole. Solo Roberta rimane a riva, per problemi fisiologici legati all'ovulazione. In acqua per ultimi io e Samson. Monday, ormai al largo, con Enrico e Joseph, vedendoci arrivare, si mette a urlare a Samson di rinunciare al suo intento per aiutare Roberta a recuperare gli zaini e chiuderli a chiave nella jeep. Samson obbedisce: mi lascia solo e torna da Roberta che ha già preso parte degli zaini e si sta avviando alla Land Rover di padre Silvestro. Samson recupera il resto e le va dietro. Raggiunge Roberta, le suggerisce di sistemare tutto ai piedi dei sedili davanti. Roberta si allontana un momento da Samson, distratta da una farfalla con ali giganti che le passa a un palmo di naso. E qui partono i dubbi. Samson avrebbe, infatti, tutto il tempo per sistemare gli zaini dove vuole e come vuole, a modo suo, trafficando con la leva per retrarre i sedili e con le serrature delle porte. Nessuno sospetta nulla. Dopo dieci minuti Samson e Roberta tornano a riva: Samson finalmente si può tuffare.
Ora di pranzo. Chiedo a Enrico le chiavi per la camera, ma non le trova. Io e le ragazze sbigottiamo. Sbigottisce anche Samson con un'aria alquanto furbesca. Si fa subito avanti per andare a cercare le chiavi con Enrico:
"Torniamo in spiaggia a vedere", fa il nostro capogruppo.
Sono circa le 14.30. Il furto è quasi sicuramente già avvenuto. Enrico e Samson raggiungono la spiaggia. Enrico si mette a cercare come un forsennato nel punto in cui avevamo sistemato gli asciugamani, ma invano. Samson, anziché dargli una mano, si siede compiaciuto a osservare le onde che s'infrangono sulla battigia, decisamente più convincenti rispetto alla mattinata:
"Forse un'onda più potente delle altre ha spazzato via tutto", fa Enrico abbacchiato per l'infruttuosa ricerca.
Intanto Loredana ed io scambiamo due chiacchiere in cucina. Mi chiede se la chiave che ha trovato sulla sedia, in corrispondenza del punto in cui mi siedo a mangiare, è quella della nostra camera. La mia risposta è affermativa:
"Come è possibile?", domando.
"L'ho trovata qui", fa Loredana, "non mi chiedere come ci sia finita".
"Questo è un bel mistero", mugugna Alessia, disturbata da una fastidiosa mosca che s'è innamorata dei suoi capelli.
Evidentemente il ladro dopo aver commesso il furto s'è liberato della chiave, abbandonandola nel punto in cui sicuramente qualcuno di noi l'avrebbe ritrovata. Ma a questo punto non sappiamo ancora nulla del furto. Enrico e Samson tornano in missione: al loro rientro gli comunichiamo che la chiave è misteriosamente ricomparsa.
"Bene", fa Enrico, squadrando il sottoscritto, "qualcuno deve essersela infilata in tasca, da dove poi gli sarà inavvertitamente uscita".
In cucina ci mettiamo a parlare di tutto e di niente e in breve della chiave non si discute più. Finché Enrico ed io non decidiamo di tornare in camera per schiacciare un pisolino. E qui la sorpresa: i soldi che avevamo nel borsellino e quelli che erano rimasti in bella mostra sul tavolino che divide i nostri letti, sono spariti. Volatilizzati. Ora tutto torna: la chiave era sparita per consentire al ladro di intrufolarsi nelle nostre camere e impossessarsi dei nostri quattrini. Parte perciò il tentativo di risolvere il dilemma: chi si è impossessato dei nostri soldi?
"Una cosa posso dirla con certezza", affermo malinconicamente. "Solo Samson sapeva dove nascondevo il borsellino".
"Come fai a dirlo?", mi domanda Enrico.
"Più volte Samson s'è fermato con me in camera".
"Padre Silvestro l'ha ripetuto mille volte di non ospitare nelle nostre camere i ragazzi", fa Alessia in tono accusatorio.
Samson, però, potrebbe avere avuto dei complici: Joseph, Monday, non hanno alibi. Potevano essere con lui. Ma torniamo un attimo a Samson.
"Quali sono i sospetti che ci portano a lui?", domanda Roberta.
Risponde Enrico.
"Ha trascorso troppo tempo nella cabina della jeep: per sistemare gli zaini ci vogliono pochi secondi. E ha immediatamente condiviso la mia idea di andare a cercare le chiavi in spiaggia, dando l'impressione di voler nascondere qualcosa".
"Aggiungerei anche che dalle 12.30 alle 15.00 circa ha cominciato a muoversi avanti e indietro in bicicletta per la missione e per il villaggio senza un comprensibile motivo", interviene il sottoscritto.
"Ricostruiamo dunque la vicenda supponendo che il ladro sia Samson", riattacca Enrico. "Le cose potrebbero essere andate così. Al mare, traffica nella cabina della Land Rover, in cerca delle nostre chiavi. Le trova e se le infila nei pantaloni. Torna al mare, si toglie i pantaloni e si tuffa in acqua. Al ritorno si assicura di vederci tutti a tavola, dove sa che rimaniamo per almeno un'ora, e in quel momento effettua il furto, sapendo perfettamente dove si trovano i soldi. Infine, senza dare nell'occhio, torna in cucina, dove noi nel frattempo abbiamo terminato il pranzo, e abbandona la chiave sulla sedia di Gian, offrendosi di accompagnarmi alla ricerca dell'oggetto smarrito".
"Un piano che non fa una piega", blatera Loredana, gasata dalle doti investigative del suo Enrico.
Stamattina ho rivisto Samson e gli ho accennato del fatto che sono spariti i soldi dalla nostra camera. Ha sgranato gli occhi affranto, assicurandomi che lui non c'entra niente.
"Sei sicuro?", gli ho domandato, con un mezzo sorriso sulle labbra.
"Assolutamente".
Abbiamo ripreso a parlare proco prima di cena, dopo essere tornati al mare a svagarci. Siamo andati avanti per almeno un'ora. L'ho pregato di dirmi la verità, che non rivelerei nulla.
"Se anche dovessi confessarmi il furto, fra noi le cose non cambierebbero".
Niente. Ma aveva le lacrime agli occhi. Non so se per il fatto di essere accusato ingiustamente, o per non trovare il coraggio di rivelare a un amico la verità. Ma comprendo la sua reticenza. Se padre Silvestro dovesse venire a sapere che è stato lui, sarebbero grane. Oggi gode di grande prestigio in missione, molti compiti vengono affidati a lui. Domani le cose potrebbero cambiare. Domani.
Domani dovremmo andare a Bagamoyo, dove nei secoli passati giungevano gli schiavi destinati alle piantagioni di cotone americane.
Piccolo particolare prima di chiudere: nel marasma di oggi ho rivisto la bella ragazza di ieri. Mi ha chiamato con una sua amica, o meglio, una sua amica mi ha chiamato per lei. Mi si è avvicinata e mi ha invitato a seguirla indicandomi a una ventina di metri la giovane spasimante appoggiata a un muro. Io sono andato un po’ in panne. Le ho detto:
"Magari un'altra volta".
Chissà se un giorno avrò almeno il coraggio di rivolgerle la parola.

venerdì 28 gennaio 2011

Short stories: "Diario africano" (III)


10 agosto

Ieri sera sono rimasto in piedi da solo fino a notte fonda: gli altri hanno preferito coricarsi prima del solito. Per terra, seduto, appoggiato al muro che conduce al refettorio, con le cuffie del walkman infilate nelle orecchie. Respiravo profondamente e mi sentivo felice. Tutto sembrava perfetto, regolare, consequenziale, logico. Ho osservato la tettoia e ho notato un piccolo geco in avanscoperta. Sono animali che incuriosiscono da sempre gli scienziati per la loro straordinaria capacità di rimanere appesi a testa in giù da qualunque superficie. Non secernano particolari sostanze appiccicose; vincono, dunque, la gravità per via delle cosiddette forze di Van Der Walls: retaggi di fisica liceale su cui non è il caso di dilungarsi. I gechi entrano in azione soprattutto di notte, quando vanno a caccia d'insetti.
Lasciato il mio geco al suo destino, ho continuato per una buona oretta a crogiolarmi nel silenzio incantato della notte, illuminato dal luccichio delle stelle. Molti la chiamerebbero suggestione, ma in questa magnifica esperienza in solitaria ho percepito la presenza di qualcosa di molto più grande di me, di noi, che va al di là di tutto e di tutti. Dio?
Ho così pensato per un po’ all'ateismo. Ho ripensato a Bertrand Russell, di cui ho appena letto "Perché non posso essere cristiano". E alla fine ho riflettuto sul fatto che, probabilmente, professarsi palesemente atei è un atteggiamento di superbia e presuntuosità. Sapessimo tutto delle stelle, dell'universo, dell'origine della vita, avrebbe forse senso pronunciarci con tanta fermezza; ma non sapendo quasi nulla di tutto ciò che ci circonda - e più avanza la scienza e più si ha paradossalmente l'impressione di sapere sempre meno - trovo quantomeno borioso affermare con mano certa che oltre il nostro respiro esiste solo il buio. Giudicherei lecito il dubbio, l'agnosticismo darwiniano, ma perché l'ateismo ostentato? Chi siamo noi per poter giudicare un disegno che è andato avanti per miliardi di anni senza di noi? Cos'è una nostra banale storia, un nostro scontato ragionamento, confrontati alle zampette di un geco, all'alternarsi delle stagioni, al sorriso di Samson?
Oggi il tempo è stato pessimo. Ha piovuto quasi tutto il giorno. Solo ora il cielo si è liberato, preannunciando un domani più benevolo. La sveglia alle 7.30, colazione, messa e partenza per Dar Es Salaam. Con noi Samson, China, John e Joseph. In città abbiamo tentato di chiamare casa, ma le linee erano ancora interrotte. Così ci siamo fatti un giro per la metropoli africana.
Da quando sono partito ho speso cento dollari, mi restano pochi spiccioli. Stamattina ho acquistato una maschera, una scultura d'ebano, un quadro e due scatole di biscotti. Cercavo un libro sulle piante locali, ma a quanto pare non esiste. Abbiamo pranzato all'Agip. Io sedevo con Roberta, Loredana, Samson, China. Abbiamo pagato noi per loro. Dopo pranzo la visita al museo archeologico-naturalistico della città. Interessantissime le documentazioni relative al ritrovamento di Lucy e alla Gola di Olduvai; i resti di Livingstone, la storia delle avventure di Stanley, i reperti lunari donati dagli USA al popolo africano.
Prima di imbarcarci sul ferry-boat abbiamo fatto un giro per il mercato del pesce. Antropologia allo stato puro. Gli odori, i colori, il baccano. Sembrava di essere a carnevale. Qui ho speso i pochi soldi rimasti, trovando a prezzi stracciati delle bellissime conchiglie e la corazza superiore di una tartaruga. Mi ha dato una mano Enrico, quindi ora ho anche dei debiti da saldare.

KWA JINA LA BABA, NA LA MWANA, NA LA ROHO, MTAKATIFU, AMINA

11 agosto

Ieri sera mi son dimenticato di dire che era la notte di San Lorenzo, momento in cui la Terra incontra un gruppo di asteroidi che periodicamente interseca la nostra orbita. Il periodo va dall'8 al 22 agosto. Alcuni di questi asteroidi, per effetto della gravità, precipitano nell'atmosfera terrestre incendiandosi: da ciò ha origine il detto delle "stelle cadenti". In realtà, le stelle con gli asteroidi non c'entrano nulla. Sarebbe come paragonare un platelminte a una balenottera azzurra, senza tener conto del fatto che un astro brilla di luce propria, mentre l'asteroide è un corpo freddo e inattivo. Guardando all'insù ho scorto due di questi corpi abbracciare il nostro spazio e trasformarsi in sfere di luce. È sempre un bello spettacolo.
"Stasera ci riproviamo?", fa Roberta.
"A fare?".
"A cercare di vedere qualche stella cadente".
"Non sono stelle cadenti".
"Mamma mia come sei pedante quando ti ci metti".
Stamattina mi sono imboscato. Con la scusa di dover registrare i canti della messa sono rimasto solo in missione, mentre gli altri con padre Silvestro si recavano in un villaggio vicino per celebrare l'eucarestia. Così sono riuscito a dormire fino alle 9.30. Ci voleva. Ho ore e ore di sonno arretrato. Dalle 10.00 alle 12.00 sono stato in chiesa, ho assistito alla messa e, appunto, registrato i canti. I canti, come dicevo, sono davvero coinvolgenti, un vero inno agli spiriti. Si canta e si balla. Fino alle 13.30 ho riposato, prima di andare a pranzo con padre Isacco, un bestione di 120 chilogrammi, originario di Tukuyu, nei pressi del lago Malawi, e con William, un amico di Enrico venuto a trovarci da Iringa.
Padre Isacco mi fa morire dal ridere. Basta il suo sguardo. Da Bud Spencer africano. I miei colleghi cono arrivati a fine pranzo, completamente fradici: è piovuto ancora e se la sono beccata tutta.
Ho trascorso il pomeriggio cercando di rimettere insieme quel poco che rimane della chitarra. A parte le corde che saltano in continuazione e che non posso più riutilizzare (il MI cantino l'ho già riassemblato tre volte, un record), c'è anche il ponticello che se ne sta andando a quel paese e la paletta, con un taglio profondo nel mezzo. Dopo le operazioni di liuteria ho giocato un po’ a calcio con Enrico e dei ragazzi e mi sono fatto la doccia. Piccolo concertino fino alle 19.30, poi tutti a tavola. Domani inizia una nuova settimana.

12 agosto

Alle 6.00. Sì, sì, stamane toccava a me preparare la messa, così mi sono dovuto alzare prima di tutti gli altri. Alle 6.30 ero già seduto su una panca della chiesa di Kigamboni più di là che di qua, in attesa di conoscere il mio destino di chierichetto mancato. Mezz'ora di preparazione, poi, dalle 7.00 alle 7.30 di nuovo a sonnecchiare. Terminata la colazione siamo partiti coi lavori fino a mezzogiorno. Stacchiamo come gli operai della Breda: alle 12.00 in punto, tutti giù delle impalcature con un'agilità volgare.
Durante la seduta odierna mi sono ritrovato a lavorare con Samson a un sottotetto. Non era un compito facile, visto che dovevamo sistemare delle specie di grondaie, ma il tempo è passato velocemente, fra una risata e l'altra. Roberta, di tanto in tanto, veniva da noi per chiederci se volevamo un po’ di acqua. E in un'occasione mi ha confidato che lavorare con Loredana a volte è pesante:
"Hai voglia di scherzare come fate tu e Samson".
"Bisogna sceglierseli bene gli amici".
"Spiritoso".
"Cosa c'è che non va?".
"È terribilmente noiosa. Non scherza mai e se deve dire qualcosa è solo per tirare in ballo Enrico".
"Ma Enrico si fa avanti o no?".
"Ma dove vuoi che vada impacciato com'è".
A pranzo ci siamo abbuffati di riso, patate dolci e insalata, poi io e Roberta ci siamo sdraiati per un po’ a pancia all'aria per prendere un po’ di sole, per non correre il rischio di arrivare a casa e farci dire che siamo più bianchi di quando siamo partiti. Andare in Africa e non tornare abbronzati è una specie di blasfemia, se non ci si rende conto che un mese in missione, non è certo come trascorrere trenta giorni di safari o su e giù lungo spiagge dorate.
Alle 16.00, dopo il lavoro, mi sono dato da fare col bucato, col sottofondo di una canzone dei Pogues. Shane McGowan continua a illuminare il mio cammino. Ordinaria amministrazione. Mi sono arrangiato come posso. Di solito a casa ci pensa mamma a certe cose. Tuttavia me la sono cavata, ho steso i panni e via. Adesso vedo se riesco a concludere la canzone su Samson.

Due cose sulla lingua swahili…

È una lingua bantu, appartenente alla grande famiglia delle lingue Niger-Kordoafricane. È la lingua ufficiale dell'Africa orientale e quindi della Tanzania. Verso i confini tanzanesi l'idioma è meno conosciuto e sostituito da dialetti bantu. L'accento delle parole swahili cade sempre sulla penultima vocale della parola. Ecco le parole e le espressioni più usate:

Ciao Jambo
Come stai? Habari gani?
Tutto bene Nzuri sana / Poa sana
Donna / signora Mama / Bibi
Uomo / signore Bwana
Padre Baba
Madre Mama
Amico Rafiki
Io Mimi
Tu Wewe
Egli/Ella Yeye
Noi Sisi
Voi Nyinyi
Essi Wao
Grazie Asante
Grazie mille Asante sana
Come ti chiami? Gina lako ni nani?
Mi chiamo... Gina langu ni...
Non c'è problema Hakuna matata
Buon appetito Chakula chema
Per favore Tafadhali
Scusa Samahani
Benvenuto Karibu
Arrivederci Tutaonana
Buon viaggio Safari njema
Addio Kwaheri (per più persone: Kwaherini)
Buon giorno Siku njema
Buona notte Usiku mwema / Lala salama
Amore Mpenzi
Ti amo Nakupenda
Amore mio Mpenzi wangu
Sole Jua
Zucchero Sukari
Caffè Kahawa
Caramella Pipi

13 agosto

Dopo colazione ci siamo recati come sempre al lavoro fino alle 12.00, nel momento in cui padre Silvestro ci comunica che possiamo trascorrere l'intero pomeriggio al mare. Un'idea che non ha prezzo e alla quale mi aggrapperò chissà quante volte quando sarò tornato nella mia grigia e fumosa cittadina. Tre ore di tempo libero, il cielo azzurrissimo, il mare blu, la spiaggia bianchissima, la sabbia finissima, le palme rigogliose… Abbiamo giocato con i ragazzi di Kigamboni a bandiera, palla battaglia, calcio, carte. Ci siamo tuffati in mare. Ho corso avanti e indietro seguendo i raffinati disegni creati dalle onde sulla battigia, respirando così forte da farmi scoppiare i polmoni. Un modo per respirare l'Africa e tenermela dentro per più tempo possibile? Forse è anche così che nasce il Mal d'Africa. Chissà.
Verso sera sono arrivati i pescatori che hanno cominciato a sistemare le barche per l'indomani. Sono tutti smilzi come acciughe. Secchi, incavati, salati. Nello spostare le barche sono saltati fuori un mucchio di granchi che hanno preso a zampettare ritmicamente verso la acque. Come fanno a orientarsi? Come fanno a sapere che il mare si trova laggiù, tenuto conto del fatto che il loro apparato visivo è alquanto primitivo?
Prima di rincasare ho compiuto il mio solito giro a caccia di conchiglie. Oggi ho trovato una specie di clipeastro, organismo simile al tradizionale riccio di mare. Stasera dovremo fare in fretta a prepararci. Degli italiani che lavorano nei dintorni ci hanno invitato per cena!

14 agosto

Cara Gilda,

la lettera che ti scrivo non ti arriverà mai, ma te la farò magari leggere al mio ritorno, su queste stesse pagine che redigo giornalmente con una penna sempre più consumata (e mangiucchiata). Questo giorno vorrei dedicarlo interamente a te e ai bei momenti che abbiamo passato insieme. Se ricordi, la prima volta che ci siamo visti era il 14, il 14 di febbraio, casualmente il giorno dedicato agli innamorati. Eravamo al concerto della scuola e ci siamo messi a parlare del dì in cui anch'io mi sarei esibito presso il tuo istituto. Mi chiedevi informazioni a riguardo, volevi sapere cosa aveva detto il preside e quali canzoni avrei presentato. Ti eri sorpresa nel sapere che probabilmente avrei proposto le mie canzoni:
"Sono in pochi a scrivere canzoni originali, di solito ci si affida ai pezzi altrui, più facili per il pubblico e tu lo sai bene", dicevi.
I tuoi occhi luccicavano ed io non mi ero mai trovato così bene con una ragazza. Parlavi e ascoltavi come sai farlo solo tu, con eleganza, spensieratezza, intraprendenza. Ricordo ancora com'eri vestita. Indossavi un maglioncino verde, chiuso davanti con dei piccoli bottoni, avevi una camicetta bianca e un paio di pantaloni beige che si restringevano sul fondo. Ho qualche dubbio sulle scarpe. Forse erano le Superga bianche.
Sicché, oggi, sono sei mesi esatti che i nostri occhi si sono incontrati per la prima volta. Per l'età che abbiamo un piccolo grande traguardo, non credi?
Penso a te e mi chiedo cosa starai facendo. Ti penso alla scrivania, dove chissà quante volte ti ho osservata, mentre cerchi di fissare nella mente qualche nozione, arrotolando un ciuffo di capelli intorno alla matita. Non ho mai capito come fai a essere così brava a scuola, senza impegnarti più di tanto.
Penso a te e a quel giorno che abbiamo trascorso insieme in montagna, sdraiati sulla coperta di Silvia e al primo bacio che ci siamo dati. Ora te lo posso confidare: ero terribilmente in imbarazzo. Coi baci sono sempre stato una frana. Ho sempre avuto paura di fare brutta figura e questo timore mi porta a esibirmi in modo pacchiano, ridicolo, problematico. Ma ora è tutto diverso. Ti vivo con grande profondità e baciarti è diventata, davvero, la cosa più naturale del mondo. Anche per questo vorrei dirti grazie.
Ti penso mentre passeggiamo per le vie di Milano, per le vie del centro, prima di visitare la mostra dei falsi e accorgermi che all'improvviso mi prendi sottobraccio stringendomi a te.
Ti penso mentre la zingara di Cologno ti affianca puntando morbosamente al tuo anello d'argento e tu la dribbli facendo finta di aver visto una specie di asino volare. A volte hai delle uscite formidabili, risorse nascoste che mi lasciano totalmente spiazzato, rallegrandomi.
Come stai? Come stai? Cosa fai? Dai dimmelo. Trova il modo per sintonizzarti sulle mie frequenze d'onda mentali e mandami un messaggio anche minimo. Del tipo: non posso dirti molto, ma posso dirti che fino a qualche minuto fa ero al supermercato con la mamma e stavo cercando una confettura di marmellata ai mirtilli con cui preparare una torta speciale. Oppure: non ti dico cosa farò oggi, ma quello che farò domani: andrò a Monza a fare un giro e spero di trovare un piccolo pensiero per te. Ci sei? Dove sei? Dove vai?
Non ti sento. Non ti sento. Ma se rispetterai i piani che mi avevi espresso prima che partissi per l'Africa, fra due giorni dovresti salpare coi tuoi per il lago. È il 16 vero? Al lago di Garda. Ti vedevo contenta quando ne parlavi. Io non amo particolarmente il lago. Mi annoia. Non mi piace. Mi viene in mente, chissà perché, Gabriele D'Annunzio, e tutto ciò che ne consegue. La mia incompetente ex prof di lettere, una poesia che non mi ha mai convinto più di tanto, un modo di fare lontano da me anni luce. Mi ci vedi sorvolare Vienna lanciando tante bandierine colorate dell'Italia?
Se fosse per me, l'Italia non esisterebbe nemmeno. Lo trovo un concetto anacronistico. Gli italiani, di fatto, non esistono. Le persone dovrebbero masticare un po’ di antropologia prima di pronunciarsi. L'Italia è troppo disomogenea, non ha un cuore, già fra Milano e Roma c'è un abisso, e il problema, certo, non riguarda solo la parlata. Sei d'accordo con me? O preferisci non pronunciarti? Forse preferisci non pronunciarti e per me va benissimo così. Su certi argomenti non si riesce mai a intravedere la fine. Si parla, si parla, si parla, e non si conclude mai nulla.
Come sai, sono africano da circa due settimane. Mi sento africano e vivo da africano e non mi dispiace affatto. Sto benone. Le persone che abitano qui sono molto diverse da noi. In tutto e per tutto. La cosa che mi colpisce di più è quella sorta di letizia che traspare dai loro occhi e dai loro sorrisi. Non hanno nulla, sono poverissimi, vivono in capanne disgraziate, piene d'insetti, ma sembrano molto più felici di noi. A questo punto, però, viene da chiedersi: perché se sono più sereni di noi, fanno di tutto per venire a stare da noi e per godere dei nostri privilegi? Azzardo una risposta.
Il quesito, evidentemente, concerne l'attitudine umana di muoversi in funzione del benessere fisico. L'uomo viene, infatti, meccanicamente attratto da chi gli offre riparo, calore, cibo, protezione, rilassamento, goduria. Sarebbe così anche per gli animali che, però, non avendo la nostra intelligenza, non possono arrivare chissà dove e per loro fortuna rimangono inconsapevolmente ancorati al mondo naturale. Ma queste esigenze, in realtà, soddisfano l'uomo solo in modo superficiale, perché verosimilmente la nostra specie avrebbe bisogno del meno possibile. Credo di aver letto da qualche parte di dottrine religiose che predicano il distacco dai beni materiali, fra cui il cristianesimo, perché è lì che si cade. Più si ha, più si vuole avere e più si è insoddisfatti. Sicché potremmo tranquillamente dire che la dolcezza di un sorriso, la sua lungimiranza, la sua generosità, siano inversamente proporzionali alla ricchezza materiale. Più si è ricchi, più il sorriso perde colore, vivacità, potere. Credi che stia dicendo un mucchio di fesserie? Forse.
Eppure credo che prima o poi arriveremo a comprendere che tutto ciò di cui ha veramente bisogno l'uomo, non è che un po’ di aria da respirare e un orizzonte da rimirare. È dunque necessario andare in Africa per capire tutto questo? Probabilmente no. Però, per chi come noi ha vissuto sempre nella bambagia, può essere di grande aiuto. Sfiderei chiunque a lamentarsi per uno spiffero d'aria o per una pasta stracotta, dopo aver visto un uomo senza mani chiedere qualche scellino per sfamare un famigliare che sta peggio di lui. Ma ti invito a non confondere le idee e a non pensare che stia facendo discorsi da prete. La verità è un'altra. Qui il cristianesimo, il buddismo, l'animismo, c'entrano ben poco. Io sto parlando di etica, morale, politica, economia. Tanto che, "ama il tuo prossimo come te stesso", paradossalmente dovremmo iniziare a vederlo non più come il semplice comandamento della carità promulgato dai cristiani, ma come base autentica sui cui costruire le nostre civiltà.
Marx predicava l'uguaglianza sociale, così i giacobini, massimo rispetto per entrambi, ma l'uguaglianza sociale resta un miraggio se prima non si lavora per creare uomini nuovi, consci del fatto che il segreto per crescere non è avere, ma dare. Non vedo molte vie di scampo. Se non si metabolizzano questi concetti, l'uomo rischia lo sfascio, perché si creerebbe troppa discrepanza fra i paesi ricchi e quelli poveri, in virtù di un benessere fittizio, labile, ingannevole…
Oddio, ho preso il largo, scusa. Quando affronto certi temi, poi perdo la testa e non so nemmeno io dove andare a parare. Dai, lasciamo stare, ma dimmi almeno una piccola cosa di te. Ti sei per caso tagliata i capelli? Hai pitturato le unghie? Ti sei messa il profumo? Che film hai visto in tv? Quante sigarette hai fumato?
Di me posso aggiungere che ieri sera siamo stati a cena da alcuni italiani che lavorano per un'azienda locale. Forse c'è di mezzo il petrolio. Contrabbandano anche pelli di animali. La cosa non è molto carina. Padre Silvestro li ha ammoniti in varie occasioni. Loro si sono fatti delle grasse risate. Sono dei gran compagnoni, si ammazzano di alcol e fumo. Probabilmente sentono la mancanza del proprio paese. Non li biasimo.
Il lavoro procede. Ci diamo da fare senza tante remore, forse io sono quello che perde più tempo, mi piace fantasticare e vorrei avere più ore per stare con gli africani e capire i loro gusti e i loro interessi. Di solito finiamo di lavorare verso le 16.00. Riposiamo un po’ prima della cena, poi tutti a letto. Qualche volta, però, tiriamo tardi rimirando le stelle, ritrovandoci al mattino come zombie. Enrico mi sta chiamando, la cena mi sa che è pronta, ti mando un bacio grande come il mondo, non vedendo l'ora di poterti riabbracciare. Ti amo. G.

Short stories: "Diario africano" (II)


5 agosto

Ieri sera abbiamo tirato tardi ancora una volta e così stamane eravamo nuovamente in coma. Un coma collettivo. Un tema collettivo. Enrico il più comico, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Le sue palpebre erano appiccicate l'una sull'altra. Sbadigliava mentre padre Silvestro gli parlava del futuro di un pozzo dal quale, fino a poco tempo fa, si estraeva acqua purissima, oggi contaminata da un'azzardata mossa imprenditoriale di un'azienda agricola del posto. Anche Loredana non era messa bene. E invece, in qualche modo sorprendentemente pimpante, il sottoscritto, e le sue compaesane, forse per via dei dieci anni in meno che ci contraddistinguono: i fisici si riprendono prima dalle nottate balorde.
Dopo colazione, al lavoro, per quattro ore di fila. Fino a mezzogiorno abbiamo verniciato di bianco le finestre in muratura di quella che diverrà una scuola. Pranzo e via per la capitale: padre Silvestro ci porta a visitare il mercato dell'avorio che si trova in una zona un po’ periferica della metropoli, di cui mi rimangono impressi sghembi pali della luce, alberi rinsecchiti, cumuli di macerie, montagne di rifiuti, carcasse arrugginite di automobili. Non un bello spettacolo. Con noi sulla jeep ci sono Joseph, Gerard e Samson. Joseph insiste per farmi un regalo. Assurdo. Gli dico di lasciare perdere.
"Sono io che dovrei farne a te".
Il mercato dell'avorio è affascinante, è abitato da artisti straordinari, in grado di ricavare la luna da ogni misero frammento di legno. Mi fermo a osservarne qualcuno all'opera, come un bimbo alle prese con l'omino che fabbrica lo zucchero filato. All'ora del rientro s'è già fatto buio. Il rossore del cielo lascia il posto alle tenebre. Percorriamo il tracciato sterrato e polveroso che separa il punto d'imbarco per Dar Es Saalam dalla missione, in un clima difficilmente descrivibile. Un clima trascendentale. Con un po’ di fantasia non è difficile immaginare Lucy camminare con noi con la sua andatura goffa. E altre forme australopitcine farci "ciao" con le mani. Da un po’ amano rincorrersi nella savana, dopo millenni passati a volare da un albero all'altro come le scimmie. Ormai non hanno più nulla delle scimmie e la loro intelligenza ha spiccato il volo.
Mezz'ora di cammino, fra capanne di fango, illuminate da deboli lampadine e da sputi di fuoco, e alberi che assumono forme di demoni minacciosi. Gli odori penetrano le nostre nari e si accumulano nel cervello, dandoci sensazioni forti, mai provate, ancestrali, mistiche. Da dove provengono?
L'emisfero australe ci guarda dall'alto magnanimo. Altri occidentali in questi frangenti potrebbero fare una brutta fine. Basta poco, un coltello un po’ più affilato del solito e qualche tanzaniano particolarmente affamato di giustizia ed eguaglianza sociale. Qualche tanzaniano che ha studiato e conosce la storia infame che ci ha preceduti. E invece trascorre tutto felicemente. Forse anche grazie alla presenza rassicurante di padre Silvestro, perfettamente padrone del posto, del linguaggio, del rispetto per chi vive qui da sempre. Conclusa la cena non ci resta che concederci un meritato riposo. Non c'è tempo per un'altra nottata sopra le righe.

6 agosto

Sveglia: ore 7.00. Praticamente ci tirano giù dal letto. In barba alla vacanza estiva. Dopo colazione di nuovo al lavoro, fino alle 11.30. Questa mattina abbiamo risolto il nostro primo obiettivo: la verniciatura di otto grosse finestre. La futura scuola sta diventando sempre più bella.
Di ritorno dal luogo di lavoro, mi fermo per qualche minuto in camera per sistemare le corde della chitarra. Il SI è partito e devo trovare il modo per riutilizzarlo, visto che non ho più corde di ricambio. Se portavo la classica era meglio. Col nylon le cose sono decisamente più facili… Poi raggiungo gli altri per il pranzo.
In questo momento Enrico e Roberta stanno lavando i piatti. Domani toccherà a me. Pomeriggio visiteremo con padre Silvestro un villaggio abitato esclusivamente da lebbrosi. Si trova a circa dieci chilometri da Kigamboni. Porterò la macchina fotografica, ma non so se e come potrò utilizzarla. Non stiamo andando a Gardaland.
Oggi il tempo è un po’ imbronciato. Sono già cadute delle gocce di pioggia.
Pomeriggio.
Alle 14.30 partiamo per il villaggio dei lebbrosi. Al nostro arrivo regna il silenzio più assoluto. Sono un'accozzaglia di casupole fangose, protette dalle fronde di alberi maestosi. Sembra un villaggio fantasma, e invece, piano, piano, vediamo spuntare dagli angoli più disparati, persone completamente sfigurate. Sembrano zombie. Camminano come zombie. Stanno marcendo. Marcendo nell'anima e nel corpo. I loro occhi trasalgono. Le loro vite pure. Alcuni non hanno il naso, altri non hanno mani e piedi, e si aggrappano a bastoni sbilenchi, come tralci della vite devastati da un male inconcepibile. Gli storpi dell'altro giorno erano una favola a confronto. Dei centrometisti.
Il silenzio si trasforma in incredulità, impotenza, sbigottimento. Dove siamo? Che mondo è mai questo? Cosa staranno facendo in questo momento i nostri consimili a Milano, mentre qui è l'apocalisse? Sono alcune delle domande che traghettano a velocità inaudita nei nostri cervelli occidentali. Beoti. Pressappochisti. Troppo abituati a fotografare solo il proprio orticello di casa. Anche estrarre la macchina fotografica diviene un'impresa complicatissima. Tanto vale sparargli in testa. A malapena riesco a fare clic su due mani che non esistono, corrose dal morbo tremebondo.
Padre Silvestro parlotta con un responsabile del villaggio, anche lui lebbroso. Forse in via di guarigione. Si regalano dei gesti strani, incomprensibili. Padre Silvestro fa un mezzo inchino. L'interlocutore cerca di sorridergli, ma le labbra non ci sono più, e così il suo volto diviene il primo piano di un film horror.
Noi restiamo appollaiati sulla jeep in un atteggiamento paradossale. Perfino Enrico, quello che con più dimestichezza entra in contatto con gli abitanti locali, ha difficoltà a esprimersi. Tace. Guarda senza pronunciarsi. Il suo volto è contratto. Le sue labbra sviliscono. Loredana si soffia il naso per scaricare la tensione. Alessia comincia a singhiozzare.
"Oh, contieniti", le fa Enrico.
Di ritorno dal villaggio nessuno parla. Ci vorranno delle ore per riacquisire l'umore standard. Giusto così. Conferma la nostra coscienza. Conferma la nostra distanza da Lucy. Stati emozionali che rimangono dentro. E chissà se mai se ne andranno. Incappare in un villaggio di lebbrosi servirebbe a tutti. È un buon esercizio per comprendere come vanno veramente le cose. Come stanno veramente le cose. Quali sono i veri valori della vita. Quali sono i sogni corretti da perseguire. Il senso della vanità assume la sua vera identità: il niente.
Un villaggio abitato esclusivamente da lebbrosi aiuta a vivere l'esistenza dal giusto punto di vista, paradigma che abbiamo smarrito, fagocitati dai dettami delle nostre quotidianità fittizie, banali, vuote. Ogni occidentale dovrebbe rendersene conto. Farebbe bene anche a lui e alla sua economia malata.
In missione mi fermo con Roberta ad ascoltare un gruppo di donne che s'è messo a cantare e a ballare. Un programma in netta contraddizione con le luci terrificanti del pomeriggio. Ma la vita prosegue, la vita ha bisogno anche e soprattutto di questo: respiro, musica e danza.
"Con quello che abbiamo visto oggi, è difficile mettersi a cantare", fa Roberta.
"Non hai tutti i torti".
Durante l'uscita fuori porta abbiamo avuto modo di stringere un po’ di più i rapporti con i ragazzi che ci affiancano da quando siamo arrivati a Kigamboni. Joseph è un meticcio. È figlio di un greco e di una donna di colore. È un ragazzo molto gentile, sembra sincero, frequenta il seminario e partecipa vivamente alle attività della missione.
China è il più benestante. È intuibile dalla sua casa, dove vive con due fratelli: ci sono perfino dei mobili. Non si sa nulla dei suoi genitori. I suoi vestiti sono molto più belli di quelli dei suoi amici. Dice di fare il fotografo, ma nessuno di noi l'ha mai visto in giro con una macchina fotografica. In compenso strimpella la chitarra, provando accordi che io non ho mai incontrato in vita mia.
Samson ha l'aria da furbo. Va ancora a scuola. È il più casinista di tutti ed è quello con cui vado più d'accordo. Anche lui mastica l'inglese, e molto spesso ci isoliamo facendoci i fatti nostri. Qualche ora fa mi ha mostrato un preservativo, indicandomi una ragazza del posto molto carina. Non va certo per il sottile. La cosa mi ha messo seriamente in imbarazzo. La ragazza di riferimento mi ha regalato sorriso grande come il cielo; io mi sono messo a ridere lasciando cadere ogni cosa:
"Non credo sia il caso".
"Perché?".
"Beh, perché…".
"Perché?".
"Perché non penso sia il caso".
È andata.
Samson dà l'impressione di poterci far su come vuole. Più degli altri. Ha l'occhio lungo. Molto lungo. Troppo vivace. È per questo che mi piace. Non mi meraviglierei se un giorno dovessimo svegliarci con i portafogli vuoti. Oggi, intanto, gli ho regalato 400 scellini.
Poca roba.
Samson lavora con noi quasi tutti i giorni. Si arrampica come un gatto sulle impalcature e comincia a pedalare. Non teme le altezze. Non teme nulla. Fa andare il pennello che è una meraviglia. Non tutti i suoi soci si comportano così. La maggior parte di essi dà la seria impressione di non aver alcuna voglia di lavorare. Tre pennellate, una risata e un riposino. Padre Silvestro ci ha raccontato che una volta ha rubato tutti i soldi nella camera di un padre missionario. Eppure mi fido di lui. Con lui mi trovo perfettamente a mio agio, come se avessi a che fare con un amico di sempre delle mie parti. Mi sembra molto intelligente. Non a caso molti ritengono la furbizia, l'altra faccia della medaglia dell'intelligenza.
Il resto della combriccola di accompagnatori comprende ragazzetti vispi, svegli, casinisti, di età indefinibile - ci sono ventenni che sembrano quattordicenni, e bimbi che paiono adulti maturi - con due occhi che sprizzano gioia.
Oggi per la prima volta da quando sono partito, ho pensato ai miei affetti. Cominciando da Gilda. Ho patito la sua mancanza. Mi piacerebbe averla qui, parlarle, condividere con lei le mille sensazioni che provo, e perché no, sbaciucchiarmela un po’. Mi mancano anche Viola, Gianna, Silvia, Stefania, Marco, Mario, Andrea Pagani e… (scontato dirlo) i miei genitori, i miei nonni... Come ogni buon italiano che si rispetti, nonostante la fame di avventura che mi contraddistingue, resto un mammone. Peraltro è difficilissimo chiamare casa. Non si prende mai la linea. Ma non parlerei di nostalgia. In fondo, sono qui da sei giorni e sto benissimo, va benissimo così, era quello che volevo. Non ho alcuna voglia di tornare a casa. È già la mia Africa. La mia Africa? La mia vita?
Riattacco con i nonni materni. Con loro ho costruito un bellissimo rapporto. Paradossalmente ho passato più tempo con loro che con i miei genitori, impegnati al lavoro dalla mattina alla sera. Quando non sono a scuola, o in giro con qualche amico, trascorro le mie ore col nonno a piantare fiori e ortaggi. Sono ore serene e spensierate. Lavoro la terra e mi crogiolo nei suoi movimenti, nelle sue rughe e nel suo tergiversare. Penso agli anni che ha sulle spalle e alle tante persone che deve aver conosciuto. È bello sentire di volergli bene. Ha contribuito anche lui alla nascita della mia passione per la natura e le piante. Ha mille aneddoti da insegnarmi, utili alla coltivazione e concernenti le abitudini degli animali, retroscena scientifici che non esistono nemmeno nei libri universitari. La cultura popolare andrebbe presa di più in considerazione. A volte la scienza pecca in presunzione. M'insegna che anche gli astri influenzano la crescita delle piante, e che la semina deve tenere conto soprattutto dei movimenti lunari.
"Luna a ponente, gobba crescente, luna a levante, gobba calante", mi dice il nonno, sottolineando la necessità di seminare quando il satellite cresce.
Mi sono confrontato con Roberta, fra una pennellata e l'altra, tirando in ballo anche l'università, la musica, l'arte. Un discorso a trecentosessanta gradi. Anche lei si è confidata, dicendosi soddisfatta della sua vita, benché le manchi l'amore. È da un po’ che è single. Poco prima di partire per l'Africa ha rotto con Marino, di qualche anno più grande di noi, quasi laureato, conosciuto una sera in un locale brianzolo. Sono andati avanti per un po’ di mesi, poi lei s'è stancata: fra le tante cose che non le andavano anche il fatto che bestemmiasse con troppa disinvoltura.
"Ti pare sensato inserire un porcone a ogni fine frase?".
Ho chiesto a Roberta se le manca, mi ha risposto no. Ma non l'ho vista troppo convinta. Mi ha fatto uno strano sorriso. Ora indosso le cuffie e ascolto "Comes a time" di Neil Young. Fra poco andrò a mangiare.

7 agosto

La sveglia poco dopo l'alba non è più una novità. Ci sto facendo il callo. E le borse agli occhi sono sempre più evidenti. Enrico è sempre più comico. Per le prime due ore del mattino barcolla e non gli si può rivolgere la parola: non sente e di conseguenza non risponde, qualunque sia il quesito che gli viene posto. Pare che di notte faccia a pugni con se stesso, dal tanto che si ritrova scompigliato. La defaillance mattutina di Enrico, l'ha fatta sua anche padre Silvestro, ridendoci sopra. Nella sua lunga esperienza in missione ne ha incontrate tante di persone strane: ormai non si meraviglia più di niente.
Terminata la colazione siamo partiti per il lavoro. Impalcature a rapporto. Ma bisogna stare attenti, sono sempre più alte e traballanti, il rischio di cadere incombe. È capitato a qualche abitante locale. A un tale hanno dovuto amputare la gamba.
Alle 12.00 il pranzo: spaghetti e insalata mista. Poi di nuovo a tirare la lima fino alle 16.00.
Stacanovismo puro!
Oggi ho parlato soprattutto con Loredana. È quella con cui ho avuto meno a che fare fino a questo momento. Mi ha (finalmente) confidato che le piace Enrico, ma che non sa bene come farsi avanti: non vorrebbe correre il rischio di fare qualche brutta figura, di compiere il passo più lungo della gamba. Io le ho replicato che anche per lui potrebbe essere la stessa cosa. I suoi occhi si sono illuminati di speranza:
"Cosa te lo fa pensare?".
"Il modo in cui interagisce con te".
"In che senso?".
"Nel senso che a volte mi sembra che ti faccia gli occhietti dolci".
"Dici sul serio?".
"Perché dovrei mentirti?".
"E allora cosa mi consigli?".
"Se non sarà lui a farsi avanti, fatti avanti tu. Vedrai che ho ragione".
"Ne terrò conto".

8 agosto

"E un altro giorno è andato la sua musica ha finito, quando tempo è ormai passato e passerà".
Sono le parole di una canzone di Guccini. L'ho ascoltato poco prima di partire per l'Africa. Complice Andrea Pagani, un vero fan del cantautore emiliano e gran bevitore come lui. Sì, devo dire che piace anche a me, anche se lo trovo un po’ ripetitivo nelle melodie e certe volte un po’ palloso. Ma i testi sono delle vere pugnalate al cuore. Fanno riflettere. Inducono a credere in qualcosa di meglio, a vivere con un'intensità diversa l'esistenza, con piglio profondo. Sono pezzi che hanno davvero qualcosa da dire, a differenza della maggior parte degli altri propinati dall'establishment musicale italiano, sempre più squallidi, noiosi, scontati, eterne "notti rosa" alla Tozzi. Si salvi chi può. Poi ci dicono esterofili. Per forza. Ribalterei da cima a fondo l'industria discografica nostrana.
Ieri sera siamo rimasti fino alle 22.00 a giocare a carte con i ragazzi della missione. Ci siamo sfidati a Scala Quaranta e a Merda. Con Merda abbiamo riso fino alle lacrime. Enrico s'è perfino slogato la mano. Capitano tutte a lui. Poi, fino alle 2.00, nelle nostre camere, a chiacchierare fra noi. Argomento: il quadrilatero della moda milanese. Le donne erano in estasi.
Ma la notte è trascorsa in modo piuttosto burrascoso. Almeno per il sottoscritto. E ora spiego il perché. A Kigamboni non sono tutti cristiani. Ci sono anche animisti e musulmani. L'animismo è la religione che attribuisce a tutti i fenomeni naturali un'energia divina. Dio è perciò nella pioggia, nel vento, nelle mareggiate. Qualcuno la definisce una religione primitiva, ma io non ne sarei tanto sicuro. A volte la trovo molto più affascinante del cristianesimo.
L'Islam non ha bisogno di presentazioni. Il problema è che i musulmani pregano cinque volte al giorno, volgendo cuore, mente e corpo, in direzione della Mecca. Perciò tutte le notti, anche qui a Kigamboni, alle 4.30 del mattino, un muezzin si arrampica in cima a un minareto, che sorge nei pressi della missione, e comincia con le sue litanie potentemente amplificate. Il punto è che, nel corso della preghiera, il portavoce di Allah pronuncia una parola molto simile al mio nome: Gianluca. La prima notte mi sono preso un colpo. Dormivo sereno, quando all'improvviso ho udito d'oltretomba gridare:
"Gianluca! Gianluca! Gianluca!".
Tachicardia.
"Chi mi chiama nel cuore della notte in Africa? Cosa possono volere da me?".
Cerco di farmi coraggio, imputando il fenomeno all'autosuggestione. Enrico dorme come un ghiro, non mi sembra il caso di svegliarlo. Torna il silenzio. Poi, l'indomani, è padre Silvestro, a svelarmi l'arcano mistero, concedendosi a una grassa risata.
"Non ci pensare, vedrai che non sentirai più niente".
Vivida speranza.
Una settimana fa, a quest'ora, partivamo da Milano. Oggi ho pensato di nuovo a Gilda. Potessi almeno scambiare due chiacchiere con lei al telefono…
La giornata è trascorsa lieta. Abbiamo lavorato fino alle 11,00, riposato fino alle 15.30. E di nuovo al mare fino alle 17.00. Di ritorno abbiamo fatto visita alla casa di Samson. È una casa spaziosa, ma tremendamente incasinata. Le pareti sono azzurre e verdi. Qui la cromoterapia è una religione. Abbiamo anche conosciuto i suoi genitori: due belle persone. Se non ho capito male il padre di Samson lavora nell'esercito. La madre non so: è una bella donna sulla quarantina, ha i fianchi un po’ larghi, ma il viso delicato e un atteggiamento nobile.
In camera prima di cena ho fatto un breve elenco delle mie canzoni preferite del momento:

1. Comes a time - Neil Young
2. Fisherman's blues - Waterboys
3. Losing my religion - REM
4. Just like a woman - Bob Dylan
5. Sayonara - The Pogues
6. Chicago - Crosby, Stills & Nash
7. A little things in life - Green on Red
8. Dust in the wind - Kansas
9. Shiny happy people - REM
10. King of the hill - Roger McGuinn

9 agosto

Sto ascoltando la cassetta che ho registrato con Flavio Pulici prima di partire: "English Moviments". E mi rendo conto di aver omesso pezzi troppo importanti nella classifica di ieri. Perciò proporrei di sostituire il brano dei Kansas e il secondo dei REM con "Yellow moon" dei Neville Brothers e soprattutto "There she goes" dei La's. I La's sono una band inglese, che quest'estate mi ha segnato mica da ridere. Provengono da Liverpool e sono sotto contratto con un'ottima etichetta: la Go! Discs. C'è un po’ di Smiths, Primal Scream e soprattutto tanti anni Sessanta. Un caso?
Lee Mavers, il cantante e leader del gruppo, è un genio. È bello l'intero disco.
Con Flavio Pulici non faccio che parlare di musica. È un grande esperto di Brit-Pop; mi dà dritte assai interessanti. Ma ai La's ci sono arrivato da solo. La nostra amicizia è scoppiata proprio in merito ai La's. A una festa Flavio indossava una maglietta del gruppo inglese. Chiedendogli dove l'avesse presa, ho dato il via al nostro sodalizio musicale e di conseguenza amicale. Perché lui non suona alcuno strumento, altrimenti avremmo già messo in piedi una band. Di Brit-Pop brianzolo.
Un'oretta fa stavo componendo un nuovo pezzo: "Samson". Sono a già a buon punto e prevedo di chiuderlo entro un paio di giorni. Padre Silvestro permettendo. Gli altri sono via, non so dove. Con la scusa dell'ispirazione sono rimasto in camera da solo, concentrato su un pentagramma che minuto dopo minuto prende sempre più forma.
Poi è arrivato proprio Samson, col quale ho suonato qualche canzone. Ci dava dentro col tamburello: ha il ritmo nel sangue e anche una bella voce.
Stamattina abbiamo lavorato fino a mezzogiorno, poi dalle 14.00 alle 16.00. Mi sono ferito a un dito.
"Cazzo".
"Che succede?", mi chiede Roberta.
"Mi sono mozzato mezzo dito".
"Fa vedere".
Ora è avvolto in un cerotto dal quale s'intravede una macchia di sangue raggrumato. Ma niente di grave. Alle 17.00, la messa. Tra poco più di un'ora ceneremo. La giornata non è magnifica. È dal primo pomeriggio che piove. Il cielo è grigio e l'umidità mina le ossa.
Per il 16 o il 17 abbiamo in programma una escursione. Prima si pensava di raggiungere Iringa, ora Bagamoyo. Iringa è troppo distante: sono circa cinquecento chilometri da Kigamboni. È una città abitata da circa centomila abitanti, in cima a una collina che guarda dall'alto il fiume Ruaha: nei dintorni sono stati rinvenuti reperti antichi risalenti a insediamenti umani di settantamila anni fa. Bagamoyo è tutta un'altra realtà: ne parlerò il giorno in cui la visiteremo.
"Gianluca!".
Possibile che mi stiano chiamando? Possibilissimo. Sono le voci di padre Silvestro e di Enrico. Mi stanno chiamando per la cena. Oggi peraltro è il mio turno in cucina e dovrò lavare i piatti.